Non avevo ancora finito l’articolo dedicato alle “Contraddizioni in hi-fi” che mi scrive Flavio, per sottopormi un quesito ad esse attinente.
Ho deciso di approfittarne, dato che mi permette di fare il punto riguardo a consuetudini e luoghi comuni piuttosto diffusi nell’ambito della riproduzione sonora amatoriale
Buongiorno Claudio,
complimenti per il tuo essere “fuori dal coro” e per i consigli e i chiarimenti che elargisci a tutti noi “appassionati”.
Ascolto esclusivamente musica liquida, pilotando il tutto con un imac, con soundflower che prende il segnale e lo trasferisce ad un dac, e poi al mio amplificatore. Come Dac utilizzo un RME fireface 400 multicanale, che mi permette di settare tantissime variabili. Utilizzo un amplificatore della Royaldevice, costruito artigianalmente da Roberto delle Curti, che ha la particolarità di amplificare il segnale senza componenti attivi, ma solo tramite trasformatori a cascata che amplificano il segnale in tensione e solo nell’ultimo stadio, anche in potenza. Il tutto senza alcuna controreazione.
Adesso però, a distanza di qualche anno, vorrei provare a cambiare. Vorrei capire se potesse essere interessante montare un preamplificatore, ma ne vale la pena visto che con il mio dac e i relativi programmi, direttamente dallo schermo, posso aumentare il gain, il volume, equalizzare il segnale ecc? Voglio dire, un buon pre darebbe secondo te un vantaggio in termini di ascolto, quanto a purezza del suono, rispetto a quanto posso fare direttamente dallo schermo anche con programmi come AVS di Von Salis e Amarra Symphony o Audirvana? Non è cioè che la preamplificazione la sto realizzando ugualmente dal mio computer in digitale e quindi un preamplificatore non avrebbe senso?
Mi piacerebbe poi passare ad un amplificatore a valvole, come per esempio il Primaluna 400 evo. Però anche il mio ampli suona molto bene, anche perché posso agire sui morsetti dei trasformatori per modificare l’impedenza di uscita a gruppi di 0,3 ohm per adattarli all’impedenza delle casse e con un altro ampli che avesse problemi di accoppiamento non vorrei ritrovarmi un prodotto uguale o inferiore…
Dovrei fare una confronto diretto ma poi con diffusori diversi e cavi diversi cambierebbe lo smorzamento, e quindi il risultato finale, da qui i miei dubbi…
Grazie in anticipo per i tuoi preziosi consigli,
Flavio
Dopo aver ringraziato Flavio per la considerazione e l’apprezzamento, vediamo come rispondere alla sua domanda
Dal mio punto di vista il suo quesito non ha una risposta univoca, ma si presta a interpretazioni diverse, a vari livelli.
Prima di tutto si dovrebbe appurare se l’amplificatore che utilizza è un integrato o un finale. Da quello che dice più avanti nel suo messaggio in merito alle modalità di regolazione del volume cui ricorre, sembrerebbe più probabile la seconda ipotesi.
Dandola per buona, si entra in una delle diatribe che tengono banco nell’ambito della riproduzione sonora, inerente appunto la necessità del preamplificatore.
La mia risposta l’ho data ormai diverso tempo fa e si trova qui.
Credo sia evidente già dal titolo di quell’articolo il mio pensiero al riguardo.
In breve, si tratta di un argomento fortemente legato alla questione basilare di tutta la riproduzione sonora, professionale e amatoriale: l’inadeguatezza e l’ingannevolezza del concetto legato al numero, sia inteso in termini di tabelle sia di misure, e la fallacia dimostrata dalle teorie basate su di esso.
I numeri scritti nelle tabelle delle caratteristiche suggeriscono che l’uscita di una sorgente digitale come un qualsiasi lettore CD o DAC , quindi anche quello di Flavio, sia sufficiente al pilotaggio di un amplificatore finale.
All’atto pratico questo sembra essere vero e addirittura in un primo momento potrebbe dare l’idea di essere una soluzione migliorativa rispetto alle catene allestite in maniera tradizionale.
Posto che si disponga della possibilità di regolazione del livello, l’assenza del preamplificatore comporta di solito un buon miglioramento per dettaglio e introspettività, tale da causare grande sorpresa sulle prime e la soddisfazione di alcuni appassionati.
In particolare i più sensibili a tali prerogative e magari anche quelli che in precedenza hanno sofferto carenze in tale ambito.
Col tempo, dunque, è andata diffondendosi l’usanza del pilotaggio diretto del finale per mezzo della sorgente, qualora corredata di un controllo per il livello di uscita. Per quanti non ne dispongano, e alfine di permettere l’impiego di più sorgenti, si è diffusa in seguito la soluzione del pre passivo, dotato soltanto di selettore degl’ingressi e manopola del volume.
Questa tipologia di apparecchiature offre anche un altro vantaggio rispetto alla soluzione più sbrigativa, stante in un potenziometro per solito di qualità migliore rispetto a quello in dotazione alle sorgente. Si tratta di un elemento d’importanza considerevole, stante la criticità di quel controllo, nelle condizioni di cui ci stiamo occupando e più in generale nell’ambito dei segnali a livello di linea.
Andando avanti nell’impiego di una catena così allestita, tuttavia, appare sempre più evidente la mancanza di un elemento fondamentale: la spinta attribuita al segnale dallo stadio di guadagno di un preamplificatore tradizionale.
Con la sua presenza, la riproduzione sonora assume una solidità e uno spessore dei quali si sente in genere la mancanza nelle soluzioni inerenti il pilotaggio diretto del finale per mezzo della sorgente e l’impiego della preamplificazione passiva.
A questo proposito c’è da tenere presente inoltre un elemento di solito non molto considerato: si può avere anche un amplificatore finale di potenza strabordante, ma se non lo si “spinge” in maniera adeguata, fornendo al suo ingresso un segnale valido sotto il profilo energetico, è probabile se ne ricavino impressioni non proprio entusiasmanti riguardo alla sua erogazione. Viceversa un amplificatore meno prestante sotto il profilo energetico, ma pilotato nel modo dovuto ha un comportamento più convincente.
Per forza di cose, la presenza stessa di uno stadio di guadagno determina il sacrificio di una certa quantità di dettaglio e introspettività. Tuttavia con gli esemplari meglio riusciti, e più in genere con quelli che sono caratterizzati dalla maggior semplicità circuitale, la questione si risolve in genere a favore della presenza di un preamplificatore basato sull’impiego di componentistica attiva, sia essa a valvole o a stato solido.
Il punto diventa allora fare in modo che a favore della sua presenza si sacrifichi il minimo indispensabile in termini di analiticità. Questo si ottiene nel modo più facile proprio mediante la semplicità circuitale appena menzionata. Confermando una volta ancora che il meno è di più, come già rilevato la volta scorsa.
Alcuni appassionati invece tendono a identificare la qualità realizzativa con il numero di componenti presenti all’interno del telaio. Più ne è inzeppato, più se ne compiacciono, senza farsi invece le domande fondamentali.
Servirà davvero tutta quella roba ad avere il suono migliore? Il parametro riguardante la densità della componentistica all’interno del telaio non potrebbe invece essere valutato in maniera impropria, in funzione di quel che produce a livello visivo? Forse proprio per quel tramite si cerca di ottenere un’approvazione preventiva diffondendo immagini atte allo scopo, facendo leva sull’abitudine diffusa di esprimere pareri basati più sul senso della vista che su quello dell’udito?
Tutto questo, infine, quanto ha a che fare con la sovrastruttura che pone nelle condizioni di elencare differenze in quantità e spinte al dettaglio infinitesimo tra apparecchiature note e di cui si sono lette le recensioni, per fare invece scena muta o al più balbettare appena qualche parola quando ci si trova di fronte a oggetti a ignote?
L’atteggiamento descritto, allora, è l’errore più grande che si possa fare, per un motivo semplicissimo, oggi trascurato dato che non ne parla più nessuno, chissà perché: il modo più efficace per preservare le qualità originarie del segnale audio è ridurre il numero degli ostacoli che deve oltrepassare durante il suo tragitto.
Va da sè che maggiore è il numero di stadi attivi attraverso i quali lo si costringe a transitare, peggiori saranno le condizioni in cui perverrà al nostro udito.
Nel caso del nostro amico Flavio, inoltre, si può ritenere che l’apporto conseguente all’impiego di un preamplificatore valvolare qualitativamente valido attribuirebbe alla sonorità dell’impianto la connotazione tipica e ben percettibile dei tubi a vuoto, con le relative conseguenze per la piacevolezza d’ascolto.
Col suo impiego potrebbe delinearsi, inoltre, una modalità di riproduzione tale da dissipare i suoi dubbi riguardo all’opportunità del ricorso a un diverso amplificatore finale.
Fermo restando che non bisogna mai dare nulla per scontato, e neppure ho avuto modo di ascoltare un’elettronica Royal Device in maniera sufficientemente approfondita, reputo alquanto improbabile che un prodotto di grande serie improntato all’esigenza primaria di contenere i costi, demandandone la produzione nei luoghi più indicati a tale riguardo, possa issarsi allo stesso livello di un oggetto artigianale degno di questo nome.
Magari potrebbe avere più potenza o una connotazione valvolare più piacevole, soprattutto al primo impatto, ma alla lunga non so fino a che punto il cambio dimostrerebbe la sua congruità.
Non va fatta confusione, infine, tra una vera e propria preamplificazione, eseguita a partire da uno stadio di guadagno attivo, sia pure parzializzato nella sua tensione di uscita potenziale, e l’attenuazione del livello resa possibile da alcuni applicativi destinati alla riproduzione di file digitali.
Un conto sono le modalità di pilotaggio dell’amplificatore finale conseguite mediante l’impiego di uno stadio attivo, altro è la parzializzazione via software di qualcosa già in partenza inadatto all’ottenimento di determinati scopi.
La sorgente, elemento fondamentale per la qualità sonora dell’impianto
Pe restare nell’ambito del quesito proposto da Flavio, rileverei innanzitutto che qualsiasi riproduzione basata sulla cosiddetta musica liquida, per quali che siano il formato e la risoluzione del segnale, non è tuttora in grado di confrontarsi qualitativamente con una sorgente basata sul supporto fisico tradizionale.
Nel momento in cui la sorgente assume un ruolo particolarmente critico ai fini del destino qualitativo dell’impianto di cui fa parte, si tratta di un aspetto che va tenuto in debita considerazione.
Questo in termini generali. Nello specifico dell’impianto di Flavio, è inusuale il legame tra un’amplificazione artigianale di livello certo non economico con un DAC di estrazione professionale.
Si tratta di un ibrido le cui conseguenze andiamo ad analizzare.
Un convertitore nato e realizzato su misura delle esigenze e delle modalità utilizzative tipiche di un ambito professionale di livello medio-basso, non si sa fino a che punto possa essere la soluzione più indicata per avere la qualità sonora necessaria affinché un impianto destinato all’impiego amatoriale, oltretutto prestigioso, non desti dubbi nel suo utilizzatore.
La filosofia propria del professionale, del resto, non solo diverge da quella propria del settore amatoriale, ma è con essa del tutto inconciliabile.
Come suggeriscono le possibilità utilizzative molto ampie offerte dal suo DAC, nel segmento del professionale cui si rivolge, la qualità sonora come la si considera in ambito amatoriale è un concetto sfuggente e marginale.
Il metro di valutazione nel professionale a quel livello e più in genere esteso in ogni ambito del settore, fatti salvi esempi più unici che rari in cui la qualità effettiva è tenuta nella considerazione che merita, attribuisce importanza soprattutto alle possibilità di manipolazione del suono e a quelle inerenti la massima flessibilità di collegamento.
In sostanza, in ambito professionale tutto l’interesse è giustamente nei confronti della produzione del suono e delle modalità con cui possa avvenire, anche e soprattutto in funzione agli usi e alle abitudini proprie del suo “assemblaggio”, traccia dopo traccia e sovraincisione dopo sovraincisione.
Tutto quanto vada oltre questi due aspetti, a parte la robustezza, sempre tenuta in gran conto, è semplicemente inesistente e peggio incomprensibile per chi opera a tale livello, in funzione dell’abito mentale che si è costruito nella formazione della sua esperienza.
Analizzare le origini di questa realtà sarebbe interessante e istruttivo, ma purtroppo non è possibile farlo ora. La scala delle priorità che ci si attribuiscono ha ovviamente la sua importanza a questo proposito
Più interessante invece, dal nostro punto di vista, è occuparci di uno tra i retaggi atavici dell’utilizzatore amatoriale tipico, quello che ha dato luogo al complesso d’inferiorità nei confronti del “professionale”. Tale da far credere che il prodotto ad esso destinato sia sempre e comunque incommensurabilmente superiore a quello pensato per il mercato amatoriale. Quando invece, per le finalità che ci riguardano più da vicino avviene spesso il contrario.
Senza fare riferimento al fatto che “professionali” sono la zappa e il trattore, la mazzetta e lo scalpello, proprio in quanto strumenti adibiti allo svolgimento della professione, va rilevato trattarsi di prodotti che per quanto operanti in quello che in maniera alquanto superficiale potrebbe apparire lo stesso ambito, in realtà hanno finalità d’impiego molto diverse. Le une non hanno praticamente nulla a che fare con le altre e, a ben vedere, confliggono vicendevolmente.
Ai fini di quel che si trova al primo posto nella lista dei nostri interessi, ossia la qualità sonora della riproduzione, le caratteristiche più allettanti per l’utilizzatore dell’audio cosiddetto professionale sono del tutto incompatibili.
In primo luogo per una questione di destinazione d’impiego e di costi. E’ proprio la realtà stessa indotta dall’affermazione del digitale ad averla causata, stante l’esigenza di abbattere quelli inerenti la fase di produzione. Ciò si deve alle modalità attuali di distribuzione del prodotto musicale, per via delle quali non solo i margini sono ridotti al lumicino, ma sono trattenuti in gran parte dalle piattaforme dedicate alla cosiddetta musica liquida
La sua diffusione presso gli appassionati, pertanto, rende la vita sempre più difficile ai musicisti e per forza di cose anche ai tecnici. Servendosi di essa quegli stessi appassionati producono effetti del tutto contrari ai loro interessi, che riguardano innanzitutto la possibilità di disporre di musica ben scritta, eseguita, prodotta e registrata, nella quantità maggiore possibile.
Le condizioni indotte dal digitale prima e dalla liquida poi causano invece effetti del tutto opposti. Non solo alla produzione musicale e alla sua qualità nel senso più ampio del termine, ma anche alla sua riproduzione. Destinata per forza di cose a poggiare su un prodotto raffazzonato, quello di nuova produzione, o sulla reiterazione a oltranza di un repertorio già sfruttato oltre ogni limite.
Tali condizioni tuttavia sono esaltate, col pretesto della comodità, di fatto inesistente, da parte di chi in tal modo si adopera in maniera fattiva contro i suoi stessi interessi,
Si tratta infatti di un fattore contingente e ristretto a una precisa fascia di utilizzatori. Si provi infatti a sottoporre a qualcuno che non ha mai usato né il computer nè l’impianto audio il quesito se sia più difficile comprendere le modalità operative e i metodi utilizzativi di un pc oppure quelli di un lettore CD.
Dal canto suo la pubblicistica di settore, nella sua fisiologica, assoluta e irrecuperabile sordocecità per tutto quanto esuli dai suoi interessi del momento, ossia l’introito pubblicitario quotidiano nella quantità maggiore possibile, esalta come suo solito qualsiasi cosa le venga sottoposta.
Il dubbio è che lo farebbe persino con della cacca, e senza pensarci due volte, nel momento in cui qualcuno trovasse il modo di adattarla alla riproduzione sonora e investisse in maniera adeguata per propagandare il nuovo ritrovato.
Per i motivi suesposti, la cosiddetta liquida è quanto di più distruttivo per il destino della riproduzione sonora e di conseguenza per tutto ciò che ruota attorno ad essa.
Storicamente infatti, la riproduzione sonora di qualità si è trasformata da passatempo per un’élite di annoiati facoltosi a fenomeno di massa nel momento in cui di musica tale da costringere letteralmente a munirsi di un impianto per ascoltarla nel modo migliore possibile, ce n’è stata a disposizione nella quantità più ampia. Ossia a cavallo tra i decenni 1960 e 1970 e negli anni immediatamente successivi, con l’esplodere del rock progressivo e dei generi da esso derivati, magari solo a livello concettuale. Tali che, a oltre 50 anni di distanza dal loro esordio, sono tuttora all’avanguardia e le opere che vi appartengono suonano più fresche e meno datate nei confronti di tutto quanto è arrivato nel periodo successivo.
Sempre la storia c’insegna che proprio il digitale ha precipitato la riproduzione sonora nella sua crisi più profonda, da cui ha potuto risollevarsi almeno in parte solo nel momento in cui il ritorno d’interesse nei confronti dell’analogico ha superato la soglia di massa critica. Per poi assumere dimensioni semplicemente inimmaginabili quando le squadracce formate dagli stolti cantori dell’audio a codifica binaria cantavano vittoria, in preda all’ubriacatura digitale durata guardacaso un ventennio. Ignari che il corso degli eventi li avrebbe puniti severamente, come d’altronde era inevitabile.
A tale riguardo sarebbe bastato soltanto osservare il minimo di buonsenso ed equanimità. Se lo si fosse fatto, tuttavia, difficilmente si sarebbe arrivati a ricoprire determinati ruoli, per essere cooptati ai quali non basta mostrarsi semplicemente fedeli alla linea, come del resto ce ne sono tanti. Si dev’essere ancora più realisti del re. E non come atteggiamento ma proprio per tendenza innata al vassallaggio. Solo così è possibile rifiutare sistematicamente già a livello istintivo qualsiasi idea possa riportare a una valutazione meno dissociata della realtà delle cose.
Potendo farlo, del resto, non si sarebbe arrivati alle condizioni attuali.
In esse ci si è calati in prima persona, adoperandosi con tutte le forze disponibili ai fini della heavy rotation di stampo radiofonico, sola attività eseguita ormai da decenni a questa parte. Ossia il lobotomizzante succedersi a ritmo parossistico, o per meglio dire infernale, di recensioni a senso unico. Al grido di “E’ il pubblico che lo vuole!”, mentre non si fa che confonderlo oltremodo, una dopo l’altra con esse si è costruito un muro, come fossero mattoni. Concettuale, s’intende, ma proprio per questo ancor più invalicabile, dal quale ci si è trovati circondati senza rendersi conto come e perché. Prigionieri dunque e come tale impossibilitati a scorgere o solo immaginare l’esistenza di alcunché fuori di esso.
Arrivare a tal punto è stato funzione di quelle stesse scelte, che nel corso del tempo hanno portato all’abbandono degl’interessi del pubblico pagante, semmai siano stati considerati. Si è prodotta così quella che a tutti gli effetti è la fame inestinguibile di denaro propria della pubblicistica di settore, comune peraltro al resto dei media generalisti, nel momento in cui vengono per forza di cose meno gl’introiti delle vendite in edicola.
Questo, si badi bene, non è dipeso dal diffondersi di internet, come vorrebbe il mantra recitato dai reclusi del campo di prigionia che hanno costruito con le loro mani, per poi chiudervisi dentro gettando via la chiave. D’altro canto cos’è la rete, se non il frutto più diffuso e vistoso della tecnologia digitale, a favore della quale costoro hanno condotto una crociata ventennale, con lo scopo dichiarato di eliminare tutti gl’infedeli dalla faccia della Terra?
Avendo a disposizione una fonte d’informazioni veritiera, affidabile e alla quale si è legati da un rapporto duraturo nel tempo, non la si scambia con la fabbrica della qualunque per risparmiare qualche centesimo, dopo aver speso una somma non indifferente per procurarsi lo strumento atto ad accedervi. E’ accaduto perchè la differenza è diventata sempre più impercettibile, se mai è esistita.
Per forza di cose allora, la pubblicistica di settore è andata sempre più legandosi mani e piedi a chi le porge la maschera dell’ossigeno. Sempre pronto a toglierla, nel momento in cui ritenga i suoi interessi non accuditi nel modo migliore.
Proprio l’epopea del digitale infatti ha costituito la resa totale e senza condizioni da parte della pubblicistica di settore agl’interessi della grande industria, prima sovranazionale e poi globalizzata.
Dopo aver speso somme astronomiche nel progetto del disco CD, del formato ad esso necessario e delle macchine atte a riprodurlo per poi impegnarsi in una lotta fratricida, ricordiamo che Philips e Sony, artefici consorziati dell’audio a codifica binaria si separarono poco prima dell’esordio del nuovo formato divenendo nemici irriducibili, ci si è trovati nell’urgenza di rientrare almeno in parte di quei capitali. Resa più impellente dai mediocri risultati ottenuti, a livello tecnico e sonoro, che per forza di cose hanno causato incertezza riguardo ai margini potenziali di quell’impresa. Quantomeno nella sua fase iniziale.
Malgrado la grancassa mediatica abbia battuto e strepitato, non prima di aver preparato il terreno per anni gettando addosso all’analogico ogni genere di colpa, meglio ancora se inventata, il pubblico non ha risposto secondo le attese. Proprio perché il nuovo supporto e le nuove macchine suonavano in modo inadeguato.
Proprio l’urgenza di cui sopra infatti, e gli effetti indotti dal tradimento dell’accordo di collaborazione, hanno fatto si che s’immettesse sul mercato un prodotto gravemente immaturo, scelta che avrebbe pesato sul suo destino lungo tutto il ciclo di vita che lo ha caratterizzato.
Figuriamoci che solo a qualche settimana dall’esordio si era indecisi sul formato del disco da far riprodurre al sistema, se a facciata doppia o singola, provvisto o meno di etichetta centrale alla stregua di un disco a 45 giri. E persino sul numero di bit da utilizzare per il nuovo formato, motivo scatenante del dissidio tra i suoi ideatori.
Disorganizzazione, improvvisazione, intrigo, precipitazione: ecco le basi concrete su cui si è fondato il nuovo sistema di riproduzione, che si vollero riassumere in una sola parola, perfezione. Quella da cui lo si voleva caratterizzato e cui i media di settore si allinearono all’istante.
Tuttavia le pecche da cui era gravato non tardarono a rivelarsi per quello che erano, marchiane. Per quanto fossero già ben note al pubblico degli appassionati, qui da noi furono smascherate definitivamente in un confronto pubblico dall’esito segnato in partenza, scatenando la rabbia dei suoi cantori che persero letteralmente la bussola. Arrivarono persino a insultare in forma esplicita, dalle pagine della loro rivista, chiunque non fosse allineato e coperto sul pensiero unico del digitale.
Al di là delle reazioni più o meno fanciullesche e inconsulte, la realtà era evidente: il CD abbatteva effettivamente fruscio e rumori di fondo, ma costava troppo per quello che dava a livello sonico.
Fu un altro errore infatti, grossolano, il tentativo di caratterizzarlo qualitativamente mediante un prezzo di vendita che se non proprio gonfiato era comunque sovrastimato, sia per le macchine che per il supporto fonografico. Avendo fatto trenta, si sarebbe potuto fare trentuno: molto probabilmente, un prezzo di vendita sottocosto, quantomeno per il periodo in cui ha sofferto le difficoltà maggiori, gli avrebbe reso la vita meno difficile.
Il vero problema tuttavia venne dall’incapacità di reggere il confronto con un analogico che proprio in vista di quell’esordio reagì validamente, in modo da migliorare la sua efficacia, innanzitutto in termini di qualità sonora.
Era dovuto anche ai risultati migliorabili ottenuti nel trasferimento in digitale delle registrazioni nate per l’analogico su cui si fondava gran parte del catalogo nella prima fase di vita del CD, elemento che in tutta evidenza era stato gravemente sottovalutato. Tassello finale di una serie di errori difficilmente comprensibile.
Probabilmente fu causata dalla sensazione di sicurezza dovuta al cullarsi sui proclami provenienti dai laboratori tecnici, fondati sui numeri propri del formato digitale, sulla carta oltremodo lunsighieri.
Dimostrazione regina che le misure e i suoi risultati non sono soltanto inutili ma ingannevoli, con tutto quel che ne consegue.
Lo sforzo di adeguamento prodotto in campo analogico indusse ovviamente la contro risposta del fronte digitalista. Per prima cosa si diede a un’opera di miglioramento, a tratti parossistica, di un formato che si era voluto imporre come perfetto a prescindere, dimostrando con quelle stesse azioni che si fosse diffusa con tanta perentorietà e testardaggine una fandonia plateale. Si rivelò inaccettabile poiché il lavaggio del cervello di massa, ai fini della cui sperimentazione quanto fatto a supporto dell’audio digitale ha segnato un capitolo fondamentale, era ancora lontano dal perfezionamento e dalla raffinatezza attuali.
Nello stesso tempo si diede ordine alla stampa allineata di pestare ancor più sulla grancassa e soffiare con più forza negli ottoni. Non vi fu bisogno di ripeterlo due volte affinché desse fondo alle sue risorse d’inganno, strumentalizzazione, pretestuosità e diffusione del falso, per quanto siano difficilmente misurabili.
Per maggior sicurezza si provvide a stendere una cortina di silenzio assoluto sull’analogico, con l’intenzione di portarlo a soccombere cancellandolo da una narrazione della realtà rigorosamente falsificata. Cosa che riuscì almeno in via provvisoria.
La si sarebbe sollevata solo dopo una quindicina d’anni, come se nulla fosse accaduto. Ulteriore riprova che l’eterno presente costruito dalla pubblicistica di settore non solo è una realtà solida ma è anche ben radicata a livello storico.
Per i cantori dell’audio a codifica numerica, dopo il tracollo dell’idolo da essi venerato è arrivata anche la beffa. Suggello definitivo alla loro inadeguatezza, in primo luogo a livello intellettivo e concettuale, giusto per stendere un velo pietoso sulle loro facoltà uditive.
Ai fini del ritorno d’interesse nei confronti dell’analogico, oggi una parte significativa, se non addirittura preponderante, del pubblico che lo ha materializzato è composta dai cosiddetti nativi digitali: persone avvicinatesi alla riproduzione sonora col CD e i suoi successori, ma poi passate al giradischi.
Il riesame a mente fredda degli accadimenti riassunti fin qui suscita altri dubbi. Il primo riguarda proprio il battage propagandistico volto a screditare l’analogico in via preventiva. La sua attivazione con largo anticipo rispetto all’esordio del digitale, sembrerebbe suggerire che persino tra i suoi ideatori, a un certo punto, vi fosse almeno il dubbio riguardo alla sua inadeguatezza.
In caso contrario di una campagna siffatta, costata comunque denaro sonante, non vi sarebbe stato bisogno alcuno. Se fosse davvero esistita almeno in parte, la perfezione del digitale non avrebbe avuto difficoltà alcuna ad affermarsi per conto proprio
Il secondo riguarda invece la reazione degli ambienti favorevoli al digitale, una volta che si trovarono di fronte alla cruda realtà inerente l’inadeguatezza sonica del nuovo formato e il suo rifiuto da parte del pubblico più avvertito. Determinati a non ammettere nemmeno sotto tortura l’infondatezza delle loro teorie, non trovarono di meglio che scaricare le colpe dell’insuccesso sul pubblico, divenuto d’un tratto incapace di comprendere e apprezzare le prerogative su cui si articola la vera qualità sonora, in quanto sordo nei confronti della pretesa magnificenza dell’audio digitale.
Sembra l’anticipazione di quel che si è verificato con la psico-pandemia. Di fronte a un vairus imposto come micidiale ma che nessuno è riuscito a isolare, comitati scientifici, virologi da salotto e loro danti causa non hanno trovato di meglio che imporre misure draconiane di stampo medievale, come la segregazione di massa e l’imbavagliamento coatto. Per poi darsi all’abbuffata degli stati generali, dai luoghi in cui si sono svolti, evidentemente il primo vairus dal QI superiore alla media di quello dei suoi ospiti potenziali deve aver deciso di tenersi rispettosamente alla larga.
Ottima scusa per abbuffarsi, per trascorrere poi tutta l’estate trastullandosi con sostegni economici mai visti da nessuno, monopattini, banchi e rotelle e buoni-vacanza. Dando infine tutta la colpa della cosiddetta seconda ondata, quella cui tutti hanno creduto ma nessuno ha saputo indicare dove fosse, a chi ha subito tutto ciò o meglio vedendoselo piovere addosso come una tegola tra capo e collo, con il pretesto dei cosiddetti assembramenti.
Parola in codice stante a significare la volontà di cancellare d’un tratto ogni residuo di vita sociale, che probabilmente è uno tra gli scopi della psy-ops nota come covid-19/sars-cov2.
Si dice che la storia ripeta sè stessa, presentandosi prima sotto forma di tragedia e poi di farsa, ma a volte viene prima la farsa e poi la tragedia.
Tutti gli Stati del mondo occidentale si ritrovano ora indebitati come mai nella Storia e con una quantità di disoccupati incalcolabile, ma i forzieri di fabbricanti di mascherine, test falsificati e vaccini sono inzeppati di denaro fino a scoppiare.
Per non parlare dei conti correnti degli pseudo scienziati in servizio permanente effettivo 24 ore su 24 su tutte le reti televisive.
Dal canto loro i computer necessari per il lavoro a distanza sono più che raddoppiati di prezzo e portatili usati vecchi di sei o sette anni, che in passato avrebbero preso la via della discarica sono offerti ora a prezzi superiori di quelli che avevano da nuovi.
Un business tanto redditizio è senza precedente alcuno.
C’è poi un terzo fattore, per certi versi il più importante di tutti. Se in occasione di passaggi così determinanti per la storia della riproduzione sonora e dell’intera umanità non ci si è fatti scrupolo alcuno nel dare fondo a un repertorio di fandonie e bassezze tanto smisurato, per quale motivo si dovrebbe assumere un atteggiamento diverso in una qualsiasi altra fattispecie? E soprattutto, si sarebbe in grado di farlo?
Reiterazioni
Curiosamente, gli stessi argomenti utilizzati all’esordio del digitale sono stati ripescati nel momento in cui si è voluto esaltare, il capitolo successivo, quello riguardante l’abbandono del supporto fisico.
Chiunque non si sia allineato all’istante al verbo della liquefazione, innanzitutto delle coscienze e dell’intelletto che ad esse sovrintende, non può essere che un retrogrado passatista, nostalgico inguaribile, inadeguato ai tempi nonché incapace di comprendere non solo le prerogative soniche ma anche i destini magnifici e progressivi del nuovo che avanza.
Dopo aver causato la crisi più profonda mai conosciuta dalla riproduzione sonora nel corso della sua storia, gli artefici del digitale sono letteralmente scomparsi, per via delle stesse conseguenze che hanno prodotto. Philips non esiste proprio più e si occupa di tuttaltro sotto nuova denominazione, mentre Sony si è salvato gettandosi nel campo della fotografia con l’acquisto di un marchio tra i più celebri in tale ambito, Minolta.
Ha ottenuto risultati anche interessanti, se si restringe la visuale alla realtà di quel settore, ma non so se e fino a che punto comparabili con la sua realtà di gigante e dominatore assoluto dell’elettronica prima del tracollo del digitale.
Questa è stata la fine che hanno fatto gl’ideatori e dominatori della codifica binaria applicata alla riproduzione sonora, settore che ha fatto da apripista alla dominazione planetaria del digitale per poi essere messo gettato via o meglio divorato secondo le consuetudini nihiliste del capitalismo anarcoide.
Digitale, oggi
Proprio perchè il digitale è in disarmo, e finalmente sembra essersi arrestato anche il frenetico succedersi dei formati su cui si è articolato, se ne scorgono forse con maggior chiarezza i residui motivi d’interesse, che malgrado tutto sono degni di considerazione.
Giunto infine a un grado di maturità non disprezzabile, per quanto non riesca tuttora ad appaiare le doti di naturalezza e fisicità dell’analogico migliore, denota comunque un potenziale sonoro interessante. Soprattutto, lo esprime a costi inferiori rispetto a quelli del concorrente, gonfiati all’eccesso nell’ennesima reiterazione dell’autolesionismo che insieme al paradosso appare come il vero tratto fondante del settore di nostro interesse, e con stabilità ed economicità di gestione.
Questo non comporta il seguire o peggio dare man forte agli avvoltoi che si sono lanciati sulle sue spoglie per spremerne profitto fino all’ultima goccia e poi gettarne via la carcassa, secondo i dettami del capitalismo terminale, affermati come sempre a spese di chi è più debole e non si può difendere: in primo luogo musicisti e tecnici.
A tale proposito va tenuto conto che i DAC ovvero le apparecchiature del settore che sentono meno il declino, esprimono ancor oggi il meglio delle loro potenzialità in abbinamento al supporto fisico. Da un lato per via delle difficoltà dei formati cosiddetti ad alta risoluzione, i quali hanno dimostrato che la via dell’espansione geometrica, e acefala, dei dati immagazzinati, sulla falsariga di quel che è avvenuto nell’informatica, è una strada senza futuro.
Innanzitutto per via del niet opposto dai distributori di file digitali, stanti le ovvie ragioni di contenimento del traffico, le difficoltà insite nell’estendere all’infinito i dati necessari alla riproduzione sonora, e poi anche perchè ciò comporta una lunga serie di problemi difficilmente superabili. Al di là degli strepiti dei media di regime, sempre pronti a saltare su qualsiasi carro sembri offrire la possibilità di prolungare la loro agonia, ci sono elementi materiali che si oppongono a tale crescita. A iniziare dalle capacità di calcolo e finendo col jitter, bestia nera dell’audio numerico dal primo all’ultimo dei suoi giorni, passando per una serie di questioni intermedie, la cui risoluzione potrebbe non essere interessante prima di tutto a livello economico.
Abbiamo parlato prima di acefalìa, per un motivo semplice ma che oggi è sostanzialmente uscito dall’orizzonte un po’ a ogni livello, stante la volontà di avere sempre di più. Senza chiedersi tuttavia se una crescita virtualmente illimitata delle quantità di dati comporti anche un miglioramento concreto o non sia, come spesso accade, una mera questione di numeri per le estrazioni del lotto.
Essendo particolarmente indicati a rendere più attraenti le tabelle delle caratteristiche appositamente diffuse, la loro valenza è squisitamente propagandistica. Verte soprattutto sulla capacità di riempire meglio la bocca, così da predisporre il cervello in maniera più favorevole a bersi qualsiasi cosa.
Nello stesso tempo quei numeri sono un pretesto ideale per una continua opera di sostituzione che difficilmente potrà andare avanti all’infinito, alla faccia dei proclami di sostenibilità e di rispetto dell’ambiente, in nome dei quali le élite globali hanno ingaggiato la loro definitiva battaglia contro il resto dell’umanità. La stessa che finora hanno costretto a subire le conseguenze degli oltre due secoli di sfruttamento e devastazione del Pianeta che hanno perseguito come se non ci fosse un domani, in nome del profitto a qualsiasi costo, per scoprire all’improvviso la loro vocazione ambientalista.
La grandezza e l’epicità dei destini che quelle stesse élite programmano per tutti noi sono tali da banalizzare persino le conversioni sulle vie per Damasco di apostolica memoria.
Come potremo mai, noi poveri e umili mortali, renderci degni di tanta magnanimità e benevolenza?
Ora, se non si riescono a sfruttare fino in fondo i “pochi” dati utilizzati dal formato di base dell’audio digitale a codifica lineare, quello proprio del CD, come dimostra il miglioramento sostanziale della sua sonorità a seguito di qualche semplice intervento basato essenzialmente sulla buona volontà dell’utilizzatore necessaria a metterlo in pratica, quale potrebbe essere il motivo concreto di andarsi a cercare, oltretutto a caro prezzo, formati dalla densità di dati enormemente maggiore?
Di sicuro ce n’è più di qualcuno, ma il dubbio è che non abbia tanto a che fare con la qualità sonora, quanto con la necessità di mantenere alta la profittabilità del comparto, mediante la sostituzione indotta dal rinnovamento continuo riguardo al quale l’opera del “Coro Degli Entusiasti A Prescindere” ha importanza fondamentale.
Con le cronache rosa delle loro estasi onaniste ci hanno assicurato a ogni cambio di formato che quella era finalmente la volta buona, che la più volte proclamata perfezione digitale si era finalmente materializzata e che nulla di quanto realizzato fino al giorno prima poteva reggere il confronto.
Per poi ricominciare la giostra la settimana dopo, al comparire dell’ennesimo formato digitale o del nuovo sistema di conversione, dimentichi di quel che avevano sostenuto appena qualche ora prima. Sempre in osservanza della regola dell’eterno presente. O forse sfruttandola quale pretesto.
A questo proposito, la prima domanda riguarda il motivo per cui l’industria di settore, dopo il tonfo di SACD e DVD Audio, al concretizzarsi di formati dalla densità di dati ancora più elevata non ha ritenuto fosse il caso di realizzare macchine dalle caratteristiche tecniche in grado di sfruttarne fino in fondo le prerogative.
Avranno ritenuto l’investimento necessario non profittevole a sufficienza oppure la corsa alla moltiplicazione dei pani e dei pesc… oops di bit e frequenze di campionamento potrebbe non aver offerto ai loro occhi la garanzia di prestazioni superiori a quello che già avevano realizzato in precedenza?
E se così fosse, perché il battage propagandistico ha avuto in tali occasioni un’ostinazione non dissimile a quella che lo contraddistigue in pratica da sempre?
Il fiorire di nuovi formati si è rivolto pertanto alla cosiddetta musica liquida, che dal canto suo si rivela tuttora non in grado di appaiare quanto possibile col CD, il quale a sua volta resta indietro rispetto all’analogico.
Tecnologia nata, non dimentichiamolo, nel lontano 1877.
Essendo derivata da un hard disk, tralasciando per il momento lo streaming, che da una qualche memoria di massa deve per forza di cose originare, ad essa non sono neppure applicabili gli accorgimenti che permettono di migliorare in maniera evidente la resa del CD, inteso come disco.
L’hard disk infatti è chiuso ermeticamente e aprirlo equivale a perdere i dati in esso contenuti, in maniera pressoché irrimediabile. Che abbia anch’esso i suoi limiti, grossolani oltretutto, lo dimostra il miglioramento rilevante ottenibile passando alle unità a stato solido, che vanno diffondendosi.
Tuttavia al momento attuale non so quanto sia pensabile affidare ad esse i tera e tera di file digitali detenuti dagli affezionati del sistema, dei quali si dichiarano intenzionati a difendere fino alla morte ogni singolo megabyte, per poi ridursi ad ascoltare sempre i soliti dieci o quindici album.
Ammesso e non concesso che l’impiego della liquida contempli tuttora quella modalità di fruizione e non invece il saltabeccare irrefrenabile che mi trovo a riscontrare con grande frequenza quando faccio visita a qualcuno dei suoi utilizzatori.
Ormai in tale ambito non si ragiona neppure più in termini di brano ma di porzione di esso, della durata di qualche secondo e non di più, alla ricerca del passaggio più effettistico, compulsando su mouse e tastiere senza soluzione di continuità, quale tramite per la definitiva negazione di tutto quanto sia assimilabile all’ascolto di musica. Non dico quale mezzo di crescita culturale ed elevazione spirituale, ma anche solo d’intrattenimento.
Non potrebbe essere altrimenti, del resto, nel momento in cui i canali di distribuzione attuale mortificano oltre ogni limite gli sforzi, le capacità e la creatività degli artisti.
Di questo parleremo in un articolo dedicato all’argomento.
Per ora ci limitiamo a osservare come gli oggetti destinati all’impiego professionale, e segnatamente i DAC, dato che stiamo parlando di digitale, siano all’antitesi di quel che è necessario all’utilizzatore amatoriale. Pertanto, qualsiasi ibrido, a livello di impianto, realizzato sul loro impiego ha ottime probabilità di condurre a una penalizzazione rispetto a quanto sarebbe possibile con una buona macchina pensata e realizzata per le necessità della riproduzione sonora e non della sua produzione.
Come abbiamo visto prima, infatti, il DAC adibito all’impiego negli studi di registrazione risponde a necessità del tutto diverse.
Se in tale ambito la flessibilità d’uso e di connessione è l’elemento primario, al punto tale che molte macchine integrano dei preamplificatori microfonici, giustamente per il loro impiego, e poi anche una ricca serie di cavi e adattatori che ha anch’essa un costo, va da sé che quanto necessario allo scopo richieda una contropartita. Nell’ambito dei costi di produzione prefissati per un’apparecchiatura dal prezzo di vendita finito, l’abbondanza di componenti, dispositivi e accessori non potrà che sottrarre risorse agli elementi più importanti per la qualità del segnale che passa all’interno di essa, e quindi della qualità sonora che è in grado di esprimere.
Ma anche se il suo prezzo potesse per ipotesi essere infinito, le limitazioni dovute alla stesse necessità inerenti la realizzazione materiale di un prodotto siffatto confliggerebbero con l’ottenimento di un livello di qualità sonora all’altezza delle esigenze di un utilizzatore evoluto in ambito amatoriale.
Questo già per la prima legge della riproduzione sonora, secondo la quale le caratteristiche del segnale audio in uscita sono inversamente proporzionali al numero di ostacoli che si frappongono nel tragitto che deve percorrere.
Pertanto, nel momento in cui disseminiamo quel tragitto di manopole, controlli, interruttori, cablaggi, saldature, componenti, dispositivi, manipolazioni le più varie e astruse, ognuno di essi non potrà far altro che arrecare alla sua purezza un danno irrecuperabile, del quale la nostra percezione ci darà conto. In misura tanto maggiore quanto più lunga e approfondita è la nostra esperienza di ascoltatori e quanto più è raffinato e selettivo l’impianto che utilizziamo per l’ascolto.
Di qui la filosofia propria delle apparecchiature senza fronzoli cui personalmente dò adesione incondizionata.
Proprio perché l’obiettivo primario dell’ascolto di musica per mezzo di quella che si definisce con la sigla hi-fi, sinonimo di alta fedeltà, è appunto la riproduzione nella maniera più fedele possibile di quel che era nell’aria nel momento in cui è avvenuto l’evento originario, ossia l’esecuzione del brano da parte dei musicisti.
Un conto allora è ricostruire una rappresentazione arbitraria di quell’evento, a partire dalle esecuzioni di parti avvenute in tempi differiti e poi assemblate una a fianco all’altra al fine di realizzare la parvenza di un brano suonato come avverrebbe nella realtà, finendo con l’aggiungerci risonanze ambientali di origine sintetica. Ben altro è riprendere la sua esecuzione materiale, cosa che nel repertorio discografico moderno si fa con le registrazioni dal vivo, che quasi sempre sono anch’esse elaborate e rimaneggiate in funzione di una serie di necessità tecniche e artistiche.
Anche in tale ambito comunque, ai fini qualitativi, vale lo stesso criterio di cui abbiamo parlato tante volte nei discorsi che riguardano il settore amatoriale: la massima specializzazione dei componenti la catena, in questo caso di registrazione, è l’elemento basilare ai fini del suo destino qualitativo e di quel che da essa viene prodotto.
Proprio perché il DAC che integra gl’ingressi microfono e poi anche gli stadi ADC è apparecchiatura tipica del livello medio-basso, quello tipico di tanti studi casalinghi, il cui scopo è innanzitutto di riuscire a farle, le cose, in qualche modo. Laddove la qualità conta realmente, invece, ci sono apparecchiature distinte, separate e provviste di un’alimentazione a sé stante: da una parte c’è il pre microfonico, di seguito il convertitore A/D e solo all’estremità opposta c’è il D/A, sulla barra di monitor e riascolto, debitamente separata da quella di registrazione.