L’allestimento dell’impianto è un affare che col passare del tempo comporta un numero di grattacapi sempre maggiore. Anche e soprattutto dal punto di vista economico, in particolare quando si desidera un livello di qualità sonora che vada oltre la consueta mediocrità.
In quest’ambito l’impressione è che oggi qualsiasi cifra sia ritenuta plausibile, in particolare da chi ha l’incarico di definire i prezzi di vendita e poi da chi li deve far accettare al popolo bue. Di conseguenza l’appassionato non può far altro che adeguarsi, in particolare quando si va sul nuovo, che trascina con sé anche le quotazioni dell’usato.
L’hi-fi insomma è sempre più roba da ricchi, o comunque per individui che hanno disponibilità economiche sopra la media. Proprio qualche giorno fa, infatti, rispondendo a un appassionato che mi chiedeva lumi riguardo all’acquisto di un amplificatore, mi sono reso conto che per acquistarne uno che suoni in maniera decente, anche se non particolarmente prodigo di watt, è ormai necessario stanziare una somma vicina ai mille euro.
Per quanto si tratti di un settore il cui un qualsiasi contatto con la realtà è sempre stato piuttosto aleatorio, ormai anche quell’ultimo residuo sembra essere sul punto di saltare. La mia impressione è che si stia ripetendo quanto abbiamo visto con l’analogico. Il ritorno d’interesse nei suoi confronti ha avuto come primo effetto una tendenza alla crescita dei prezzi, che è tuttora in atto. E poi anche un trascinamento piuttosto evidente per il resto dei prodotti dedicati alla riproduzione sonora, che hanno ripercorso la stessa strada. Così da suscitare il dubbio che la formazione dei loro prezzi non sia tanto questione di addizionare i costi di produzione a quelli di distribuzione, ma della valutazione riguardo alla disponibilità a spendere da parte della fascia di pubblico cui un certo oggetto si rivolge.
Negli anni bui, quando l’interesse nei confronti di questo settore ha toccato i minimi storici, in conseguenza dei disastri prodotti dal digitale e da quanto ad esso è ruotato attorno, non si può certo dire che i prezzi fossero bassi, ma almeno denotavano una tendenza alla stabilità, fatte salve certe fughe in avanti che hanno dato più che altro l’idea di costituire un fenomeno marginale e in un certo senso folcloristico. Ora che il protrarsi del ritorno d’interesse per l’analogico ha portato nuovo vigore a tutto il comparto riguardante la riproduzione sonora, sembra se ne voglia approfittare, recuperando quello che potrebbe essere visto come terreno perduto.
Quanto sia pagante una politica del genere non è dato sapere. Per quel che mi riguarda, sentendomi chiedere una somma come quella menzionata sopra per un integratino del genere, non potrei fare altro dal dire ciao ciao.
Non a quell’amplificatore ma proprio a tutta la specialità.
Una rapida verifica permette di capire che non si tratta di un caso specifico ma di una tendenza ampiamente diffusa.
A questo proposito un peso considerevole lo ha il valore che ciascuno attribuisce al denaro: forse la mia è una visione obsoleta, legata alla busta paga del lavoratore medio. Insisto a pensare tuttavia che invece di penalizzare i volumi di vendita, forse sarebbe il caso di dare spazio maggiore all’interesse del pubblico, favorendolo con una politica commerciale prociclica, ossia indicata per favorire quanto possibile la tendenza attuale, invece di frenarla.
Anche perché autorevoli economisti prevedono di qui a breve un aumento consistente dell’inflazione, in conseguenza della distruzione della base produttiva determinata dalle politiche di contenimento della psico-pandemia. Tale perché il suo materializzarsi si è basato per coincidenza imprevedibile su una tecnica d’indagine che dà oltre il 90% di falsi positivi, ma ha causato finora qualcosa come 400.000 chiusure e fallimenti solo in Italia.
