Quando le casse erano di legno e i coni di carta: AR 4X

Oggi si parla spesso di vintage, intendendo con questa definizione un qualsiasi prodotto che abbia più di dieci, quindici anni di età.

Stavolta invece ci occupiamo di un diffusore che arriva nientemeno dagli anni sessanta, nel pieno fulgore della musica beat e di quello che da noi chiamavano yé-yé, causa lo scimmiottare dei nostri cantanti e gruppetti di musica giovane, all’epoca si chiamavano complessi, il tipico intercalare delle loro controparti inglesi basato sulla parola yes.

Purtroppo o forse per fortuna, sono sufficientemente vecchio da aver vissuto quell’epoca, sia pure in tenera età, e ne conservo tuttora ricordi vividi.

A parte Beatles e Rolling Stones più o meno sulla bocca di tutti, i secondi un po’ meno, c’erano Donovan, gli Yardbirds e i Pretty Things, mentre il beat stava tramutando in psichedelia e poco più tardi vi sarebbero stati gli albori del progressive. Al culmine della modernità della musica nostrana c’erano l’Equipe 84 e i Rokes, i New Dada e I Quelli, che anni dopo sarebbero diventati la PFM, ma era già roba per “capelloni” e “contestatori”.

Al cinema si andava per vedere “Easy Rider”, film dalla colonna sonora che oggi è un vero e proprio documentario per la musica dell’epoca. Fece grande scalpore, con discussioni che tennero banco per parecchio. Proprio perché la reazione della cosiddetta gente comune nei confronti di chiunque uscisse dai canoni allora in vigore non era così distante da quella raccontata nel film, anche se trovava uno sbocco nel reale meno cruento ma altrettanto determinato nel rigettare qualcosa visto come un corpo estraneo.

Bastava poco, del resto, per farsi appiccicare certe etichette. Appunto i capelli lasciati crescere un paio di dita più lunghi del consueto o, peggio, ascoltare musica che non fosse quella passata al vaglio della triade Canzonissima-Sanremo-Un Disco Per L’Estate.

Un giorno mi trovai in casa del fidanzato di una mia cugina di alcuni anni più grande. Lui aveva una sorella anch’essa già grandicella. Doveva essere un po’ scapestrata e mentre noi arrivavamo lei stavo uscendo. La madre, ormai rassegnata: “Ma come sei vestita, non ti pettini neppure…” E lei, senza scomporsi: “Pettinarsi è borghese“. Poi prende la porta e se ne va.

Non so neppure come si chiamasse, quella ragazza. La sua risposta e la scena in cui ha avuto luogo però si sono scolpite nella mia mente: in quelle tre parole si è riassunta con sintesi mirabile la vera essenza di quell’epoca.

Allora era tanto se avevi il mangiadischi. La fonovaligia stereo era già un grande lusso e l’Hi-Fi almeno qui da noi era roba per pochissimi iniziati, dalle capacità di spesa non indifferenti.

Il più diffuso era fabbricato dalla Irradio, ma Philips ne produceva addirittura uno per auto, anch’esso piuttosto comune in quegli anni. Aveva una sospensione eccezionalmente elastica, per reggere agli scossoni, ma era utilizzabile solo su strade perfettamente lisce o quasi.

Immaginiamo quale concentrazione di guida si potesse avere, cambiando 45 giri ogni tre minuti, ma d’altronde quello passava il convento. Altrimenti c’era la radio.

Quindi nel momento in cui mi chiama Emanuele per dirmi che in casa della zia ha recuperato diverse cose, tra cui una coppia di diffusori AR, mi si sono drizzate le orecchie. A dire il vero lui mi ha parlato di “AR Design”, quindi ero quasi sicuro si trattasse di uno di quei diffusori realizzati durante le riesumazioni successive di quel marchio glorioso. Molte delle quali decisamente sciagurate.

Ho deciso comunque di andarli a vedere e quindi la sorpresa è stata grande quando mi sono trovato di fronte a questi “4X”, che arrivavano dritti dritti dalla metà degli anni sessanta come ho potuto appurare in seguito.

Del resto ricordo perfettamente che nei primi settanta, epoca in cui mi sono avvicinato a questo settore, degli AR 4X non si parlava già più. C’erano i 4 Xa, comunque tenuti in second’ordine perché i prodotti più in voga del fabbricante erano altri, di realizzazione più recente.

Le condizioni dei 4X purtroppo erano quelle che erano, con la membrana di un woofer tagliata e un’altra con un bel buco. Anche i tweeter erano ridotti maluccio, con uno di essi che aveva il piedino di collegamento strappato via. Fortuna ha voluto però che i diffusori fossero tre, cosa all’epoca non così inusuale, ai fini della ricostruzione migliore di un canale centrale fittizio.

Pertanto le possibilità di tirar fuori da essi una coppia funzionante aumentavano in maniera notevole, così da consentire il mettersi all’opera con buone probabilità di successo.

Uno dei tre diffusori aveva anche la cassa malconcia, con le giunture tra i pannelli apertesi probabilmente per l’umidità. Anche un altro tweeter era ammutolito ma per fortuna è stato possibile ripristinarlo.

Da una rapida verifica mi sono reso conto che molto probabilmente mi trovavo di fronte a una serie di 4X alquanto particolare, prodotta in un numero di esemplari non elevatissimo, riconoscibile dall’esterno per le linee di irrigidimento presenti sulla membrana dei woofer.

Proprio questi altoparlanti presentavano la testimonianza più attendibile dell’epoca cui risalgono i diffusori, dato l’impiego di una sospensione in tela, di colore giallognolo e ben impiastricciata di materiale nerastro e colloso, probabilmente utilizzato in qualità di sigillante e smorzante.

Sarebbe stato apprezzabile conservarla, ma purtroppo era molto indurita e tendente a spezzettarsi non appena si tentava di muovere la membrana, cosa che avveniva peraltro con difficoltà, stanti le condizioni della bordatura. Dal lato della bobina sembrava invece esservi libertà da impedimenti, suggerendo nuovamente l’esistenza di buone possibilità di recupero.

Quindi tutto sommato i woofer erano in condizioni non dico discrete ma almeno recuperabili, mediante la riparazione di una delle membrane e la sostituzione della tela con una sospensione in materiale schiumoso.

