«Vi dirò, Beethoven non mi interessa. Mi posso identificare con un paio di cose di Wagner, ma la maggior parte della musica antecedente il ventesimo secolo, a eccezione dei canti gregoriani e di certa musica medievale, non mi fa scattare niente. Non so perché. Mi ci sono messo d’impegno, ho comprato i dischi, ma non è abbastanza dissonante. Inoltre gli sviluppi diventano prevedibili: se hai una sequenza di otto accordi, ad esempio, puoi immaginare facilmente quale sarà il nono. Io non amo tanta pulizia e precisione».
Butcher, Pauline. Freak out! La mia vita con Frank Zappa Arcana Ed.
Fosse ancora tra noi, lo scorso 21 dicembre Frank Zappa avrebbe compiuto ottanta anni.
La figura più istrionica, geniale e iconoclasta della storia del rock oggi sarebbe un arzillo vecchietto dallo spirito critico e dall’ironia che ne hanno segnato a tal punto la traiettoria artistica probabilmente intatti. O forse persino accentuati, come accade per quanti sono convinti delle loro idee fino in fondo.
Lui che non perdeva occasione per suggerire alle persone di registrarsi per il voto, la legge degli Stati Uniti richiede infatti tale formalità per deporre la scheda nell’urna, ed è arrivato persino a diffondere l’invito dalle copertine dei suoi album e durante i suoi concerti, sarebbe forse stato contento che le ultime presidenziali abbiano avuto un successo tale che le schede scrutinate sono state in numero notevolmente maggiore rispetto ai votanti.
Magari avrebbe preso la cosa come regalo gradito per uno tra i compleanni più importanti nella vita di un uomo.
Ostica, incomprensibile, astrusa: ecco alcune definizioni della musica zappiana tra le più frequentate da parte di chi non ne ha approfondito la conoscenza. A questo proposito, di tanto in tanto qualcuno chiede i titoli dei dischi potenzialmente più facili per avvicinarsi ad essa.
Per come la vedo io, non ci sono dischi particolarmente adatti allo scopo, soprattutto nella parte che ritengo più significativa della sua carriera, e quindi che è indispensabile conoscere per qualsiasi appassionato di musica moderna, conclusasi alla fine del decennio 1970.
E’ anche vero che nel mio piccolo non ho avuto grossi problemi nell’approccio con la musica di Frank Zappa. Agl’inizi della mia “carriera” di musicofilo ne avevo letto e sentito parlare più volte nel bene e nel male, ma senza poter ascoltare nulla. D’altronde nell’Italia dei primi anni 70 non era cosa probabile. Ricordo però che ero a un concerto e nell’attesa del suo inizio due persone davanti a me parlavano del suo ultimo disco, sostenendo che finalmente era tornato a fare buona musica.
Si riferivano a “Waka/Jawaka”: preso per buono il consiglio pervenutomi in quel modo, e in effetti lo era, la prima volta che mi capitò di entrare nel negozio di dischi che frequentavo di solito, il suo acquisto fu quasi scontato. Era il dicembre 1972.

Waka/Jawaka era in effetti succeduto a un paio di album difficoltosi da comprendere e da digerire per chiunque non avesse una confidenza con l’inglese molto superiore alla media per lo standard nostrano dei primi ’70 e forse anche di quello attuale. Stiamo parlando di “Live At Fillmore East 1971” e “Just Another Band From LA”, dischi registrati con la seconda formazione dei The Mothers Of Invention, il gruppo che lo ha accompagnato fin dalle prime fasi della sua carriera e in seguito Zappa avrebbe rivoluzionato più volte. Annoverando due cantanti, Mark Volman e Howard Kaylan provenienti dai Turtles, quelli di “Happy Together”, era caratterizzata da una forte virata quasi cabarettistica. I due per l’occasione furono ribattezzati Eddie and The Phlorescent Leech.

Soprattutto il primo degli LP menzionati aveva una forte impronta satirica, però andavano innanzitutto capiti e interpretati: oggi i siti internet con le liriche di ogni brano mai apparso sulla faccia della Terra sono cosa scontata, allora o capivi oppure no e quei testi biascicati in uno slang parecchio fitto erano decisamente difficili da assimilare per il pubblico italiano.
La critica nostrana e di conseguenza il pubblico accolsero male quei due dischi. “Waka/Jawaka” invece caratterizzò la ripresa di una musica più seriosa, dall’evidente influenza jazzistica, peraltro diluita da un apporto significativo di musica classica tardo ottocento e novecento, oltrechè di musica contemporanea e d’avanguardia. E’ un termine oggi desueto ma allora veniva utilizzato con una certa frequenza, a ragione.
Ecco, forse uno tra gli elementi primari dell’apparente difficoltà della musica zappiana stava e sta tuttora nella difficoltà d’inquadrarla all’interno di un genere specifico: in essa è possibile reperirne diversi, talvolta intercalati gli uni con gli altri nello stesso brano in maniera serrata, fuori dagli schemi e in una forma spiccatamente personale, tale da non concedere sicurezza alcuna all’ascoltatore. Le sorprese insomma sono in agguato, potenzialmente a ogni passaggio, garanzia che nell’ascolto difficilmente ci si possa annoiare.
I musicisti che hanno lavorato con lui usano dire che Zappa tirasse fuori il massimo possibile da ognuno e spesso andasse anche oltre. Per forza di cose, dunque, ha fatto lo stesso con chi ascolta la sua musica, forzandone la crescita o comunque ponendolo di fronte a soluzioni impreviste e imprevedibili.
In “Waka/Jawaka” c’erano ugualmente un paio di brani cantati, nella seconda facciata, ma l’ossatura del disco era costituita da due lunghi pezzi, “Big Swifty” e quello che dava il titolo all’album, eseguiti da una vera e propria big band, sia pure utilizzata secondo l’estetica zappiana, come sempre personale e poco inquadrabile.
Si tratta forse del disco più jazzistico di Zappa, non così facile da apprezzare per un appassionato di rock, ma quella era l’epoca in cui il jazz-rock non solo dominava tra le tendenze musicali d’avanguardia ma vi era anche una forte apertura nei suoi confronti. Gruppi come Nucleus, Soft Machine e magari anche Colosseum, sia pure in un versante più legato al blues, hanno conosciuto in quel momento la loro era più creativa e ricevuto anche un buon supporto dalla stampa specializzata, essenziale ai fini dell’esplorazione da parte del pubblico.
E quello era solo il versante inglese, che idealmente partiva dal rock alla definizione del nuovo genere, quantomeno a livello di produzione e di etichette discografiche. C’era poi quello americano dalla traiettoria che andava invece in senso opposto. Zappa si differenziò dall’usuale anche in questo.
All’epoca i dischi o li compravi o li compravi, non c’erano alternative: anche la categoria dei registratori a cassette avrebbe avuto la sua grande espansione in una fase successiva. La funzione della critica pertanto era fondamentale. Per un appassionato di rock com’ero allora, alle prime armi ma già in rotta di collisione con le sue forme più dure, l’apprezzamento per la deriva jazzistica fu quasi istintivo. Il jazz rock mi piaceva, era del resto il genere più innovativo del momento, e mi piace tuttora: ne apprezzavo le prerogative a livello ritmico e dei solisti, le soluzioni stilistiche le modalità di costruzione dei brani e anche la sonorità. In particolare quella del piano Fender che del genere era lo strumento principe, insieme a sassofono e tromba, non di rado elettrificati.
Quindi il primo disco di Zappa che acquistai entrò nelle mie preferenze senza colpo ferire. Trovai viceversa difficoltà col successivo, “The Grand Wazoo”, malgrado sia stato tra i più iconici dell’intera discografia zappiana. In particolare non riuscivo a entrare in sintonia con la parte iniziale della prima facciata, mentre la seconda mi piacque da subito. Dopo qualche tempo presi confidenza anche col resto dell’album, diventando così un habitué della musica di Zappa, malgrado il mio incontro con essa sia avvenuto con quella che potrebbe esserne ritenuta la parte più difficile. Tant’è vero che qualche tempo dopo “One Size Fits All” venne da me inizialmente rifiutato. Lo sentivo da un lato “troppo rockettaro” in alcuni brani, mentre dall’altro vi trovavo la reiterazione di alcune soluzioni sperimentate negli album precedenti. Allora era così: il laboratorio stilistico e formale della musica rock maggiormente votata alla ricerca era tale nel suo progredire rapido e incessante, e nella sua ispirazione e creatività, da indurre sentimenti siffatti. Oggi cose del genere sembrano inverosimili nel ripetersi esasperato fin oltre la consunzione di qualsiasi forma dimostri di poter assurgere a qualche successo di vendite. Le cose andavano in quel modo anche per via della disponibilità pressoché infinita di musica “nuova” e di spessore adeguato anche per un palato alquanto esigente. Naturalmente “One Size Fits All” l’ho poi rivalutato, come in effetti merita.

Influenze
Riguardo a Zappa si parla sempre dei suoi legami nei confronti della musica “colta”, quella di Varése, Stravinskij, Ives e Webern, tra gli altri. Mai invece della sua passione giovanile per il doo-wop, forse perché non è ugualmente figo da scriversi in un articolo.
Una parte consistente della sua produzione musicale ne è fortemente influenzata: stiamo parlando di quella delle canzoncine, che poi sono tali solo in apparenza e Zappa ha disseminato ad arte in molti dei suoi dischi. Anche i più ostici, come “Uncle Meat” o “Weasels Ripped My Flesh”. Il primo tra l’altro concorre al trofeo per la copertina più inguardabile di tutti i tempi, il secondo per la più pazzesca.

Già, le copertine: quelle dei dischi di Zappa sono una degna anticipazione della musica contenuta nel disco che si trova al loro interno. Meriterebbero non uno ma una serie di articoli per il loro commento critico, dato che costituivano proprio una sorta di sfida. Non so fin quanto si sia lontani dal vero nell’ipotizzare che Zappa volesse mettere alla prova l’ascoltatore potenziale della sua musica, in modo non diverso da quel che faceva nel rapporto coi suoi simili, soprattutto in gioventù. Per altri versi si potrebbe ritenere che per quel tramite volesse allontanare chiunque non fosse in grado di misurarsi con la loro provocatoria follia e quindi non fosse disponibile all’azzardo stante nell’acquistare un album la cui esteriorità andava tanto al di là del senso comune del visualmente accettabile.

Da “Absolutely free” in poi, suo secondo disco, fino a “Chunga’s Revenge” sono quanto di più inverosimile e di contrario al senso comune si potesse concepire, laddove la copertina era vista proprio come il mezzo per veicolare i contenuti musicali dell’album cui faceva da involucro. Da lì si passa a un minimalismo altrettanto esasperato, come quello del già menzionato “Live at Fillmore East 1971, che ha una copertina bianca con il titolo vergato a matita. In seguito la provocazione riprende, ma senza più la ricerca esasperata del brutto come possibile risposta al decadentismo estetizzante e alla banalità stereotipata di troppa parte delle immagini utilizzate dall’industria discografica. Sola eccezione, la triade dei dischi che la Reprise impose quasi come un ricatto per liberarlo dal contratto che lo teneva legato (“Studio tan”, Sleep dirt”, Orchestral favorites”), affinché potessero costituirsi infine la Zappa Records e la Barkin’ Pumpkin che hanno pubblicato i dischi dell’ultimo decennio di attività del musicista. Non erano più figlie della lucida follia zappiana o comunque legate al suo entourage, ma erano nello stile tipico del loro disegnatore, Gary Panter.

Dicevamo delle pseudo-canzoncine: in “Uncle meat” ce n’è una rappresentanza piuttosto ampia: “Dog breath, in the year of the plague”, in particolare dal minuto 1:05, “Sleeping in a jar”, “Electric aunt Jemima”, “Cruisin’ for burgers” e “The air”.
In “Weasels ripped my flesh” ci sono “Oh, no” e “Toads of the short forest”, quantomeno nella sua parte inziale. Si tratta di uno dei dischi più difficili dell’intera discografia zappiana, malgrado contenga brani d’ascolto gratificante come “My guitar wants to kill your mama”, “Direct from my heart to you”, “The Eric Dolphy memorial barbecue” e “The Orange County lumber truck”.
Forse, e dico forse, quei brani per gli ascoltatori di un certo tipo potrebbero essere la porta d’ingresso più facile da varcare per inoltrarsi nella musica di Zappa. Anche se quanti non apprezzano l’orecchiabilità potrebbero essere motivo di repulsione, nell’ambivalenza che costituisce la chiave creativa di questa sezione del repertorio zappiano, laddove la facilità apparente fa uno sberleffo al voler piacere a ogni costo tipico della musica leggera.
Di esempi simili se ne trovano un po’ ovunque nei suoi album: da “Lemme take you to the beach” di “Studio Tan” e “Big leg Emma” di Zappa in New York”, a “Sharleena” di “Chunga’s revenge”. In quest’ultimo album c’è anche uno dei capolavori assoluti di Zappa, “Twenty small cigars”, emblematico anche degli influssi che il jazz ha avuto sulla sua musica, al di là degli album dal legame più evidente con quel genere musicale. Lo stesso brano è stato eseguito in seguito su “King kong”, album intestato a Jean Luc Ponty in cui sono eseguiti esclusivamente brani di Zappa e va inserito a pieno titolo nella discografia zappiana, anche se ufficialmente non ne farebbe parte.

In “Chunga’s Revenge” inoltre, nel brano che dà il titolo all’album, a parer mio si percepisce meglio il senso più intimo dei “settanta ruggenti”: allora i suoni non erano preconfezionati come oggi e neppure c’era la scelta sconfinata tra di essi che alla fin fine è come la TV digitale: offerta sconfinata di canali da cui a parte differenze puramente di facciata si trasmette sempre la stessa poltiglia atta al lavaggio del cervello, oltretutto a pagamento.
Allora chi voleva un suono diverso dal solito se lo doveva costruire, proprio a livello materiale, e la necessità dei musicisti era costretta a misurarsi con quel poco che esisteva. Di conseguenza via all’elettrificazione di ogni strumento: nel brano in questione si può ascoltare un sassofono dalla sonorità molto particolare, ottenuta appunto per mezzo di un pick up, tramite principe per l’elettrificazione di un qualsiasi strumento. Il segnale che ne fuoriusciva veniva passato poi attraverso wah-wah e distorsori vari, ottenendo effetti di grande personalità, nulla a che vedere coi suoni ridotti in formaggini e omogeneizzati dei decenni successivi.
Per quelli basta spingere il bottone giusto, ma la differenza è abissale e si sente tutta.
Un’altra possibilità per chi voglia iniziare a conoscere la musica di Zappa con un album non troppo impegnativo ma sicuramente gradevole è “Joe’s garage“, in particolare il primo atto, a suo tempo pubblicato su LP singolo, cui fece seguito poco dopo il doppio con gli atti 2 e 3. Si tratta di un disco molto vario, che annovera quasi solo brani cantati, con l’unica difficoltà stante nella voce fuori campo del Central Scrutinizer, che introduce e commenta di brano in brano le avventure di Joe.

Musicalmente il Central Scrutinizer è stato poco apprezzato dalla critica e dal pubblico, almeno in parte, con qualche ragione. Tuttavia a livello concettuale testimonia la capacità di guardare lontano di Zappa, secondo attitudini fin quasi profetiche. Il suo compito era quello di “far rispettare le leggi non ancora approvate”: difficile non vedere gli addentellati con la realtà attuale, mentre le note di copertina parlano di una realtà in cui la musica sarebbe stata vietata. Allora sembrò un’enormità, sparata forse per il gusto di stupire, oggi ci ritroviamo il divieto dell’esecuzione di musica dal vivo, oltreché del resto delle espressioni artistiche.
Altre due possibilità sul versante meno impegnativo sono date da “Over-nite Sensation” e da “Apostrophe”, con quest’ultimo che se non sbaglio, tra gli album ha avuto il maggior successo a livello di vendite. In ciascuno dei due si trova un saggio tra i più espliciti della composizione e dell’esecuzione della musica di Zappa. Stiamo parlando di “Zombie woof” e di “St. Alfonzo pancake breakfast/Father O’blivion”, brani dalla complessità vertiginosa e dai cambi di tempo impossibili già da seguire, figuriamoci da eseguire, che hanno messo alla prova più dura le capacità dei musicisti chiamati alla loro registrazione. Conservano tuttavia una ragguardevole gradevolezza d’ascolto che si tramuta in meraviglia quando ci si rende conto del complicato gioco d’incastri ritmico e solistico su cui si basano. Il secondo in particolare, oltre al resto, contempla un solo all’unisono di tastiere e vibrafono, affidati nell’ordine a George Duke e Ruth Underwood, spinto realmente ai limiti, sia pure di virtuosi di quel calibro.

Il primo dei due album appena menzionati comprende inoltre “Montana” cavallo di battaglia di tutte o quasi le esibizioni dal vivo di Zappa, e “I’m the slime”, compendio della degenerazione raggiunta dalla propaganda televisiva e dalle sue facce di bronzo, riassunta da un’immagine che da qualche tempo è tornata a nuova notorietà.

In “Apostrophe” c’è poi il brano che dà il titolo all’album e vede tra gli esecutori addirittura Jack Bruce, con un basso elettrico pesantemente distorto dall’incedere travolgente che assume funzioni di solista, su cui s’innesta poi il solo di Zappa.
Zappa dalla porta principale
Se si desidera entrare in contatto con la musica zappiana partendo dai suoi dischi più significativi, si può fare riferimento a diversi tra quelli già menzionati. “Waka/Jawaka”, “The Grand Wazoo”, “King Kong” e il famosissimo “Hot Rats” sul versante jazzistico, con quest’ultimo che annovera Zappa tra i precursori della fusione tra jazz e rock, sullo stesso piano artistico e temporale dei padri più acclamati del genere come Miles Davis e Donald Byrd, se non addirittura in anticipo.
Avevo già ammirato la presenza magnetica di Frank sul palco, ma solo dopo aver visto numerose jam session a casa nostra capii che sapeva essere un chitarrista unico. Fu evidente durante la session migliore, la più lunga, che ebbe luogo quando Sugarcane Harris ci fece una visita a sorpresa. Si unì a Captain Beefheart e a due della sua band, Jack e Arthur, oltre a Frank e a tre delle Mothers, Ian, Artie e Don Preston. Suonarono sette ore di blues, rock’n’roll, doo-wop e jazz travolgente e vibrante. Frank era di buonumore come non mai e si scatenò alla chitarra, mentre il Capitano suonava degli assolo di armonica incandescenti, e ululava e gridava con la sua voce baritonale. Il resto dei ragazzi dovevano aver sentito a loro volta il suo entusiasmo, e fecero degli assolo superlativi, che non volevo finissero mai. Quei ritmi martellanti mi facevano venire la pelle d’oca. Don, alle tastiere, si lasciava andare a momenti di jazz elettrizzante, muovendo la testa come se stesse guardando una partita di tennis a doppia velocità; Ian passava in continuazione dal sassofono al piano o al clarinetto, suonando la sua musica dolce e stridula; le bacchette di Art picchiavano tanto veloci da sembrare invisibili. La vera sorpresa fu Sugarcane, che col suo violino riempì lo scantinato di una musica carica di intensità quasi religiosa: febbrile, appassionata, frenetica. La cosa più esaltante era stare vicino a Frank mentre creava degli assolo dieci volte più lunghi di quelli che suonava sul palco. Altro che Eric Clapton. Da pochi metri di distanza, osservavo le dita di Frank che volavano su e giù sul manico della chitarra, facendo vibrare le corde, mentre il suo corpo ondeggiava per seguire il ritmo. Aveva gli occhi chiusi, e si lasciava andare a quel suono inebriante. Di tanto in tanto, un sorriso gli attraversava il volto, e annuiva felice agli altri. Per quanto una jam session, per definizione, non abbia un leader, Frank riusciva comunque a dirigere le operazioni. Nei momenti più tranquilli, tornava a occuparsi dell’accompagnamento. Arrivò Motorhead, che aggiunse al tutto il tamburello e scariche di sassofono, e perfino Dick venne coinvolto, col compito di grugnire e grufolare seguendo i cenni di Frank. L’intera cacofonia venne catturata dal registratore Uher di Frank, appoggiato su una sedia. A volte venivano Gail, Moon e Christina con qualche amica, si sedevano sul pavimento e guardavano meravigliate, ipnotizzate proprio come me. Alle dieci arrivò l’ora del coprifuoco. Si fermarono di botto, del tutto sfiniti. L’aria era satura di fumo e sudore, il pavimento pieno di mozziconi di sigaretta e lattine vuote di birra. Si erano tolti tutti la maglietta, a eccezione del Capitano, che indossava ancora la sua camicia a maniche lunghe e il cilindro, e che usò un fazzoletto sudicio per asciugarsi la fronte fradicia. Rimasero tra i loro strumenti, incapaci di andarsene, si diedero delle pacche sulle spalle e si strinsero le mani con foga. Era successo qualcosa di speciale.
Butcher, Pauline. Freak out! La mia vita con Frank Zappa Arcana Ed.
La testimonianza qui riportata si riferisce alle session che hanno dato vita a “Hot rats”.

In “King kong” inoltre si può valutare nel modo più adeguato la vicinanza della musica zappiana alla classica, in particolare in “Music for violin and low budget orchestra”.
“Roxy and elsewhere” mostra anch’esso il connotato jazzistico, virato però su un versante più funky, grazie alla formazione che ha accompagnato stabilmente Zappa nella prima metà degli anni 70 e dopo la quale nulla sarebbe stato più lo stesso. Stiamo parlando di Napoleon Murphy Brock voce e sax, Ruth Underwood vibrafono, marimba e percussioni, i fratelli Fowler, Tom al basso, Bruce al trombone e a volte Walt alla tromba, Chester Thompson e Ralph Humprey alla batteria, non di rado insieme, con effetto che a me piace in modo particolare, ma soprattutto George Duke a piano Fender, Mini Moog e tastiere varie. Compositore e jazzista di talento, raffinatezza e doti solistiche oltre l’eccellenza, baciato dagli dei dell’armonia.

Per le sue formazioni successive Zappa ebbe stabilmente due tastieristi. Gente con gli attributi fumanti, del calibro di Tom Mars e Bobby Martin. Di loro tutto si poteva dire tranne che fossero gli ultimi arrivati. Eppure messi insieme non riuscivano a fare mezzo George Duke.
Non è questione del numero delle note che si suonano o dello spessore del tappeto sul quale i solisti possono appoggiarsi comodamente nelle loro evoluzioni, ma delle note che si prendono, del come, del loro posizionamento sulla scansione ritmica, degl’intervalli tra l’una e l’altra e dell’intenzione con cui le si suona. Gli assoli di Duke spiegano tutto questo meglio di qualsiasi parola. Del resto, come diceva Miles Davis, la musica parla per sè stessa. Due tra i migliori sono quelli eseguiti in “Don’t you ever wash that thing” e in “Inca roads”. In “Don’t you ever…”, a partire dal minuto 4:10 sono settanta secondi di godimento assoluto, con un tiro e un feeling senza uguali. E’ un assolo che andrebbe studiato in ogni scuola di musica nella lezione intitolata “Come si suona il piano (Fender)”.
Fa seguito a un solo di trombone altrettanto trascinante, eseguito da Bruce Fowler.
L’assolo di Duke in “Inca roads” è altrettanto avvincente, ulteriore esempio delle capacità di alcuni musicisti di di spingersi al di là di ogni schema o partitura. Roba del genere non si può scrivere, esce mentre si suona.
Con la formazione menzionata, Zappa si è presentato alla sua seconda tournèe italiana, nel 1974, mentre alla prima dell’anno precedente era accompagnato tra gli altri da Jean Luc Ponty al violino e Ian Underwood sax, flauto e tastiere.
Personalmente ho avuto la fortuna di assistere a entrambi i concerti romani, tenutisi al palasport. Ve ne sarebbe stato anche un terzo, nel 1982, al quale ovviamente non sarei potuto mancare. Si tenne nell’area dell’ex mattatoio, in condizioni disastrose, quantomeno per il pubblico. Le carenze a livello organizzativo, di stampo prettamente dilettantistico, furono la costante dell’intera tournée. Le vicissitudini furono tali che Zappa le volle riassumere nella copertina dell’album “The man from Utopia”, tramite la matita di Tanino Liberatore che disegnò Zappa con le sembianze del suo eroe del futuribile distopico, Ranxerox.

Alcuni episodi di quella tournèe sono riportati in “1982: l’estate di Frank”, documentario girato in occasione della visita della famiglia Zappa a Partinico, città natale del padre del chitarrista, da cui emigrò per l’America. Si tratta di una testimonianza per molti versi commovente, in cui Massimo Bassoli, quello di “Tengo ‘na minchia tanta”, brano presente nella riedizione su doppio CD di “Uncle meat”, e braccio destro di Frank nella tournèe, rievoca i fatti salienti di quell’estate e fa da accompagnatore agli Zappa nell’escursione siciliana.
La documentazione video dei concerti del Roxy, quelli da cui è stato tratto “Roxy and elsewhere” è stata pubblicata in “Roxy: the movie, 1973”, la cui visione è irrinunciabile per qualsiasi appassionato della musica di Zappa.
Un altro video interessante è “The dub room special”, in cui compare di nuovo Massimo Bassoli, nella sua performance con un pollo di gomma. Nel video è ripreso anche uno spezzone di “Approximate”, culmine della complessità della composizione zappiana, che personalmente valuto oltre “The black page” e vale da solo il prezzo del biglietto. In quel brano siamo ai livelli tipici del “cose che voi umani non potete immaginare”.
Con la stessa formazione del Roxy, Zappa ha dato alle stampe “One size fits all” e”Bongo fury”, registrato dal vivo con la partecipazione di Captain Beefheart.

I rockettari più duri, specie del versante vicino alla new wave, possono trovare la loro porta d’accesso in “Zoot allures”, primo album dopo la dismissione della formazione “Roxy”, cui ne subentrò una più scarna, con Terry Bozzio alla batteria e Patrick O’ Hearn al basso elettrico. Della scaletta fa parte la leggendaria “Black Napkins”, brano in cui Zappa suona la chitarra in una forma tra le più ispirate in assoluto.
Eddie Jobson e O’ Hearn sono ritratti sulla copertina del disco, senza però che vi abbiano preso parte.
La parte successiva della carriera di Zappa, a parte il già menzionato “Joe’s Garage, non è stata particolarmente memorabile. A parte il doppio “Sheik Yerbouti”, legato soprattutto alla forma canzone e quindi indicato per quanti apprezzino il genere, almeno sul versante rock ci sono stati soltanto alcuni episodi. Dopo la tourneèe del 1982, Zappa rimase quattro anni senza suonare dal vivo, ma se possibile la successiva andò ancora peggio, dato che una specie di lotta intestina tra i membri del gruppo lo spinse a interrompere la serie dei concerti, con una remissione valutata intorno a 400.000 dollari dell’epoca.

L’episodio lo portò a smettere di suonare la chitarra. Già nella fase precedente si era dedicato soprattutto al Synclavier, uno tra i primi sintetizzatori digitali, dal costo spropositato che lui fu tra i pochissimi a potersi e volersi permettere. Gli rese possibile di arrivare alla libertà desiderata, senza dover dipendere da altri musicisti, oltre a poter ampliare l’estensione degli strumenti che emulava. I risultati tuttavia non furono esaltanti proprio dal punto di vista dei suoni, decisamente noiosi, mettendo da parte l’aspetto compositivo.
Del periodo finale nella carriera di Zappa, meritano senz’altro la menzione i lavori più vicini alla musica classica, come “London Symphony Orchestra”, doppio CD che vede la direzione d’orchestra affidata a Kent Nagano, e “The Yellow Shark” con l’Ensemble Modern. Nello stesso filone c’è inoltre “The perfect stranger”, in cui la musica di Zappa è diretta da Pierre Boulez. Al versante classico si può attribuire anche “Burnt weeny sandwich”, in particolare nella sua prima facciata.

Gli altri album di quel periodo, per quanto abbiano i loro estimatori, non mi sembrano così degni di menzione.
C’è poi la parte dal vivo della musica di Zappa, che per buona parte venne suddivisa qua e là nei diversi album. Già detto di “Roxy and elsewhere”, vanno di sicuro menzionati “The best band you never heard” e “Make a jazz noise here”, che riportano le esecuzioni della famigerata ultima tournèe, sia pure in una forma alquanto riaggiustata.

Da perfezionista qual era, Zappa amava sezionare e riassemblare i passaggi che riteneva più validi, anche a partire da esecuzioni diverse, secondo una tecnica da lui inventata e senza nemmeno bisogno di dirlo, dalla complessità realizzativa ai limiti dell’impossibile. Arrivò al punto di estrarre due sole battute, per montarle su quella che nel suo modo di vedere le cose sarebbe stata l’esecuzione ideale del brano su cui stava lavorando.
Il nocciolo duro delle esibizioni di Zappa dal vivo, in pratica lungo tutto il corso della sua carriera, è raccolto negli album intitolati “You can’t do that on stage anymore”, pubblicati in una serie di 6 doppi CD, più un sampler. Di essi solo il sampler e i primi due vennero stampati su vinile, triplo.

La musica di Zappa è stata reinterpretata numerose volte, malgrado la sua grande complessità e la difficoltà d’esecuzione per chi non sia un musicista di prim’ordine.
Ci limitiamo solo a qualche segnalazione: l’Ensemble Ambrosius ha realizzato “The Zappa album”, eseguito con soli strumenti acustici. La big band di Ed Palermo ha dato alle stampe un paio di doppi CD: “Plays the music of Frank Zappa” e “Oh no, not jazz”. Da segnalare poi l’album dell’italiana Tankio Band del pianista Riccardo Fassi, intitolato anch’esso “Plays the music of Frank Zappa”, nel quale spicca tra il resto un’eccellente versione di “Let’s make the water turn black”.
Una menzione è dovuta infine alle riesecuzioni di Dweezil Zappa, il secondogenito di Frank, anche lui chitarrista, che ha dato alle stampe alcuni dischi e compiuto alcune tournèe comprendenti tappe italiane, con gruppi formati da vari membri delle band originali che furono assemblate dal padre. Alcune date dovrebbero essere organizzate per il prossimo anno, anche qui da noi.
Con il suo puntiglio, Zappa ha accumulato e messo da parte una quantità incalcolabile di registrazioni, stipate nella cosiddetta Vault, il sotterraneo della sua abitazione-studio. Di tanto in tanto ne vengono estratti gli episodi di maggior interesse, che vanno a rendere fin quasi sterminata una discografia già particolarmente corposa nei suoi titoli ufficiali.
Non possono mancare dei libri: almeno l’autobiografia ufficiale scritta con Peter Occhiogrosso e quella di Barry Miles, non molto accondiscendente con i diversi lati umani del musicista, nonchè venata dal sottile e malcelato razzismo anglosassone nei confronti di chi ha origini latine.
Terminiamo qui, non prima di aver inviato un saluto nostalgico allo “zio Frank”, che di lassù ci starà guardando mentre ride sotto i baffi e osserva che il suo motto più noto, “l’elemento più diffuso nell’universo non è l’idrogeno ma la stupidità” trova sempre nuova e puntuale conferma nel mondo di cui ha messo in mostra le contraddizioni e le piccinerie come nessun altro, non solo nel suo campo.
P.S.
Qui di seguito un modestissimo omaggio alla sua arte musicale, un personale “Il meglio di Frank Zappa”
Twenty small cigars (da King kong)
Echidna’s arf for you/Don’t you ever wash that thing
St. Alphonzo pancake breakfast/Father O’blivion
Ciao Claudio. Un GRAZIE grande come un “dirigibile” (!) anche da parte mia. Questo articolo, una monografia, praticamente, sulla produzione di questo Artista a me pure misconosciuto finora (cioè l’avevo sentito nominare ma mai ascoltato) è stata di sprone a “sperimentare”. Così, per non sapere né leggere né scrivere, mi son messo ad ascoltare (la blasfemia è imminente, tieniti forte) da Amazon Music (bestemmia numero uno!) e utilizzando il bluetooth dello smartphone per ascoltare dall’impianto audio “di serie” della mia vettura (bestemmia numero due!) l’unico album che lì vi ho trovato: “Apostrophe”. Ebbene, superato lo smarrimento dei primi 30 secondi (non di più, ma grazie soprattutto alla tua sopra citata monografia, che mi ha per così dire”preparato” all’ascolto) lo stupore e il godimento hanno insieme preso il sopravvento. Non so se ero più stupito del godimento o goduto dello stupore. Le due cose insieme, presumo. Lo approfondirò. Eccome se lo farò. Dopo l’ascolto di questo primo (per me) album, la “cosa” è diventata INELUDIBILE! Credo che chi ne abbia voglia possa rintracciare nel caleidoscopio musicale del Frank suggestioni e rimembranze le più svariate. Ed è un gioco di rimandi a cose già conosciute affiancato ad altre che possono invece rappresentare terreno di esplorazione dell’ignoto (per l’intemerato che ci si sta avventurando per la prima volta). Personalmente mi sono venute in mente tre cose in certi passaggi di alcuni brani (non so quali e in quale punto, perché ho ascoltato una sola volta l’album in auto mentre stavo alla guida e dunque non ho “focalizzato” i punti esatti). Da Jesus Christ Supertar al Rick Wakeman di “No Earthly Connection” al David Bowie di fine anni 80… Il TRIP è iniziato. Grazie Claudio.
P.s.: dovresti farti “editore” e pubblicare una vera e propria rivista. Passione Audio sarebbe perfetto come titolo. Augh!
Ciao Fabrizio,
grazie dell’attenzione dell’apprezzamento.
L’essere riuscito a destare la curiosità di qualcuno nei confronti della musica di Zappa e averlo spinto ad ascoltarla mi fa grande piacere.
Il dispendio di tempo ed energie necessario a mettere in linea articoli come questo è grande: sapere che c’è chi apprezza e soprattutto che servano a qualcosa è di conforto ancora maggiore.
Si, sarebbe bello mettere su una rivista come quella che suggerisci. Purtroppo costi e meccanismi dell’editoria da un lato, e la ricettività del pubblico potenziale dall’altro sono quelli che sono. Il loro combinato disposto temo che avrebbe come prima conseguenza il ridurre gli spazi di libertà redazionale e la possibilità di toccare argomenti potenzialmente scomodi.
Ancora più difficile sarebbe reperire personale adeguato e soprattutto corrispondergli un compenso almeno dignitoso, Innanzitutto per chi si avvale del suo impegno.
Il pubblico infine è abituato all’accesso gratuito ai contenuti, per quanto siano di grande povertà. Si tratta in effetti di pubblicità mascherata, oltretutto di livello infimo. Non solo sembra non accorgersene, ma al momento opportuno finisce addirittura con lo scimmiottarne i tratti peggiori, con esiti che non saprei se definire più grotteschi o surreali, ma in ogni caso preoccupanti per lo stato in cui versa la consapevolezza media. Dai oggi e dai domani, abbiamo finito col ritrovarci al punto in cui non è più questione dell’esistenza o meno di un interesse nei confronti della qualità, ma della capacità di individuarla come tale e poi di comprenderne motivi d’essere e differenze.
Come ripeto spesso il capitalismo, in pasrticolare quando lo s’intende in termini di procacciamento e accumulazione di profitti, che esso stesso impone divengano compulsivi, non può fare altro divorare tutto quanto ha intorno. Un giorno finirà fatalmente col divorare persino sé stesso e qui ne abbiamo un ulteriore esempio.
Non ti nascondo tuttavia che anche a me piacerebbe moltissimo poter mettere in piedi un’iniziativa come quella che hai suggerito.
Grazie ancora.
Che dire ..? In questi giorni di “rintanamento” forzato , con giornate passate senza mettere nemmeno la punta del naso fuori casa (complice anche il freddo intenso) , ad ascoltare musica fin dalle prime ore del mattino, questa chicca cultural-musicale si rivela una eccellente compagnia; per me poi, che Frank Zappa non l’ho mai “frequentato” per quelle ragioni che hai ben evidenziato e nelle quali mi ritrovo ( mea culpa….) , questa lettura sarà il punto da cui partire per iniziare ad esplorare questo artista. Se fino ad ora l’ho evitato é perché l’ho sempre ritenuto piuttosto ostico , proprio come accennavi nel tuo scritto; del resto il mondo musicale é così ricco e variegato che ascoltare proprio tutto diventa difficile. Un grazie sincero Claudio, per questo ennesimo interessante articolo, che si rivela anche un ottimo antidoto (almeno per me..) contro questi periodi pesanti e poco sereni . Viscardo , Torino.
Ciao Viscardo, ben trovato.
Come ho scritto, ho sempre apprezzato moltissimo Zappa. Era da tanto che avevo per la testa di scrivere un articolo al riguardo, proprio per facilitare il suo avvicinamento da parte di chi invece ha difficoltà anei suoi confronti e potrebbe trovare nuovi spazi di esplorazione nell’opera di un artista unico e inimitabile quale è stato.
Magari puoi cominciare proprio dai link che ho allegato a fine articolo.
Grazie a te per l’apprezzamento e la considerazione.