Riedizioni, remaster e tracce alternative

Tra messa in liquidazione della musica, con il fenomeno conseguente della somministrazione di file audio da remoto, carenza ormai cronica di materiale non dico valido ma almeno degno di essere ascoltato, invecchiamento degli artisti di vero spessore e conseguente rarefarsi delle loro pubblicazioni, quando va bene, il comparto discografico sembra sempre più lontano dai suoi giorni migliori.

In buona sostanza arranca tra riedizioni, sovente ennesime, cofanetti speciali, talvolta belli e ben curati, in quanto composti da materiale interessante a livello iconografico e di testimonianze scritte, ma che sembrano fatti apposta per farti ripagare a 1000 quel che un tempo era costato 1.

E magari hai ancora nella tua raccolta.

A parte casi sempre più rari, che nella stragrande maggioranza sono fenomeni da baraccone ultra-pompati dalla propaganda di settore, che ovviamente fa quello che può e così dopo un paio d’anni dal successo quantomai effimero nessuno o quasi si ricorda più di loro, anche perché non c’è assolutamente nulla da ricordare, tutta l’attività discografica attuale o quasi, ammesso che questa definizione abbia ancora un senso, si concentra su ristampe e riedizioni.

Da quando ha preso piede questa realtà, l’industria discografica sembra sentirsi in dovere di dare alle stampe edizioni rimasterizzate del materiale pubblicato per la prima volta tempo fa, poco o tanto che sia.

Addirittura, a volte si ha il remaster del remaster e forse ancora non basta.

Le cose tuttavia non sono sempre andate così. Quando il comparto discografico aveva quello analogico, su vinile o su nastro, come suo supporto d’elezione, una nuova stampa di materiale discografico già edito era destinata alle edizioni economiche, a sé stanti oppure come parti di apposite collane.

Allora avevano un loro seguito, di solito affezionato, non soltanto perché sia pure a distanza di tempo ci si poteva aggiudicare il disco a prezzo dimezzato o persino a meno, ma anche perché di solito il panorama delle ristampe comprendeva materiale già misuratosi col pubblico, con risultati consistenti, e quindi era considerato qualitativamente meritevole.

Dal punto di vista artistico, s’intende, o comunque del successo commerciale, cose che tra l’altro non sempre sono andate d’accordo o forse quasi mai. In ogni caso le etichette discografiche, evidentemente, mandavano in ristampa il materiale che ritenevano ancora in grado di riscuotere interesse. Malgrado in quel tempo il pubblico fosse distratto da un’offerta particolarmente serrata di materiale di qualità, tale che non era difficile ma quasi impossibile riuscire a star dietro a tutto il nuovo che usciva e sarebbe stato meritevole di acquisto.

Bei tempi, penserà qualcuno, e lo erano davvero. Il problema è che certe cose allora sembravano normali, quando invece non lo erano assolutamente, come avremmo purtroppo dovuto imparare in seguito, sulla nostra pelle.

Fatto sta che se oggi capita di sfogliare una rivista musicale di allora, e fatalmente si arriva alle pagine dedicate alle recensioni delle nuove uscite, generalmente si trovano verso la fine di quelle pubblicazioni, non si può che rimanere basiti dalla quantità di materiale imprescindibile che s’incontra. Ed era solo per quel mese, il successivo ce ne sarebbe stato altrettanto o forse persino di più. Talvolta magari un po’ meno, ma in ogni caso la media era elevatissima: il vero problema era quello di procurarsi il denaro necessario all’acquisto di tutto quel ben di Dio, musicalmente parlando, s’intende.

Poi un giorno arrivò il CD, formato che, va sempre tenuto a mente, era costato una montagna di denaro. Prima per la sua definizione, poi per la sua attuazione pratica e infine per l’azione di propaganda tanto serrata, e dalle modalità fino ad allora inedite, in questo settore, con la quale si ritenne necessario sostenerlo.

Sempre perché era il formato perfetto, come sistematicamente è stato descritto.

 

Genesi di un formato non desiderato da nessuno

Allo scopo si giunse persino a fondare nuove riviste specializzate, da parte di personale operante da tempo nel settore, in pratica formava l’ossatura della redazione di altre pubblicazioni note e apprezzate da tempo, ma che da un momento all’altro si ritrovarono allo sbando.

Tra le nuove arrivate, quella convinta di essere la più autorevole, in assoluto e tra tutte. Era talmente vero che c’era il bisogno di scriverlo in copertina, a caratteri cubitali, su ogni santo numero arrivato in edicola, lungo un arco temporale prolungatosi per decenni.

Inevitabilmente, allora, il supporto digitale necessitava di un rientro particolarmente sostanzioso, a livello economico. In caso contrario sarebbe andato a finire in un fiasco colossale, non soltanto a livello di macchine per la riproduzione ma anche discografico.

Questo bisognava evitarlo, a qualsiasi costo.

Specie nei suoi primi anni invece arrancò non poco. Del resto la situazione economica era già allora quella che era, anche se per moltissimi oggi sarebbe un sogno poter disporre di quel potere di acquisto, ovverosia del controvalore in beni reali della quantità di denaro spendibile in media, mese per mese.

D’altra parte il pubblico potenzialmente interessato al nuovo formato digitale era in massima parte equipaggiato già con sistemi di lettura, analogici, che si ritenevano soddisfacenti a livello qualitativo. Quindi non è che sul lato della domanda ci fosse tutta questa esigenza di passare a un nuovo supporto, per quale che fosse.

Anzi, essendo quel desiderio rimasto ben lungi dal manifestarsi, un motivo concreto non esisteva, stando almeno alle leggi di mercato.

Di esse, caso strano, quando conviene si fanno comandamenti divini. Ad esempio se si vogliono decurtare gli stipendi e mandare in pensione i lavoratori a 70 anni e oltre. Così che aumentino le probabilità che muoiano prima di poter arrivare a quel traguardo e gli enti previdenziali incamerino decenni di versamenti, dei quali un Paese realmente sovrano, ossia padrone della propria moneta, non avrebbe bisogno alcuno. In altri frangenti invece, come nella fattispecie, le si ignora con flemma olimpica.

Per di più non è che le prime dimostrazioni in pubblico avessero dato i risultati eclatanti che ci si attendevano, dopo anni del battage propagandistico asfissiante eseguito in via preventiva e con tanto anticipo rispetto alla data di effettiva immissione del digitale sul mercato. In tutta evidenza fu eseguito per preparare il pubblico al suo arrivo, così da spianargli quanto possibile la strada.

Già questo suggerisce quale importanza capitale fosse attribuita al digitale dai suoi promotori, del tutto al di là di quel che sarebbe ritenuto congruo per un banale formato discografico, sia pure nuovo, ed eventualmente per le macchine destinate a utilizzarlo.