Il tweeter ammutolito dava qualche preoccupazione in più, anche per via della sua realizzazione, che sulle prime è sembrata non lasciare spazi d’intervento. Poi invece si è riusciti a recuperarlo, cosa sempre apprezzabile, per quanto siano disponibili repliche di buona fedeltà nei confronti degli altoparlanti originali, almeno a livello visivo.

In casi del genere si cerca sempre di salvare l’altoparlante di primo equipaggiamento, ogniqualvolta sia possibile.

Oltreché dalla membrana a cono, quelli a cupola forse non esistevano ancora e nel caso avevano una diffusione limitata, i tweeter si distinguono per la griglia metallica di protezione, parecchio robusta, che alcuni hanno preferito rimuovere. In quel caso però si perde anche l’apporto dell’anello di lana di roccia montato intorno alla membrana, probabilmente con funzioni di smorzamento e controllo dell’ampiezza di emissione.

Quello ritratto  nella foto sopra è proprio il tweeter che si trovava nelle condizioni peggiori, da cui sono stati rimossi griglia e assorbente per meglio osservare la conformazione del cono.

Le differenze fondamentali nei confronti degli altoparlanti a cupola attuali risiede nella maggiore robustezza, che permette di tagliarli più in basso, come in questo caso, e con pendenze minori. Poi in un angolo di emissione più stretto, nella fattispecie parzializzato ulteriormente per mezzo del materiale assorbente posto intorno alla membrana e in una certa qual difficoltà nell’emissione delle frequenze prossime al limite superiore della gamma udibile.

All’atto pratico tuttavia non sembra essere un gran problema. Forse avvantaggia persino la naturalezza di emissione dell’altoparlante, dalla quale deriva un apporto fondamentale per la caratteristica sonica più evidente e apprezzabile messa in evidenza dal diffusore.

Ancora un accenno per i woofer, dato che sono equipaggiati con magneti in alnico, particolare che ne accresce il pregio.

 

Serie speciale

Come si poteva sospettare dalla membrana del woofer, gli esemplari di AR 4X di cui ci stiamo occupando appartengono a un lotto di produzione differenziato rispetto al consueto.

Le notizie reperibili sembrerebbero attribuire loro l’appartenenza a una serie di transizione tra il modello 4 e il 4X per così dire definitivo, tipica delle prime fasi di produzione della versione rinnovata.

Questo rende i diffusori se possibile ancora più interessanti e quindi meritevoli non solo di un salvataggio, ma anche di un intervento atto a ripristinarli nelle condizioni operative migliori. Come già verificatosi in passato, così facendo si va spesso incontro a sorprese positive, a volte parecchio.

Le loro modalità realizzative inoltre suggeriscono la differenza già a livello di approccio esistente tra l’epoca della loro fabbricazione e quella attuale. Oggi sarebbe impensabile, per un prodotto di serie, una differenziazione del genere. Le logiche della produzione su grandi numeri, le economie di scala, la necessità di ritagliarsi dei margini anche laddove un tempo non lo si sarebbe neppure considerato e una serie di altri aspetti fanno si che una volta deliberato il prodotto sia quello e tale rimanga, fin quando è presente a listino.

Allora invece c’era un grado di libertà decisamente maggiore, sia pure in un contesto formale assai più rigido, cosa sulla quale ritengo sia necessaria una riflessione approfondita, da parte di ognuno per proprio conto.

Non solo il cambio tra un prodotto e l’altro poteva avvenire con maggiore gradualità, permettendo quindi di valutare le variazioni apportate lungo un periodo maggiore e nel caso di tornare sui propri passi, ma c’era anche la possibilità di correggere eventuali errori. Il che in ultima analisi permetteva di arrivare sul mercato con un oggetto più valido e meglio ponderato. In sostanza meno esposto a quelli che un tempo erano definiti mali di gioventù e guardacaso oggi sono cancellati dal vocabolario, quindi destinati a rimanere li dove si trovano. Tanto poi ci pensano la propaganda e i battage pubblicitari a coprirne le conseguenze. Modo di fare che di sicuro salvaguarda maggiormente dalle conseguenze di passi falsi che sono inevitabili, ma che a lungo andare porta a un pubblico meno capace di operare le proprie scelte su basi di una qualche razionalità, come la situazione odierna mostra in maniera impietosa.

Se questo comporta inizialmente la possibilità di vendere loro di tutto, è evidente che nel medio-lungo termine le persone siano destinate a prendere coscienza. Ricapitolando le tappe della loro esperienza, le probabilità che abbandonino il settore, ritenendo impossibile il pervenire infine alla soddisfazione delle loro aspirazioni, saranno numerose, se non proprio inevitabili.

Ulteriore dimostrazione che il capitalismo impone nel suo evolversi leggi sempre più ferree, che lo portano a divorare tutto quanto ha intorno. Il suo problema è che quando avrà terminato di compiere quell’opera ineluttabile, si ritroverà fatalmente ad aver fagocitato anche sé stesso.

Le logiche con cui si muovono i suoi controllori attuali, sembrano suggerire che ormai ci si trovi molto vicini a quel momento. A meno che un intervento esterno provveda a ridurre costoro nell’impossibilità di procurare altro danno.

Cosa che ormai si è imparato a fare usando come paravento una causa apparentemente nobile e degna del massimo encomio, messa poi al primo posto dell’agenda dal sistema mediatico, che è controllato da quelle stesse persone. E, come ha detto qualcuno, ormai non fa più informazione, ma comunicazione, che è cosa ben diversa. Dunque non dà più notizie ma ordini, sia pure dissimulati sotto uno strato di perbenismo politicamente corretto che però non ne muta la sostanza.

Oltreché nel woofer caratterizzato dalle fasce d’irrigidimento, la serie cui appartengono i “nostri” AR 4X si distingue dalle versioni successive per alcune differenze a livello di crossover. In particolare nella cella della via inferiore, che utilizza una bobina da 265 spire, come indicato peraltro da una scritta apposta manualmente su di essa, e un condensatore da ben 24 uF in parallelo all’altoparlante.

Il tweeter invece è quello della 4X diciamo così definitiva, con membrana da due pollici e mezzo, in luogo di quella da tre pollici e mezzo dell’AR 4 prima serie.

 

L’intervento

Avendo dovuto trascorrere molti anni in un ambiente umido, all’interno dei diffusori erano presenti quantità di muffa piuttosto rilevanti.

Motivo per cui è stato necessario rimuovere il materiale di coibentazione e sanificare a fondo le superfici interne. Come rilevato in precedenza, date le pessime condizioni delle sospensioni originali, sia pure a malincuore si è dovuto procedere alla ribordatura dei woofer.

A questo proposito va detto che trattandosi di diffusori in sospensione pneumatica, la tenuta d’aria e l’assenza di sfiati sono fondamentali per il funzionamento corretto del sistema.

Per la ribordatura è stato scelto materiale schiumoso, il cosiddetto foam, secondo una scelta volta a mantenere per quanto possibile la vicinanza alle tecniche utilizzate in quel periodo.

A lavoro completato le membrane avevano riacquisito la loro libertà di movimento, in precedenza quasi del tutto azzerata proprio per via dell’indurimento delle sospensioni montate all’origine.

Grande importanza in altoparlanti così anziani e oltretutto provati dalle insidie del tempo, come testimoniano le deformazioni visibili sulle membrane stesse, è assunta dal centraggio dell’equipaggio mobile. In casi come questi il giochetto del foglio di carta posizionato nel traferro rischia di essere ben poco efficace, proprio perchè le tolleranze atte a garantire il gioco sufficiente tra l’equipaggio mobile la parte fissa sono andate a farsi benedire, già da parecchio.

Quindi se in condizioni statiche tale accorgimento può sembrare efficace, una volta che l’altoparlante è in funzione non potrà che mostrare tutti suoi limiti.

Dunque occorre adottare tecniche di centraggio più efficaci, che tengano conto delle condizioni proprie del regime dinamico, per il funzionamento corretto dell’altoparlante in primo luogo e poi per non rischiare di sentire il gracchiare tipico dovuto al contatto della bobina con le pareti del traferro in alcuni passaggi musicali.

Malgrado lo stato in cui si trovavano gli altoparlanti, quest’operazione di grande criticità, soprattutto nelle condizioni date, è sembrata riuscire perfettamente.

Per il resto si è provveduto a sostituire il materiale di coibentazione, essendo quello d’origine irrimediabilmente degradato, oltreché dannoso alla salute, il cablaggio interno, per mezzo di cavo realizzato a mano, i condensatori e infine il potenziometro di livello della via superiore.

Il pannello posteriore dà un’altra testimonianza, fin quasi commovente, della realtà degli anni in cui gli AR 4X erano in commercio.  A inizare dalla carta di garanzia e dalle istruzioni d’impiego appiccicate direttamente su di esso. Metodo se vogliamo sbrigativo ma efficace per fare in modo che non potessero passare inosservate.

Oggi cose del genere sarebbero improponibili. Troppo pratiche, economiche e soprattutto dirette. Altro elemento che ritengo sia meritevole di una riflessione approfondita riguardo all’importanza sempre maggiore che sono andate acquisendo apparenze e consuetudini. Troppo spesso vertenti nella complicazione degli affari semplici, mentre l’elemento concreto di ogni questione è stato relegato tra le varie e eventuali. Con quali risultati?

Ancora più significativi sono i morsetti d’ingresso, a vite e realizzati in metallo, niente a che vedere coi mefitici elementi a molla che si sarebbero diffusi di li a pochi anni. Non sono marcati con i simboli e i colori delle rispettive polarità come ci si aspetterebbe, ma con un 1 e un 2. Per la cronaca, l’1 corrisponde alla massa e il 2 al positivo.

Tra di essi c’è un pispolo ruotando il quale si regola l’attenuazione del tweeter, opzione piuttosto comune fino alla fine degli anni 70 e oltre, magari ridotta a un semplice interruttore a due o tre posizioni.

Essendo le parti in contatto elettrico letteralmente ricoperte di ossido, come già rilevato il controllo per ‘attenuazione del tweeter lo si è dovuto sostituire.

L’aspetto forse più significativo del retro però sta nel suo essere realizzato a partire da un pannello in vero legno, come denota la venatura che traspare da sotto alla verniciatura, anche se non di un’essenza particolarmente pregiata. Anche il frontale è realizzato in questo modo.

Si tratta di una soluzione inverosimile non solo per l’oggi ma da alcuni decenni a questa parte, al posto della quale troviamo l’impiego di MDF o truciolare, quale che sia l’ordine di prezzo del diffusore, magari poi finiti a pianoforte.

Ancora una volta a dominare è l’apparenza, persino regale se possibile, dietro la quale però si cela invariabilmente materiale di risulta che l’abitudine ci ha portato infine a prendere per buono.

Alcuni anni fa, una persona arrivata dall’est con cui ebbi modo d’intrattenermi per qualche ora mi disse: “Visto da fuori qui da voi sembra il bengodi, ma quando ci sei dentro ti accorgi che è tutto finto”.

Il vero problema è che siamo talmente abituati alla finzione che da un lato non ce ne accorgiamo più. Ma dall’altro, mediante una prassi che mi si dovrebbe spiegare come sia distinguibile dall’atteggiamento tipico dello schizoide, qualsiasi cosa mostri connotati troppo realistici viene rifiutata.

Proprio a iniziare dalle sonorità.

Un altro elemento inusuale riguarda le griglie di protezione per gli altoparlanti. Non solo in quanto applicate in modo tale che provando a toglierle si rischia concretamente di bucarsi le mani, essendo graffettate in maniera se vogliamo brutale, ma perché sono realizzate in tessuto di lino.

Entrambi gli altoparlanti, infine, e per quanto sia una caratteristica primaria, hanno le membrane di carta. Oggi siamo abituati ai materiali più disparati e avanzati, dalle origini più sensazionali. A iniziare da quella aerospaziale le cui prerogative sono inarrivabili per definizione. Innanzitutto nel riempire la bocca, inebetendo di conseguenza le meningi.

La ricerca aerospaziale e le spedizioni da cui ha origine hanno la medesima valenza della guerra. Entrambe sono metodi di maggior efficacia per dilapidare ricchezza in quantità enormi, funzione d’importanza fondamentale perché non sia redistribuita. Possibilità da evitare come la peste, se i ceti dominanti hanno intenzione di continuare a essere tali, dato che ne deriverebbe per forza di cose un’evoluzione sostanziale, se non il sovvertimento, dei rapporti sociali e di classe. Anzi è necessario un impoverimento sempre maggiore, celato da apparenze che al contrario suggeriscano una prosperità in continua crescita, fittizia, compito per il quale proprio la tecnologia si è dimostrata lo strumento più indicato.

Dunque tutto ciò che viene dalla ricerca aerospaziale, come da quella militare, appunto finalizzata alla guerra, dovrebbe essere rifiutato da qualsiasi individuo in possesso di un minimo residuo di facoltà mentali. Invece si fa esattamente il contrario, molto probabilmente obbedendo alla propaganda che le esalta. Mentre nello stesso tempo si proclama pacifista e attribuisce alla pace valore supremo.

La guerra è pace” ha scritto Orwell e non penso lo abbia fatto per caso.

Qualcuno dirà: si, ma i frutti della ricerca legata a quei settori hanno influenzato in maniera favorevole la vita anche in tempo di pace. Vero, mi si dovrebbe spiegare tuttavia per quale motivo un certo di tipo di ricerca e la spesa delle somme ad essa necessarie siano possibili solo se c’è di mezzo il proposito di usarne i risultati a fini bellici. Per poi riconvertirlo alle finalità e agli usi della vita civile solo quanto i militari ritengano non sia più necessario coprire tutto col più impenetrabile dei segreti.

Certe asserzioni peraltro sono tipiche del contorsionismo mentale figlio dell’ipocrisia cui siamo talmente abituati da non rendercene più neppure conto. Se una cosa concepita e realizzata per scopi militari e in seguito riconvertita al civile come un vecchio vestito dismesso può rivelarsi utile, quanto più lo sarebbe un ritrovato pensato fin dall’inizio per le necessità e i fini cui dovrà servire? Quanto denaro sarà risparmiato per cose nate per motivi tattico-strategici o di deterrente e destinate a restare inutilizzate in un arsenale di materiale bellico e poi inviate allo smaltimento, con ulteriori spese?

Quale effetto avrebbero, quelle spese, sulla qualità della vita generale se venissero destinate al suo miglioramento invece di dilapidarle in maniera così priva di senso o per meglio dire oltraggiosa?

Invece accade l’esatto contrario. Tanto è  vero che in merito agli aspetti relativi alla ricchezza e alla sua distribuzione, un tempo, al gradino più basso della scala sociale c’era il proletario. Così definito proprio perchè la sua unica ricchezza era quella data dalla prole, che procreava coi mezzi fornitigli da Madre Natura.

Oggi invece per la maggioranza delle persone allevare non una prole ma anche un solo bambino è un vero e proprio lusso, ai fini del quale vanno compiuti sacrifici enormi, per tacere del resto. Inevitabile allora che il vocabolo proletario sia stato cancellato dal dizionario concreto, quello delle parole che si usano correntemente e come tali influenzano le percezioni e le proiezioni mentali ed emotive di tutti noi. Dunque, in ultima analisi, la realtà cui riteniamo di trovarci di fronte.

Il suo impiego del resto favorirebbe la formazione di una coscienza di classe che per ovvi motivi si preferisce evitare.

 

Carta, materiale plebeo e inadeguato

Anche a questo servono la tecnologia e la propaganda al suo seguito, che non a caso hanno una delle ramificazioni più floride e produttive proprio nella realizzazione di strumenti atti a diffondere concetti in apparenza inattaccabili, ma che se solo sottoposti a un’analisi sia pure superficiale mostrano regolarmente la loro realtà.

Nello stesso identico modo in cui ci hanno fatto credere a cose inesistenti e alle fandonie più inverosimili, rapinandoci nello stesso tempo dei nostri diritti fondamentali e riducendoci a una condizione largamente inferiore a quello che nella storia è stato il gradino più basso in assoluto della scala sociale, ci hanno raccontato che l’evoluzione dei materiali atti alla realizzazione di membrane per altoparlanti abbia raggiunto risultati inarrivabili altrimenti.

Salvo poi prendere un diffusore di oltre mezzo secolo fa, la cui semplicità realizzativa apparirebbe raccapricciante a chiunque riponga il minimo di fiducia nella narrazione che vuole quella stessa tecnologia protagonista indiscussa dell’evoluzione e del progresso dell’uomo, e accorgersi che una volta rimesso nelle condizioni di funzionare in maniera decente pone in evidenza una naturalezza cui si stenta persino a credere. E soprattutto non s’immaginerebbe proprio la possibilità di concretizzarla, se non trovandosi di fronte ad esso. Anche allora comunque ci sarebbe più di qualcuno pronto a negare l’evidenza, come del resto abbiamo visto fare un’infinità di volte, nei frangenti più disparati.

Ma come, una cassa degli anni 1960, inverosimile! Tantopiù che alla velocità apparente dell’evoluzione cui siamo stati abituati, la distanza che ci separa da allora equivale a un’era geologica e forse due o tre. Eppure questo è: ancora una volta la tecnologia e la sua epopea raccontata da una pletora di volenterosi propagandisti ci hanno fatto credere di averci dato chissà cosa quando invece ci hanno tolto tutto.

Infatti, se alla riproduzione sonora si toglie la naturalezza, cosa rimane?

Il cicì-bumbum. Che non a caso è tornato con prepotenza ad andare per la maggiore.

Con la semplice differenza che a quel tempo costava relativamente poco. Adesso invece te lo vendono a prezzi folli che ne fanno uno status symbol per decerebrati affetti da ipoacusìa.

Del resto a furia di sfondarsi le orecchie in modo simile, quale altro risultato si spera di ottenere?

Tantopiù in un’epoca dove il pacchiano e la volgarità predominano su tutto.

Sotto un altro aspetto, gli AR 4X vanno a riaffermare ciò che è scritto all’inizio dell’articolo pubblicato subito prima di questo: “Tra le stranezze più curiose dell’essere umano c’è quella che pur con la sua intelligenza, ritenuta tale da non avere confronti in un qualsiasi altro essere vivente dell’universo conosciuto, si lascia influenzare nelle sue idee e percezioni, quindi nei suoi atti, dalle convenzioni che lui stesso si è dato per i motivi più vari. Il più comune di essi è la comodità. Finisce così col credere a cose del tutto inesistenti, malgrado basti l’impiego del minimo di raziocinio ricevuto in dono da Madre Natura per rendersi conto che sono tali e portano a eseguire azioni sostanzialmente prive di senso compiuto. In questo modo perviene a un livello di stupidità del tutto precluso agli animali, malgrado siano ritenuti invariabilmente molto meno intelligenti di lui”.

Così un bel giorno si è deciso di chiudere con la carta, nella realizzazione delle membrane per altoparlanti. Ufficialmente il motivo fu che data l’ampia dispersione della sue caratteristiche fisiche tra gli esemplari di una stessa serie, la membrana in polpa di cellulosa, dire carta sembrava brutto, rendeva difficile, se non impossibile, pervenire ai livelli di ripetibilità e uniformità per le caratteristiche dell’altoparlante che da un certo momento in poi si ritennero necessarie. In quell’epoca andava affermandosi la progettazione dei diffusori per via computerizzata che prometteva miracoli, ma per dare i suoi risultati necessitava di un’identità di componenti che i metodi di fabbricazione in auge fino a quel momento non potevano soddisfare.

Questo ha dato il via alla proliferazione dei materiali più disparati e inverosimili, a iniziare dalla pletora di quelli sintetici come i polimerici dalle formulazioni più varie e fantasiose, policarbonato, policarbonio, fibra di vetro,  metallo, alluminio, resine, compositi e chissà quant’altro ancora.

Il tutto come sempre al tambureggiare di una propaganda sempre più imperversante e della stampa a un tanto a cartella che ne è la prima derivazione. Del resto nella società capitalista sono pochissime le cose a cui non sia possibile attribuire un prezzo. Nei loro confronti è condotta un’opera di sterminio indiscriminato, dato che la loro esistenza suggerisce che il potere del capitale non sia assoluto come invece si vorrebbe.

Così a ogni presentazione di un nuovo materiale se ne sono decantate le gesta, assicurando che per il suo tramite si sarebbero raggiunti risultati prima inimmaginabili e soprattutto definitivi.

Per poi ricominciare il giorno dopo con la stessa solfa alla presentazione di un nuovo materiale, a sua volta inarrivabile, che sarebbe stato tale fino a quello successivo.

Poi, dopo un tot numero di anni, si è ripresentato non ricordo più quale costruttore, forse è stato un tedesco, che ha ricominciato a usare la cosiddetta carta Kraft. Casualmente di redigerne il testo della prova capitò a me, che per forza di cose mi trovai a fare questo stesso discorso. Sancendo in maniera definitiva, agli occhi dell’editore e dei suoi cani da guardia, che già allora ero si in grado di valutare la giustezza di una sonorità con discreta approssimazione, ma ero inaffidabile per tutto il resto, che conta ben di più. Quindi da tenere quanto a più a distanza da un certo tipo di prodotti. quelli il cui prestigio si regge proprio sugli osanna di quanti sono afflitti dalla coazione a ripetere. Con particolare riguardo alle panzane scritte già da qualcun altro. Ruota da criceti entro la quale il correre sembra sia  il migliore dei destini possibili.

L’insegnamento che ci fornisce questa storia è che l’uomo, per quanto si sforzi, soprattutto in alcuni settori non è grado di comprendere quali siano effettivamente i parametri fondamentali che conducono alla realizzazione di un oggetto efficace per i risultati che si prefigge. Soprattutto, trova difficoltà spesso insormontabili a stabilire una corretta scala di priorità.

Per forza di cose allora, anche i metodi d’indagine che escogita non possono che essere aleatori e come tali di correlazione scarsa o nulla con le caratteristiche che effettivamente conducono a un’efficacia maggiore, che proprio a forza di dare fiducia a parametri inadatti si finisce col perdere di vista.

Se così non fosse, del resto, i soloni che per decenni si sono occupati principalmente di diffusori, si sarebbero dovuti accorgere fin da subito dell’inadeguatezza dei materiali definiti avanzati, tale al punto di aver causato una netta regressione delle doti sonore proprie del prodotto in cui credevano di essere specializzati.

Magari lo hanno anche fatto, solo che dire certe cose non avrebbe giovato granché alla prosecuzione della loro attività. D’altronde è così piacevole giocare con diffusori, amplificazioni, sale d’ascolto e connessi: perché rovinare tutto per una questione di puntiglio?

Non sia mai ci si ritrovi un brutto giorno costretti ad andare a lavorare.

Oltretutto i grafici che fuoriuscivano dai plotter e si osservavano sugli schermi dei loro computer, non a caso gli assertori della superiotà incontrovetibile delle misure sono stati tra i primissimi a utilizzare i mezzi informatici, erano assolutamente inappuntabili.

Lo era di conseguenza anche anche tutto quello che si pubblicava sulle riviste. E’ indiscutibile che un carnet di misure dall’andamento impeccabile abbia una capacità di convinzione e di vera e propria imposizione dogmatica tale da non avere rivali.

Meno che mai da parte dell’essere umano, tendente per natura all’errore mentre invece l’imparzialità della macchina è altrettanto proverbiale.

Si è pervenuti così alla convinzione che il prodotto realizzato dall’uomo, evolutosi nel giro del paio di secoli assommati dalla tecnologia moderna e come tale deificato e ritenuto portatore di prerogative ultraterrene, sia inevitabilmente superiore a quello cui Madre Natura è pervenuta in capo a milioni di anni.

Non solo: una cosa del genere la si proclama ai quattro venti, tacciando di stupidità e inconsistenza chiunque non si accodi a quell’idea farneticante. Ecco ancora una volta evidenziata la valenza assolutamente ingannevole delle misure e della tecnologia da cui derivano, la cui attitudine primaria è quella di raffigurare e peggio rendere verosimile una realtà che di fatto non esiste.

Proprio perché i parametri di fondo su cui si basa sono sbagliati. In quanto decisi da una particolare tipologia di uomini che per loro natura sono oltretutto quanto di meno adatto allo scopo. Dato che attribuiscono l’importanza maggiore non al parametro più legato al fenomeno, alle funzioni del quale vanno a indagare e al senso dei cinque di cui sono dotati che ad esso è il più legato, ma invece a quello che ha meno a che fare con esso.

Così nella valutazione del suono, invece di dar retta al loro orecchio, forse nella consapevolezza o solo nel timore di averne uno inadeguato, preferiscono credere a quel che dice loro l’occhio, nell’osservazione dei grafici e dei numeri sui quali basano le loro valutazioni.

Dunque eccoci ancora una volta al “Guarda come si sente bene“, che è da parecchio e diventa sempre più lo strumento di valutazione primario per le caratteristiche acustiche di un prodotto audio e dell’emissione sonora ottenibile per il suo tramite.

Possibile che il giorno cui la maestra ha spiegato i cinque sensi e l’utilizzo di ognuno di essi, siano stati tutti assenti?

Altrimenti non si spiega come mai insistano con sempre maggiore ostinazione a voler definire la qualità di un ascolto per mezzo dell’organo della vista.

Inevitabile poi che prendano delle cantonate epocali, proprio come quella di “L’alba di una nuova era“.

Peraltro se si taccia di aleatorietà l’utilizzo degli organi sensoriali e percettivi ai quali abbiamo un’abitudine tanto radicata, oltre alla naturalezza che deriva dal loro essere parte della nostra fisiologia, per quale motivo si dovrebbe essere in grado di svolgere compiti enormemente più complessi e del tutto scollegati dal nostro vissuto ancestrale stante nell’udire o il gustare, come quelli riguardanti la designazione con la precisione necessaria dei parametri più indicati e significanti per valutare un determinato fenomeno?

Ora non è che voglia mettermi a fare quello che aveva capito tutto fin dall’inizio, ma nel momento in cui ha iniziato a imporsi l’impiego dei nuovi materiali per la realizzazione delle membrane degli altoparlanti coi quali si è sostituita la carta, che ho vissuto di persona e già con una certa esperienza in campo audio, ricordo perfettamente di essermi trovato a disagio.

In particolare rilevavo la scarsa naturalezza degli altoparlanti di nuova generazione, malgrado la loro superiorità fosse in teoria incontrovertibile. I diffusori che ne erano equipaggiati suonavano sempre strani, in qualche modo, o meglio caratterizzati nei loro attribuiti a livello acustico dai materiali utilizzati per la loro realizzazione. Anche se poi per una somma di eventi, o meglio come esito dell’attitudine al cambia-cambia che è una malattia attraverso la quale è necessario passare per costruirsi gli anticorpi ad essa indicati, ho finito anch’io dopo una lunga serie di eventi con il ricorrere a diffusori equipaggiati con altoparlanti in materiale sintetico. Anche se tra i meno caratterizzati in tal senso. Tra l’altro sono ancora quelli che funzionano nella mia saletta, ma già da parecchio tempo sto valutando l’ipotesi di recuperare un sistema con coni di carta, da ricostruire secondo le idee maturate nel frattempo.

Gli ostacoli che si frappongono sono sempre gli stessi, ma staremo a vedere.

La cosa strana è che riguardo alla minore naturalezza dei materiali sintetici, ricordo perfettamente che ogniqualvolta vi facessi riferimento, gli eventuali astanti erano sempre tutti d’accordo. Almeno a parole. Però poi di questo non si trova traccia scritta. Verba volant, dicevano gli antichi nella loro saggezza.

Dunque, nonostante mal si adattasse alle necessità indotte dalle scelte tecnologiche e ai dettami del periodo in cui si è decretata la sua fine, la carta ha mantenuto intatte le sue particolarità. Anche quella che ormai ha mezzo secolo o più sulle spalle e ne ha viste un po’ di tutti i colori, come quella utilizzata per gli altoparlanti delle AR 4X.

Del resto come abbiamo rilevato più volte, la realtà è caratterizzata innanzitutto dalla testardaggine con cui si diverte a confutare, anche a distanza di decenni e forse di secoli, le asserzioni dei luminari più in vista di ogni settore.

Innanzitutto, e come sempre, è una questione di risonanze e di smorzamento. A questo proposito la carta e il cartone hanno doti ottime. Soprattutto sono omogenee, quindi non vanno a privilegiare nel loro influsso una particolare gamma di frequenze per lasciare inalterate, o peggio indurre ulteriori risonanze altrove. La rigidità adeguata e una leggerezza che non ha bisogno di spiegazioni sono le altre sue caratteristiche che ai fini di nostro interesse hanno dimostrato sul campo la loro prevalenza.

Poi che sia esistita una dispersione più ampia di caratteristiche tra i diversi esemplari di una stessa serie rispetto ad altri materiali è sicuramente vero. Solo che si tratta di un aspetto secondario, cui però nel momento dell’ubriacatura digitale che come vediamo non ha interessato solo la riproduzione audio ma anche una serie di altri contesti, le è stato attribuito un rilievo fuori luogo. Ad esso però, stante la difficoltà di stabilire una gerarchia corretta tanto tra parametri diversi, appunto in funzione al loro legame più o meno diretto col fenomeno indagato, appunto l’emissione del suono, quanto nei loro rapporti di causa ed effetto, è stato attribuita un’importanza sproporzionata. Possibilmente nella fretta di trarre vantaggio dal nuovo strumento messo a disposizione dalla tecnica, la progettazione computerizzata, il cui ausilio è stato ritenuto fondamentale.

In buona parte proprio per i motivi di comodità cui abbiamo fatto riferimento nell’apertura dello scorso articolo, date le sue spiccate capacità a fare di conto, che probabilmente hanno lasciato intravvedere la possibilità di utilizzare altoparlanti dalle caratteristiche più disparate ottenendo sempre buoni risultati. Magari anche quando la materia prima non era di qualità sopraffina, non solo a livello del progettato ma anche del progettista, entrando così in ballo anche il calcolo economico.

E’ facile inoltre non ci si rendesse conto che il diffondersi della progettazione computerizzata avrebbe portato a prodotti sempre meno distinguibili gli uni dagli altri, se non per mere questioni estetiche, e quel che è peggio caratterizzati tutti dai medesimi errori di fondo, derivanti dai punti fermi, a loro volta inadeguati, dati per scontati nella compilazione dei programmi ad essa adibiti o derivanti dalle metodologie di cui ci si è andati a servire in maniera sempre più esclusiva e priva di discriminanti.

Uno di essi è appunto il ricorso a una determinata tipologia di materiali che se è tuttora ritenuta superiore credo lo si possa spiegare solo per la difficoltà di attribuire a ciascun parametro il suo valore concreto. Immagino si possa ritenere infatti che se un diffusore di buona qualità è venduto al prezzo che ben conosciamo, forse i criteri di economicità per quel pezzetto di materiale da cui è costituita la superficie della sua membrana non dovrebbero avere questo rilievo imprescindibile. Specie in confronto ai denari che si spendono per la sua finitura, comunque venga eseguita in funzione delle convenzioni attuali.

Eccoci dunque giunti al paradosso, che come abbiamo detto più volte trova nella sua produzione il vero ambito d’eccellenza della riproduzione sonora.

Ricorrendo ai sistemi computerizzati che aborrivano la carta in quanto inadeguata alla standardizzazione ad essi necessaria, la progettazione dei diffusori ha ritenuto di facilitare i suoi compiti, senza rendersi conto che invece li stava rendendo non più difficoltosi ma proprio ineseguibili. Proprio perché per le sue necessità contingenti ha messo da parte il prodotto che meglio si adatta a tali scopi.

Che fino a prova contraria sono quelli di realizzare l’altoparlante caratterizzato dalla sonorità più naturale a un costo abbordabile. Forse proprio per questo l’estetica ha preso il sopravvento fino al punto che conosciamo. Ridottasi con le sue stesse mani nell’incapacità di pervenire ai suoi obiettivi primari, l’industria di settore ha compreso l’opportunità di mascherare la sua inadeguatezza con gli elementi più vistosi che fosse possibile. Come appunto l’estetica, estremizzandone canoni e peculiarità oltre ogni limite.

C’è poi un altro aspetto anch’esso scarsamente considerato. Il prodotto nato dalla progettazione computerizzata è caratterizzato in primo luogo dalla sua indistinguibilità nei confronti di mille altri, se non per questioni di estetica o di elementi messi li apposta per dissimulare questa realtà. Viceversa il prodotto realizzato direttamente dall’uomo, a patto che abbia il minimo di capacità nel compito che si è dato, magari può avere più elementi che potrebbero essere visti come errori. Tuttavia non è mai banale e addirittura quei supposti errori danno spesso vita a quello che si definisce carattere e non di rado rappresenta l’elemento saliente all’origine del suo apprezzamento. Ovverosia tutto il contrario del frutto di una sequenza di uni e di zeri indistinguibili gli uni dagli altri, che come tali vanno a costruire una realtà di una monotonia e di una sostanziale antiumanità di cui non ci rendiamo più neppure conto. Abituati come siamo a deificare qualunque cosa sia frutto del digitale e più ancora la sua origine.

Ora per quel tramite si è deciso di costruire una nuova realtà, che di umano e di fatto a misura d’uomo non avrà più nulla e dietro alla solita cortina fumogena di belle parole nasconde sempre le stesse finalità: il profitto, in proporzioni e rapidità di accumulazione più grandi che mai e persino inimmaginabili solo qualche tempo fa. Che senso potrà avere vivere in essa, secondo funzioni di mera sopravvivenza, non è dato sapere per quanto la propaganda onnipresente si prodighi oltre ogni limite conosciuto affinché si accetti quello che come sempre si definisce inevitabile. Forse per meglio predisporne le vittime all’accettazione, Solo che se certe cose fossero davvero ineluttabili, primo non ci sarebbe bisogno di ripeterlo a oltranza e secondo non ci renderebbe neppure conto della cosa poiché la si vedrebbe come scontata.

Accuratamente programmati già da tempo all’accettazione supina di quella nuova realtà, e peggio ancora dei metodi coi quali la si vorebbe imporre, quanti ne dovranno sopportare gli esiti nella misura maggiore non sembrano neppure rendersi conto di cosa gli si para di fronte. Sembrano anzi andargli incontro con speranze e aspettative, in modo tale che persino il paragone coi lemmings che corrono verso il dirupo da cui precipiteranno diventa una figurazione di significato inadeguato.

Riguardo ai 4X e alla quantità di considerazioni destate dal loro impiego resta solo da chiedersi cosa sarebbe potuto accadere se vi fosse stata la capacità di indirizzare tanti sforzi, e i costi ad essi legati, allo scopo primario del diffusore. Che non è quello di conseguire il più elevato fattore di accettazione mogliesco e meno che mai l’adattarsi a determinati metodi progettuali piuttosto che ad altri.

Ancora e sempre autoinganno dunque, i cui esiti vanno a dispiegarsi su una gamma di piani diversi sostanzialmente imprevedibile.

Nonostante ciò, e malgrado tutto, quel materiale in apparenza povero, e quel che è peggio privo di una qualsiasi connotazione di raffinatezza ed esclusività, dunque indegno di un prodotto all’altezza della realtà odierna, o meglio della rappresentazione di essa che non si trascura nulla affinché sia data per buona, produce una sonorità dalla naturalezza ormai dimenticata, con una capacità di seguire e soprattutto dare conto dell’andamento dinamico del segnale registrato ancor più sorprendente.

Chi ne è ancora in grado rifletta, se può.

 

 

Potrebbe interessarti anche

6 thoughts on “Quando le casse erano di legno e i coni di carta: AR 4X

  1. Ciao Claudio, sottoscrivo pienamente per i contenuti quanto da te espresso nella risposta a Daniele del 22/03/2022. Analisi eccellente di quanto di gravissimo è accaduto e sta accadendo.

    Un caro saluto

  2. La prima critica marxista dell’HiFi nella quale mi imbatto! Interessante la parte relativa all’evoluzione della tecnologia acustica, irritante e banale quella relativa alla visione comunista del mondo!

    1. Ciao Daniele, grazie per l’attenzione e per il commento, che mi permette di sottolineare ulteriormente determinati concetti, forse per alcuni non del tutto chiari.
      Tra i motivi più importanti per il mio disagio personale, nel corso dell’attività ultraventennale di redattore specializzato in cui ho collaborato con alcune tra le più note riviste di settore a livello nazionale, vi era la pretesa, in tali ambiti, o meglio l’obbligo di pensare e comportarsi come se il mondo iniziasse e finisse con la riproduzione sonora.
      Dal momento che vivo le mie passioni con trasporto e partecipazione, ma non lascio che il mio cervello venga in modo alcuno trapanato da esse,
      il mio sito non può che essere rispondente al mio modo di vedere le cose. Per quanto ne so, inoltre, è l’unico almeno a livello nazionale a non essere allineato al pensiero dominante e già per questo si differenzia a fondo dagli altri. E’ un elemento a mio avviso fondamentale, dato che con le migliaia di siti riguardanti l’argomento della riproduzione sonora oggi esistenti, metterne in linea uno del tutto identico agli altri avrebbe avuto ben poco senso.
      Il mio modo di vedere le cose mi dà anche la possibilità di decodificare con facilità maggiore e in maniera più approfondita i fenomeni che si succedono nell’ambito della riproduzione sonora, potendo così offrire punti di osservazione diversi dai soliti.
      Poi naturalmente c’è chi preferisce sorbirsi sempre la stessa minestra, che d’altronde è così tranquillizzante. Per sua fortuna non ha che l’imbarazzo della scelta.
      In ogni caso la mia visione è tuttaltro che comunista, così tranquillizziamo anche chi in pieno ventunesimo secolo pensi ancora sia il caso di dedicarsi alla caccia alle streghe, o peggio si ritenga in dovere di puntare il dito, non si sa a che titolo, contro la libertà di pensiero e della sua espressione, sancita tra l’altro dalla Costituzione, non a caso ridotta ormai a carta straccia.
      Se avessi avuto l’accortezza di leggere più a fondo i contenuti che pubblico, prima di lanciarti in valutazioni di un qualsiasi tenore, ti saresti accorto che la mia critica personale nei confronti del mondo della sinistra e della sua prassi, senza necessità di arrivare al famigerato comunismo, è del tutto priva di compromessi. Anche nei confronti delle figure che in tale ambito ci si ostina a venerare in maniera ancor più che religiosa.
      In tutta evidenza pertanto la mia visione non è marxista ma fortemente avversatrice, questo si, del capitalismo. Ancor più nei confronti delle sue aberrazioni, oltretutto plateali e arrivate al punto di mettere in discussione persino la sopravvivenza di un numero incalcolabile di persone.
      Il che è cosa ben diversa, dal punto di vista semantico, ideologico, ed etico.
      Soprattutto lo è nella consapevolezza del valore fondamentale della giustizia sociale e del rispetto della dignità umana, eliminando le quali si perviene alla legge della giungla, ovvero alla realtà in cui viviamo attualmente.
      A forza di calpestarle si è arrivati al punto in cui il deserto ideologico, etico e umano così ottenuto faccia ritenere ai più che chiunque le tenga in considerazione sia un comunista.
      Siamo del resto abituati a tal punto alle aberrazioni e alle attitudini criminali del capitalismo, che il più delle volte nemmeno ci accorgiamo di esse e peggio ancora non ne notiamo gli effetti: paradossali, inverosimili ma soprattutto causa dell’inciviltà e della barbarie che oggi predominano a ogni livello: sociale, culturale e di prospettiva.
      A volte poi il non accorgersi di certe cose non avviene per abitudine ma per ipocrisia, per conformismo o peggio ancora per convenienza o per sentirsi parte di un gregge.
      Come vedi, dunque, la tua percezione è errata e sostanzialmente fuori luogo, oltreché carente già nei fondamentali. Più centrata invece trovo la definizione “irritante”: è noto d’altronde che se a qualcuno si fa notare l’assurdità e l’indegnità della realtà concreta in cui sguazza beato, e della quale non di rado si fa assertore, persino convinto, in genere la sua reazione è proprio data da una forte irritazione. Che non di rado sfocia in livore.

  3. Salve, da possessore di 4 coppie di AR fra cui delle 4x trovo molto interessante questo articolo e concordo pressochè su tutto.
    Alla luce di queste riflessioni, oggi cambierebbe qualcosa di quanto ha scritto a riguardo della sospensione pneumatica nell’articolo del 01/04/2019?
    Cordiali Saluti

    1. Ciao Alessandro, grazie dell’apprezzamento.
      No, non cambierei assolutamente nulla. Un conto è uno sfruttamento ragionevolmente vicino all’ottimale dell’aria mossa dall’altoparlante e un altro è il materiale con cui si realizzano le sue membrane, che per forza di cose ha un influsso prevalente sulla loro sonorità. A quel tempo, anzi, un caricamento in bass reflex avrebbe avuto ancora più significato rispetto alla realtà odierna, dato che con le potenze medie degli amplificatori di allora 3 o 4 dB in più di sensibilità avrebbero fatto in concreto una differenza maggiore. Come scritto nell’articolo da te menzionato, i problemi che alcuni appassionati riscontrano con l’impiego di diffusori bass reflex non hanno nulla a che fare con essi ma riguardano più da vicino le condizioni in cui li pilotano, e soprattutto le logiche della produzione di massa e le modalità con cui alimentano quanto destinato a tale funzione. A questo proposito, credo che quanto accaduto con il Marantz PM 7000 nero sia emblematico. Come dico spesso, se rilevare l’esistenza di un difetto può non essere così difficile, anche se non di rado i difetti passano per pregi e viceversa, individuare correttamente la loro origine è tutto un altro paio di maniche. Poi è ovvio che se si ricorre a diffusori mal progettati e messi a punto, oggi piuttosto comuni, oppure estremizzati nella ricerca di determinate prestazioni anche a costo di rendere la loro sonorità quantomeno discutibile, la colpa non può essere attribuita al sistema di caricamento ma alle idee balzane di chi lo impiega in modo tanto improprio. Ecco perché l’articolo ha il titolo che si ritrova e non “Quando i coni erano di carta e le casse di legno e chiuse” 😉

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *