B&W CDM 1 atto terzo: il dopo CDM 1

Tra i numerosi aspetti che entrano in gioco nella produzione di apparecchiature per la riproduzione sonora amatoriale, come per qualsiasi altro tipo di prodotto, ce n’è uno che mi sembra particolarmente degno di attenzione, per via della sua valenza duplice.

Riguarda i problemi cui va giocoforza incontro un qualsiasi fabbricante, nel momento in cui mette in vendita un prodotto “troppo” valido. In relazione al prezzo di vendita, all’offerta della concorrenza o anche nei confronti dei prodotti inclusi nel suo stesso listino. Questo può avvenire per effetto di capitolati di progetto particolarmente stringenti, per questioni di scelte commerciali o altrimenti senza rendersene conto, magari scoprendolo solo in un secondo tempo.

Se il prodotto viene compreso dal pubblico, cosa da non dare mai per scontata, avrà probabilmente vita facile e forse diventerà addirittura un campioncino di vendite. Fin qui ovviamente tutto bene. L’esperienza insegna tuttavia che le aziende si espongono maggiormente al rischio di andare a gambe all’aria proprio nel momento in cui si rende necessario un ampliamento consistente della capacità produttiva nel lasso di tempo più breve, dato lo sforzo economico necessario allo scopo, insieme alle questioni di carattere tecnico, logistico, imprenditoriale che occorre risolvere oltre al reperimento della manodopera.

Se nel corso della sua vita utile il prodotto “troppo” valido può dare fastidio, e a volte parecchio, a quelli che occupano posizioni superiori nel listino dello stesso fabbricante, facendosi perdonare con il volume di vendite che riesce a ottenere, i guai peggiori arrivano nel momento in cui occorre sostituirlo.

Squadra che vince non si cambia, recita un noto adagio, allora perché togliere di mezzo un prodotto siffatto?

I motivi possono essere diversi, e magari svincolati da questioni di ordine tecnico o prestazionale, fatta salva la necessità di riproporzionare il prodotto sotto tali aspetti se davvero le sue caratteristiche vanno troppo oltre determinati limiti.

Come noto il mercato pretende di tanto in tanto il suo rito sacrificale, che consiste appunto nel rinnovo progressivo e ininterrotto della linea prodotti, al di là del loro valore. Più che mai da quando l’obsolescenza programmata e l’innalzamento  della tecnologia e dei suoi cicli di rinnovamento vieppiù serrati a dogma para-religioso sono diventati legge non scritta. Quindi enormemente più efficace, pervasiva e duratura di quelle messe nero su bianco, che proprio in quanto tali possono essere discusse e cambiate a maggioranza oppure per decreto.

In mancanza di quel rito sacrificale, dall’evidente valenza purificatrice, sia pure a livello simbolico, il prodotto diventa “vecchio”, o altrimenti comunicante un’immagine di stagnazione e immobilismo, cosa oltremodo pericolosa in un’epoca in cui l’apparenza è tutto e la sostanza relegata tra le varie e eventuali.

Certo, poi ci sono i classici, ma allo scopo ogni prodotto che ambisca a divenire tale deve prima affrontare la fase intermedia in cui è solo “vecchio”, durante la quale va sostenuto e rilanciato da parte del suo costruttore, coi costi che ne derivano.

Dunque occorre soddisfare il progresso, moloch insaziabile che al pari del capitalismo, per il quale fa insieme da impalcatura e proscenio, tutto divora e fatalmente arriverà a divorare anche sé stesso.

Gli osservatori più attenti non a caso suggeriscono come il progresso, imperfetto per sua natura come qualsiasi altro frutto dell’attività umana, per un problema che risolve ne crei almeno altri dieci. Di conseguenza, più è profondo e radicale nella sua innovazione, più causa condizioni regressive a livello sociale e di qualità della vita.

Basta vedere quel che succede in campo economico, in cui quantità  letteralmente incalcolabili di denaro vengono create dal nulla, producendo di fatto un’abbondanza mai verificatasi nella storia del pianeta. Di pari passo però aumenta, in misura ancora maggiore, il numero dei poveri assoluti ed emarginati a livello globale e ancor più nei cosiddetti paesi industrializzati.

Tendenza che in mancanza dei necessari correttivi andrà sempre più rafforzandosi.

Ulteriore conferma di quello che nessuno vuole sentire: il progresso tecnico ed economico deve andare di pari passo a quello sociale. Che, attenzione, non ha nulla a che vedere con gli pseudo-diritti civili, sbandierati dalla falsa sinistra sorosiana fucsia-rosé, oggi l’unica in circolazione. Essi anzi producono di fatto arretramento, in primo luogo a livello etico e sociale, e poi culturale e in termini di consapevolezza. Per questo sono così graditi alle élite cui i partiti che hanno tradito la loro base storica di consenso di fatto obbediscono.

Scopo degli pseudo-diritti civili è quello di mascherare l’azzeramento dei diritti sociali, ovvero la realtà e le conseguenze delle politiche più oltranziste di estrema destra finanziaria praticate da tre o quatro decenni a questa parte dalla sinistra rinnegata, come tali incompatibili o meglio refrattarie a qualsiasi esigenza di origine sociale.

Le conseguenze di tali politiche non sono soltanto la devastazione economico-industriale del Paese in cui hanno luogo e delle sue infrastrutture portanti, nonché l’impoverimento e la disoccupazione di massa, ma soprattutto l’aver reso definitivamente impraticabile, e di conseguenza improponibile, il concetto stesso di sinistra, data la sua palese valenza distopica.

Certo, restano i valori di condivisione, solidarietà e giustizia sociale, ma ormai relegati alle convizioni di chi si ostina a mantenerli come elementi fondanti del proprio modo di essere e di ragionare, destinato per forza di cose a soccombere nella società dell’homo, homini lupus. In quanto tali, quei valori sono oggi spossessati di qualsiasi rappresentanza a livello politico, quindi inesistenti ai fini pratici. Con ogni probabilità in via permanente, dato che non si vede chi sia in grado di rimetterli in agenda, sia pure in una prospettiva di lungo termine e malgrado la realtà dimostri l’urgenza di portarli di nuovo al centro della discussione.

Se non si fa in modo che il progresso sociale vada di pari passo a quello tecnico-economico, si creano squilibri sempre più profondi, proprio come quelli che stiamo vivendo. Se non risolti, producono esiti a prima vista imprevedibili ma già sperimentati più volte nella storia recente, in realtà deliberatamente ricercati e programmati.

L’esempio più tipico è quello inerente l’automazione dei processi industriali e produttivi, che va progressivamente a estendersi anche nella fornitura dei servizi.

Nel momento in cui la produzione viene affidata a dispositivi automatizzati, la necessità della manodopera umana viene grandemente ridotta.

La convenienza per chi controlla il processo produttivo è enorme: dato che comporta l’eliminazione totale e definitiva di quelle che si chiamano relazioni industriali. L’automatismo non discute, non sciopera, non si ammala, non pretende aumenti di stipendio, non rivendica condizioni di lavoro affrancate dalla realtà subumana cui conducono i ritmi di produzione esasperati allo spasimo tipici dell’era attuale, non necessita di ambienti di lavoro che non siano insalubri, non invecchia, non chiede buste paga, tredicesime, ferie e neppure il pagamento dei versamenti pensionistici. Basta acquistarlo, magari coi fondi governativi per l’innovazione mediante i quali di fatto è lo Stato che incentiva a gettare i lavoratori in mezzo alla strada, metterlo in funzione e ottemperare alla manutenzione necessaria a garantirne il funzionamento.

La disoccupazione di massa che deriva dal diffondersi del processo di automazione, tuttavia, non può che comportare una profondissima crisi economica. Proprio perché l’ex lavoratore espulso dal mondo della produzione, con ogni probabilità in via definitiva, stante il diffondersi della tendenza in ogni settore, finisce a carico dei servizi sociali, i quali a loro volta vedono minata la loro stessa sostenibilità da un processo siffatto. Quei servizi oltretutto vanno a soddisfare in ultima analisi le necessità degli stessi ceti datoriali, conseguenti appunto alla progressiva automatizzazione dei processi produttivi, che di fatto ne divengono i primi beneficiari. Malgrado pretendano la riduzione ai minimi termini dell’intervento statale, che vedono come elemento di limitazione alla libertà e all’espansione dell’impresa., non esitando però a servirsene e a richiederlo a gran voce ogniqualvolta faccia comodo.

La crisi economica derivante dal progressivo diffondersi dei sistemi di produzione automatizzati non può che ripercuotersi, negativamente, sulla richiesta di beni e servizi. Dunque una volta portato a termine tale processo, a chi si venderanno più i beni e le merci realizzate nel modo e con le conseguenze che abbiamo visto?

Forse alle stesse macchine che li hanno prodotti?

Un esempio di tutto questo lo abbiamo avuto già 40 anni fa, nel 1980 per la precisione, quando la Fiat proprio in funzione della decisione di automatizzare la produzione di autovetture, mediante i macchinari realizzati dalla controllata Comau, allora all’avanguardia mondiale del settore, decise di licenziare decine di migliaia di lavoratori. Scelti ovviamente tra quelli più scomodi.

Ne è derivata non soltanto la fase iniziale della crisi economica sempre più pervasiva da cui il nostro Paese è stato attanagliato da allora in poi, ma anche la capitolazione delle organizzazioni adibite alla salvaguardia dei diritti dei lavoratori, passate dall’altra parte della barricata in maniera sempre più smaccata, coi risultati che ben conosciamo.

Ci siamo avviati così verso una realtà del mondo del lavoro del tutto contraria al dettato Costituzionale e riportata a condizioni ottocentesche. Proprio negli ultimi decenni del diciannovesimo secolo ha avuto luogo la prima globalizzazione, le cui conseguenze furono la vera causa della Guerra Mondiale 1914-1918 e quindi della Seconda che ne fu la continuazione, dal 1939 al 1945. Esito della quale è stato appunto la conquista della supremazia globale, in primo luogo a livello economico e industriale, deli Stati Uniti, ovvero del territorio in cui il capitalismo ha avuto la sua massima affermazione e dal quale, uno dopo l’altro, ha combattuto qualsiasi ordinamento sociale ad esso alternativo.

D’altro canto, l’avvio dell’automatizzazione del processo produttivo ha sollevato il lavoratore dal dover operare nei repati più invivibili, come quello della lastratura, in cui si esegue lo stampaggio delle lamiere. Questo però è avvenuto solo a prezzo della sua espulsione dal processo di produzione, sottolineando la necessità della redistribuzione della ricchezza prodotta per mezzo dell’automazione, e quindi del progresso tecnologico da cui deriva, cosa che ovviamente chi lo controlla non ha alcuna intenzione di accettare.

Come vediamo, allora, il problema di fondo è che chi controlla il progresso tecnologico ha tutto l’interesse ad affossare quello sociale. Per il semplice motivo che solo così può trattenere presso di sé la massima parte dei profitti che ne derivano.

Anzi, chi controlla il progresso tecnologico più rallenta il cammino del progresso sociale, o meglio ne inverte la traiettoria proprio per effetto di tale controllo, più riesce ad accrescere il suo potere economico. E di conseguenza quello politico, acquisendo una capacità sempre maggiore di pilotare non solo il progresso sociale, ma anche i processi decisionali che ad esso conducono e ne plasmano i contenuti, i quali di fatto determinano anche il quadro economico e normativo entro cui il progresso tecnico ha luogo.

Dunque, chi controlla il progresso tecnologico viene a trovarsi nella facoltà di dettare e modellare le condizioni più indicate affinché esso possa svilupparsi nella maniera meno controllata, ossia esente da qualsiasi considerazione e valutazione di carattere etico e sociale, ponendo ogni elemento proprio dell’ambiente e del contesto in cui ha luogo al suo servizio. Compresi gli esseri umani, allo scopo mercificati e ridotti a cavie da un lato, e dall’altro in soggetti chiamati ad accettarne il portato in totale e definitiva passività, gioendo oltretutto del loro destino.

Quindi, in ultima analisi, il problema è a chi o a cosa attribuire la facoltà di detenere e indirizzare il progresso tecnologico, nella consapevolezza degli interessi economico-politici determinati dal suo stesso avanzare, crescenti in progressione geometrica.

Oltretutto l’innovazione, base fondante del progresso tecnologico, man mano che s’inoltra nel suo cammino vede aumentare i suoi costi, date le risorse sempre maggiori assorbite dalla ricerca che le è necessaria. Questo per forza di cose la pone alla portata di un numero sempre più ristretto di individui e società, capaci di reggere un gioco al continuo rialzo, atto a dilapidare somme incalcolabili per prodotti e materiali che per forza di cose invecchiano sempre più precocemente, rimanendo così i soli in grado di attrarre a sé gli utili di tutto il processo.

Diventa pertanto sempre più difficoltoso far si che il progresso sociale vada allo stesso passo di quello tecnologico. Non fosse altro che per le spinte accentratrici e gli appetiti che è in grado di destare per quanto appena detto, che costituiscono la sua stessa natura.

Dunque, se abbandonato a sé stesso, alle sue logiche e ai suoi sconsiderati fautori, per favorire i quali definizioni e figure un tempo proverbiali come quella dello “scienziato pazzo” sono state di fatto abolite dal linguaggio comune, per sua natura il progresso è causa di contraddizioni sempre più stridenti. E soprattutto del concreto regresso che ad esse non può che corrispondere. Si teorizza di andare su Marte e persino colonizzare il pianeta rosso, ma ancora non si è in grado di offrire condizioni di vita adeguate alla mera sopravvivenza a tutti quanti vivono su questo, di pianeta, prima di andarsi a impelagare in avventure improbabili altrove.

Si vantano i mirabolanti successi della medicina, ma non si è capaci di curare in modo efficace un banale raffreddore se non aspettando che passi, rendendo meno penosa l’attesa per mezzo dei cosiddetti farmaci sintomatici. Figuriamoci prevenirlo.

Perché avviene tutto questo? Per il semplice motivo che il progresso, e la ricerca che ne rappresenta il motore, non perseguono il benessere della collettività ma rispondono innazitutto agli interessi economici di chi li finanzia.  Come tali hanno sotto diversi aspetti una valenza non dissimile da quella della guerra, che costituisce il mezzo più efficace per distruggere ricchezze che altrimenti si dovrebbero redistribuire, il che causerebbe una modificazione dei rapporti che quanti sono ai vertici della società attuale rifiutano categoricamente, poiché metterebbe in discussione le stesse gerarchie di classe oggi esistenti.

Stabilite la realtà e la valenza di quello che oggi siamo stati abituati a definire come progresso, anche se il suo portato predominante è squisitamente regressivo, osserviamo che persino quando si esprime nel pieno delle sue potenzialità, ovvero dà vita a un prodotto “troppo” efficace, magari solo per un errore di calcolo di chi lo realizza, nel momento in cui si rende necessario sostituirlo, altro non può aversi da un regresso.

Questo è proprio quanto avvenuto anche nel caso dei CDM 1 e più in generale della serie di cui quel diffusore faceva parte.

 

Serie 700

La serie CDM è arrivata all’apice della sua evoluzione tecnica acquisendo i tweeter realizzati espressamente per la serie 800 Nautilus, a sua volta punto cardine dell’evoluzione del marchio e del suo prodotto verso la loro veste attuale.

L’impiego di quei tweeter ha rappresentanto una scelta se vogliamo emblematica per quelle che erano all’epoca le logiche tipiche del mercato, discendenti dai concetti di evoluzione sociale allora in voga. Come tali erano volte alla condivisione almeno in parte di ritrovati e componenti destinati all’alto di gamma, destinato alla clientela più esclusiva, sulle linee di prodotto accessibili a fasce di pubblico più ampie.

Dall’ingresso a listino dell’apice evolutivo della serie CDM, contraddistinto dal suffisso NT, che stava appunto per Nautilus, alla presentazione della serie 700 non c’è stato un lasso di tempo particolarmente significativo, forse soltanto un anno o due.

E’ stato sufficiente tuttavia perché quest’ultima rispondesse a un paradigma diverso, o meglio opposto, nel quale volendo possiamo leggere la previsione delle condizioni economico-sociali in cui saremmo venuti a trovarci nei decenni successivi. Centrate non più su una traiettoria di blanda convergenza delle classi sociali ma sul suo esatto  opposto. Stante nel blocco dell’ascensore sociale, tranne ovviamente che per la discesa delle ex classi medie verso un neo-proletariato, spossessato però di ogni consapevolezza di classe, proprio per mezzo del predominio attribuito alla tecnologia, con funzioni anestetizzanti. Di pari passo è andato l’allargarsi della forbice tra le diverse classi sociali, divenendo vieppiù esasperato, tendenza cui era necessario che un prodotto all’altezza dei tempi a venire si uniformasse.

Il primo diffusore della serie 700 con cui ho avuto modo di confrontarmi è stato il 705, discendente diretto del CDM 1, di cui riprendeva impostazione, caratteristiche tecniche, dimensioni ed estetica, oltre naturalmente fascia di pubblico cui andava a rivolgersi.

Si trattava ancora una volta di un di un due vie da piedistallo di dimensioni medie, anche se accresciute rispetto al predecessore. Era caratterizzato inoltre dal taglio del frontale, tale da porre il tweeter parzialmente all’esterno del mobile, riprendendo in forma più blanda la prerogativa saliente della serie di vertice.

La differenza più importante, a livello visivo, stava appunto nella conformazione tondeggiante di quel taglio, che in quanto tale perdeva la nettezza se vogliamo anchè un po’ brusca del CDM1, acquisendo una maggiore raccordatura, che suggeriva una maggiore accuratezza di realizzazione. Elemento che a sua volta lasciava immaginare una crescita anche per le doti sonore, rispetto a quelle già di valore indubbio poste in evidenza dal predecessore.

il tweeter risultava meglio integrato nella struttura del mobile che però perdeva la smussatura degli spigoli laterali,  secondo una contraddizione origine di perplessità.

 

Il due vie senza tweeter

Sulla base delle considerazioni qui riportate, mi sono avvicinato alla verifica del 705, allo scopo di redigere i testi relativi alla prova tecnica e d’ascolto, ritenendo che mi sarei trovato di fronte a un CDM1 attualizzato e migliorato sotto diversi aspetti. Primo fra tutti quello del comportamento in sala d’ascolto, com’era del resto nella logica delle cose. Di allora, ovviamente.

Quindi l’ho collegato all’impianto nella previsione di trovarmi di fronte a un ascolto non solo piacevole, ma in linea con quel che ci si doveva attendere dal successore di un diffusore indovinato come il CDM 1.

I fatti invece sono andati in maniera non solo diversa, ma addirittura imprevedibile.

Ben presto mi sono ritrovato a dover prendere atto che del CDM 1 erano andate perdute tutte le caratteristiche migliori. Al posto di un diffusore che faceva di linearità, nitidezza e coerenza timbrica e di emissione il suo elemento migliore, mi sono trovato dinnanzi a un diffusore smorto, timbricamente slegato nell’emissione dei suoi altoparlanti, che invece di andare in un accordo quasi perfetto l’uno con l’altro come accadeva con il modello precedente, sembravano quasi ingaggiare una lotta intestina dalle conseguenze immaginabili.

Abituato oltretutto alla coerenza dei diffusori B&W che avevo avuto modo di verificare in precedenza, non solo di emissione ma anche nei confronti di un modello di sonorità ben preciso, che ne rendeva l’apparentamento oltremodo evidente anche tra modelli inclusi in linee non solo diverse ma proprio indirizzate a fasce di pubblico opposte, non nascondo che in un primo momento la cosa mi è sembrata inverosimile.

Pertanto le ho provate davvero tutte alfine di porre finalmente il 705 nelle condizioni di esprimere il suo potenziale, a livello di posizionamento in ambiente, di abbinamento con il resto dell’impianto e utilizzando anche cavi diversi. Non solo tra amplificatore e diffusori, ma anche al livello di segnale e di alimentazione. Per non parlare dei piedistalli.

Nulla di tutto quel che ho tentato ha dato risultati di sorta: i 705 sembravano fermamente decisi a porre in evidenza la sonorità da cui erano caratterizzati. Neppure un rodaggio più prolungato del solito ha dato esito, per quale che fosse.

A quel punto, malgrado tutto, non ho potuto far altro che prendere atto della cosa e come di solito ho scritto le mie impressioni, per quelle che erano.

Nella parte “tecnica” della prova, ovviamente, è stato necessario evidenziare che al posto del raffinato tweeter Nautilus utilizzato per l’ultima versione delle CDM 1, la NT, si era passati all’impiego di quello delle serie più abbordabili. Come tale aveva perso anche la membrana in titanio, sostituita da una in alluminio, materiale meno indicato ai fini di una sonorità raffinata anche per via della sua maggiore tendenza alle risonanze.

Si era di fronte a un’inversione di tendenza, che dalla riproposizione delle scelte tipiche del prodotto di vertice passava direttamente all’impiego dei materiali ritenuti idonei per i prodotti più abbordabili del listino.

Come ritengo fosse mio dovere, non feci soltanto notare la cosa, ma rilevai la stranezza di una scelta siffatta, del tutto in controtendenza al miglioramento progressivo del prodotto cui in quel periodo un po’ tutti eravamo abituati. Non solo per la produzione del costruttore inglese, ma un po’ nell’intero ambito della riproduzione sonora e più in generale per quel che riguardava la produzione dei beni ad elevato contenuto tecnologico.

Fu probabilmente quest’ultimo elemento che scatenò la repressione censoria nell’ambito della rivista con cui collaboravo, che del resto era quella più fermamente decisa a parlare bene di tutto, sempre e comunque. Sulla base dell’asserzione, dalla pretestuosità plateale, che “Le cose che non ci piacciono non le proviamo. Lo spazio a disposizione è quello che è, quindi lo dedichiamo solo alle cose che suonano bene”.

Quali fossero i criteri mediante i quali identificare cosa fosse degno e cosa no è sempre rimasto un mistero. Di un’eventuale verifica sul campo, poi, neppure a parlarne: personalmente, e in tanti anni, non ho mai visto nulla di simile.  Dunque il modo con cui chi si era attribuito l’incaricato riguardante l’assegnazione dei prodotti a ciascuno dei redattori, riuscisse a capire cosa andasse e cosa no resta ignoto. Materialmente non gli sarebbe stato possibile svolgere un’indagine preventiva in merito, sia pure con un’accuratezza ridotta al minimo, dato il numero di prove pubblicato mensilmente dalla rivista che dirigeva, su modalità affatto dissimili da quelle con cui un governo fantoccio dirige le sorti del Paese in cui viene calato.

Quell’asserzione, che ho avuto modo di ascoltare con le mie orecchie in varie occasioni, è tipica dell’indole del tecnocrate affetto da dissociazione selettiva, sindrome di estrema duttilità per attribuirsi l’agio di osservare solo quel che fa più comodo. Ovviamente negando subito dopo di averlo fatto, nella tipica applicazione del raffinato esercizio di auto inganno alla base del bispensiero orwelliano.

Ingannare sé stessi può anche andare bene. Meno indicato è farlo nei confronti di persone cui si chiede anche di pagare allo scopo. Proprio perché che le conseguenze distruttive per le stesse sorti del settore che in tal modo si ritiene di promuovere, diventano alla lunga inevitabili, come la storia si è incaricata di dimostrare.

Per non parlare della credibilità delle fonti che mantengono un atteggiamento simile.

La tipologia d’individui appena menzionata aveva del resto aveva il pieno e assoluto dominio di quell’ambiente. Come è del resto nell’ordine delle cose, dato che nessuno provvisto sia pure del minimo di ragionevolezza avrebbe potuto solo pensare di confrontarsi con una simile coacervo di fanatici sordo-ciechi. Fermamente convinti che non fossero mai le loro idee e punti di vista a doversi allineare alla realtà delle cose, per quale che sia, ma che fosse la realtà a dover cambiare sé stessa, ogniqualvolta non combaciasse a perfezione con il pregiudizio e il dogma di quel consesso di Soloni della Tecnologia e Principini della Carta Stampata per diritto dinastico.

Così è stato. Di conseguenza, tutto il testo relativo al tweeter del B&W 701 è stato tagliato brutalmente. Dando luogo alla prima, e forse unica, prova della storia della stampa specializzata in riproduzione sonora, riguardante un diffusore a due vie apparentemente sprovvisto di tweeter.

Nondimeno la mia firma in calce all’articolo è stata come sempre mantenuta, malgrado le norme dell’Ordine dei Giornalisti vietino espressamente un comportamento siffatto. Proprio perché va a travisare il significato del discorso fatto dal redattore, quale che sia l’argomento trattato.

Figuriamoci però se in quel bell’ambientino si avesse tempo da perdere con quisquilie del genere. Il mio testo è stato amputato, o meglio depurato, di tutto quanto non andasse in direzione dell’interesse di chi aveva commissionato quell’articolo. Guardacaso uno tra i distributori più potenti tra quelli operanti sul mercato italiano e non solo, acquirente di pagine pubblicitarie in quantità industriale e come tale abituato non a fare il bello e il cattivo tempo ma proprio a spadroneggiare in qualsiasi redazione di rivista specializzata in campo audio.

Inutile sottolineare quanto la mia persona e l’onorabilità della mia reputazione professionale siano stati danneggiati da un comportamento siffatto. In sostanza si è fatto in modo di farmi passare per un ciarlatano, talmente incompetente della materia da non accorgersi neppure che, per forza di cose, un due vie è composto da un woofer e un tweeter. O altrimenti per uno che ha evitato di parlare di un preciso argomento, poiché non confacente all’interesse del signorotto di turno, secondo un atteggiamento tipicamente feudale, da servo della gleba.

A dimostrazione ennesima dei risultati cui conduce il progresso tecnologico del mondo reale, non solo negli ambiti di sua più stretta attinenza, ma anche in quelli che vi si pongono in parallelo.

Inutile dire che da quel giorno in poi, di diffusori B&W non me ne sarebbe stato più dato in prova neppure uno. E malgrado fosse ben noto che nel mio impianto personale era presente da anni un sistema di altoparlanti di quel marchio o forse, a ben vedere, proprio per quello. Riprova ennesima di metodi e finalità coi quali si svolgono determinate attività.

Due o tre repliche di questo teatrino e il mio rapporto di collaborazione ventennale con quella pubblicazione si sarebbe chiuso.

Del resto, in un ambito editoriale in cui le pagine più verosimili sono quelle dedicate alla pubblicità palese, in quanto rendono almeno evidente la loro destinazione senza possibilità di fraintesi, la permanenza di una persona intenzionata a dire le cose per quelle che sono, o comunque per come le vede, e a tale riguardo sia provvisto innanzitutto delle facoltà di percezione e di analisi necessarie allo scopo, è semplicemente inammissibile.

A riprova definitiva di quali sono le vere finalità con cui determinate pubblicazioni vengono mandate in edicola, mese dopo mese e i loro succedanei virtuali vengono aggiornati giorno per giorno, con la pubblicità mascherata da informazione e spacciata come tale, che è il loro unico e solo motivo di esistere.

 

Il quesito finale

Resta un ultimo elemento, riguardo a come sia stato possibile passare da un estremo all’altro del comportamento sul campo nella semplice sostituzione di un prodotto “troppo” indovinato con un modello dalle caratteristiche sostanzialmente analoghe.

Non chiedetemelo, perché non sono in grado di dare una risposta.

E’ possibile tuttavia che in B&W ci si sia resi conto che nella veste acquisita con la sua ultima evoluzione, la serie CDM portasse di fatto una concorrenza interna troppo serrata nei confronti di quella di vertice, che quindi era opportuno evitare, proprio ridimensionando il suo potenziale tecnico e sonoro.

Poi, spesso accade che quando ci si appresta a certe cose con l’intenzione di portarle a termine nel modo migliore, ossia in questo caso penalizzare le doti del proprio prodotto colpevole di essere venuto fuori troppo valido, sia pure inopinatamente, in maniera altrettanto inopinata se ne effettua il degrado in maniera fin troppo radicale. Coi risultati che ne conseguono, appunto quelli relativi alla sfortunata serie 700.

Non a caso, è rimasta a listino per poco. Venne sostituita nel tempo più breve dalla serie CM, emblematicamente basata su ben altri presupposti, in modo tale da evitare ogni possibilità di confronto con un passato fin troppo scomodo.

La serie CM pertanto non aveva più nulla a che vedere con l’intenzione di riprodurre le caratteristiche salienti del prodotto di vertice in una veste più consona alle possibilità di un pubblico più ampio. S’indirizzava invece a dare a una fascia intermedia un prodotto in tutto e per tutto tagliato sulle sue limitazioni tipiche a livello tecnico, attribuendo una certa cura alla cosmetica del prodotto.

Di fatto un prodotto simile perdeva ogni sua attitudine propedeutica nei confronti della riproduzione sonora di qualità più elevata. Di conseguenza il suo scopo primario diveniva quello di marcare il segno, ovverosia sottolineare le differenze, vieppiù approfondite, nei confronti del prodotto di classe maggiore, imponendo una soglia molto più elevata che in passato, al di sotto della quale non era possibile ambire a un determinato livello prestazionale. Per poi lamentarsi che certi oggetti non si vendono più, che non c’è ricambio generazionale e via di questo passo.

Scelte dunque da classi intermedie, o per meglio dire indirizzate alla mediocrità, che da allora in poi sarebbe divenuto l’obiettivo di massima di un marchio in precedenza votato all’eccellenza e che su di essa aveva fondato il suo successo.

 

 

 

2 thoughts on “B&W CDM 1 atto terzo: il dopo CDM 1

  1. Buon giorno , condivido il suo pensiero determinato dalla realtà in cui viviamo , io faccio l’artista quadri a olio ma soprattutto mosaici e come passione la musica prima da giovane suonandola e poi ascoltandola a oggi mi costruisco le casse ma anche pre e finali , ho avuto modo di ascoltare casse nel 1990-92 da mutuo incluse le B&W serie importanti nuove ma deludenti e casse ” da poveri “ma per certi versi migliori soprattutto nella parte medio alta , alcune con il classico ssssss pessimo Triangle , altre chiuse o ovattate , il mio impianto è formato da 8 amplificatori posti al loro posto in base alla loro caratteristiche ovviamente crossover elettronico unico paio di casse acquistate le magneplanar che le uso come retro con un valvolare da 40 w escono ancora certe armoniche uniche ,a oggi in anni di lavoro a piccoli passi sono riuscito ad ottenere con casse “tradizionali ” auto costruite . Non mi dilungo era solo per presentarmi complimenti per i suoi appunti e suggerimenti di vita .

    1. Ciao Rudi, grazie per l’apprezzamento.
      Soprattutto quando si va su oggetti di un certo calibro, le condizioni in cui li si ascolta diventano determinanti per le sensazioni che se ne ricavano.
      Come dico sempre, se accorgersi di un difetto può essere relativamente facile, lo è molto meno individuarne l’origine in maniera corretta. Oltretutto, quando si va ad ascoltare qualcosa si punta l’attenzione su quel che ci interessa ma in realtà si ascolta l’insieme.
      Complimenti per il tuo impianto e per il modo con cui lo hai messo insieme. Spero di ricevere presto altri tuoi commenti e più in generale che diventi un frequentatore assiduo del sito.

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