Il responso che diedero tali dimostrazioni, eseguite presso le fiere di settore, nella percezione della stragrande maggioranza degli appassionati, è che volendo continuare a godere di un livello di qualità sonora adeguato, sarebbe stato prudente continuare a servirsi dell’analogico per un buon numero di anni ancora.

Nell’attesa che quel lasso di tempo si rivelasse sufficiente a far si che il digitale potesse infine trovare il modo di esprimere il suo potenziale, già descritto come il non plus ultra dalla stampa di settore, in tutte le declinazioni possibili e immaginabili. Ma che, all’atto pratico, non c’era verso che riuscisse a palesarsi.

Causa prima, la testardaggine incrollabile della realtà, contro la quale proprio a partire da quel periodo è stata mossa una guerra senza quartiere che non solo non accenna ad affievolirsi, ma sembra addirittura sul punto di essere vinta.

Quantomeno riguardo alla percezione di una parte sempre più significativa di individui nei confronti di tutto quanto li circonda, mano a mano che il ricambio generazionale prosegue nella sua azione.

Dunque nei suoi effetti, salvifici per taluni.

 

Dal lato dell’offerta

Ben più pressante era invece la spinta sul lato dell’offerta, sorretta da una propaganda portata a livelli spasmodici e come abbiamo visto del tutto inediti, nonché mai più ripetutisi in seguito per un semplice supporto discografico.

Non ci fu un solo trucco, o pretesto, che non venne messo in campo a tal fine.

Che bisogno c’era di tutto questo, se il formato digitale era davvero perfetto per antonomasia o almeno così lo si voleva imporre?

Come abbiamo visto, invece, al momento dell’esordio il digitale non poté che rivelarsi molto lontano dai traguardi di qualità sonora assoluta che si era fatto di tutto per far credere fossero non alla sua portata ma già pienamente conseguiti.

E’ evidente inoltre che se il pubblico dovette attendere il suo lancio commerciale, ovvero le prime dimostrazioni sul campo per comprenderne le lacune, peraltro grossolane, tra quanti si dedicarono alla definizione e allo sviluppo di quel formato quei problemi non potevano che essere già noti.

E’ vero che tra i tecnici il tasso di non ricettività degli stimoli rilevati a mezzo del sistema uditivo, da parte dell’organo adibito alla loro decodifica e valutazione è il più elevato in assoluto, e di gran lunga, tra tutte le fasce della popolazione, ma per non accorgersi di magagne tanto gravi sarebbe occorsa una chiusura totale. Che pure non è da escludere completamente.

Ecco una possibile chiave di lettura per il famoso sgambetto che Sony giocò a Philips proprio a ridosso della data fissata per l’esordio ufficiale del nuovo sistema. Con quello che venne definito colpo di mano, il marchio giapponese ruppe gli accordi siglati in precedenza e i protocolli tecnici, presentando macchine operanti a 16 bit, quando invece era deciso che il formato si sarebbe basato su soli 14.

Così Philips, per non ritrovarsi fuori gioco, dovette modificare in fretta e furia le macchine a 14 bit che aveva già in magazzino, pronte per il lancio e la successiva commercializzazione, dotandole di un secondo convertitore D/A e di un sistema di sovracampionamento 2X. All’epoca si disse che in quel modo non riuscì solo a parare il colpo ma anche a sopravanzare il prodotto di quello che era stato fino a poco prima il sodale ai fini della realizzazione del nuovo formato, ma era diventato il nemico più odiato. A livello tecnico e commerciale, s’intende.

Perché allora incaponirsi a tal punto, per imporre a ogni costo un formato che nessuno si era sognato di richiedere, appunto dal lato della domanda, e che tra l’altro aveva dimostrato di essere gravato da problemi enormi?

Per essere risolti, almeno in parte, ma senza mai riuscire ad arrivare al punto in cui il digitale sia riuscito a dimostrarsi incontrovertibilmente superiore a quel che lo ha preceduto, il cui nucleo funzionale risale nientemeno che alla seconda metà del milleottocento, avrebbe necessitato di decenni di continue iniezioni tecnologiche. Sono state tali da non aver lasciato in pace neppure un giorno i malcapitati che ebbero la cattiva idea di dare fiducia a quel formato.

Al riguardo c’è poi un altro aspetto che merita di essere considerato.

Come sappiamo fin troppo bene, l’industria operante entro l’ordinamento capitalista ha il suo primo comandamento nella produzione del profitto. Che deve essere massimo e ottenuto con lo  sforzo minimo.

Ecco perché storicamente ha sempre puntato a investire il meno possibile nella ricerca, proprio nella consapevolezza che più essa avanza, linearmente, e più i suoi costi aumentano, con progressione geometrica, andando a influire com’è  inevitabile sui costi del prodotto finito.

Per questo motivo i suoi incrementi di competitività li ha sempre ricercati nella compressione dei costi, a mezzo di economie di scala e produzione in serie sempre più larga, e ancor più dei salari.

Spingendo in maniera sempre più esasperata su tali elementi, in funzione della competitività che era necessario mantenere, si è arrivati a un punto in cui era obiettivamente difficile andare oltre. Così da rendere necessaria, nell’assenza di una profonda revisione del paradigma di fondo, che nessuno ha avuto il coraggio e tantomeno l’interesse di affrontare, la cosiddetta globalizzazione.

In particolare nel modo in cui la si è intesa nella sua prima fase, ossia come spostamento dei siti produttivi nei Paesi del terzo, quarto e quinto mondo, ove i costi della manodopera e di tutto il resto erano pressoché a zero. Così da abbattere il costo unitario del prodotto finito per poi rivenderlo ai prezzi e coi margini del mercato occidentale, moltiplicando per mille il profitto ottenibile per mezzo di qualsiasi altra soluzione.

I problemi enormi causati da scelte del genere li conosciamo da tempo e sono pressoché irrisolvibili. La loro soluzione, inconfessabile anche se si lavora ad essa da molto tempo con una molteplicità di strumenti, è un drastico sfoltimento delle popolazioni che vivono nell’occidente.

Dunque vediamo: il mercato non lo richiedeva, la musica e i suoi appassionati non ne avevano bisogno alcuno, a livello economico e commerciale non vi era proprio ragione per imbarcarsi in un’impresa dai costi enormi e dai risultati tecnici e commerciali di simile incertezza, tale che i due giganti mondiali dell’elettronica, riunti in consorzio, ne sono usciti pesantemente ridimensionati, o meglio ancora schiantati. Al punto di trovarsi costretti a uscire entrambi dal settore: Philips dal gigante che era è ridotto a un marchio di televisori e ferri da stiro, prodotti chissà dove e da chi. Sony si è salvato, pro tempore, solo con un colpo di reni che l’ha portato a riciclarsi nel settore della fotografia, dietro acquisizione di alcuni tra i marchi storici in esso attivi.

Proprio nel momento in cui il passaggio al digitale anche in tale ambito ha avuto costi tali da metterli di fronte alla vendita o alla chiusura.

A livello tecnico peggio ancora, dato che il digitale non funzionava e non ha mai funzionato per come avrebbe dovuto, tanto che l’analogico è ancora lì a contendergli il primato assoluto, sotto l’aspetto della qualità sonora.

Dunque a cosa serviva? Perché lo si è voluto imporre con ogni mezzo possibile e immaginabile?

La logica e l’esperienza suggeriscono che quando una cosa non serve allo scopo cui sembra destinata, servirà molto probabilmente a qualcos’altro.

Questa considerazione ci aiuta a intravvedere quello che ha ottime probabilità di essere il vero compito attribuito al CD dai suoi artefici o meglio da chi stabiliva le loro mosse.

Non riguardava affatto il rivoluzionare le modalità di diffusione e fruizione della musica riprodotta, cosa della quale come abbiamo visto non vi era bisogno né richiesta e men che meno vi era così portato, come dimostrano i risultati concreti che ha ottenuto.

Si sarebbe anzi guadagnato molto più continuando con l’analogico, i costi del quale era già stati assorbiti, oltretutto da parecchio e si vendeva senza alcuna difficoltà, mentre sarebbe bastato poco per risolvere il suo problema più importante, la sensibilità allo sporco.

L’obiettivo concreto dunque è stato con ogni probabilità quello di sfruttare l’elemento ludico e passionale insito nella musica, insieme al resto degli effetti che ha su quanti l’ascoltano, per abituare il pubblico di massa al digitale e renderglielo familiare, così da avviarlo senza che se ne rendesse conto lungo la strada che infine avrebbe portato tutti noi a trovarci chiusi nella gabbia formata da identità, moneta, controllo asfissiante, da cui la conseguente abolizione del concetto stesso di democrazia, cui ormai manca poco affinché sia completata e dalla quale non sono previste vie d’uscita.

 

Quanto è lungo il lungo termine?

Al riguardo va tenuto conto che, a certi livelli, la pianificazione avviene con larghissimo anticipo, tale da non essere neppure concepibile da quello che un tempo si definiva uomo della strada. Nello stesso tempo la ricerca, specie quella destinata al comparto militare, viaggia con decenni di anticipo rispetto a quel poco di essa che infine si decide possa trapelare e poi essere diffuso a livello di società civile.

L’individuo comune pertanto, in funzione stessa dell’aspettativa di vita che si attribuisce personalmente, trova in sostanza privo di senso pianificare quel che farà o che avverrà quando sarà molto anziano e magari passato a miglior vita.

Colà dove si puote, invece, si “ragiona” in maniera del tutto differente. A questo proposito si consideri che molte tra le tematiche più in voga, nella gestione zootecnica della massa degli individui oggi al mondo, le si è stabilite nelle riunioni del Club di Roma tenutesi a fine anni ’60 e nei primi ’70, le quali a loro volta si rifacevano a idee formulate svariati decenni prima.

Più ancora, l’offensiva attuale del conflitto di religione condotto sottotraccia per decenni e da qualche tempo emerso nella sua realtà contingente, volto se non a eliminare quantomeno a sostituire i popoli che hanno vissuto storicamente nel continente europeo, per mano di quello che secoli fa gli ha dichiarato guerra ed è arrivato sul punto se non di vincerla, di sferrare quantomeno l’affondo finale, è parte di un progetto vecchio di trecento anni almeno.

Dal sito del quotidiano “Il Messaggero” (fino a quando sarà ritenuto opportuno mantenere il link accessibile).

Inevitabile chiedersi quale funzione, a livello concreto, quali finalità e quale potere abbia chi ritenga di poter interferire a tal punto nelle decisioni di uno Stato estero, dando un monito tanto significativo a tutti gli altri. Oltretutto con parole a tal punto minacciose.

Soprattutto, come mai nessuno ha osato replicare, a livello ufficiale o solo formale, a un atto a tal punto esplicito?

Cosa sarebbe accaduto se cose simili le avesse dette il funzionario di un qualsiasi altro Stato, religione o etnia?

Chi tace acconsente, recita un antico detto popolare, e i fatti dicono che l’acquiescenza dei reggitori dei Paesi occidentali, nei confronti di prevaricazioni simili nei loro confronti, è unanime. Non è forse vero che tutti loro, non appena assumono l’incarico, si recano immancabilmente a rendere omaggio al muro del pianto, con in testa la zucchetta d’ordinanza?

Perché lo fanno? Chi glielo ordina?

Per comprendere la portata temporale dei progetti come quello di cui fa parte l’occupazione abusiva della terra cui da qualche decina di secoli è stato dato il nome di Palestina, e pertanto così si dovrebbe continuare a definirla perché come sappiamo la semantica è fondamentale, nel rapporto con tutto quanto ci circonda, andrebbe ricordato che nel loro scambio epistolare Albert Pike e Giuseppe Mazzini, allora ai vertici assoluti della gerarchia massonica mondiale, previdero proprio la necessità di agire ai fini dello scatenarsi di tre conflitti mondiali. Tali da coinvolgere praticamente tutti gli Stati conosciuti, quale elemento indispensabile per il concretizzarsi dei piani di dominio globale da parte delle organizzazioni di cui facevano parte.

Qui un estratto della lettera scritta da Pike a Mazzini il 15 agosto 1871, poi esposta, una sola volta, alla British Museum Library di Londra, secondo il riassunto che ne ha fatto il commodoro della marina canadese William Guy Carr nel suo libro “Pawns in the game” (1967), tra i pochissimi a poterla visionare personalmente.

La corrispondenza Pike – Mazzini è tuttora conservata negli archivi della Temple House, sede del rito scozzese di Washington D.C.

Si può credere o meno a quanto ha scritto Carr in merito a quella corrispondenza che ha avuto luogo negli anni 1870: è proprio il successivo e puntuale verificarsi degli accadimenti in essa teorizzati a dimostrarne la veridicità e ancor più le capacità di manovra degli organismi di cui i due facevano parte.

Quel testo è stato ripreso da “Massoneria e sette segrete“, opera monumentale che chiunque voglia farsi almeno un’idea del reale svolgimento della Storia negli ultimi secoli, e forse anche dei decenni a venire, dovrebbe leggere con estrema attenzione.

Ancora una volta, la sua veridicità è confermata dal puntuale verificarsi di quanto vi è descritto, come chi avrà voglia di leggerlo potrà osservare.

Dunque gli eventi contro i quali sembra che il mondo intero sia destinato a schiantarsi, stanti le volontà di riarmo e di boicottaggio reiterato dei processi volti a ristabilire la pace, da parte dei governanti lo stesso territorio destinato a esserne vittima sacrificale per la terza volta su tre, ossia il continente europeo, sono stati teorizzati più di 150 anni fa.

Guardacaso, quei governanti, in realtà meri fantocci, sono tutti di stretta osservanza globalista. Non solo: nel momento in cui una formazione politica mostri di poter arrivare a metterne in discussione la permanenza al potere, proprio a ridosso delle elezioni vede morire ben sette, fino a questo momento, tra i suoi esponenti nel giro di due sole settimane.

Quali sono le probabilità che un evento del genere possa verificarsi senza l’azione di una manina che dietro le quinte ne faciliti l’avverarsi? Quante volte si sono verificati fatti simili nella Storia?

E quante volte ne hanno parlato i tg nazionali?

Sempre in merito alla comunità europea, prima imposta all’opinione pubblica generale perché avrebbe garantito 70 anni di pace, cosa tra l’altro non vera come ricordano la Libia e la Serbia, ma subito dopo votatasi al bellicismo più oltranzista, occorre andare ancora più indietro per trovare i primi indizi relativi alla sua ideazione, da parte di esponenti della carboneria, società segreta di stampo massonico filo-protestante e sionista, ossia al 1847.

Nel Continente Europeo risiede per pura combinazione il centro della cristianità, che la massoneria da sempre intende eliminare quale suo obiettivo primario, mentre le guerre mondiali fin qui combattute e altre prima di esse hanno avuto quale esito proprio l’abbattimento e il sovvertimento degli Stati guida in cui la religione ufficiale era la cristiana. Dopo il Regno della Chiesa e gli altri di radice cattolica in cui era suddivisa l’Italia, (1848-1870), la Russia degli zar, l’Austria degli Asburgo, e infine la migrazione della Germania verso il protestantesimo, a sottolineare il carattere squisitamente di religione del conflitto ultrasecolare teorizzato da Pike e Mazzini, rispetto al quale tutto dà l’idea che ci stiamo apprestando a vivere il capitolo finale.

Se questa è la portata temporale dei progetti di cui abbiamo prova scritta, vi sono probabilità che essa possa essere ancora più profonda, come del resto suggerisce l’opera letteraria menzionata sopra.

Si sottolinea così come sia l’assoluta improbabilità, o meglio l’inverosimiglianza di determinati accadimenti agli occhi dell’individuo comune, come appunto il teorizzare nel dettaglio cause, elementi coinvolti ed effetti di eventi bellici destinati a svolgersi in un futuro lontano un secolo e mezzo, il sistema migliore in assoluto con cui tenere celati a tempo indeterminato progetti inconfessabili, atti a imporre l’andamento desiderato da un’oligarchia alla Storia del mondo intero.

A parte l’attitudine alla forma più estremizzata di megalomania da parte di quanti si siano posti obiettivi siffatti, va rilevato il loro connotato squisitamente criminale, tale da renderli pronti a mettere in ballo la vita di milioni e milioni di persone pur di affermare le loro volontà di dominio.

Fin dalla più tenera età, invece, ci è stato insegnato a idolatrarli come eroi e Padri della Patria, ai quali sono intitolate le strade, le piazze e i monumenti più importanti di ogni città.

Il vero paradosso in tutto questo è che lo stesso Stato esecutore di un inganno a tal punto subdolo e sfrontato, nei confronti di tutti quelli che chiama cittadini ma sono in realtà le sue vittime, pretende ancora di avere titolo all’esecuzione dei poteri che ha usurpato e vorrebbe far passare come democratici.

 

Riedizioni o riscritture?

Ora che abbiamo compreso come nessun progetto, tra quelli ideati colà dove si puote, abbia una portata temporale che si possa considerare troppo spostata verso il futuro, il che è utile anche a farci capire che tali ostinazione e dispendio di mezzi nell’imporre il sistema di riproduzione digitale non avevano e non hanno nulla a che fare con le esigenze della musica, di chi la produce e men che meno di chi è appassionato del suo ascolto se non per farne un pretesto, rileviamo come uno tra i passaggi epocali, in tema di riedizioni sia occorso appunto con le necessità impellenti dell’affermazione del CD.

Inevitabilmente, l’avvicendarsi delle pubblicazioni di nuovo materiale musicale che ha avuto luogo dopo il suo esordio, per quanto fosse persino inimmaginabile nella sua quantità e qualità rispetto al giorno d’oggi, si rivelò ben presto insufficiente a sostenere i flussi di denaro indispensabili per il rientro dalle somme enormi dilapidate affinché il CD divenisse realtà.

Già, perché colà dove si puote, vige una regola ferrea: le scelte le decidono loro, ma a pagarne il costo, sovente incalcolabile, devono essere altri. Il che quasi sempre equivale a dire le vittime di quelle scelte.

Il motivo è semplice: se dovessero pagare in prima persona, sarebbe molto più difficile concretizzare certi progetti. E poi, cosa ancora più importante, li porterebbe a perdere il controllo dello strumento chiave del loro potere: il denaro, detenuto oltretutto con sproporzione a tal punto soverchiante nei confronti di qualsiasi altra entità presente al mondo.

A certi livelli vincere facile piace fin troppo.

Probabilmente, che la produzione corrente di materiale musicale fosse insufficiente per le necessità di rientro dai costi del digitale lo si sapeva già da prima. Ecco perché tutta l’industria discografica, nessuna etichetta esclusa, si lanciò immediatamente come allo sparo del colpo di pistola da parte dello starter, in un’opera di riedizione dell’intero scibile musicale pubblicato fino ad allora o quasi.

Anche in funzione della velleità di togliere di mezzo nel più breve tempo possibile qualsiasi supporto fonografico non fosse digitale. Finalità testimoniata proprio dalle condizioni capestro imposte dall’industria discografica a chiunque desiderasse vendere al dettaglio il supporto digitale. Con ogni probabilità è questa l’origine dei proclami reiterati in maniera ancor più che ossessiva dalla stampa di settore, volti a convincere il pubblico che l’analogico fosse morto e sepolto.

E quindi, va da sé, andasse abbandonato.

Tra gli obiettivi che gli sono stati attribuiti, proprio in questo il digitale ha avuto il fallimento maggiore, dato che l’analogico ha subito effettivamente gli effetti del suo predominio, durato all’incirca un ventennio, ma non sono riusciti a scalfirne la vitalità. Dovuta proprio alla sua naturalezza, contrapposta all’innaturalità e all’inflessibilità tipica di tutto quanto procede per uno e per zero.

Nonché alla sua ademocraticità, non essendo possibile alternativa di sorta a quei due valori che lo rendono inevitabilmente tendente alla lacuna. Guardacaso è proprio la veste attribuita ai sistemi politici dell’occidente, col pretesto della governabilità, e due sole fazioni in apparenza destinate a contrapporsi, ma che in realtà finiscono col somigliarsi sempre di più, diventando presto una sola.

Il gioco salta nel momento in cui qualcuno decide di raccogliere il dissenso, che in condizioni simili è destinato per forza di cose a diventare maggioranza, essendo il sistema a due formazioni atto a soddisfare essenzialmente i desideri di chi ha la volontà e i mezzi per imporre il predominio assoluto cui aspira.

Dunque l’analogico ha retto a ogni assalto anche per via della testardaggine dei suoi cultori più affezionati, che mai lo hanno abbandonato e tantomeno lo hanno fatto, consapevolmente o meno, con la sua idea di fondo. Esperienza fondamentale per comprendere come il rifiuto, netto, reciso, inappellabile, sia elemento essenziale di contrapposizione, anche nei confronti di quello che sulle prime appare assoluto, inderogabile e per solito viene calato dall’alto.

Tenere duro e non mollare, questo occorre avere sempre presente nella nostra mente, di fronte a qualsiasi offensiva, per quanto a tappeto possa essere.

Questo è l’insegnamento che ci ha dato l’analogico. Se a suo tempo gli appassionati avessero obbedito, alle lusinghe dell’industria e alle pressioni della stampa che da sempre è al suo servizio, oggi non esisterebbe alternativa di sorta all’uniformità robottizzante degli uno e degli zero.

Cerchiamo allora di fare in modo che quell’alternativa possa esistere anche in futuro.

Sul piano del prodotto discografico la differenza, rispetto al passato, fu che le riedizioni non si vendettero più a prezzo inferiore com’era avvenuto fino ad allora, ma a uno maggiore rispetto all’uscita originaria. E di gran lunga, in quanto il CD lo si faceva pagare ben più caro rispetto all’ormai vecchio e pretesamente inservibile LP, che secondo i desideri delle multinazionali e della carta stampata al loro servizio era avviato a morte certa, irrevocabile e destinata ad avvenire nel tempo più breve.

Come sono andate le cose lo sappiamo, e oggi è il CD a trovarsi da tempo con un piede nella fossa, mentre l’LP è vivo, vegeto e in continuo miglioramento dei dati di vendita.

Elemento ulteriore che illustra quanto senso abbia credere alle panzane e alle corbellerie, sempre e comunque interessate, ammanniteci dal sistema di propaganda e manipolazione che definisce sé stesso con il nome pomposo di stampa specializzata.

Anche se, va detto, come spara corbellerie a raffica certa gente, non riesce a nessun altro. Anche quello è un talento, che è doveroso riconoscere.

Non solo le riedizioni su CD del materiale edito in precedenza non furono più a prezzo basso, ma vennero inizialmente commercializzate a prezzo pieno, ossia pari a quello appena uscito.

Furbissimi, come sempre, dato che se dovevano convincerci a ricomprare quello per cui avevamo già pagato, diritti di riproduzione compresi, che quindi non c’era motivo alcuno di pagare una seconda volta, tanto valeva che ciò avvenisse al prezzo massimo di mercato, così da ricavarne il maggior introito.

Almeno idealmente, dato che com’è noto il diavolo fa le pentole e non i coperchi. In massima parte allora quelle riedizioni rimasero sugli scaffali dei rivenditori, almeno fin quando non si decise una politica dei prezzi meno delirante.

D’altra parte per diversi anni furono ben poche le macchine destinate a riprodurre quelle riedizioni a giungere effettivamente tra le mani degli appassionati, non solo per le loro prestazioni migliorabili ma anche per una politica dei prezzi che non differì in modo alcuno da quella stabilita per il supporto fonografico.

Per quale motivo un appassionato che in nove casi su dieci aveva già quell’album su LP avrebbe dovuto ricomprarlo a prezzo maggiorato, oltretutto per sentirlo suonare peggio? Solo per le rassicurazioni dell’industria, ancora una volta menzognere, che il nuovo supporto sarebbe stato invulnerabile al tempo, allo sporco e ai maltrattamenti?

Forse non era abbastanza, in particolare per un pubblico che allora aveva nella qualità di riproduzione l’obiettivo numero uno. Proprio per questo si è ritenuto necessario convertirlo alle delizie del cambia-cambia che oggi imperversa, peraltro a costi in perenne ascesa.

Insomma, nei primi anni di vita del CD, l’industria che aveva scommesso su di esso anche le mutande, e non solo le proprie, ma anche quelle della moglie, dei figli e dei nipoti che ancora dovevano nascere, se la vide davvero brutta.

Dato che il formato che si era voluto imporre come vertice di perfezione si stava dimostrando quantomai lontano dalle promesse, anche a livello commerciale. Anzi non c’era verso nemmeno di riuscire a fargli avvicinare le soglie qualitative dell’analogico che si voleva come irrimediabilmente superato.

Quella fase è stata quantomai istruttiva. In particolare per la capacità con cui nelle redazioni specializzate si riusciva a negare la realtà, non importa quanto esplicita potesse essere, che in quella fase giunse oltre l’immaginabile.

Come noto, quando infine si ritenne di non poterne fare a meno, per via delle pressioni a livello di contratti pubblicitari, che da sempre sono le più convincenti, in quelle sedi si ricominciò a parlare di analogico come se nulla fosse. Senza sentire il dovere del minimo accenno non di autocritica ma almeno a dimostrazione di consapevolezza del passato.

Anzi, a chiunque si sia azzardato soltanto ad accennare a certe cose, è stata mossa una guerra senza quartiere, finalizzata alla sua eliminazione. Dai ranghi della redazione, ma forse più di qualcuno non avrebbe disdegnato fosse anche a livello fisico.

Del resto dove la menzogna impera e di essa si fa mezzo di affermazione sociale e commerciale, ogni contatto con la realtà è considerato e vissuto come il male assoluto.

Ancora peggio è andata per le rivendite di materiale discografico e di apparecchiature, che specie sul nostro mercato erano ancora a gestione familiare o quasi e quindi più facili da spingere al tracollo.

Infatti fu proprio il passaggio al digitale il primo passo verso l’eliminazione delle rivendite fisiche, proprio a causa degli investimenti resisi necessari, dai quali non vi sarebbe stato rientro e come tali avrebbero portato al fallimento quanti avessero creduto ciecamente alle promesse solenni degli uomini di marketing, che al riguardo sono peggio anche di quelle dei marinai.

Solo chi ha ritenuto prudenzialmente di tenere ancora almeno un piede nella staffa dell’analogico è riuscito a salvarsi. Non a caso le stesse case discografiche imposero un piano di dismissione del vecchio materiale vinilico e su nastro, per chiunque volesse imbarcarsi nell’avventura del digitale che avrebbe portato tanti rivenditori a schiantarsi sulle scogliere della sua incommerciabilità.

Da lì il detto “asciugare gli scogli” che avrebbe preso il significato di eseguire un’attività non priva di possibilità alcuna di riuscita, ma proprio di senso.

Dopo aver causato un gran numero di vittime incolpevoli, se non del fatto di aver ceduto alle sirene che in coro avevano diffuso ovunque la loro voce suadente ma falsa, l’industria di settore decise infine che per evitare il tonfo anche a sé stessa, esiziale non tanto per il settore discografico e quello della riproduzione sonora, ma per il digitale che si voleva divenisse il perno attorno al quale far ruotare la vita dell’intero globo e dei suoi abitanti, come poi in effetti è stato, era necessaria una correzione di rotta.

Si iniziò proprio dalle riedizioni, che infine si decise di commercializzare a prezzo un po’ inferiore rispetto alle nuove uscite, ma mai nella misura che sarebbe stata corretta.

Nello stesso tempo però si ritenne necessario renderle più interessanti, proprio perché l’accoglienza del pubblico nei loro confronti non era stata entusiastica, tuttaltro.

Si andò così a sfruttare lo spazio maggiore concesso dal supporto digitale, per inserirvi brani inediti, in genere quelli lasciati fuori dalle edizioni sul LP per mancanza di spazio, la loro durata massima era di 45-50 minuti, mentre col CD si poteva arrivare a 80, o in mancanza delle esecuzioni alternative di quelli pubblicati a suo tempo.

Essendosi poi accorti che il materiale derivante da registrazioni analogiche era gravato da rumore di fondo, sia pure in quantità ininfluenti al livello qualitativo del CD destinato ad accoglierle per la loro riedizione, si decise di rimasterizzarlo.

Ovverosia di ricavare nuovi “definitivi” dalle vecchie registrazioni, sulle quali si era provveduto a eseguire un’opera di ripulitura dal rumore di fondo. Del resto l’unico vero punto di vantaggio rimasto a favore del formato digitale era proprio l’assenza di fruscio: senza di quella non c’era praticamente motivo alcuno per qualsiasi appassionato di doversi ricomprare in CD l’album che aveva già sotto forma di LP. A meno che non lo avesse conciato al punto tale da rendere necessaria tale operazione, per la quale comunque sarebbe stato meglio ricomprarsi l’LP, oltretutto più economico.

Ancora una volta però le pretese di perfezione, almeno a livello teorico, si scontrarono con la realtà, che non ebbe difficoltà alcuna a porre in evidenza i limiti concreti delle azioni di ripulitura. Insieme al rumore di fondo si portavano via anche “l’aria” e la vitalità della sonorità analogica, per quel poco che ancora riusciva a salvarsi nella sua traslazione su digitale.

Era poco, si, ma la sua definitiva eliminazione dalle riedizioni silenziate fece si che suonassero ancora peggio, in maniera ben percettibile da chiunque non fosse ormai ben avanti lungo la strada che porta alla sede locale della Amplifon. Una volta di più per lo scorno di chi ancora credeva che i proclami di perfezione emanati a favore del digitale avessero un barlume residuo di verosimiglianza.

Se proprio non si riusciva a far suonare il digitale meglio dell’analogico, specie sotto il profilo della naturalezza e della sensazione di presenza in ambiente della riproduzione, cosa che peraltro non riesce nemmeno oggi, qualora l’LP lo si riproduca con un equipaggiamento un minimo adeguato alle sue potenzialità, quantomeno che lo si facesse suonare diverso.

Possibilmente in un modo che all’incompetente nei confronti dell’analogico di qualità, tipologia destinata a espandersi e infine a divenire maggioranza, col passare del tempo e il procedere del ricambio generazionale, potesse sembrare migliore.

Si tratta di un compito non troppo difficile, specie se non ci si ferma alla timbrica del master originale, con la quale già si può fare molto, ma si va più a fondo. Ossia s’interviene sui livelli a suo tempo attribuiti a ciascuno degli strumenti che hanno contribuito alle esecuzioni dei brani e quindi sulle registrazioni multitraccia.

Così si fanno saltar fuori strumenti che prima erano sullo sfondo, e come tali i candidati di maggiore probabilità alla cancellazione, a causa di sistemi di riproduzione non all’altezza o forse solo per via di un ascolto distratto.

Altrimenti li si rende più incisivi, brillanti, profondi o quello che si vuole, così da suggerire all’istante di essere di fronte a qualcosa di innegabilmente migliore rispetto all’originale.

Quando invece non lo è assolutamente, ma solo un tradimento delle scelte artistiche eseguite a suo tempo, quando si è trattato di stabilire quale dovesse essere la sonorità di quei brani, l’apporto di ciascuno degli strumenti al risultato complessivo e il rapporto tra gli uni e gli altri.

Scelte, insomma, che non solo sono parte integrante e insostituibile dell’opera d’arte in sé e per sé, come i colori e le forme raffigurate in un quadro, ma che se a suo tempo sono state fatte dev’essere stato probabilmente per un buon motivo.

Come tale ha ben poco a che fare con l’effetto speciale, spinto a tra l’altro a livelli di pura demenzialità, su cui oggi si ripongono tutte le speranze di vendita, tanto a livello discografico quanto di apparecchiature.

Concetto che l’operatore sbarbato ma convinto di essere chissà chi messo dietro i comandi di un banco di regia, non riuscirà mai a capire, già per motivi anagrafici. Sicuro com’è che il digitale sia il massimo immaginabile anche perché modernissimo e tutto il resto una cosa immonda, risultato di azioni compiute decine di anni fa per mezzo di apparecchiature da età della pietra. Quando invece costavano decine e decine di volte le cineserie di adesso, che ti tirano dietro basta che te le accatti, e andassero a valvole anziché a circuiti a larghissima integrazione.

Con un apparato mentale del genere, qualunque nefandezza si vada a operare, sarà incommensurabilmente migliore di certe sonorità da Paleozoico e, ovviamente, tutti saranno pronti a crederci e a correre ad acquistare il frutto di quel massacro.

Compiuto del resto su mandato dall’onnipotente casa discografica, proprio alfine di svecchiare materiale altrimenti intollerabile nella sua obsolescenza prima di tutto sonora.

Proprio così si perviene alle condizioni esemplificate come meglio non si potrebbe dalla foto di apertura.

Alla Gioconda, emblema stesso della naturalezza e dell’estetica di un’umanità che è necessario dimenticare o meglio ancora rendere incomprensibile, dato che oggi si è votati al dio degli effetti speciali perché è proprio con quelli che si fanno le quantità maggiori di denaro altrimenti detto sterco del diavolo, labbra e zigomi li si gonfia a canotto. Le tette e il culo, che per fortuna non si vede, li si mette almeno a 4 atmosfere, magari anche a 5. Poi le si fanno delle sopracciglia, finte, preoccupanti per chiunque si ponga ancora il problema (antiiico!) della differenziazione tra uomo e donna. E soprattutto della misura in cui sia indicato accompagnarsi a individui dell’altro sesso, specie per un certo tipo di attività.

Per finire in bellezza, le si bistrano gli occhi con un trucco tanto vistoso che farebbe impallidire anche la più navigata tra le professioniste del marciapiede, così da renderla finalmente all’altezza della libertà dei nostri tempi, dove si stigmatizzano il patriarcato e il “maschilismo tossico”, ma la donna si è vista imporre e soggiace, non di rado in maniera entusiastica, alla mercificazione capitalista del proprio corpo, proprio in termini di fine esistenziale.

Questo in concreto è ciò che si fa coi master di opere che per il loro valore artistico e culturale meriterebbero di rimanere intonse e di essere conservate religiosamente, invece di essere bruttate e violentate come oggi impone il mercato, ariete di sfondamento dell’ideologia ancora una volta capitalista. L’origine della quale, appunto il capitalismo, abbiamo imparato già da tempo che per sua natura non può altro che divorare tutto quanto incontra sulla sua strada. Così che finirà per fagocitare persino sé stesso, come oggi appare sempre più evidente.

Come diceva Tremonti, l’economista berlusconiano per eccellenza, con la cultura non si mangia. Davvero curioso che i progressisti sulla carta suoi antagonisti incrollabili, i quali predominano da sempre in ogni ambito della sottocultura, che presidiano militarmente, si trovino con lui in totale accordo, sul piano concreto.

Proprio a dimostrazione di quanto detto poco fa: le componenti del sistema a due partiti sono destinate a divenire indistinguibili l’una dall’altra.

Che sia effettivamente così lo spiega anche il modo in cui si pone l’artista, in teoria il primo a dover desiderare la salvaguardia delle scelte alla base dell’identità della sua opera, nei confronti del fenomeno in questione.

Nello stesso tempo tuttavia, per il semplice fatto di trovarsi al mondo deve venire a patti con il totalitarismo capitalista che presiede a ogni espressione dell’attività umana. Quindi per campare non solo deve essere pronto a vederla devastata in tal modo, ma anche compiacersene.

Se del caso deve essere determinato infine ad aggredire, saltandogli letteralmente addosso e tacciandolo di ogni nefandezza, cosa che ho vissuto di persona, chiunque sia per davvero dalla parte della musica, anche quella di un povero saltimbanco, e pertanto manifesti il desiderio che se ne mantenga in qualche modo l’integrità. O solo dichiari, tra amici, che ritenga doverosa tale conservazione e sia invece da rispedire al mittente quel che viene fatto per mezzo dei famigerati remaster. Oltretutto destinati, per forza di cose, a non funzionare tranne che sull’impianto di chi ha compiuto il misfatto.

D’altronde lui per campare deve vendere, e per qualche decina di copie in più da dare in pasto a un pubblico che non va tanto per il sottile, ma vuole la novità a ogni costo meglio ancora se falsificata come una pseudo-Gioconda da bordello di terz’ordine, è pronto a sacrificare l’integrità dei suoi figli.

Mentre nello stesso tempo rimane convinto, e ne rassicura l’intera umanità, di essere un vero paladino del diritto, della democrazia e dunque il più grande progressista.

Se queste sono le premesse, e com’è inevitabile lo sono, il peggio è destinato a non avere mai fine. Purtroppamente, come direbbe Cetto La Qualunque che della galleria di personaggi fin qui raffigurati è il vero archetipo.

Ideato paradossalmente proprio da chi per il suo tramite ha inteso stigmatizzare, svillaneggiandolo, chiunque sia reo di non pensarla esattamente come lui. E quindi non sia un sincero democratico e progressista nella sua stessa misura.

Ci troviamo così di fronte alla vera e propria icona della tragedia identitaria e ideologica del sinistrato d’oggidì, il quale non si rende conto che quanto detesta maggiormente, nel concreto è impersonato proprio da quello cui ha dato mandato e rappresenta, in pubblico e soprattutto a livello istituzionale, la fazione alla quale ha aderito e continua ad aderire, senza nulla voler vedere, sapere o, non sia mai, riflettere e comprendere.

Una volta tanto, allora, la storia si manifesta prima in tragedia e poi in farsa, proprio come nella consecuzione che ci hanno inculcato a scuola ma che, come abbiamo visto tante volte, oggi quasi mai riesce più a trovare un riscontro concreto.

Proprio dalla tragedia, a livello ideologico e sociale, proviene il dramma umano ed etico, ma soprattutto di consapevolezza che ha dato vita al protagonista assoluto della farsa.

Contrariamente alle intenzioni infatti, Cetto esprime come meglio non si potrebbe il testacoda concettuale di cui il suo ideatore è vittima, non si sa fino a che punto a propria insaputa o per un ben calcolato esercizio di bispensiero orwelliano, mentre ritrae a tutto tondo le nefandezze e i limiti prima di tutto culturali della classe politica a tal punto faziosa e distruttiva del bene comune cui chi lo ha inventato accorda il suo consenso. Aprioristico e determinato a negarsi qualsiasi ipotesi di verifica, proprio perché potrebbe mettere in discussione le sue convinzioni. Incrollabili anche di fronte alla più soverchiante delle evidenze, proprio come quella che oggigiorno si trova di fronte chiunque abbia volontà di osservare, non appena esce fuori dal ghetto delle ZTL in cui è convinto di vivere nel privilegio, mentre invece ne è imprigionato. Prima di tutto proprio a livello del tradimento che ha compiuto, in favore di agi e comodità, nei confronti della propria ideologia, un tempo egualitaria, forse.

Così abbiamo avuto delle riedizioni di Miles Davis cui sono state attribuite sonorità da hard rock, non solo per l'”In a silent way” che essendo tra i primissimi esempi dell’elettrificazione di un genere musicale fino ad allora squisitamente acustico, potrebbe in qualche maniera, per quanto remota, giustificare un atteggiamento del genere, ma anche per gli album degli anni ’50 e primi ’60, come “Quiet nights” e gli altri del periodo in cui collaborò con Gil Evans.

Se per il jazz le cose stanno in questo modo, figuriamoci come possa andare per il rock. Un esempio su tutti, che basta e avanza: la riedizione di “Selling england by the pound”, pubblicata in occasione della celebrazione, da parte della EMI, del suo centesimo  anniversario, sembra essere stata curata, per la sua sonorità, dal fonico degli AC/DC.

Così la sindrome del remaster, nata come mezzo ennesimo di penetrazione a favore del digitale, ha finito con il colpire anche l’analogico

Il bello è che te la fanno anche pagare un occhio della testa, essendo appunto un’edizione celebrativa su vinile pesante. Un minimo di rigore filologico, per un’occasione del genere, non avrebbe guastato, ma temo che ormai manchi proprio il materiale umano, soprattutto a livello di materia grigia, per poter solo ipotizzare discorsi del genere.

Che poi a buon bisogno sarebbero immediatamente castrati dagli uffici marketing, per i quali l’imperativo è sempre e soltanto uno: vendere, sempre più e con maggior profitto.

Di fatto si tratta di una mera celebrazione, virtuale come ormai è quasi tutto al giorno d’oggi, dato che di musica da quello che per giunta è un LP non se ne può proprio ascoltare. Quantomeno per chi conosca l’edizione originaria.

Per fortuna dell’industria, sono sempre meno, grazie ancora una volta al ricambio generazionale.

Gli altri, inconsapevoli, resteranno per sempre con un’idea non solo del tutto falsata, ma contraria agli stessi presupposti di un’opera di tale significativo.

Questa mania di sparare tutti i controlli a manetta sinceramente non la capisco, anche se provengo da un settore in cui il ci ci – bum bum è per troppi comandamento sacro e intoccabile. Possibile non ci si renda conto già in sala regia che si tratta di un nonsenso, oltretutto di pessimo gusto?

Probabilmente no, innanzitutto per fattori culturali. Non a caso un vero cultore del rock progressivo come Steven Wilson dei Porcupine Tree, a suo tempo ha curato le edizioni del quarantennale degli LP dei King Crimson, da “In the court” a “Red”, con risultati direi apprezzabili, i soli in cui mi sia imbattuto finora.

Anche in quel caso non è che ci sia una fedeltà assoluta nei confronti degli originali, ma almeno le cose sono state fatte con un certo criterio, mantenendo se vogliamo l’identità delle esecuzioni allo stile proprio dei King Crimson.

Cosa al cui riguardo è necessario innanzitutto il senso della misura, proprio l’elemento che più di ogni altro risulta perduto nella realtà degli ultimi decenni e non per caso.

Nella sua assenza, è giocoforza pervenire a certi risultati come quelli della media devastante dei remaster attuali. Proprio nella convinzione che il di più, in particolare quando è senza costrutto, sia sempre e comunque preferibile a qualsiasi altra cosa.

Wilson ha poi curato diverse altre riedizioni delle opere più significative del rock progressivo, che sinceramente non ho avuto modo di ascoltare, ma spero che si sia mantenuto sulla stessa linea.

A parte esempi del genere, più unici che rari, quella delle edizioni rimasterizzate è una realtà che mostra fino in fondo le sue motivazioni: da un lato dare una spinta sotto l’aspetto della sonorità percepita a sistemi e formati descritti come il non plus ultra ma che altrimenti non ce la farebbero a dimostrare nel concreto i motivi per cui gli appassionati di riproduzione sonora dovrebbero accordarvi la loro preferenza. Dall’altro, a livello commerciale, dare un perché al perenne rigirare, come si farebbe con un vecchio cappotto, da parte di un industria discografica ridottasi al punto di essere capace soltanto di fare riciclaggio.

Proprio per via delle scelte finalizzate unicamente al ritorno commerciale che ha perseguito negli ultimi tre o quattro decenni.

Sempre riguardo alle riedizioni del quarantennale degli LP dei King Crimson nelle loro formazioni storiche, ossia antecedenti allo termine dell’attività, avvenuto nel 1974, è interessante notare un altro aspetto.

Riguarda le tracce alternative messe a riempimento di ciascun album, alcune tra le quali decisamente interessanti, a vario titolo.

Si può ascoltare ad esempio in “Islands” la prefigurazione o per meglio dire l’embrione di quel che sarebbe avvenuto pochi mesi dopo in Lark’s tongues in aspic”, anche se in realtà dal punto di vista artistico si tratta di una vera e propria era geologica successiva. Tra l’altro LTIA è per me il disco più d’avanguardia in assoluto dell’intero genere noto come rock progressivo, vera e propria pietra miliare che ha toccato vertici mai più raggiunti, non solo in tale ambito.

Altri spunti d’interesse si trovano tra le tracce aggiuntive di “In the court” e “In the wake”, non tanto per il contenuto artistico ma per la loro sonorità. Trattandosi di provini o esecuzioni alternative, non erano destinate a essere incluse nei rispettivi album, quindi danno l’idea di essere state risparmiate dall’azione dei fonici, come sembra evidenziarsi al loro ascolto. Hanno conservato una sonorità molto più naturale e vitale, proprio in quanto esente dalle alchimie eseguite al fine di ottenere le sonorità che si era deciso di attribuire alle esecuzioni destinate alla pubblicazione.

Ovviamente la sonorità, valutata con il metro dell’alta fedeltà e quindi del realismo della riproposizione di voci e strumenti, non ha molto a che vedere con la questione artistica. Tuttavia risulta interessante da osservare proprio per le possibilità tecniche già allora alla portata, poi negate per scelte di altra natura, che poco o nulla hanno a che fare con i danneggiamenti ulteriori apportati in genere nelle fasi di remastering distruttivo tipiche della specialità.

Al di là di eccezioni più uniche che rare, insomma, per un qualsiasi appassionato di musica che desideri ascoltare la musica degli anni 60, 70 e almeno parte degli 80 nel modo con cui è stata concepita e realizzata, le riedizioni e i remaster sono da evitare con la massima accuratezza.

Molto meglio rivolgersi al mercato dell’usato, che purtroppo specie per i titoli di richiamo maggiore ha i suoi prezzi. E’ lo stesso degrado del prodotto attuale a giustificarli in buona parte, fermo restando che non è assolutamente necessario rivolgersi alle prime stampe. Quelle successive forse non suoneranno altrettanto bene e magari non hanno la copertina apribile, ma è indubbio che siano mille volte più conformi all’idea originale dell’artista, rispetto alle riedizioni senza capo né coda che oggi sono la normalità. Oltretutto costano spesso somme rilevanti che vanno a spingere ancor più verso l’alto il costo degli originali, inevitabile se quello che è venuto dopo è in tale misura degradato.

Insomma, se non posso avere in casa il ritratto della Gioconda in originale, posso tranquillamente accontentarmi di guardarlo in fotografia. Purché sia quella vera e non la sua versione ultra-siliconata e come tale mostruosa che vorrebbero farmi credere sia il non plus ultra attuale per qualità sonora e modernità.

 

 

 

 

Potrebbe interessarti anche

2 thoughts on “Riedizioni, remaster e tracce alternative

    1. Ciao Alessandro, grazie della segnalazione.
      E’ capitato anche a me, stamani di leggere questa notizia.
      In 1984, testo che ogni giorno che passa dà sempre più l’idea di non essere un romanzo distopico ma un manuale di istruzioni, Orwell ha descritto meccanismi automatici atti alla costruzione di materiale da intrattenimento destinato al consumo popolare: romanzetti rosa, musica e così via.
      Va da sé del resto che se quello che si ha intenzione di fare è acquisire il controllo definitivo sulle masse, se questo deve funzionare nel modo più efficace possibile, ogni eventuale differenza tra individuo e individuo va ridotta ai minimi termini e se possibile eliminata.
      Dunque la cosiddetta IA dà sempre più l’impressione di essere un ulteriore tassello a tal fine.
      In funzione di ciò, è da chiedersi se il sistema in questione si limiterà ad agire in conseguenza dei gusti di ciascuno, se cercherà di modificarli in qualche modo, in funzione di esigenze varie e eventuali, oppure se andrà direttamente a costruirli ex novo, ancora una volta da remoto.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *