Dopo il WAF, che ha permesso di portare a livelli inusitati la cura per l’estetica delle apparecchiature, così da meglio celare la loro banalità tecnica e l’inadeguatezza della sonorità spingendone i prezzi alle stelle, oltre a rendere l’uomo più dipendente da mogli e compagne riguardo a cose che a loro interessano poco o nulla, la parola d’ordine nel panorama attuale della riproduzione sonora è comodità.
Da qualche tempo la sento ripetere immancabilmente quando mi capita di scambiare qualche parola con un utilizzatore di streaming e musica liquida. Dato che tale sistema diventa sempre più diffuso, questo accade con una certa frequenza.
La prima domanda che mi viene in mente, in occasioni del genere, riguarda il motivo per cui la riproduzione sonora abbia tutto questo bisogno di essere fruita con una comodità maggiore di quella che l’ha caratterizzata fino a poco tempo fa.
Non mi sembra che per ascoltare musica in maniera decente ci si dovesse legare a un letto di spine, appendere al soffitto per le braccia come si faceva con eretici e dissenzienti nelle carceri medievali o lo si dovesse fare a testa in giù.
Eppure questa comodità, da come ne sento parlare, sempre con grande enfasi e convinzione, non solo sembra la più grande delle conquiste, suggerendo appunto che nel passato si fosse costretti a soffrire di condizioni d’impiego oltremodo penose, ma si ha anche l’impressione che non sia più possibile farne a meno.
Sarà vero? Personalmente ho più di qualche dubbio in proposito. Tuttavia la cosa più inquietante è che tutti, ma proprio tutti tutti, ripetano questa cosa.
Mai visto niente di simile per null’altro: storicamente le persone si sono sempre azzuffate sulle moto giapponesi in confronto a quelle italiane, sull’analogico contro il digitale, sulla trazione diretta oppure a cinghia, sul bass reflex in alternativa alla sospensione pneumatica e così via per un numero incalcolabile di argomenti. Invece con la questione della comodità, la liquida e lo streaming sembrano aver messo tutti d’accordo.
Al proposito, da qualche tempo a questa parte sugli argomenti che contano si riscontra un’unanimità non solo fuori dal comune ma del tutto innaturale, marcatore tipico del livello di sospetto con cui andrebbero approcciati. A guardarlo così, il fenomeno farebbe pensare a un caso di manipolazione e d’altronde fin dall’inizio dell’anno scorso ci è stato fatto capire che se l’affare è lucroso a sufficienza, non si tralascia alcunché per renderlo ancora più conveniente e ampliarne al massimo possibile il raggio di applicazione.
Tanta uniformità di valutazione e le sue possibili cause, proprio in quanto tali dovrebbero consigliare chiunque mantenga un barlume di ragionevolezza o di senso critico a tenersi alla larga da roba del genere. Possibile mai, inoltre, che comodità a parte non si riesca a tirar fuori nessun’altra caratteristica degna di rilievo? Dev’essere una ben povera cosa allora, se ci si attacca sempre e solo a quello e non si è capaci di spiccicare niente altro.
Per la verità più di qualche volta mi è capitato di sentire qualche sbarbato in preda a un attacco di presunzione a sfondo mitomane fare il solito discorso della modernità e del futuro. Pretesto atto a chiamare in causa immancabilmente l’anacronismo insopportabile di chiunque osi utilizzare qualcosa che richieda ancora l’impiego di un supporto fisico.
Dove sta scritto che si debba per forza obbedire all’imperativo dello stare al passo non con il presente ma addirittura con il futuro, che in quanto tale non è possibile conoscere?
E perché quando qualcuno afferma di poterlo fare con tanta sicurezza, invece di dargli del ciarlatano si prendono per buoni i suoi consigli? Curiosamente la previsione del futuro, se applicata al destino di ognuno è roba da chiaroveggenti e imbonitori da fiera paesana. Invece se c’è di mezzo la tecnologia diventa una cosa serissima.
E peggio, inderogabile.
Impossibile opporvisi, dunque, forse per paura di essere fatti passare da retrogradi. Tuttavia, nel momento in cui al riguardo si viene esortati di continuo e da ogni fonte possibile e immaginabile, non potrebbe essere già questa un’ottima ragione per domandarsi se sia davvero il caso di obbedirvi?
Perché mai non posso continuare a essere quello che sono sempre stato e ad apprezzare ciò che mi è sempre piaciuto e ha soddisfatto i miei bisogni, ma sono obbligato a cambiare a intervalli sempre più ravvicinati?
Per far piacere a chi? Per ottemperare a che cosa? E qualora accettassi, cosa avrò in cambio?
Tantopiù in un settore come quello di nostro interesse, che ha avuto forse la maggior efficacia in assoluto nel dimostrare come a quello che si vorrebbe definire con il termine di progresso, quasi sempre abbinato alla parola inarrestabile, corrisponda non di rado una concreta regressione. Infatti alcuni tra i dispositivi più significativi su cui si basa, e ancora oggi sono ai vertici dell’efficacia in termini di sonorità, risalgono uno alla seconda metà dell’ottocento, l’analogico, e l’altro ai primissimi anni del novecento, i tubi a vuoto, detti altrimenti valvole termoioniche. Anche l’esperienza fatta di recente con gli AR 4X mi sembra indicativa a questo proposito.
Dunque, al di là dell’opportunità di obbedire all’esortazione sistematica a unformarsi su quello che ci viene dipinto come futuro, attribuendo alla parola una valenza esclusivamente positiva che non solo la storia ma anche la realtà dimostrano essere del tutto immaginaria o meglio strumento di propaganda e falsificazione, lo stesso presumere di esservi obbligati è un elemento palese di asservimento mentale. Vera e propria schiavitù cui ci si assoggetta più o meno volontariamente e non di rado con entusiasmo, ancora una volta nella mancanza di ragioni più solide.
Senza contare che certi discorsi sono roba vecchia, o meglio strasentita e anacronistica.
Infatti le stesse identiche cose le si è ripetute per anni, e fino alla nausea, già al tempo dell’esordio del CD e per molti degli anni immediatamente successivi.
Insomma certi giovincelli petulanti sono immersi a tal punto nella convinzione di essere tanto moderni e all’avanguardia, e qui la domanda inevitabile è perché mai abbiano tutto questo bisogno di sentirsi tali, invece di rivendicare il diritto di scegliere in piena libertà quello che più aggrada loro e senza bisogno di spinte più o meno interessate, che nemmeno si accorgono di ripetere a pappagallo i discorsi dell’epoca dei loro nonni. Roba di quaranta e più anni fa.
Già, dato che se il CD ha fatto il suo esordio ufficiale nell’autunno del 1982, il preparatorio sfilettamento alla julienne degli zebedei, basato sulle meraviglie della codifica binaria e l’oscena, inaccettabile, obsolescente e gracchiante inadeguatezza dell’analogico, è iniziato con il dovuto anticipo.
Ma se allora certi discorsi potevano avere un senso, oggi sono più antichi di un 78 giri ammuffito e divorato dai tarli. Nonostante ciò si pretende lo stesso di farli passare per il non plus ultra della modernità.
In tutto questo tempo infatti, pur con la perfezione che legioni di pennivendoli si sono affannati a decantare, il digitale non è riuscito a superare definitivamente e in maniera indiscutibile il rendimento dell’analogico. Se poi ci si aggiunge che la liquida e lo streaming sono fisiologicamente e ineluttabilmente inferiori al digitale basato sul supporto fisico, la conclusione cui si arriva è che si tratta di un sistema effettivamente modernissimo e di efficacia eccezionale: in particolare alfine di penalizzare la riproduzione sonora e la sua qualità.
Almeno in questo il connubio tra comodità ed efficacia trova una sua verosimiglianza. Poi che si tratti di un obiettivo degno di essere perseguito, ognuno potrà deciderlo per conto proprio.
Al di là della questione già ampiamente dibattuta riguardante l’alimentazione a impulsi propria dei dispositivi dedicati allo scopo, rispetto a quelle lineari delle sorgenti classiche che già da sola costituisce un elemento in grado di produrre un divario incolmabile, mi si dovrebbe spiegare come si possa ritenere possibile che un sistema caratterizzato dalla più grande flessibilità utilizzativa, quindi adatto a una moltitudine di scopi, possa confrontarsi con il prodotto pensato, progettato e realizzato per la funzione specifica sul suo stesso terreno.
Questo può avvenire senz’altro, ma nel mondo dei sogni, della fantasia e del virtuale. Che non a caso è proprio quello cui fa riferimento certa propaganda incentrata sul futuro e il futuribile. Di qui il dubbio che la liquida si chiami così non perché rinuncia al supporto fisico, che infatti continua a esserci in barba a tutti i proclami, dato che i file ascoltati per il suo tramite devono pur essere immagazzinati in qualche posto, si tratti del disco rigido del computer casalingo o quello del server remoto, ma perchè è atta innanzitutto a liquefare la ragionevolezza e l’encefalo dei suoi fruitori e le sue possibilità funzionali e cognitive.
Ecco una possibile spiegazione del motivo per cui quando si chiede a costoro perchè insistano a utilizzare un sistema tanto inadeguato e penalizzante sonicamente nonchè del tutto contrario ai loro interessi, come vedremo tra breve, riescono solo a ripetere meccanicamente le parole comodo e comodità.
Proprio come farebbe un disco rotto, emblema di vecchiume e anacronismo.
A questo dunque ci conduce tanta presunta modernità e tecnologia.
A qual fine?
Insomma, lo scopo primario della riproduzione sonora amatoriale sembra non più il tasso più elevato di realismo, ma il restare con il lato B incollato alla poltrona il più a lungo che sia possibile.
Dunque, anche il minimo sforzo, come quello necessario ad alzarsi una volta ogni ora circa per cambiare CD, oppure ogni venti minuti per girare facciata all’LP sembra sia diventato troppo arduo da affrontare.
Con quali conseguenze, nel medio-lungo termine? Che già il poco movimento che facciamo, insufficiente per le nostre necessità fisiologiche, ci sembrerà qualcosa di troppo faticoso.
Dunque la comodità apre la strada alla pigrizia e poi alla staticità, all’apatia e all’inerzia, prima a livello fisico ma che per forza di cose va ad ampliarsi a livello della mente. Condizione in cui dare una risposta a un qualsiasi stimolo proveniente dall’esterno finisce col diventare troppo dispendioso o persino impossibile. Quindi non lo si prende neppure in considerazione.
Nulla di strano, allora, che nel momento in cui per mezzo di una messinscena planetaria ci vengono tolti i diritti che fino all’altro ieri ci è stato ripetuto alla nausea fossero inalienabili, e ci viene dichiarato che vedremo restituircene solo una parte, eventualmente, solo dopo aver accettato che ci sia sottratta la proprietà del nostro stesso corpo, non siamo in grado di produrre una reazione che sia una.
Se è vero che tutto fa brodo, e che in natura nulla si crea o si distrugge ma tutto si trasforma, è alquanto improbabile che certe cose nascano dal nulla. Più facile invece siano il frutto di una costruzione che per essere eretta necessita dei suoi mattoni e tasselli, nonché del collante che li tenga assieme. E tutto quanto contribuisca ad aumentare l’inerzia dell’individuo, se possibile anche di fronte agli accadimenti più sconcertanti e inverosimili, può ragionevolmente esserne parte integrante.
La tecnologia e i suoi scopi
Proprio perché la scienza e la tecnologia si fanno in quattro per soddisfare ogni nostro desiderio, anche il più recondito e addirittura quello che neppure sapevamo di avere, uno tra i loro scopi primari è quello di farci vivere più comodi. Dunque che non ci si debba disturbare a compiere il benché minimo movimento, del resto costa fatica e più diventiamo pigri e più ce ne vorrà. Fin quando non saremo ridotti a uno stadio non così dissimile da quello larvale.
Per allora, nulla di più facile che troveremo troppo impegnativo e scomodo persino agire per soddisfare i nostri bisogni fisiologici essenziali. Non sono del resto l’emblema stesso della penosa imperfezione dell’essere umano, ormai intollerabile per definizione?
Per fortuna ci stiamo apprestando a superarla, grazie all’avvento dell’uomo-macchina cui ci stiamo avvicinando a grandi passi, come sempre a cura del Consorzio Apprendisti Stregoni e Scienziati Pazzi. Divenuto talmente potente da aver revocato principi basilari della medicina cui si è pervenuti mediante una conoscenza messa insieme nel corso dei secoli e ormai perfettamente in grado di rendere obsolescente persino la Natura e i frutti del suo laboratorio che va avanti da milioni di anni.
Forte di cotanto risultato e pronta a rispondere a ogni nostro desiderio, la tecnologia ci correrà incontro e ci fornirà di sicuro lo strumento più adeguato allo scopo.
Ora che ci penso però esiste già, e negli ospedali è di uso comune da tempo immemore per chiunque sia impossibilitato ad alzarsi dal letto. In gergo si chiama pappagallo, proprio come i discorsi di chi ripete cose dette da altri senza manco comprendere il loro significato e tantomeno fare il minimo sforzo al riguardo.
Strano, vero?
Il futuro che ci attende
La liquida e lo streaming vanno proprio nella direzione preferita da chi intende fare del nostro futuro un incubo, qualcosa in confronto a cui anche la distopia orwelliana sarebbe preferibile.
Innanzitutto lo streaming non può essere pagato per contanti e obbliga all’impiego di sistemi di pagamento elettronico. Per coincidenza, anch’esso è pubblicizzato sottolineandone la comodità. Invece di tenere nelle tasche quegl’ingombranti e fastidiosi fogli di cartamoneta, vogliamo mettere quant’è più pratico avere una tesserina di plastica?
Comodo lo è soprattutto per il complesso bancario, che su ogni pagamento detrae la sua tangente, o pizzo. In modo tale che dei poniamo cento euro di partenza dopo un certo numero di transazioni non resta più niente: saranno stati tutti assorbiti, legittimamente per carità, dalle banche che ci offrono quel servizio. Talmente comodo da risucchiare tutto il nostro denaro, sollevandoci così dalla gravosa incombenza di detenerlo.
Forse allora non è un caso che quelle stesse banche, per mezzo del potere enorme causato dal possedere, loro si, somme di denaro incalcolabili che possono produrre dal nulla con la semplice pressione di un pulsante, e poi danno in prestito in cambio di beni materiali, spingano a più non posso sull’abolizione del contante.
Cento euro di cartamoneta, invece, li si può scambiare all’infinito e sempre tali restano.
Purtroppo però il denaro reale ha il difetto gravissimo di essere “pagabile al portatore”, nel senso che chiunque lo detenga può acquisire merci e derrate a volontà, fino a un controvalore equivalente alla somma di cui dispone. Con quello elettronico o virtuale che dir si voglia, basta un clic e la carta tanto comoda torna a essere quello che è: un pezzo di plastica con cui non si fa un bel nulla.
Il tutto naturalmente al netto di malfunzionamenti di sistemi, sabotaggio, sottrazione dei dati, controllo degli acquisti, relativa profilazione del suo esecutore e successiva vendita delle informazioni relative, che sarebbero riservate ma tanto chi potrebbe mai controllare, e via di seguito con tutte le amenità palesi e occulte della nuova frontiera digitale.
L’affare, insomma, è particolarmente grasso.
Liquida e streaming si attagliano alla perfezione anche ai capitolati del grande riassetto, il cosiddetto Great Reset di cui si prevede il completamento per il 2030 con lo slogan “Non possederai più nulla, non avrai più privacy e ne sarai felice”.

Però le oligarchie globali, che mediante i loro serbatoi di pensiero, i cosiddetti think tank dei quali il World Economic Forum è appunto uno tra i più influenti, sembra che facciano quei programmi a loro totale insaputa, usando poi i mezzi di persuasione di cui dispongono affinché i governi li mettano in pratica. Tanto è vero che mentre per gli altri predicano la rinuncia a tutti i beni materiali, in prima persona stanno premendo ancora di più il pedale sull’accumulazione compulsiva che da sempre è il primo tratto distintivo della loro psicosi irreversibile.
Esempio migliore quello di Bill Gates, che da un lato è tra gli artefici e i propagandisti più attivi del grande riassetto, ma dall’altro sta acquistando a spron battuto terreni agricoli un po’ da tutte le parti del mondo.
Secondo Forbes possiede 242 mila acri di terreno solo negli Stati Uniti, per un controvalore stimato di 590 milioni di dollari. Ecco, se c’è una cosa che infonde fiducia è proprio l’esempio che le élite danno a tutti noi riguardo alla coerenza con cui rispettano i principi che cercano d’imporre ai ceti subalterni con tutti i mezzi che hanno a disposizione.
E’ alquanto probabile allora si voglia fare in modo che le persone comuni non possiedano più nulla, e pertanto debbano prendere tutto in affitto a costi moltiplicati. Persino le stoviglie ci dicono quelli del World Economic Forum, proprio affinché gli ultraricchi possano accumulare beni e denaro con ancor più facilità e abbondanza rispetto al passato.
Gli strumenti e i beni affittati con cadenze oggi inverosimili, d’altronde non possederemo più nulla, dovranno essere consegnati materialmente e poi ripresi indietro, causando per forza di cose un traffico enorme e di conseguenza l’aumento dell’inquinamento ambientale che quelle stesse élite giurano di voler combattere a ogni costo.
Perché liquida e streaming si attaglierebbero al grande riassetto? A parte il metodo di pagamento loro necessario, per il semplice motivo che invece di spendere denaro al fine di entrare nel possesso materiale di dischi e supporti fonografici in generale, che restano poi nella disponibilità dell’acquirente che oltre ad ascoltarli li può conservare, collezionare, vendere, scambiare e farne mezzo di accrescimento culturale, lo si fa per avere accesso a una biblioteca di file audio che restano comunque di proprietà del fornitore del servizio.
Di conseguenza, una volta che per un motivo qualsiasi si smette di pagare, e a lungo termine si saranno pagate somme tuttaltro che indifferenti, si resta con un bel pugno di mosche.
Ecco le meraviglie del commercio di beni immateriali, senza dubbio comodissimo. Soprattutto per chi ne trae a sé tutti i benefici accumulando somme enormi, e acquisendo il potere che ne deriva, senza dare in cambio nulla di concreto.
D’altro canto le mosche sono leggere, occupano poco spazio e come tali sono l’emblema stesso della comodità. Presto le mangeremo pure, sempre secondo i dettami del grande riassetto.
Gli allevamenti tradizionali di bestiame infatti, a parte gli atti di verà propria crudeltà gratuita che si consumano al loro interno, come fonte di proteine sono giudicati troppo inquinanti e quindi li si vuole eliminare. Curioso però che per i loro profitti e per la globalizzazione che li ha aumentati esponenzialmente, quelle stesse élite abbiano costretto tutta l’umanità ad acquistare prodotti che prima di arrivare sui banconi dei negozi hanno dovuto fare il giro del mondo. L’inquinamento causato in tal modo non ha precedenti storici, ma ora e come sempre s’intende scaricarne le conseguenze sugli altri.
D’altronde è così che si sono arricchiti, accaparrando tutto per sè e facendone pagare i costi a qualcun altro.
La possibilità di accedere a un repertorio virtualmente illimitato è in realtà un falso punto a favore del sistema, per il semplice motivo che date le sue modalità di remunerazione, porterà un numero sempre maggiore di musicisti a proporre tutti la stessa poltiglia, perché è quello che si vende, selezionato sulla base dei primi secondi di ascolto.
Il sistema di fornitura, a quel punto, avrà poco o nulla interesse a tenere in catalogo le opere artisticamente più meritevoli, che però sono le meno profittevoli e pertanto andranno a scomparire. Dato che a quel punto non esisteranno più collezioni fisiche, dato che per il 2030 si sarà provveduto a spogliarci di tutto, in cambio dell’Elemosina di Stato, non saranno più materialmente fruibili.
Così eviteranno anche di rovinare la piazza alla musica per decerebrati che si sarà affermata nel frattempo, tagliando alla radice ogni possibilità di crescita per il pubblico e soprattutto una forma di concorrenza che è sempre opportuno evitare.
Anche questo è un elemento di grandissima comodità.
Se il brano non piace, lo si scarta e si passa ad altro, quindi il creatore dell’opera sarà incentivato a produrre musica che piaccia e lo faccia all’istante, con gli esiti per la qualità del prodotto che è facile immaginare. Il tutto al fine di ricevere il misero compenso accordato dai fornitori del servizio. I quali peraltro stanno acquisendo il monopolio della musica riprodotta e quindi chiunque voglia diffondere la propria opera dovrà assoggettarsi alle loro condizioni.
Che sono da capestro: per ogni ascolto, la piattaforma più generosa, che è Tidal, riconosce 0,0125 dollari lordi. Di seguito c’è iTunes, con 0,00735 dollari. Spotify, Deezer e Amazon Music pagano circa 0,004 dollari ad ascolto. Il peggiore sotto questo aspetto è Youtube, che per ogni ascolto paga un millesimo di dollaro.
Le somme menzionate inoltre vanno ripartite tra i proprietari del master e dell’opera pubblicata, ossia le case discografiche e gli editori, che già controllano le piattaforme, e gli artisti. Per conseguenza a questi ultimi va il 30% di quel valore già miserevole, da dividere ulteriormente tra compositori, esecutori, arrangiatori, tecnici di ripresa, materiali eccetera.
Ai tempi del peer to peer, ossia della condivisione tra pari dei file esente da ogni forma da lucro, attraverso piattaforme come Napster, eMule o tramite torrent, il mainstream ha coniato il termine di pirati. Contro quella che si fece di tutto affinchè venisse identificata universalmente come pirateria venne ingaggiata una lotta senza quartiere, cui i mezzi di (dis)informazione hanno dato un contributo assai rilevante.
Ora che su quel sistema, perfezionato, le piattaforme di streaming compiono una vera e propria rapina a mano armata ai danni degli artisti e degli appassionati di musica, la pirateria è dimenticata e tutto va ben, madama la marchesa.
D’altronde lo streaming è così comodo.
Negli anni scorsi streaming e download hanno coperto circa il 50% del prodotto discografico nazionale, valore che andrà sempre più aumentando.
I dati menzionati sono tratti dal MEI.
Tutto questo significa che per produrre un guadagno concreto, ossia quanto basta al musicista per sostenersi e proseguire nella sua attività, sono necessari milioni e milioni di ascolti. Ai quali si perviene logicamente facendo musica che piaccia al maggior numero delle persone e lo faccia in fretta. O meglio all’istante, se possibile.
Questo significa che un numero sempre maggiore di essi dovrà assoggettarsi alle leggi inflessibili che sono alla base dell’apprezzamento di massa. Si hanno molte più probabilità di assecondarle producendo musica ridotta in formaggini. Come dico spesso, cos’è andato in cima alle classifiche, “Il ballo del qua qua” o il più bel disco mai realizzato da Frank Zappa o da Miles Davis?
Non ci vuole una scienza per capire che questo sistema, pur essendo una macchina da profitto particolarmente efficiente, è basato su un meccanismo di sfruttamento portato alle estreme conseguenze. Come tale va contro gli interessi del musicista e quindi del fruitore. Questo infatti trova la condizione ideale laddove abbia la possibilità di scegliere più ampia, all’interno di un repertorio della qualità artistica più elevata e che sia registrato nel modo migliore.
Tutte cose che invece il sistema di predazione a tappeto conosciuto come streaming non va a distruggere, ma proprio a negare le sue stesse possibilità di esistenza.
L’appassionato di musica infatti ha tutta la convenienza dove il musicista è meglio remunerato. Solo così infatti può dedicarsi alla produzione di musica senza rischiare di fare la fame, che probabilmente non è la condizione migliore per stimolare la creatività e neppure affinché possa usare la maggior parte del proprio tempo per composizione, esecuzione e produzione, oltreché migliorare le proprie capacità. Nello stesso tempo deve avere il denaro necessario per comperarsi gli strumenti dal suono migliore, dato che è da essi che si realizzano le registrazioni che fanno andare meglio l’impianto, e poi possa registrare la sua musica nella maniera più efficace. Sempre perché suoni al meglio possibile nella sua riproduzione tra le pareti domestiche.
Ecco perché, qualora abbia i mezzi per farlo, al musicista conviene mettere la sua musica su CD autoprodotto e venderlo attraverso i canali disponibili. In tal caso, secondo le fonti menzionate, per arrivare agli stessi guadagni può bastare un centesimo di quel che sarebbe necessario affidandosi alle piattaforme di streaming.
Interesse dell’appassionato è anche avere la scelta più ampia possibile in termini di repertorio.
Invece, come abbiamo visto, le logiche stesse dello streaming tendono per forza di cose a depauperare la produzione musicale e i suoi contenuti.
Ora non ci si accorge di questo, essendo a disposizione dei fornitori del servizio un serbatoio molto ampio, costituito nell’epoca in cui la produzione di musica avveniva secondo i canoni tradizionali. Per forza di cose lo si andrà a prosciugare e a quel punto si vedrà cos’avrà realizzato questo sistema tanto comodo: la distruzione dell’arte musicale.
A quel punto saremo tanto comodi che non ci sarà più neppure bisogno di ascoltare, essendone venute meno la possibilità concreta e la motivazione primaria.
Ennesimo esempio di come il capitalismo e la sua sete insaziabile di profitti non possano far altro che divorare tutto quanto hanno intorno, e un giorno finiranno per fagocitare anche sé stessi.
Ecco dunque dove porta, la tanto lodata comodità.
Si spinge tanto su di essa a ogni livello, inquadrando come bersaglio le menti dei potenziali utilizzatori, rese appositamente fragili, proprio perché i profitti che ne ricavano i gestori del sistema sono enormi.
O meglio, incalcolabili.
L’aspetto tecnico
Se dall’aspetto commerciale della faccenda passiamo a esaminare le modalità di fruizione di quanto messo a disposizione dai servizi di streaming, vediamo innanzitutto che la qualità sonora è davvero bassa. Anche dischi registrati molto bene, che sia pure in Flac poi masterizzato su CD registrabile permettono di ottenere una sonorità impeccabile, una volta che li si obbliga a passare attraverso le forche caudine dello streaming diventano ben poca cosa, una sorta simulacro malriuscito di sè stessi. Questo purtroppo avviene anche con impianti di livello e costo molto elevati, ricacciati in una pochezza timbrica e sonora disarmante. Quantomeno se si è potuto apprezzare il livello qualitativo connesso con l’impiego del supporto fonografico tradizionale.
Non potrebbe essere altrimenti: la sorgente è notoriamente l’elemento più critico per la qualità sonora dell’impianto: ogni perdita o errore che avvengono in quella fase non sono più recuperabili in seguito. Dunque alla pochezza dello streaming si può far seguire anche l’impianto migliore di questo mondo: quel che si otterrà è soltanto di mettere ancor più in evidenza le carenze del sistema.
Qualcuno dirà: con il 5G le cose miglioreranno. Probabile. Peccato che a quello scopo si è aumentato il livello del campo cui si può essere esposti, fino a 61V/m. Se mi è permesso, non si vede perché si debba essere tutti quanti ficcati a forza in un forno a microonde a cielo aperto per favorire un traffico dati sostanzialmente inutile, dato che con il supporto fisico si ottengono risultati comunque migliori.
Se l’esposizione a campi magnetici tanto rilevanti e a onde ultracorte ha buone probabilità di portare danni alla salute, nel dubbio forse è meglio tenersi a distanza.
Oltretutto il 5G malsopporta la vegetazione, che fino a prova contraria è quella che permette la vita su questo pianeta. Il taglio delle piante eseguito a favore della nuova tecnologia è uno scempio che grida vendetta per chiunque conservi il minimo residuo di ragionevolezza.
Però le stesse élite che lo hanno preteso dicono di voler combattere l’inquinamento e sono preoccupatissimi dell’aumento globale delle temperature. Dev’essere per questo che tagliano le piante che ci danno ossigeno e ombra, insieme a molto altro.
In effetti è molto comodo vivere in zone prive di alberi, sacrificati alle necessità del traffico dati più sostenuto che sia possibile, dato che allì’approssimarsi dell’inverno non sarà più necessario raccogliere le foglie che lasciano cadere. Si risparmieranno così somme rilevasnti.
Sempre in tema di comodità, è evidente che i servizi di streaming e più in generale la musica liquida lo siano solo per chi ha dimestichezza coi mezzi informatici. Oggi tutti siamo stati costretti ad acquisirla, tuttavia partendo da zero cosa sarà più facile, e quindi più comodo, da imparare: l’impiego di questi ultimi o quello di un giradischi, un lettore CD o un registratore?
Si dirà: “Si, ma i formati ad alta definizione col CD non possono essere riprodotti”. Verissimo, ma già ora si rivelano perdenti nei confronti del supporto fisico in termini di qualità sonora, per i motivi ben noti. Inoltre c’è un aspetto che non viene quasi mai considerato, che è di grande importanza.
Stiamo parlando del jitter, alterazione del posizionamento temporale del campione, che secondo diverse fonti, attendibili, è la causa più importante di degrado nell’audio digitale.
Ora con un campionamento di densità che definiamo bassa, come quella del CD, un jitter ragionevolmente contenuto non causa soverchi problemi. Aumentando la densità dei campioni, e dunque il loro numero nell’unità di tempo, va da sé che lo stesso jitter che prima consideravamo contenuto non lo è più, proprio perché il suo ammontare diventa sempre più rilevante in confronto alla durata temporale del singolo campione. Più aumenta la densità dei dati, più si riduce la loro durata, più il jitter, che per forza di cose non può essere del tutto azzerato e anzi al di sotto di determinati livelli fisiologici non può scendere, oltre a trovare porte d’ingresso imprevedibili, diventa rilevante nei suo confronti. Tornando così a materializzare condizioni di degrado che con i formati di densità minore non esisterebbero proprio.
Questo oltre al rateo di bit ( numero di bit nell’unità di tempo) tendente a salire in maniera esponenziale con l’aumentare della densità dei dati, rappresenta il limite primario e insormontabile in base alle tecniche fin qui conosciute dell’audio digitale.
Chi si diletta di fotografia o ne mastica solo un pochino ha a disposizione un esempio che permette di comprendere con più facilità la questione. Uno tra i fattori di degrado in tale ambito è il cosiddetto micromosso, che è paragonabile al jitter come fenomeno e nelle origini della sua materializzazione e, al suo pari, causa una perdita di definizione. Solo che lo fa nei confronti dell’immagine invece che della sonorità.
Il micromosso è causato da movimenti impercettibili prodotti nell’atto di scattare e dai meccanismi interni della fotocamera.
Per motivi fisici inerenti le dimensioni dei pixel, ossia dei fotositi presenti sui sensori atti alla rilevazione della luce, quindi alla formazione dell’immagine, il fenomeno del micromosso è tanto più sentito quanto maggiore è il numero dei megapixel presenti sul sensore.
In linea teorica un sensore caratterizzato da un numero più elevato di megapixel è di qualità superiore, proprio perché dovrebbe permettere una maggiore definizione dell’immagine. Tanto è vero che i fabbricanti hanno ingaggiato una vera e propria battaglia su quel terreno. All’atto pratico la fotocamera dotata del numero maggiore di pixel finisce col perdere buona parte della sua superiorità proprio perchè più pixel su un sensore che è sempre della stessa dimensione, significa doverne ridurre sempre più la misura, così da risentire in termini di micromosso di movimenti sempre più infinitesimali, che proprio come il jitter oltre certi limiti sono ineliminabili.
Dunque, nella realtà può accadere l’esatto contrario di quel che ci racconta la teoria: la fotocamera dotata del sensore con più megapixel dovrebbe garantire immagini più definite e capaci di scendere nel particolare, ma poi accade l’opposto, dato che i problemi causati dal micromosso vanno a causare proprio un calo della definizione. In modo tale da produrre risultati inferiori a quelli che nel mondo della fotografia reale si avrebbero con una fotocamera dal numero di megapixel minore.
Non a caso quegli stessi fabbricanti digitali hanno messo in campo una serie di contromisure volte proprio a ridurne l’incidenza, che però non sono riusciti ad azzerarne le conseguenze ma solo a ridurle. Tanto è vero che le cosiddette “megapixellate” sono sovente rifiutate da un numero rilevante di utilizzatori, proprio in quanto consci del problema. Questa particolare tipologia di macchine viene indirizzata soprattutto alla fascia alta del mercato amatoriale, quando invece le macchine destinate ai professionisti dell’immagine sono caratterizzate da sensori meno densi.
Abbiamo poi un ultimo elemento, la cui importanza è tra le più rilevanti. Stiamo parlando del cavo. Quello che si utilizza in genere è del tipo per stampanti, quindi un USB che per la conformazione stessa dei suoi connettori non permette la realizzazione concreta di un conduttore che sia davvero adatto alle necessità del trasporto dei dati relativi al file audio, quale che sia la sua definizione.
E se già un sistema è inadeguato nel dispositivo che permette un trasporto di informazioni che per uno scherzo del destino non vanno da un’apparecchiatura all’altra per opera dello Spirito Santo, difficilmente potrà essere in grado di produrre qualcosa di decente.
Naturalmente non mancherà chi salta su dicendo che il suo sistema è certificato bit perfect quindi il problema non sussiste e altre amenità di questo genere. Come quella che tanto in quel cavo ci passano solo uni e zeri.
La loro attendibilità la si rileva nel momento stesso in cui si passa da una memoria di massa su disco rigido a una a stato solido. Entrambe permettono una riproduzione “bit perfect”, eppure le differenze in termini di qualità sonora tra le due rtipologie sono ben evidenti. Natualmente qualora si possieda un impianto in grado di evidenziarle e ovviamente capacità percettive e un’educazione all’ascolto all’altezza del compito.
Il saltapicchio
L’avvento di una nuova tecnologia spesso va a produrre conseguenze imprevedibili, soprattutto nelle modalità di utilizzo che essa implica, variate rispetto al passato.
Il passato della fruizione di musica registrata, è andata di pari passo all’evolversi del supporto fonografico. Senza voler fare una sua cronistoria, vediamo che negli ultimi ottanta anni i suoi passaggi sono quelli inerenti al disco a 78 giri, poi sostituito dal 45, più pratico, resistente e soprattutto e adeguato alla realtà canzonettistica che andava affermandosi nel corso degli anni cinquanta e sessanta. Anche in virtù dell’avvento del cosiddetto microsolco, caratterizzato appunto da dimensioni notevolmente più ridotte rispetto al passato, che quindi permetteva di racchiudere un maggior numero di informazioni in un supporto di dimensioni minori, richiedendo ovviamente dispositivi di lettura adeguati.
L’avvento del 33 giri, con la sua durata tipica di venti minuti per facciata, nei casi estremi può arrivare persino a 30, è stato un passaggio epocale, dato che finalmente ha permesso di mettere su un solo disco opere il cui respiro andava ben oltre la canzonetta più o meno di successo abbinata al suo lato B, E’ stato seguito dal CD che ha portato la durata prima a 74 e poi a 80 minuti, oltretutto su una sola facciata.
Possiamo dire quindi che il suo incremento è stato l’elemento portante dell’evoluzione del supporto nel corso dell’ultimo mezzo secolo e oltre. Ora invece abbiamo la liquida e lo streaming che non solo fanno l’opposto, ma come si ha modo di verificare visitando un qualsiasi suo fruitore, ha indotto una modalità di riproduzione centrata essenzialmente sul passare in maniera frenetica, direi fin quasi compulsiva, da un brano all’altro, senza dargli neppure il modo di esaurirsi, per passare immediatamente all’altro, del quale si ascolta qualche secondo per poi passare di nuovo oltre.
Questo non solo comporta la negazione stessa dell’opera musicale, che in quanto tale non ha neppure più senso di esistere nella forma sia pure variabile con cui la si è intesa fino a oggi, ma con ogni probabilità verrà influenzata dai nuovi atteggiamenti del pubblico che si rivolge a questo prodotto.
Del resto se già viene retribuito così poco, perché affannarsi a dargli una struttura logica, fatta di un incipit, una o più strofe, un inciso, che è quello maggiormente destinato a entrare nella testa della persone, e così via, se tanto poi nessuno li ascolta più? Tanto varrà eliminarli, ma a quel punto che forma assumerà l’espressione musicale? Quanto spazio rimarra per qualcosa che non sia uno stimolo sonoro il più possibile semplificato, destinato a esaurirsi nello spazio di qualche secondo?
A questo tra l’altro spinge la necessità di consumare sempre più in fretta, e quindi a produrre contenuti o pseudo tali sempre più sintetici, e come tali per forza di cose sempre più svuotati di significato, aspetto ai fini del quale valgono tutte le considerazioni fatte a suo tempo in “La questione della sintesi“.
Quali prospettive comporti tutto questo per l’arte musicale non credo abbia bisogno di tante spiegazioni. D’altronde si sa che la legge della sopravvivenza comporta l’adattamento al mutare delle condizioni ambientali, senza tenere conto degli aspetti di tipo qualitativo: ciò che non vi riesce ha il destino segnato.
Sarà del resto un sacrificio che si affronterà volentieri, in nome dell’irrinunciabile comodità.
Acute e rare osservazioni… in alcuni punti mi sembrava di sentire Lincetto di Velut L’una…. peccato che siamo in pochi a rendercene conto. Cordiali saluti
Soprattutto rare.
Ormai da tempo il pensiero unico domina anche nell’ambito della riproduzione audio. Troppi sono gl’interessi in ballo, soprattutto per quel che riguarda la somministrazione di tracce audio da remoto, che del resto è un affare dai profitti incalcolabili, e troppo allettante è il regime di monopolio sostanziale derivante da complessità e dimensioni dei sistemi necessari a fornire il servizio, per consentire a chicchessia di pensare con la propria testa.
In un colpo solo l’industria discografica abbatte le spese, scaricandole su autori ed esecutori dei brani e si sbarazza delle etichette indipendenti, o meglio profitta anche del loro prodotto, spina nel fianco che ha costruito essa stessa, svuotando di qualità il suo prodotto oltre ogni limite.
Dunque il martellamento a favore della cosiddetta liquida dev’essere implacabile, ma soprattutto scevro da opposizione.
Sia pure a livello meramente concettuale, della quale infatti non vi è traccia.
Grazie del commento e a presto.
Bellissimo articolo. Complimenti!
Ciao Gianluca, grazie dell’apprezzamento.
Buongiorno signor Claudio, sono un pò perplesso:
gli elementi di una catena di riproduzione audio , generalmente , non variano negli elementi di amplificazione e di trasformazione del segnale elettrico in suono (diffusori acustici) , rimane quindi , a cambiare , a parità di ambiente e accessori, solo la sorgente.
Le tre fonti diverse (LP, CD e Streaming digitale) e loro dispositivi di lettura sono tutti presenti nel mio impianto audio.
Ma , scelti ed ascoltati un buon LP , un buon CD e selezionato un brano ultra HD (ad esempio) dall’ archivio di Amazon Music , credo di poter dire che esprimano tutti una gradevole emissione di ascolto.
NON posso garantire che , come scrivi <> questo criterio sia soddisfatto dal mio impianto e dalla mia capacità percettiva.
Ad ogni modo, la musica in streaming (Amazon music , Apple music , Tydal , ecc.)
offre la possibilità di ascoltare solo i brani che si giudicano piacevoli, di ascoltare brani ed interpreti che non conosciamo , magari proposti dallo stesso provider di musica.
Mi chiedo quali siano i vincoli tecnici che limitano la qualità della emissione che avviene attraverso la musica digitale in streaming , di cui parli.
Grazie e cordiali saluti
Ciao Riccardo, grazie dell’attenzione e del commento, che mi permette di puntualizzare meglio determinati concetti.
In parte sono stati analizzati nell’articolo intitolato “Convertitori, formati e altre storie dal magico mondo del digitale”, che ti consiglio di leggere.
Per venire al tuo quesito, come sempre è essenziale mettersi d’accordo sui significati e sui parametri di valutazione.
Ciò che tu definisci gradevole può non esserlo per altri e soprattutto può non essere sufficiente.
In particolare per chi ha un percorso di un certo rilievo dietro le spalle e quindi non si accontenta più della semplice gradevolezza, ma è alla ricerca di qualcosa di più. Ad esempio di realismo, che in quanto tale è la sola cosa che attribuisca un significato alla sigla hi-fi, che come sappiamo vuol dire alta fedeltà. A che cosa, se non alle condizioni e alle sensazioni proprie dell’evento reale?
Il suo scopo dunque è quello di riprodurle, almeno in parte, così da dare la sensazione, o almeno un’idea, di trovarsi di fronte ad esso, pur restando all’interno delle mura domestiche.
Pertanto, con la semplice gradevolezza, si va a negare il significato stesso della specialità e quindi il suo motivo di esistere.
Quanto all’offerta, proprio quello è il problema di fondo: come ho cercato di sottolineare, le piattaforme si limitano sostanzialmente a lucrare su un repertorio già esistente, del quale sono entrate in possesso. A causa delle condizioni che attuano, elencate nell’articolo e ovviamente modellate in via esclusiva sulle loro necessità di profitto, rendono impossibile per il musicista affrontare un percorso di evoluzione e di ricerca che possa portarlo a un miglioramento delle sue capacità, se non ricorrendo a risorse di provenienza estranea alla sua attività, e men che meno alla sintesi di un linguaggio non dico nuovo, ma che almeno costituisca un passo in avanti rispetto a ciò che è già.
Si tratta di un aspetto fondamentale che però viene trascurato minuziosamente, ritengo per non toccare gl’interessi economici di quelle piattaforme, che fanno capo a potentati che si evita accuratamente di mettere in discussione.
L’evoluzione è un aspetto fondamentale dell’arte musicale: la ricerca e la sintesi di nuovi linguaggi espressivi non solo sono parte integrante di essa, ma costituiscono un elemento essenziale affinché si continui a praticarla. In caso contrario diventerebbe qualcosa di simile all’archeologia, con la costante reiterazione di opere composte nel passato che nella maggior parte sono bellissime, per carità, ma non possono bastare. Proprio perché la ricerca e l’evoluzione di stili e linguaggi sono parte stessa dell’arte.
Proviamo a immaginare cosa sarebbe accaduto se le limitazioni di cui stiamo parlando fossero intervenute in un momento a piacere del passato, diciamo nel 1900. L’anno successivo sarebbe morto Giuseppe Verdi e da allora in poi non avremmo avuto più nulla di nuovo, ma tutto si sarebbe congelato. La realtà dell’arte e dell’espressione musicale sarebbe la stessa che conosciamo? Alquanto improbabile.
Questo stanno facendo quelle piattaforme, anche se non ci si rende conto del meccanismo da esse indotto e soprattutto delle conseguenze che finirà col causare, moltiplicato poiché stanno acquisendo il monopolio del mercato discografico. Che come tutti i monopoli tende appunto a congelare il settore in cui agisce, proprio al fine di garantirsi le condizioni migliori affinché possa prosperare indisturbato e il più a lungo che sia possibile.
Dunque, come vediamo, andando a produrre condizioni del tutto contrarie all’interesse dei musicisti e dei fruitori dell’opera riprodotta, che hanno tutto il vantaggio affinché il musicista si trovi nella possibilità di produrre nel modo più libero e agevole, e di conseguenza creativo.
Secondo quelle piattaforme dovrebbe farlo con i decimillesimi di dollaro che pagano per ogni ascolto, portando inevitabimente tutto il settore alla morte per asfissia.
Il vincolo primario e più evidente a livello tecnico dello streaming e della musica liquida è dato dall’impiego di alimentazioni a impulsi da parte delle apparecchiature con cui se ne esegue la riproduzione. Questo comporta limiti insormontabili per la qualità sonora che ne deriva.
Alcuni hanno tentato la realizzazione di alimentazioni lineari esterne dedicate a tali dispositivi, con risultati lusinghieri che sono essi stessi la dimostrazione concreta dell’esistenza del problema. Tuttavia a fronte di esse non è possibile eliminare del tutto le alimentazioni a impulsi diciamo così secondarie, che sono parte integrante dei diversi dispositivi che vanno a comporre il personal computer o lo streamer adibito allo scopo.
Di fatto quindi il problema è ineliminabile.
A questo proposito ricordiamo che un’alimentazione non si limita solo a assorbire corrente ma ne rimanda anche fuori, inquinata dagli elementi di disturbo introdotti in conseguenza della sua stessa funzionalità. Questi disturbi allora non possono far altro che rientrare nel sistema di riproduzione attraverso le alimentazioni degli altri suoi componenti, con i risultati che è facile immaginare.
Un’alimentazione “sporca” è la prima causa di degrado per la qualità sonora di una qualsiasi apparecchiatura adibita alla riproduzione audio.
C’è poi l’aspetto dei cavi, altrettanto importante, proprio perché la tipologia di connettori necessaria non permette materialmente la realizzazione di un conduttore secondo le necessità di una riproduzione sonora di alto livello. Anche qui con la grave penalizzazione qualitativa che ne deriva.
Infine c’è l’aspetto inerente la messa a punto del supporto e del suo riproduttore, che ha anch’essa grandissima importanza. Infatti è proprio per quel tramite che si è riusciti a portare la riproduzione da sorgenti analogiche a livelli qualitativi tali da essere impensabili prima d’imboccare quella strada. Poi è arrivato il CD e inizialmente si ritenne che su di esso non fosse possibile intervenire in modo alcuno. Poi, col tempo, si è compreso che anche su di esso si poteva fare, e molto, per migliorare le caratteristiche della riproduzione cui dà origine. Ora però è venuta definitivamente meno la possibilità di intervenire manualmente sul dispositivo all’origine della riproduzione di liquida e streaming, eliminando di fatto un possibile punto d’intervento a fini migliorativi. I problemi, o altrimenti i margini di miglioramento tuttavia sussistono, come dimostra il cambiamento, di solito in meglio, che si ottiene passando da un disco rigido tradizionale a uno a stato solido.
Il non poter intervenire più di tanto al riguardo costituisce pertanto un ulteriore elemento di penalizzazione.
Questo ha importanza non soltanto ai fini del rendimento del sistema, ma anche per l’attrattiva del settore e soprattutto la crescita degli appassionati a livello tecnico, di consapevolezza e di capacità percettive.
Ai tempi dell’analogico la messa a punto era un aspetto fondamentale per il rendimento di tutto l’impianto, proprio perchè la sorgente è l’elemento più critico a tale proposito. Imbarcarsi nelle operazioni ad essa necessarie significava non solo imparare e sviluppare la propria sensibilità, ma anche aumentare la propria passione, tutte cose che hanno avuto un’importanza fondamentale ai fini dello sviluppo e della diffusione dell’intero settore.
Così facendo si esercitano le proprie capacità di pensiero, di critica, di intuizione, di ideare e poi mettere in pratica soluzioni atte a risolvere i problemi individuati. Poi possono riuscire o meno nei loro intenti. Se va bene la passione riceve un contributo sostanziale e spesso fa un balzo in avanti prodigioso, aprendo una nuova visuale ai fini del miglioramento di ciò che si possiede. Se va male, qualcosa si sarà comunque imparato, che con ogni probabilità si rivelerà utile in futuro.
Quando tutto questo è venuto meno, con l’avvento del digitale, la riproduzione sonora amatoriale è entrata in una crisi che per molti versi si è dimostrata irreversibile, proprio perché il potenziale propedeutico di certe attività è di grande importanza. Poi si è capito che anche sul CD si poteva intervenire in una lunga serie di aspetti, ma ormai la frittata era fatta, avendo il digitale indotto un elemento di passività nella fruizione della riproduzione sonora e degli impianti ad essa dedicati che si è dimostrato irreversibile.
Quella passività favorisce l’industria e più in generale tutto il sistema di profitto legato alla riproduzione sonora, proprio perché mette l’appassionato alla sua completa mercé, dato che qualsiasi miglioramento intenda apportare non potrà far altro che mettere mano al portafoglio. Con tutto quel che ne consegue.
Ora, con la liquida la situazione è diventata ancora peggiore, dato che si tratta di un sistema sostanzialmente chiuso e in larga parte inattaccabile alle velleità migliorative degli appassionati.
Se da un lato questo rappresenta un limite alle potenzialità prestazionali del sistema, dall’altro va a costituire la negazione stessa del concetto di hi-fi, proprio perché essa si basa in via primaria proprio sul concetto di miglioramento continuo delle condizioni di ascolto.
Il miglioramento anzi è proprio la sua origine, dato che altrimenti si sarebbe tranquillamente continuato ad ascoltare con la radio del nonno.
Venendo meno qualsiasi possibilità di miglioramento che non sia calato dall’alto, dunque, viene per forza di cose meno il concetto stesso, dato che se ci si deve accontentare è tutto il gioco che perde di significato e di attrattiva.
Dunque, alla lunga liquida e streaming uccideranno l’arte musicale e insieme ad essa la forma di artigianato, diciamo così, legata al miglioramento continuo delle sue modalità di fruizione.
Anzi, lo stanno già facendo.