Ne hanno sofferto in particolare piccole e medie imprese, quelle su cui si fonda l’ossatura dell’economia nazionale, concentrate in particolare nell’ambito della ristorazione e del turismo. Categorie che per le specificità del nostro Paese avevano un’importanza considerevole ai fini della formazione del prodotto interno lordo. Le stime dicono che la sua caduta è stata di circa il 9%, ma l’impressione è che si tratti di un valore largamente approssimato per difetto, per motivi di opportunità.
Come a dire facciamo i danni, ma non abbiamo il coraggio di osservarne le conseguenze.

Il virus da cui è stata causata questa strana pandemia che produce un aumento di mortalità pari allo zero virgola zero e spicci, è così intelligente da capire che per il festival di Sanremo è opportuno battere in ritirata. Almeno nella regione di cui si trova la città che lo organizza, così da permetterne il passaggio in zona gialla e la contemporanea riapertura di esercizi e ristoranti. In particolare quelli per il personale Rai, che deve poter rifocillarsi a qualsiasi ora, in barba alle ordinanze di chiusura serale vigenti nel resto del paese, fatti rispettare a suon d’incursioni poliziottesche e multe salatissime.
D’altronde l’intelligenza artificiale è l’argomento del giorno. Nulla di strano che i virus più sensibili all’argomento abbiano deciso di tenersi al passo coi tempi.
Quale che sia il suo QI, il vairus ha prodotto una serie di modificazioni ben concreta. Una di esse riguarda il modo con cui ci si saluta, incontrandosi. Per motivi di distanziamento la stretta di mano la si è abolita, proprio come nel ventennio. Tornare al saluto romano sarebbe stato inopportuno, così qualcuno ha avuto una pensata grandiosa. Ma che dico, un colpo di genio: il tocco dei gomiti.
Proprio come Gene Wilder e Madeline Kahn in “Frankenstein Junior”. Di fronte al treno in partenza, nel trasporto emotivo del commiato da amanti, platonici, si scambiano un complice e promettente “Taffetà”.

Se fin qui la storia si è presentata prima in tragedia e poi in farsa, da che il mondo lo si è voluto capovolgere, insieme alla ragionevolezza dei suoi abitanti, ha iniziato a palesarsi prima in farsa e poi in tragedia.
A livello economico, le conseguenze di quel che è accaduto a partire dal gennaio 2020 s’inseriscono in un quadro già di per sé fortemente negativo, che ha visto il nostro Paese perdere il 25% della sua base industriale. La causa sono i disastri prodotti dalla moneta unica e dalla servile obbiedienza della politica nazionale alle regole farneticanti della cosiddetta unione europea, che sempre più va mostrandosi per quello che é: costosissimo fondale di cartapesta per l’imposizione dell’accordo di cambi fissi chiamato euro, a uso e consumo dell’espansione tedesca e dei Paesi-satellite che gravitano attorno alla Germania.
Va considerato inoltre che eravamo ancora ben lontani dall’aver riassorbito le conseguente della crisi dei mutui subprime del 2008, riguardo alle cui conseguenze si era stimato un ritorno alle condizioni pre-crisi per il 2030-2035. Ora con il colpo enormemente più forte che è stato sferrato, si può prevedere che la data per il recupero delle condizioni pre-2008 non arriverà mai.
Di quell’argomento si è parlato con una certa frequenza negli anni successivi al 2008, ma ora lo si evita accuratamente.
Se il ritorno dell’inflazione vi sarà in conseguenza della sua vera causa scatenante, la penuria di materie prime che non sono in grado di tenere il passo della domanda, causando quindi l’aumento del loro prezzo, avremo una situazione del tutto nuova.
Infatti nella storia contemporanea l’inflazione che abbiamo conosciuto è stata un fenomeno sostanzialmente fisiologico, dovuto all’accelerazione della velocità di circolazione del denaro, e quindi dell’aumento della capacità di spesa da parte di una platea via via più ampia, fatte salve le conseguenze di aumenti repentini e sconsiderati del prezzo del petrolio, e quindi dell’energia, come quelli verificatisi nel corso degli anni 1970. Non avevano nulla che vedere con le condizioni di reperibilità e capacità di produzione della materia prima, essendo prodotte da scelte di carattere politico.
Dunque in sostanza l’inflazione derivava da un aumento del benessere generale, che portava a una maggiore richiesta di beni e derrate, da cui l’aumento del loro prezzo in base alla legge fondamentale della domanda e dell’offerta. E’ stata demonizzata dai cosiddetti economisti neoclassici, ai quali casualmente si è attribuito da un certo punto in poi il monopolio del pensiero economico a livello accademico, nel sistema didattico e più che mai in quello dell’informazione. Ciò è avvenuto in funzione della nuova affermazione dell’ideologia liberista, dopo che le sue conseguenze sono state la vera e sola causa scatenante dei conflitti più cruenti e sanguinosi della storia dell’umanità. In quel modo si sono concretizzati presupposti tali da portarci già in condizioni di forte sofferenza alla crisi prodotta da una pandemia della quale mai nessuno ha messo nero su bianco l’esistenza, men che meno l’Organizzazione Mondiale della Sanità.
Da li per forza di cose conseguenze ancora più distruttive, proprio perché l’inflazione che verrà non sarà più determinata da un benessere “troppo” diffuso in relazione alle condizioni industriali ed economiche, che ne va a temperare gli effetti. S’innesterà invece su una condizione di sofferenza già ben stratificata, da cui non potrà che venire esasperata nelle sue conseguenze. Quel che ne deriverà è imprevedibile, ma forse c’è chi ha calcolato già di poterlo utilizzare, come giustificazione per le azioni che ha in animo di compiere e/o per volgere la situazione ulteriormente a suo favore.
Gli anni passano e si vede
Con prezzi più legati alla realtà, forse il pubblico degli appassionati non sarebbe spinto a ripescare oggetti che stanno per compiere il giro di boa dei quarant’anni di età. Malgrado ciò dimostrano di avere tuttora motivi d’interesse piuttosto rilevanti.
Del resto una sonorità valida è tale oggi come lo era allora. Infatti, e per fortuna, nella riproduzione sonora non c’è un Bill Gates che ogni quarto d’ora t’inventa un nuovo sistema operativo, regolarmente peggiore e più inzeppato di bachi e cianfrusaglie di quello che lo ha preceduto, ma che in compenso obbliga a moltiplicare le risorse hardware disponibili per avere un funzionamento col minimo di fluidità.
Tante volte parliamo di eterno presente ed eccone qui un nuovo esempio, efficacissimo per lucrare profitti enormi, di fronte ai quali quelli relativi al settore della riproduzione sonora, pur nell’enormità di certe esagerazioni nei prezzi di listino, non sono manco un’elemosina.
Nulla di strano, allora, che un diffusore della stessa età del Cantor III lo si ritenga inevitabilmente obsoleto e non più all’altezza del progresso tecnico travolgente che domina un settore come quello della riproduzione sonora amatoriale. Specialità che non a caso trova i dispositivi più confacenti ai propri fini nell’analogico, data di nascita 1877, e nei tubi a vuoto che iniziarono a diffondersi una trentina di anni dopo.
All’osservatore di oggi appare fin troppo dimessa l’estetica del diffusore e del tutto inconsuete le proporzioni del suo mobile. Per non parlare della finitura, quel vinilico finto legno dall’aria vagamente posticcia e fin troppo modesta, un tempo tipico di tutta la produzione che non fosse alto di gamma e che oggi si ritiene inaccettabile.
Dimostrazione ennesima, se ancora ve ne fosse bisogno, che all’elemento visivo viene ora attribuito un ruolo fondamentale addirittura, rispetto al quale le prerogative più legate agli scopi primari del prodotto, per quale che sia, finiscono sullo sfondo o meglio relegate tra le varie e eventuali.
Il PVC utilizzato allora non riusciva a nascondere del tutto l’umiltà delle sue origini, probabilmente meno evidente nella finitura nera disponibile oltre a quella raffigurata qui.
Inevitabile allora domandarsi come si sia potuti arrivare a questo punto: se in teoria il primo comandamento per un oggetto destinato alla riproduzione audio dovrebbe essere la qualità del suono che emette, perché l’importanza maggiore viene attribuita all’elemento visivo?
Forse a causa del cosiddetto WAF, il fattore di accettazione da parte della moglie, altro ingrediente propagandistico volto a rendere l’uomo ancor più succube della sua metà di quanto già non sia, anche in ambiti di sua pertinenza pressoché esclusiva.
Siamo sicuri che sia effettivamente d’importanza così fondamentale e non si tratti invece di un pretesto volto a giustificare un aumento dei prezzi di proporzioni tali da non essere accettabile altrimenti?
Ma siccome l’oggetto in quella veste piace a mogli e affini, allora si procede al suo acquisto senza pensarci due volte, rallegrandosi persino, della possibilità così graziosamente concessa.
E se, come viene detto fino a triturazione irreversibile di attributi per forza di cose sempre più destinati all’atrofia, il traguardo primario di civilità è la vera parità tra i sessi, come mai a fronte del WAF non esiste anche uno HAF, Husband Acceptance Factor o fattore di accettazione dei mariti, che autorizzi gli uomini a mettere bocca negli acquisti delle loro mogli e compagne, ponendovi il veto se non di loro gradimento?
Se si affermasse, quali effetti avrebbe sui mercati dei prodotti destinati all’universo femminile?
Perché i mezzi d’informazione riguardanti settori merceologici in cui la maggioranza schiacciante della clientela potenziale è costituita dagli uomini rivolgono tanta attenzione al WAF e non considerano l’assenza di un elemento di pari valenza che operi in direzione opposta?
Soprattutto, quali saranno le conseguenze del WAF sui prodotti coi quali va a interferire, non solo in termini di attitudine a compiere la loro funzione, ma anche delle loro possibilità di diffusione, nel momento in cui i costi relativi all’estetica assumono un rilievo preponderante e soprattutto finiscono col causare una crescita dei prezzi al dettaglio tale da tenere lontana una parte rilevante del pubblico potenzialmente interessato alla materia?
Come mai infine si è arrivati a tal punto senza che alcuno abbia indirizzato l’attenzione sulle incognite proprie della strada su cui ci si stava avviando?
E se l’informazione, al di là delle modalità con le quali si finanzia, non esercita più la sua critica, se mai lo ha fatto, ma assicura a priori la sua condiscendenza qualunque cosa le si ponga dinnanzi, possiamo ancora definirla tale o per caso si potrebbe avere il sospetto che sia diventata qualcos’altro?
Questa è solo parte dei dubbi suscitati da un diffusore dall’apparenza modesta come il Cantor III, che però siamo stati addestrati non a non porci, ma proprio a non rilevarli più, in maniera deliberata. Perché è scomodo, non sta bene, e la dittatura positivista oggi imperante, paravento mediante il quale si riesce a far passare l’inimmaginabile, come la segregazione e l’imbavagliamento di massa, oltre alla cancellazione di fatto di ogni diritto costituzionale a iniziare da quello al lavoro quale unica possibilità di sopravvivenza, lo ritiene inappropriato.
Sotto un certo punto di vista, questo potrebbe anche essere un bene, proprio perchè tale desuetudine ha comportato la caduta del suo prezzo di vendita, una quotazione corretta può essere stimata nei dintorni dei 150 euro per una coppia di esemplari in condizioni ottime. Cifra che tutto sommato non rende giustizia alle sue prerogative. Non tanto quelle verificabili nella sua veste originale, quanto quelle potenziali, che andremo a verificare più avanti.
Un assetto desueto
Il Cantor III denota la sua appartenenza a un’epoca e una tipologia dimenticate già dalle sue proporzioni. Troppo grandi per un diffusore da piedistallo come lo intendiamo oggi, troppo ridotte per farne un esemplare da pavimento. Via di mezzo insomma per indurre a usare il luogo comune del né carne nè pesce, ma in realtà elemento significativo per porre in evidenza la semplificazione delle tipologie di diffusore offerte sul mercato. Modalità primaria per la riduzione dei prezzi, a fronte della quale, però, nel frattempo li abbiamo visti esplodere.
Rilevare le scelte elementari a livello estetico non ha praticamente senso, tanto è evidente il contrasto con il diffusore medio attuale. A ben guardare però vi sono già alcune componenti di quell’evoluzione del design che ha portato alla realtà di oggi. Sono coniugate in una forma primordiale, tipica dell’epoca, come mette in evidenza la finitura del frontale.
Rispetto alla serie precedente il Cantor III denota alcuni cambiamenti. Quello più importante riguarda l’adozione di un radiatore passivo. Nonostante si sia dovuto fargli posto, il mobile è alquanto più compatto rispetto alla serie precedente, specie in profondità. Ne deriva quindi una riduzione del litraggio interno, che passa da 21 a 17 litri. Malgrado ciò la risposta si estende maggiormente verso il basso. Il punto a -3dB stando alle caratteristiche dichiarate dal costruttore, non è più a 70 Hz ma a 58.
Quella inerente l’impiego del radiatore passivo è una scelta un tempo alquanto diffusa, in particolar modo sui diffusori di scuola statunitense. Tra questi Epicure, Genesis, ESS. Anche gl’inglesi vi hanno fatto ampio ricorso, come la stessa Kef, Celestion eccetera. In seguito è stata quasi del tutto abbandonata, possibilmente per i soliti motivi di costo.
Il reflex meccanico, così viene definita tecnicamente tale soluzione, sfrutta l’aria mossa dalla faccia posteriore della membrana del woofer non per canalizzarla verso l’esterno attraverso un tubo di accordo, come avviene per il bass reflex usuale, ma per muovere la membrana di un secondo altoparlante, il radiatore passivo per l’appunto. Questo è in genere di diametro superiore al woofer, ha una membrana di massa appositamente calcolata e rispetto agli altoparlanti consueti ha la particolarità di essere sprovvisto di magnete, che del resto non servirebbe.
Dal suo impiego derivano il rinforzo della gamma inferiore e la sua maggior estensione verso i limiti dell’udibile, che a volte può spingersi fino a limiti poco consueti. A questo proposito vanno ricordati i Genesis 2, diffusori di classe non dissimile a quella dei Cantor III anche se un pochino più voluminosi, che con un woofer da 20 cm e un radiatore passivo da 25 riuscivano a spingersi fino a un valore incredibile di 30 Hz senza attenuazione alcuna, risultato che oggi anche diffusori di prezzo esagerato e ben altro dimensionamento raggiugono con difficoltà e ben altro dispendio di risorse.
Tra i possibili difetti del reflex meccanico, oltre al già menzionato costo maggiore rispetto all’impiego di un comune tubo di accordo, c’è una certa tendenza ad arrotondare le frequenze inferiori, dovuta proprio alle particolarità funzionali del sistema e a quelle dell’emissione. In alcuni casi si dimostrano tuttaltro che deleterie, attribuendo una naturalezza maggiore alla sonorità della gamma bassa. In particolare nell’abbinamento del diffusore ad amplificazioni a stato solido, sovente caratterizzate da un basso duro e legnoso.

Tra le particolarità del radiatore passivo dei Cantor III il cui diametro è di 20 cm, c’è l’impiego di una piastrina metallica di forma tonda, posizionata sul retro della membrana, in corrispondenza di quella che in condizioni normali sarebbe la bobina mobile, qui ovviamente assente. E’ atta ad appesantire la membrana, abbassandone la frequenza di risonanza.
Va detto inoltre che Kef aveva a quel tempo un’esperienza sostanziosa con il reflex meccanico, essendo il modello che per molti anni è rimasto al vertice del suo listino, il famoso 104 AB, equipaggiato proprio con tale soluzione.
Il woofer mid ha la membrana in carta trattata, da cui l’aspetto semilucido della sua superficie che col passare del tempo non sembra aver perso le sue caratteristiche, insieme a una cerniera in gomma montata alla rovescia, ossia con la parte concava rivolta verso l’esterno.
In particolare la prima serie del Cantor mostrava un’evidente parentela con il 104 AB, di cui utilizzava gli stessi altoparlanti, senza però il radiatore passivo e inseriti in un mobile più compatto.
La serie di cui ci stiamo occupando denota ugualmente una parentela col modello di vertice, condividendo con esso proprio la soluzione del reflex meccanico.
Il woofer mid è un esemplare da 16 cm anch’esso dalle prerogative alquanto desuete. Oggi non ci si accontenterebbe di nulla meno di un bel cestello pressofuso, preferibilmente con razze curate non solo sotto il profilo strutturale ma anche per l’aspetto aerodinamico, in modo da costituire il minor disturbo possibile per l’aria mossa dalla faccia posteriore della membrana. Qui invece abbiamo un cestello in lamiera stampata dalle razze voluminose al pari della flangia anteriore, raccordata al profilo del frontale con una certa approssimazione. Anche il magnete non è particolarmente voluminoso, determinando una certa leggerezza dell’insieme.

Malgrado tutto, una volta messo nelle condizioni di esprimere appieno il suo potenziale mette in evidenza una sonorità sorprendente.
Il tweeter poi sembra fin quasi un affronto. Diciamo innanzitutto che si tratta del T33, che per la serie di cui ci stiamo occupando è andato a sostituire il notissimo T27, condiviso con i diffusori Kef di rango superiore e anche con l’LS 2/3.
E’ tale perché quando lo si smonta dal diffusore, osservandone il retro si può leggere la scritta “made in Japan”. Ma come, il diffusore inglese che utilizza un tweeter giapponese, stiamo scherzando? Proprio no, anche perché la sua emissione è perfettamente allineata a quelli che si ritengono i canoni della scuola anglosassone.

Si tratta di un esemplare a cupola morbida in tessuto, dotato di un magnete ben dimensionato. La flangia è in materiale sintetico, scelta che insieme alla rinuncia al T27 era dovuta forse alla necessità di risparmiare qualcosa, a fronte del maggiore dispendio di risorse attribuito alla gamma inferiore in confronto ai predecessori.
Il crossover infine è forse l’elemento cui si devono maggiormente le limitazioni in termini di sonorità evidenziate dal diffusore nella sua veste originale. Per quanto sia realizzato a partire da componenti di qualità indiscutibile, in particolare per quel che riguarda i condensatori, rispecchia le scelte tipiche della sua epoca, inerenti l’impiego esclusivo di esemplari elettrolitici.

La coibentazione interna è risolta con tre fogli di assorbente sintetico a densità medio bassa, che riempiono il volume di carico, mentre sul retro si trova una coppia di morsetti a vite, in grado di accogliere anche terminazioni a banana.
Proprio da questi ultimi è iniziata la fase di aggiornamento del diffusore, che come sempre è avvenuta nel rispetto delle scelte originarie del progetto, sfruttando però le opportunità resesi disponibili nel frattempo.

Dovendo ricostruire il crossover, lo è si è suddiviso in maniera tale da permettere l’impiego di connessioni in bi-wiring. Si tratta di una scelta comunque vantaggiosa. Innanzitutto perchè consente l’impiego di cavi ottimizzati per la gamma di frequenze su cui devono operare, aumentando la sezione conduttiva e migliorando le condizioni di trasporto del segnale, meno influenzato dalle frequenze di pertinenza dell’altra via.
Allo scopo sono stati utilizzati nuovi morsetti d’ingresso, anche perché gli originali mostravano i segni del tempo. In particolare con ossidazioni che molto probabilmente non favoriscono il passaggio del segnale.
Il crossover è stato ricostruito con l’impiego di condensatori in polipropilene di tipo audiophile. Quanto alle resistenze ne sono state adottate di nuove, a filo avvolto.
Anche il cablaggio interno è stato completamente rivisto, sostituendo i cavi montati in origine con nuovi esemplari realizzati manualmente. La coibentazione infine è stata rinnovata, eliminando per quanto possibile il verificarsi di riflessioni interne.
Inutile dire che a seguito della cura il diffusore ha letteralmente cambiato faccia. In particolare sotto il profilo della qualità di riproduzione, che non è più neppure lontana parente di quella ottenibile nella sua veste originale.
Questo anche se la sua voce e l’equilibrio tonale sono rimasti invariati, proprio perché le scelte di progetto, che a suo tempo sono state definite per delle buone ragioni, non sono state toccate. Quindi l’allineamento tra gli altoparlanti, i punti di taglio e le pendenze di filtraggio non hanno subito variazioni.
A cambiare pertanto non è stata la timbrica ma la qualità dell’emissione. In particolare per quanto riguarda la gamma media, caratterizzata da una fluidità, una trasparenza e soprattutto una focalizzazione semplicemente disarmanti. Ne deriva una naturalezza di primordine, che non esito a definire tale da fare del Cantor III uno di quei diffusori che si vorrebbero nascondere dietro una tenda, per poi invitare i presenti a dare una stima del loro costo e della classe di appartenenza, Con la sicurezza di lasciarli con un palmo di naso nel momento in cui gli si fa scoprire l’origine plebea di una sonorità così sorprendente per la sua raffinatezza.
Anche la capacità di scendere nel dettaglio della registrazione è particolarmente esplicita, ma senza per questo dare luogo alle contrarietà che in genere si accompagnano a tale prerogativa. Anzi la capacità di abbinarvi una mancanza di ruvidezze o metallicità pressoché assoluta è un altro tra gli aspetti che sorprendono in maniera più piacevole. Molto dipende ovviamente dalle caratteristiche dei componenti a monte, ma nel momento in cui questi si comportano come devono, i Cantor III ottimizzati sapranno corrispondere nel modo migliore.
A questo proposito credo sia il caso di accennare ancora una volta a quello che è già stato detto più volte in questa sede. Il diffusore, quale ultimo componente della catena, non può che comportarsi in funzione del segnale che gli si fa pervenire. Se questo è di qualità inadeguata, più il diffusore è valido, e quindi esegue un’analisi approfondita sulle sue prerogative, e più per forza di cosa ne rende palesi le limitazioni. Viceversa, nel momento in cui si dispone di un segnale all’altezza della situazione, le sue caratteristiche trovano nel diffusore di qualità un interprete affidabile.
In sostanza il due vie Kef dimostra che nel momento in cui si utilizzano soluzioni di un certo tipo, sia pure in un diffusore dalle origini economiche ma comunque realizzato con tutti i crismi, la differenza con prodotti di ben altro rango va a ridursi fino a diventare impercettibile. Anzi, proprio perché i diffusori attuali devono scontare molto spesso l’esigenza di stupire il loro acquirente in un modo o nell’altro, va a finire che un esemplare pensato e costruito in un’epoca in cui il rigore timbrico e la qualità di emissione in assoluto erano i valori primari da perseguire abbia le probabilità maggiori di rivelarsi il preferito, in particolare se si possiede un orecchio educato.
L’emissione del tweeter si accorda a quella del woofer mid in maniera senz’altro efficace, dando luogo a una sonorità che ricorda moltissimo quella degli LS2/3, solo ancora più raffinata. Per via delle qualità superiori del crossover aggiornato, la cui importanza si rivela di nuovo maggiore rispetto a quella degli stessi altoparlanti. Rispetto ad essi i Cantor III hanno basse frequenze di ben altro rilievo e quindi una timbrica la cui corposità attribuisce all’emissione un realismo e una naturalezza superiori. Si vanno insomma a colmare le limitazioni tipiche dei piccoli ma rinomatissimi monitor, che troppo spesso danno l’impressione di essere un tweeter con quasi nulla intorno.
Chiarezza, precisione ed estensione sono le prerogative dominanti della gamma alta dei Cantor III in versione ottimizzata, in misura tale che di più non si può proprio chiedere. Sia pure in un confronto a memoria, si ha l’impressione che alle frequenze superiori gli LS2/3 non possano dare nulla di più e molto probabilmente diano qualcosa di meno. Malgrado disponga di un altoparlante di caratteristiche superiori, il suo comportamento viene penalizzato dalla scelta dei componenti del crossover, neppure confrontabili con quelli utilizzati per questa coppia di Cantor III, e per le prerogative del cablaggio interno. A dimostrare per l’ennesima volta che l’altoparlante è di sicura importanza, ma proprio nel momento in cui se ne utilizza uno di qualità superiore diventa più facile penalizzarlo per mezzo di scelte inadeguate riguardanti quel che si trova tra di esso e i terminali di uscita dell’amplificatore.
Sul versante opposto la presenza del radiatore passivo si fa notare ma con discrezione. Se ne apprezza la capacità di estendere verso il basso le capacità di emissione del diffusore, sempre col dovuto senso della misura. Un minimo della rotondità tipica della soluzione inerente l’impiego del reflex meccanico resta percettibile, ma senza risolversi in sonorità poco coese. Anzi se ne apprezza la maggiore naturalezza, come anticipato, in particolare nella riproduzione degli strumenti acustici.
In sostanza, il Cantor III è stato forse il diffusore che ho ottimizzato a produrre il miglioramento più consistente rispetto alla veste originale. Un po’ per le condizioni di partenza, ma anche per la qualità degli altoparlanti utilizzati per la sua realizzazione, che abbisognavano soltanto di essere messi nelle condizioni di poter dimostrare quello che valgono. E’ davvero molto e ne fa un brutto cliente per qualsiasi diffusore, proprio perchè le sue doti di naturalezza, trasparenza e focalizzazione sono così esplicite da trovare solo a prezzo di grandi difficoltà una controparte nella produzione attuale, volta soprattutto all’effettismo che deve far spalancare la bocca al suo acquirente, facendogli capire all’istante che la spesa per essi necessaria è del tutto giustificata.
In realtà le cose stanno in maniera ben diversa ma non fa nulla, perchè la prima impressione è quella che conta. Ci sarà poi tempo e modo di capire che si può migliorare e anche parecchio, in modo tale che nel giro di alcuni mesi o al massimo qualche anno, ci si trovi di nuovo pronti a devolvere il necessario obolo, possibilmente cospicuo.
Certo, se piace il suono ci-ci bum-bum, anche messo nelle condizioni migliori il Cantor III non sarà preso in considerazione. Chi invece predilige neutralità e precisione, in un contesto di rigore timbrico incontestabile, può trovare in questi inglesi ormai anzianotti una fonte di grandi soddisfazioni. In particolare se saprà mettere al loro fianco una sorgente e un’amplificazione all’altezza della situazione. Il tutto a fronte di una spesa complessiva che rispetto a quel che si sente chiedere oggi per certa roba senza capo nè coda, fa quasi scappare da ridere.