Contraddizioni in Hi-Fi

Come in ogni settore ad elevato contenuto tecnologico, per orientarsi nell’offerta ogni giorno più vasta di apparecchiature hi-fi è necessario conoscere dispositivi, tecniche, modalità d’impiego, principi funzionali, parametri e altro ancora.

Anche quando si è raggiunta buona dimestichezza con uno scibile che oltre a risultare di comprensione difficoltosa per i “non addetti ai lavori” impone un aggiornamento continuo, che se si tiene alla propria salute mentale occorre a un certo punto lasciar perdere, è facile incappare in qualche passo falso. Stanti i prezzi della produzione audio attuale, può risultare gravoso per il portafogli e magari indurre a dedicarsi a settori in cui si è meno esposti a sorprese poco piacevoli.

Vediamo dunque quel che mi ha scritto un appassionato di Verona, Andrea:

Buongiorno Claudio, complimenti per il tuo sito.

Ti vorrei chiedere cortesemente cosa ne pensi dell’intero setup che ho appena acquistato, composto da due piccoli finali mono, diffusori da piedistallo e un amplificatore che utilizzo come pre dotato anche di un ingresso USB. Ne sono soddisfatto ma preferirei bassi un po’ più vivaci e presenti.
Il sistema è migliorabile per come intendo io?

Ed ancora stavo pensando ad una permuta con Naim Star visto che ascolto anche Tidal cosa ne pensi?

Grazie di tutto.

 

Ad Andrea ho risposto facendo presente che per quanto l’apparecchiatura a cui è interessato ben si presta all’impiego riguardante lo streaming, specialità oggi piuttosto di moda, ed è con ogni probabilità caratterizzata da doti soniche interessanti, si tratta comunque di un oggetto tutto in uno.

A tale riguardo andrebbe tenuto conto innanzitutto che il principio cardine della vera hi-fi, e del raggiungimento della qualità sonora d’eccellenza che la contraddistingue dalle soluzioni più dozzinali, sta appunto nella massima specializzazione di ogni componente.

Per la loro stessa costituzione, oggetti come il Naim sono la contraddizione di questo principio indiscutibile, a favore della praticità d’impiego e d’acquisto. Il loro limite maggiore tuttavia è un altro: il tagliare fuori ogni possibilità di miglioramento futuro e di adattamento alle effettive necessità dell’utilizzatore, essendo oggetti “chiusi”.

Dunque, per quanto possano essere mediamente gradevoli all’ascolto, il loro utilizzo non potrebbe che avvenire con una modalità non così lontana da quella con cui ci si pone di fronte a una radiosveglia: la si accende, si ascolta, possibilmente anche con piacere, poi la si spegne e tutto finisce li.

Il tutto però a costi decisamente rilevanti, che dal mio punto di vista rendono ancor meno sensata una scelta del genere per un vero appassionato.

Quindi, per la fruizione dello streaming, una soluzione forse più indicata e in linea con i principi basilari della riproduzione sonora di qualità elevata potrebbe essere quella inerente l’impiego di un pc, magari portatile, abbinandovi un DAC esterno.

Per questa strada, oltretutto, le spese non andrebbero affrontate tutte in una volta, ma si potrebbero diluire nel tempo. Nel caso si sia già impegnati su altri fronti dell’impianto, una soluzione di partenza, provvisoria finché si vuole, può essere quella di utilizzare il pc che ormai praticamente tutti hanno in casa, per mezzo dell’uscita cuffia.

Questa soluzione inoltre permetterebbe di migliorare quello che sulla carta appare il limite maggiore del sistema assemblato da Andrea, stante nell’impiego di un amplificatore integrato per il pilotaggio dei finali mono, mediante la sua sezione pre. Con ogni probabilità il ricorso a un preamplificatore vero e proprio migliorerebbe in maniera considerevole le doti di tutto l’impianto, tenuto conto anche del fatto che nelle amplificazioni integrate è proprio la sezione pre a essere più dimessa.

Di sicuro il collegamento diretto del PC all’impianto non è la soluzione migliore, ma intanto si comincia. Poi, non appena si ha disponibilità, si prende un DAC esterno, che può essere d’aiuto nel migliorare anche le doti sonore del lettore CD, nella fattispecie già presente. Tantopiù che le doti timbriche delle uscite cuffia di numerosi portatili non sono proprio pessime e almeno in una prima fase possono essere utilizzate senza troppa sofferenza.

Dopo qualche giorno Andrea mi risponde:

Buonasera Claudio,
grazie per la tua risposta anche perché dopo aver collegato, su tuo consiglio, il MacBook Pro con un buon cavo audio all’amplificatore, anziché con un buon USB, il risultato è nettamente migliorato, anche in termini di bassi.

Ora, questa cosa la trovo inverosimile. Possibile mai che si possa migliorare e in tale misura  passando dall’ingresso USB, e relativa sezione di conversione integrata in un amplificatore, al collegamento diretto del pc all’impianto tramite uscita cuffia?

A dire il vero la cosa non mi riesce nuova, dato che qualche anno fa, quando facevo ancora il redattore, mi venne affidato in prova uno di quei DAC che a me piace definire scatole di fiammiferi per via delle loro dimensioni lillipuziane. Malgrado portasse sul frontale un marchio piuttosto noto e ritenuto affidabile, anche in quel caso si rivelò più conveniente il collegamento diretto del PC all’impianto. Che poi non era neppure un PC ma un netbook, tipologia allora parecchio diffusa, il cui costo risibile in teoria non avrebbe dovuto permettere un comportamento dell’uscita audio tale da poter essere paragonato a quello di un DAC a sé stante, sia pure di dimensioni ridotte e prezzo abbordabile.

Quella volta tuttavia l’uscita del pc non fu migliore sonicamente del DAC esterno, ma sostanzialmente indistinguibile.

Proprio sulla base di quell’esperienza, d’altronde, ho suggerito ad Andrea di provare a collegare il pc all’impianto nel modo descritto. Fermo restando che dal mio punto di vista, e presumo anche da quello di chi spende denaro per acquistare un determinato amplificatore, non ha proprio nessun senso che un DAC, sia pure d’appoggio come quello presente nella dotazione di un integrato, suoni tanto peggio dell’uscita cuffia di un pc vecchio di oltre dieci anni.

L’amplificatore di cui fa parte è un Exposure, l’XM 5, commercializzato da un marchio che a suo tempo si distinse per aver realizzato uno tra gl’integrati più interessanti della sua classe, che ebbi l’occasione di provare, ormai troppi anni fa. Stiamo parlando della seconda metà degli anni novanta e mi impressionò favorevolmente, al punto che diversi anni dopo lo avrei menzionato in “Dieci piccoli inglesi“.

E’ davvero un peccato. Non riuscirò mai a capacitarmi di come si possa gettare alle ortiche una fama che di sicuro non è caduta dal cielo ma è stata acquisita a prezzo di sforzi non indifferenti.

Per che cosa, poi, ampliare l’equipaggiamento di un amplificatore integrato, che non sta scritto da nessuna parte debba essere corredato di un ingresso USB e relativo DAC interno.

A parte che non l’ha certo ordinato il dottore di metterlo al suo interno, ma se per farlo ci si espone a figure del genere, non sarebbe meglio astenersi?

Magari si risparmia qualche soldo, con cui ci scappa un’alimentazione più solida o, a scelta, una sezione finale più prestante, uno stadio pre dalla sonorità più limpida o magari componentistica meno dozzinale.

Quelli che abbiamo appena visto sono i risultati che derivano dalla compulsione all’inzeppatura delle tabelle. Nella fattispecie quella delle caratteristiche.

In quell’ambito la presenza di un ingresso USB e relativo DAC, 24/192, ci mancherebbe altro, fa senz’altro la sua figura. Dunque, soprattutto nella situazione attuale in cui le apparecchiature si comprano guardandone la foto e, appunto, sulla base di tabelle che se fosse vivo Dante chi le ha redatte finirebbe nel girone dei fanfaroni, la presenza o meno di un dispositivo può fare la differenza tra acquistare o lasciar perdere.

Come vediamo per l’ennesima volta, le tabelle sono bugiarde. O meglio ancora ingannevoli, in quanto fanno credere cose che non solo non esistono ma sono proprio dannose.

Questo suggerisce innanzitutto che se proprio dobbiamo guardarle, quelle tabelle, dobbiamo farlo da una prospettiva diversa: un oggetto, soprattutto se di prezzo abbordabile, non può e non deve essere imbottito di funzioni. Al di là dei loro costi, che per forza di cose devono essere recuperati da qualche altra parte, è la loro stessa presenza a erodere la qualità funzionale del nocciolo duro della realizzazione.

Altrimenti può essere decisa allo scopo di controbilanciare una delusione messa in preventivo già all’origine. L’amplificatore suona in maniera men che mediocre? Si, è vero, ma non dimenticare che ti offre anche un “bel” DAC!

L’erosione di cui sopra avviene da un lato perché determinate funzioni assorbono risorse da costi di produzione già ridotti all’osso, al di là dei quali non è possibile andare. Quindi la loro presenza obbliga a ridimensionare elementi magari più significativi o proprio critici per la qualità sonora, presenti all’interno del telaio.

Le circuitazioni accessorie, inoltre, assorbono corrente, rendendo necessarie alimentazioni più corpose. Tra l’altro proprio l’alimentazione è una tra le voci di spesa più significative di una qualsiasi realizzazione elettronica. Quelle circuitazioni inoltre non si limitano ad assorbire corrente, ma emettono anche disturbi, i quali rientrano dall’alimentazione, andando a influenzare tutto il resto.

I dispositivi digitali tra l’altro sono noti per la loro efficacia in questa specialità, tanto è vero che ovunque sia possibile li si separa dal resto, fornendoli di un’alimentazione a sé stante, potendo già a partire dai trasformatori.

Dunque, ancora una volta vediamo che il meno è di più: quanto minore è il numero di accessori presenti all’interno di un’apparecchiatura elettronica, tanto maggiori sono le probabilità che quel che c’è sia di buona qualità, sempre in relazione al costo vivo del prodotto, che a volte può non avere nulla a che fare con quello al pubblico.

Del resto a cosa serve equipaggiare un amplificatore o un pre di una sezione digitale, se poi alla prova dei fatti questa dimostra di essere peggiore dell’uscita cuffia di un computer portatile di oltre dieci anni fa, commercializzato peraltro da un marchio noto per i ricarichi astronomici che impone ai suoi prodotti, giustificandoli con elementi del tutto aleatori, se non proprio negativi, come la riduzione della propria clientela a una setta di fanatici.

Lo scopo della presenza di un dispositivo come quello in questione, allora, è solo influenzare l’acquirente potenziale, attendendolo al varco in quello che si ritiene un passaggio obbligato: la lettura della tabella delle caratteristiche, che pertanto, lo diciamo ancora una volta,  assume una connotazione ingannevole. Certo, il dispositivo in questione all’interno del telaio lo si trova effettivamente, tuttavia la sua valenza non è quella che viene suggerita implicitamente, ma l’esatto contrario.

Purtroppo oggi la maggioranza dei prodotti audio è acquistata in rete, secondo un procedimento del tutto inadeguato, tanto alle necessità del compratore, quanto a quelle delle apparecchiature di buon livello. Sono proprio le tabelle a renderle indistinguibili dalle altre, andando a moltiplicare le probabilità d’incappare in prodotti adatti non a rispondere alle reali esigenze che hanno portato al loro acquisto, ma a ben altro.

Le norme di distanziamento e la revoca delle libertà di movimento attualmente in vigore, imposte secondo una prassi che calpesta senza ritegno le norme costituzionali, e oltretutto stabilite da chi non ha alcun titolo al riguardo, vanno a moltiplicare l’incidenza di questo problema, evidenziando le loro finalità, attinenti l’ambito economico e quello politico più che quello sanitario, preso a pretesto per instaurare condizioni d’emergenza senza le quali arrivare a una realtà come quella attuale non sarebbe stato possibile.

Ciò di fatto ha determinato che a fronte di un calo particolarmente significativo delle risorse spendibili da ciascuno, il rischio di gettarle al vento, proprio per le difficoltà così frapposte a modalità di acquisto meglio ponderate e su basi concrete, è di fatto moltiplicato.

Il tutto come sempre a favore del prodotto dozzinale e a danno di quello realizzato con capacità e coscienza.

Come vediamo, allora, la pretesa emergenza, allo scopo ricordiamo che l’OMS non ha mai diramato un documento scritto dichiarante l’esistenza della “pandemia”, ha i suoi risvolti più significativi non a livello sanitario, prescindendo dal fatto che l’accesso alle prestazioni un tempo garantite è divenuto molto più difficile se non del tutto impossibile per tutto quanto non sia il vairus, ma a livello politico, economico e sociale.

Tanto è vero che l’Italia, proprio per effetto delle misure draconiane adottate, detiene il record assoluto a livello mondiale per l’ammontare dei danni causati dal combinato disposto di vittime della malattia, ne abbiamo più di tutti, e caduta del PIL, la maggiore in assoluto.

Proprio lo scorso 5 gennaio, i ricercatori dell’Università di Stanford, California, hanno pubblicato uno studio secondo cui non vi è evidenza scientifica alcuna che le misure di distanziamento sociale e di “lockdown”, il cui significato letterale in lingua inglese è carcere duro, ossia in isolamento, abbiano avuto una qualche incidenza nel ridurre gli esiti dell’emergenza.

I dati a disposizione, anzi, indicano con chiarezza che proprio laddove si sono prese le misure più drastiche le conseguenze sono state peggiori. Inoltre vi sono molte probabilità che il costringere le persone a imbavagliarsi e rimanere chiuse in casa provochi un più efficace dilagare del contagio.

Oltre a un’altra lunga serie di problemi di salute.

Per conto mio, le azioni e soprattutto le intenzioni si giudicano dai risultati. Questa banda di cialtroni che detta legge servendosi dell’azione terroristica dei media a reti e testate unificate, oltretutto, e col silente beneplacito delle figure di garanzia, persiste a imporre obblighi privi di qualsiasi giustificazione che non sia l’ipocondria di massa portata strumentalmente all’isterismo, mediante i quali hanno prodotto danni incalcolabili a ogni livello.

 

Un altro esempio

Della contraddizione numero 2 mi ha dato notizia Carlo, di Torino.

Buongiorno. Ho appena acquistato un giradischi THORENS TD 170-1, presso un negozio della mia città.  Dopo averlo installato, mi sono accorto che a parte il timbro discreto, in relazione al prezzo, vi era un notevole problema originato dall’oscillazione di alcuni millimetri del piatto.

Tale oscillazione è da ritenersi “normale” in un giradischi di quella fascia di prezzo o ci può essere un difetto di fabbricazione? Ovviamente ho già scritto a chi me lo ha venduto.

In un giradischi nuovo, un’oscillazione del piatto di alcuni millimetri non è assolutamente normale.

Meno che mai se è evidente a tal punto.

Non lo sarebbe neppure su un esemplare con anni di utilizzo alle spalle. Del resto la stabilità di quello che si può definire piano di lavoro della testina è fondamentale per il suo funzionamento. Trattandosi di un dispositivo atto a trasformare il movimento in segnale elettrico, se il piatto su cui poggia compie movimenti diversi dalla rotazione, non potranno che essere rilevati dall’equipaggio mobile. Verificandosi quelle oscillazioni qualche volta ogni secondo, danno luogo a un segnale di frequenza bassissima, oltremodo dannosa, essendo situata nella regione dei cosiddetti warp.

A monte di tutto questo c’è una realtà che non può essere aggirata: l’analogico è intrinsecamente costoso. Di mio sono sempre stato convinto che l’industria di settore in un certo momento abbia imboccato la strada del digitale, e nello stesso tempo fatto di tutto per azzerare l’analogico, proprio perché i costi della fabbricazione di giradischi e annessi stavano diventando insostenibili. In particolare per il prodotto di massa.

Quindi è passata all’allora nuova tecnologia non per una questione di miglioramento delle prestazioni, che di fatto non c’è stato tranne che su parametri specifici e non così influenti, ma per i suoi costi notevomente più contenuti, una volta che la fabbricazione di quanto ad esso necessario fosse entrata a regime.

L’analogico, e in particolare il giradischi, presuppone invece un dispendio considerevole di materie prime per la sua realizzazione. Questa oltretutto necessita di una precisione impeccabile a livello meccanico, in termini di tolleranze e accoppiamenti, il che vuol dire altri costi, rilevanti.

Riportando questa realtà alla situazione attuale, in cui il ritorno d’interesse riguardante l’analogico ha assunto un andamento prepotente, per forza di cose aumenta anche la richiesta per giradichi abbordabili.

Soprattutto perché, in maniera paradossale, non sono vecchi e nostalgici ad acquistare gli LP come la stampa di regim… oops di settore ha sostenuto per decenni con la pervicacia del servo più fedele. Una parte rilevante del pubblico che si rivolge al supporto vinilico, se non addirittura maggioritaria, è composta da giovani e nuove leve, che portano finalmente sangue fresco al nostro settore. Dopo aver acquistato gli LP, di solito a caro prezzo, vogliono riprodurli con mezzi alla loro portata.

E’ probabile che oltre ai metodi usuali che permettono il contenimento dei costi di produzione, centrati sul contenimento delle materie prime necessarie e di processi realizzativi semplificati, si risparmi anche sui controlli di qualità.

Le conseguenze sono quelle che racconta Carlo, a fronte di una spesa che per quanto appaia contenuta rispetto a quel che si può investire al giorno d’oggi su una sorgente analogica di rilievo, resta comunque una somma di un certa importanza.

Per tanta gente il costo di un TD 170 equivale a mezzo stipendio.

Purtroppo non c’è un modo per cautelarsi da evenienze del genere, se non comprendere che, lo ripetiamo ancora, l’analogico è intrinsecamente costoso e la sua stessa filiera di fabbricazione sta diventando anacronistica, se non lo è già da tempo.

Lo è in quanto centrata essenzialmente su lavorazioni di tipo meccanico, per le quali è necessario oltretutto un livello elevato di precisione. Oggi la tecnologia si dirige invece verso altri traguardi, legati essenzialmente all’elettronica miniaturizzata e al digitale, inteso in senso generale, dunque non solo quello legato all’audio che in tale ambito è divenuto ormai un’entità pressochè trascurabile.

Per forza di cose questa realtà interessa anche marchi come Thorens, al cui riguardo va tenuto conto innanzitutto che non ha più nulla a che vedere con il marchio che ha dominato il settore dei giradischi dagli anni ’50 fino al passaggio al digitale e anche un po’ oltre.

Del resto basta vedere quello che produce oggi, soprattutto nella parte più abbordabile del suo listino, e quel che ha prodotto fino a una trentina di anni fa o poco più. Al confronto di un TD 160, un 165 o un 166, quelli di oggi sono poco più che giocattoli. Per forza poi le quotazioni sul mercato dell’usato sono in continua crescita e hanno raggiunto ormai valori non più correlati col valore intrinseco di quelle macchine, per non parlare dei costi di ripristino.

Da un lato allora c’è un pubblico che si rivolge all’analogico con convinzione sempre maggiore, aumentandone la richiesta, dall’altro il paragone, impietoso, che già a occhio contrappone un giradischi appartenente alla famiglia dei 160 coi carriolini di oggi, dal plinth talmente leggero da far sospettare che sia ottenuto mediante cartone pressato.

Intendiamoci, anche le macchine di allora sono tuttaltro che perfette. Alcune soluzioni fanno sorgere il dubbio che neppure in certe sedi vi fosse piena consapevolezza di come funzioni davvero l’analogico. Tuttavia, se dovessi spendere denaro mio, non avrei dubbi su dove dirigere la scelta.

Il vero problema è che c’è scarsa consapevolezza in gran parte del pubblico, che quindi si sente più sicuro nel rivolgersi al prodotto nuovo, come in effetti dovrebbe essere, per poi ritrovarsi nelle condizioni di Carlo.

In pratica quindi avviene che l’appassionato si rivolge con fiducia a un marchio di grandissima tradizione, che però non ha più nulla a che spartire con quello di una volta. Tutto ciò che lega quelle due realtà è l’identità del logo, piazzato in bella vista sul pannello principale, ma a parte questo c’è ben poco.

Su un legame tanto labile tuttavia si gioca quello che rassomiglia parecchio a un inganno: quanti pensano che se comprano “il” Thorens hanno il prodotto di un marchio glorioso e a suo tempo noto per la qualità dei suoi giradischi. Quanti invece si rendono conto che stanno acquistando un oggetto di provenienza cinese su è stato appiccicato sopra quel marchio in forza di un’operazione finanziaria possibilmente spregiudicata?

Quando si fanno discorsi del genere, il mio pensiero va regolarmente a finire alla contraffazione, pratica sulla quale per anni è stata praticata un’attività non dissimile dal lavaggio del cervello di massa. Con annessa demonizzazione di quanti si ritrovassero coinvolti a qualsiasi titolo in quello che in realtà è sempre stato un falso problema.

Buono appunto per criminalizzare chiunque non riuscisse a resistere alle sirene del consumismo e delle teorie dell’esistenza commerciale e della cultura della visibilità, sentendosi costretto a esibire il possesso del portafogli o della borsetta firmata, ancorché di provienienza non ufficiale, quale certificazione di non essere un fallito o solo di essere all’altezza dell’immagine che si ritiene doverosa per chi aspiri a essere incluso nel ceto medio, più o meno benestante.

Agli inizi erano prodotti fabbricati rozzamente, ma da un certo punto in poi quelle merci divennero del tutto indistiguibili da quelle certificate. La sola differenza stava nel luogo presso cui le si acquistava.

Ma se l’oggetto messo in vendita a 2000 euro nel negozio griffato lo si ritrova identico sulla bancarella a 20, vuol dire che c’è stato un surplus di produzione, finito poi chissà dove, chissà come. Innescato dal margine troppo elevato che si è voluto attribuire a un prodotto se vogliamo banale, con metodi surrettizi, se non proprio truffaldini. Quantomeno nei confronti della credulità popolare. O meglio, delle necessità degli appartenenti ai ceti privilegiati, che a un certo punto si sono trovati a dover soddisfare la loro ansia di diversificazione dalla massa di quello che definivano popolino, cui guardano da sempre con orrore, per mezzo dell’esibizione di oggetti così effimeri e deteriori.

Del resto se il grande marchio per la fabbricazione della sua borsetta si rivolge al terzista cinese, è perché vuole moltiplicare i profitti, pagando all’origine 2 euro quel che poi vende a 2000. Allora è o non è quello stesso marchio a eseguire la contraffazione del suo prodotto?

Ovvio poi che il terzista, una volta che l’uomo d’affari occidentale tanto avido quanto stolto gli dà le materie prime e la tecnologia necessarie per realizzare il prodotto d’èlite, non si limita a fabbricare il numero di pezzi che gli è stato richiesto. Di straforo ne produce molti di più, vendendoli poi per conto proprio.

Dunque Thorens non è più un marchio svizzero ma un venditore di prodotti cinesi, come lo è del resto la stragrande maggioranza, se non la quasi totalità di tutto quanto oggi viene offerto nell’ambito della riproduzione sonora. Se non proprio alla lettera, quel che fa si avvicina molto allo spirito dell’esempio che abbiamo appena fatto, relativo alla borsetta del marchio tanto alla moda.

Che si finisse così era inevitabile, è apparso chiaro fin dal momento in cui i primi prodotti audio a marchio occidentale e fabbricazione cinese si sono affacciati sul mercato. A suo tempo ho avuto modo di valutarne di persona uno dei primissimi. Le riflessioni che indusse in me furono esattamente queste. Il cinese, che non è uno stupido, sa perfettamente che quel che gli si paga 1, sui mercati dell’occidente è rivenduto a 1000.

Sa altrettanto bene che il suo interesse non è produrre sottocosto fino a crepare per arricchire un occidentale ma, col tempo, trarre a sé la maggior quota possibile di quel profitto.

Quel discorso fu brutalmente cancellato dal censore di turno, il tipico mega-direttor lup-mannar di fantozziana ascendenza, visceralmente intollerante nei confronti di qualunque cosa rischiasse di aprire gli occhi alle sue vittime designate. Del resto, se dovevano continuare a devolvere l’obolo mensile presso l’edicola, gli andava quantomeno assicurata nero su bianco la perfezione inarrivabile dei prodotti che li si spingeva a comperare.

30 anni dopo come ci ritroviamo? Che tutti i più grandi marchi del settore sono in mano a gruppi a controllo cinese o tuttalpiù coreano.

 

Fatto l’inganno, trovata la legge

Dato che a un certo punto il problema stava diventando rilevante, e soprattutto rischiava di scatenare un rifiuto dalle conseguenze difficilmente preventivabili, il legislatore previdente cosa ti fa? S’inventa una nuova legge sul “Made in” che consente di scriverci su un paese qualsiasi, senza che in esso sia stata davvero eseguita la produzione. Basta che vi sia fatta una parte di essa, che sia “significativa”.

Il che vuol dire tutto e niente, anche metterci solo un fiocchetto, la targhetta o magari aver eseguito il ritocco estetico e il confezionamento finale. Sempre a partire da materie prime e imballi provenienti da chissà dove, fabbricati chissà come.

Così, tanti saluti alla salvaguardia del prodotto dall’orgine certificabile, che mai potrà reggere la concorrenza di quello taroccato, tanto più a norma di legge. Non prima di aver messo alla pubblica gogna chiunque azzardasse a possedere un oggetto definito pretestuosamente come contraffatto.

Soprattutto via libera all’ultima spallata che permetterà di seppellire definitivamente i comparti industriali del mondo occidentale, buttando in mezzo alla strada un numero incalcolabile di persone e famiglie, distruggendo le loro vite.

Sempre in nome dei valori inalienabili della civiltà e del progresso.

Ma niente paura, dato che ai fini delle statistiche ufficiali non saranno definiti per quello che sono, espulsi in via definitiva dal mondo del lavoro, ma scoraggiati, inoccupati, NEET, frizionali, ciclici, strutturali e così via, in modo da poter edulcorare notizie e percentuali altrimenti impresentabili, mediante le quali perculare l’uditorio e fornirgli una rappresentazione della realtà che è inesistente. D’altronde per parte sua quell’uditorio non desidera altro, fin dai tempi del cardinale Carrafa. Il tutto col bollino ufficiale dell’istituto di statistica di Stato.

Malgrado ciò, in quel che fin qui è stato raccontato c’è anche un elemento positivo, sia pure ben poco consolatorio. Fatterelli come quelli che stiamo esaminando, e in particolare il secondo, costringono a prendere atto chiunque mantenga ancora un residuo barlume di ragionevolezza, buon senso e legame con gli accadimenti del mondo reale, che esiste ancora una storia, un succedersi dei tempi, un prima e un dopo.

Così da comprendere la valenza e le conseguenze dell’eterno presente di cui la pubblicistica di settore, con la sua heavy rotation, esegue la rappresentazione, pretendendo si creda che sia la realtà, e proprio nel personale che opera al suo interno ha la prima vittima. Tale è la definizione oggi di moda atta a indicare il ritmo frenetico del tripudio di recensioni entusiastiche, idolatranti tecnologie e apparecchiature sempre più nuove, sempre più belle, sempre migliori e sempre più convenienti. Tali che tutto quanto realizzato fino all’attimo prima non possa che essere irrimediabilmente sorpassato, anacronistico e privo di qualità alcuna.

Salvo poi attaccarci l’uscita cuffia di un portatile vecchio di 15 anni e scoprire che va parecchio meglio dell’ultramoderno DAC a corredo, rigorosamente ad “altissima definizione”.

 

Aggiornamento del 22 gennaio 2021

Carlo, il possessore del Thorens “oscillante”, mi ha appena fatto sapere che il venditore del giradischi si è rifiutato di riconoscere la garanzia, in quanto “per un giradischi di quel prezzo certe cose sono perfettamente normali”.

Ho consigliato a Carlo di rivolgersi prima al distributore e poi, se non ottiene il riconoscimento dei suoi diritti, lui il giradischi lo ha pagato con soldi buoni, di andare direttamente al fabbricante.

A livello di dettaglianti fisici non si perde occasione per piangere miseria, ma nel momento in cui si presenta l’occasione di dimostrare coi fatti che esiste ancora una convenienza a fare acquisti presso di loro, invece che sul sito che offre il prezzo inferiore, gli atteggiamenti sono quelli di sempre.

 

 

 

Potrebbe interessarti anche

6 thoughts on “Contraddizioni in Hi-Fi

  1. Ritengo verita’ perche’ è il mio pensiero e di piu”.. da sempre, d’accordissimo scritto senza peli sulla lingua, come il pensiero, verita’ non pronunciabile per i piu’..? Grazie.

  2. Ottimo lavoro Claudio, ho scoperto da poco questo sito che ritengo eccellente nei contenuti e nella capacitá divulgativa.

    Grazie per il lavoro che fai

    1. Grazie a te Paolo per le belle parole.
      Cerco di fare del mio meglio, pur se tra mille difficoltà.
      Fin quando riuscirò, andrò avanti.

  3. Ciao Claudio,
    complimenti per l’articolo, e per mettere a nudo crude verità. Personalmente credo che la questione del made in China sia rilevante fino ad un certo punto: se è vero che va a farsi benedire l’heritage del marchio blasonato (almeno dal mio punto di vista), laddove il prodotto fosse costruito con tutti i crismi, sarebbe quantomeno accettabile. Certo, il prezzo naturalmente non tiene conto della provenienza del prodotto, ma tant’è… Resto perplesso quando avviene il contrario: di recente ho acquistato un amplificatore dal costo considerevole (almeno per le mie tasche) di un noto marchio, su cui campeggiava a caratteri cubitali la scritta “made in London”. Neanche il tempo di accenderlo, e mi rendo conto che la manopola del volume e i pulsanti di selezione ingresso hanno un gioco evidente… misteri della fede.
    In sede di acquisto ho permutato il mio precedente amplificatore, valutato naturalmente una cifra ridicola, con la scusa da parte del negoziante di essere obsoleto (aveva circa 8 anni di vita), poiché sono usciti successivamente ben 3 modelli della stessa linea… Chissà quali fantomatiche innovazioni ci saranno mai state nel frattempo…
    Un saluto e alla prossima

    1. Ciao Alberto,
      grazie per l’apprezzamento.
      Se ci limitiamo a osservare il caso specifico la penso come te, la provenienza del prodotto ha un’importanza relativa. Anche perché se ti rivolgi in quelle zone e paghi il giusto hai comunque un prodotto dignitoso.
      Il problema subentra quando la delocalizzazione assume carattere endemico e nel lungo termine mostra le sue conseguenze, che sono quelle descritte nell’articolo.
      Mi spiace per il tuo nuovo amplificatore, che comunque dovrebbe essere coperto da una garanzia di due anni. Spero almeno che rispetto a quello che hai dato indietro suoni in maniera tale da giustificare la spesa affrontata.
      Forse poi, se invece di darlo indietro al dettagliante lo avessi venduto per conto tuo, avresti spuntato una valutazione megliore.
      A presto

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *