Se vogliamo andare avanti, l’unica è tornare indietro

di Diego Spano

Una premessa forse non così breve ma necessaria, prima di lasciare la parola a Diego. 

Ci siamo conosciuti solo qualche mese fa ma ci siamo capiti al volo. In breve è nata un’amicizia, cosa rara in età matura, almeno per quanto mi riguarda e se si attribuisce alla parola il suo vero significato, malgrado le nostre esperienze e il nostro vissuto personale siano molto diversi e per certi aspetti persino opposti.

Il motivo credo si evidenzi proprio nella lettura dell’articolo che segue. Quel che ci unisce è il modo di vedere le cose, senza preconcetti o meglio sovrastrutture, secondo la definizione suggerita da Massimo Ruscitto che reputo indovinatissima, e la capacità di andare serenamente controcorrente, quando se ne ravvisa la necessità.

Cosa apprezzabile dal mio punto di vista, tantopiù al giorno d’oggi in cui il pensiero unico non si limita più a predominare a ogni livello, ma è diventato una legge non scritta. Che come abbiamo detto tante volte, è infinitamente più imperiosa, pervasiva e inappellabile di qualsiasi cosa sia stata messa nero su bianco. Di conseguenza risulta molto più comodo, semplice e proficuo lasciarsi trasportare dall’andazzo dominante.

Tanti magari provano disagio o soltanto non sono d’accordo su un argomento o sull’altro, ma preferiscono tenere per sé il proprio dissenso, con motivazioni che non serve elencare. Del resto è da decenni che si martella alfine d’imporlo come atteggiamento socialmente deprecabile, mediante il cosiddetto pensiero positivo e altri pretesti del genere. Dimostrando la viltà di chi agisce usando metodi siffatti, ma anche la sua capacità d’imporre i temi in agenda a livello globale. 

E’ evidente allora che tenersi lontani da certi rischi non può che favorire la qualità della vita.

Si vuole che tutti la pensino alla stessa maniera e agiscano di conseguenza, ma soprattutto facciano propri senza neppure averne coscienza l’abito mentale e le norme appositamente fatti calare dall’alto “nell’interesse dell’umanità”, come in “Get ’em out by friday”? Benissimo, si abbia almeno il coraggio di dirlo apertamente, assumendosi le responsabilità della cosa. 

Oggi più che mai, pertanto, è assolutamente necessario palesare questo dissenso, argomentandolo a dovere, ogniqualvolta si manifesti in noi. Proprio perché lo si vuole estirpare a ogni costo e di conseguenza sta diventando qualcosa di molto simile alle razze in via di estinzione o meglio un bene dell’umanità da preservare con cura, prima ancora che un diritto e primo caposaldo di libertà.

Magari, oggi, non sapremmo più che farcene. Tanto ci sono le macchine che agiscono per noi, pensano al nostro posto e costruiscono una realtà mille volte più affascinante e godibile di quella vera. Tale da aver permeato in maniera capillare le nostre vite al punto di rendere persino difficile, in molti casi, distinguere il mondo reale dalle proiezioni della nostra fantasia. E peggio, di quella di qualcun altro, che viene fatto di tutto per farci credere sia la nostra, nonché la cosa migliore cui si possa aspirare.

Ad essa risulta sempre più spesso conveniente lasciarsi andare, cosicché il dissenso non avrà più motivo di esistere. A un certo punto non saremo nemmeno più in grado di riconoscerlo come tale. Tuttalpiù sentiremo una vaga percezione che ci sia qualcosa di non perfettamente in quadro nel levigato e preordinato trascorrere della nostra esistenza, che però non riusciremo più a decifrare e meno che mai canalizzare verso il suo sbocco naturale.

Ciò non toglie tuttavia che saremo costretti a metabolizzarlo, in un modo o nell’altro, senza però avere più gli strumenti necessari allo scopo. Trovandoci quindi in una situazione di contrasto interiore che sarà di fatto irrisolvibile. Come tale non potrà che accumularsi in noi, alle altre già vissute e a quelle che giocoforza vivremo.

Con quali risultati è difficile dirlo: il primo che viene alla mente è la dissociazione. Non più rispetto alla realtà come la conosciamo ora ma nei confronti di noi stessi. Da cui un’altra serie di fenomeni difficilmente preventivabili nella loro entità e portata.

Il dissenso allora oltreché un diritto, che si sta facendo di tutto per abolire ma senza parere, è un bene che appartiene a ciascuno di noi. Essenza stessa della nostra umanità, la quale in tutta evidenza una volta eliminato non sarà mai più quella di prima.

Senza il dissenso, per forza di cose non potrà esistere più neppure l’assenso. Cosa resterà? Il nulla, ossia il lasciarsi trasportare in totale e definitiva passività da eventi sui quali non solo non avremo più alcuna possibilità di controllo, cosa che del resto è già oggi, ma neppure di reazione, per quale che sia. In ultima analisi verremo svuotati della nostra stessa umanità e della nostra coscienza, per trasformarci in esseri viventi antropomorfi del tutto passivi. O meglio passivizzati.

La domanda allora è: a favore di chi o che cosa?

Questo processo va avanti da decenni ed è arrivato a un punto cui si stenta a credere. Per rendersene conto basta osservare le reazioni di una persona qualsiasi, nel momento in cui si cerca di fargli intravvedere come stanno le cose, magari solo riguardo a un certo strumento o a un dispositivo. La sua reazione è di aggredire urlando e accusando di voler distruggere, in senso figurato ovviamente, l’oggetto della discussione, che a sua volta è un tassello della realtà fittizia nella quale non solo il nostro interlocutore è stato calato, ma si trova così a suo agio da reagire in quel modo nei confronti di chiunque cerchi di recuperarlo al rapporto con il mondo reale.

Dunque non si tratta solo di essere portati a una determinata condizione, ma di avere inoculati in sé gli anticorpi atti a difenderla e a neutralizzare ogni possibilità di ritorno alla consapevolezza di sé e di quanto ci circonda. 

Ringraziamo quindi Diego per aver condiviso con noi le sue idee, tanto più significative considerando la venerazione con cui il settore professionale è visto presso ampie fasce di cultori della riproduzione sonora amatoriale. Ma soprattutto perché, messa in termini tanto espliciti, potrebbe creargli difficoltà nell’ambito della sua professione.

Ho imparato di persona, infatti, a quale livello l’esponente medio del mondo dello spettacolo sia insofferente. Non solo nei confronti di una critica esplicita, per quanto ben argomentata e sostanziata, ma persino riguardo a qualsiasi riferimento o modello possa destare in lui la sensazione d’inadeguatezza.

Per questo il contributo di Diego assume un valore ancora maggiore ed è quindi meritevole dell’apprezzamento più sentito.

Anche se non che occorra tornare indietro ma che solo abbiano sbagliato non lo ammetteranno mai.

C.C.

 

SE VOGLIAMO ANDARE AVANTI, L’UNICA E’ TORNARE INDIETRO

Già sembra una follia il titolo, ma con il passare degli anni, in tanti aspetti della vita purtroppo riscontro questa strana verità, che può tranquillamente legarsi per esempio all’alimentazione, all’aria che respiriamo, alle città in cui viviamo, ma in maniera ancora più sentita agli affetti dei nostri cari, e non il ultimo per importanza al lavoro. Di questo voglio parlare, riferendomi a un richiamo trovato nell’articolo di Claudio che vado a commentare in parte e potrebbe tranquillamente essere studiato nelle Università italiane di Economia.

Voglio raccontare 2 o 3 episodi di quelli che accadono sul lavoro e rimangono impressi. Faccio di nuovo presente che sono un fonico, proprietario e amministratore di una società di noleggio Impianti Audio e Luci (Service) della zona di Roma. Questo perchè voglio riallacciarmi all’articolo di Claudio, sulle logiche costruttive attuali riguardo alle apparecchiature nel mondo audio, sia quello amatoriale, sia in quello professsionale.

Circa una decina di anni fa, nel mio mondo audio, è andata sempre di più consolidandosi la strada di passare tutto il segnale nel dominio digitale. Quindi nella catena riproduttiva: mixer, trasporti, stage box (il trasporto è il cavo che collega il mixer che si trova nella sala di ascolto dei concerti al palco, e la stage box è praticamente la scatola con tutti gli ingressi xlr in ingresso e in uscita dove attaccare i microfoni del palco, ma anche tutte le linee in uscita che siano dedicate all’impianto principale, e ai vari monitor per gli artisti). Hanno cominciato le riviste di settore, poi a cascata i vari distributori, i vari agenti, e così via. Ci hanno promesso qualità incomparabile, affidabilità totale, pesi contenuti, eccetera eccetera, facendoci passare il passaggio al digitale come il miracolo del millennio.

Ovviamente come tutti gli esseri umani viventi nel 21mo secolo, completamente intossicati e dipendenti dall’abuso delle tecnologie, tutti siamo passati al digitale. Con enormi costi di acquisto e abbandonando nei magazzini a prendere polvere tutte le nostre apparecchiature fin li acquistate, analogiche, convinti che i problemi del nostro lavoro in parte fossero risolti.

Tutti abbiamo investito molti soldi nella nuova tecnologia, per quanto mi riguarda soprattutto per la fatica nel trasporto, scarico, montaggio e carico dei mixer analogici, in effetti molto pesanti, ingombranti e sempre soggetti a verifiche annuali di manutenzione per ovvi motivi elettrici/elettronici.

Però cosa abbiamo dimenticato di chiedere ai nostri fantastici agenti venditori, che ci riempivano la testa di display touch screen, di migliaia di effetti di riverbero, delay e simili, schede aggiuntive che immettevano nel magico mixer digitale i più famosi effetti usati negli studi di registrazione di tutto il mondo, dai più importanti artisti?

E loro cos’hanno dimenticato di dirci, riguardo a tutti questi prodotti fantasmagorici?

E’ presto detto. Queste astronavi aliene tutto fanno tranne che l’unica cosa per la quale sono state inventate: suonare.

A meno di fare investimenti intorno ai 200/300.000,00 euri, si avete capito bene, queste macchine a livello di suono erano, e sono ancora oggi, veramente terribili.

Qui mi fermo per non annoiare il lettore e racconto due episodi verificatisi a distanza di qualche anno, che però mi vedono in veste di semplice spettatore e non di tecnico.

Chiaramente anche noi tecnici abbiamo un po’ come tutti gli appassionati di musica i nostri artisti preferiti e, quando possiamo, andiamo ai loro concerti.

Alcuni anni fa mi chiama un mio amico musicista e mi dice: Diego questa sera a Tarquinia, piccola cittadina etrusca di poche anime in provincia di Viterbo, nel prato di un associazione ONLUS locale di supporto a dei ragazzi svantaggiati, suonano gli Earth, Wind & Fire.

Si trattava ovviamente della formazione attualizzata, non ricordo se solo con uno o due dei componenti storici e poi tutti nuovi musicisti, comunque gente di altissimo livello. Lo sfotto al telefono e gli dico di non prendermi in giro perchè non sono in vena di scherzi, e che vista la serata libera in estate, vorrei riposarmi e non ho voglia di perdere del tempo.

Gli Earth, Wind & Fire, a Tarquinia, in mezzo alla campagna e pure gratis… Che avreste pensato voi?

In un modo o nell’altro mi faccio convincere, prendo e vado la sera in campagna. Risultato, gli Earth, Wind & Fire ci sono davvero!

Assisto al concerto forse più bello ed emozionante di tutta la mia vita, non solo per le ovvie performance tecniche del gruppo, ma soprattutto per un suono veramente impressionante per balance, timbrica, dinamica. Insomma di una qualità tale che alla fine della serata a rischio di insulti e percosse sono andato dal proprietario del service, e dal fonico del gruppo, ovviamente il loro fonico americano che li segue ovunque nel mondo, a chiedere con una certa paura anche, se fosse stato in parte un bluff. Ovvero avessero usato una parte del programma audio fatto di sequenze pre registrate, come spesso fanno anche i grandi artisti (eh, mi spiace dirvelo) e poi solo le voci dal vivo.

Insomma, una specie di grande karaoke però a pagamento. Salato oltretutto, anche se non in quell’occasione.

Risultato, il loro fonico alto circa 2 metri, di colore, fisico da boxeur a momenti mi prende a calci, giustamente.

Allora chiedo scusa e gli faccio i miei complimenti per l’incredibile risultato sonoro, e intanto sbircio tra le macchine utilizzate per capire come avesse fatto ad ottenere quel risultato. Bè, semplice, il meglio del mondo analogico, poche cose ma tutte di qualità assoluta (Che vanno comunque manovrate con sapienza, altrimenti si fa danno e basta n.d.C.C.).

Cito soltanto il mixer audio, famosissimo in tutto il mondo, sogno di tutti i service del mondo per il suo costo improponibile, ovvero il Midas XL4, la Ferrari dei mixer audio.

Tutto il resto dimensionato sulla stessa qualità, ma veramente poche cose (a dimostrazione che la semplicità è vincente nell’amatoriale come nel professionale n.d.C.C.), 2 riverberi, qualche compressore, e niente più. Tranne che la cosa più importante, ovvero i musicisti, dei veri fenomeni. Poche spie sul palco, per gente che suona davvero.

Veniamo a tempi più recenti: tipo, rispettivamente, 3 anni, 2 anni e 6 mesi fa, vado a vedere con amici i concerti di tre artisti italiani, i più importanti del panorama nazionale, che non voglio citare, ma parliamo di Stadio Olimpico, Cavea dell’Auditorium Parco della Musica e in ultimo Palalottomatica.

Nomi da 120 euro a biglietto, installazioni fantascientifiche, impianti audio line array a tonnellate, postazioni di regia con mixer sempre più somiglianti ad astronavi digitali e non solo.

Non bastando tutta l’effettistica interna, i famosi fonici degli artisti si fanno portare montagne di outboard esterni, perchè altrimenti i cantanti senza il loro famoso compressore, o il loro preamplificatore di fabbricazione USA non possono cantare, giustamente. Con mixer che costano quasi 300.000, euro non si può cantare se privi di tutti gli optional e gli ammennicoli del caso.

Aiutooooooo!

Volete sapere cosa però hanno dimenticato, in tutto questo delirio tecnologico?

Un particolare trascurabile o meglio del tutto insignificante: che si capisca qualcosa.

Allora quello dell’Olimpico, mi sembra nel Giugno 2018, era il cantante rock più famoso d’Italia. Bè dalla regia dove ovviamente mi apposto quando vado ai concerti, per deformazione professionale, si sentivano soltanto la batteria e la voce!

2 ore e mezza di concerto per batteria e voce, e tutti i tecnici in regia tranquilli e sorridenti: ho pensato che forse erano diventati sordi.

Va considerato che il gruppo, se non ricordo male, aveva in totale 8/9 elementi, anche molto bravi.

Il concerto al Palalottomatica, (quello che al tempo in cui le sponsorizzazioni non c’erano ancora era il leggendario Palasport dall’acustica infernale, in cui si sono tenute decine dei più grandi concerti di musica rock e jazz n.d.C.C.) di un gruppo italiano tra i più stimati: purtroppo anche per la triste struttura non adeguata ai concerti, veramente imbarazzante, quel che si è potuto ascoltare era un miscuglio di tutto un po’, senza alcuna definizione, spazialità, eccetera. Insomma un pastrocchio, con solo la voce che usciva abbastanza pulita.

L’ultimo la scorsa estate alla Cavea dell’Auditorium, invitato dal mio maestro di chitarra che suona con questa artista, stavolta donna: uguale, tutto confuso, incasinato al massimo. Il mio povero maestro nelle 2 ore di concerto avrà cambiato 30 volte chitarra, dall’elettrica, alla classica, all’acustica e così via.  Col risultato che l’ho sentito suonare soltanto quando da solo, con l’acustica, ha accompagnato la cantante in un duo chitarra e voce. 3 minuti. Il resto buio totale.

Non potete capire la quantità dei materiali audio, tra mixer, splitter, stage box, impianto audio, ear monitor, installazione oramai spaventose per quantità e costi di queste apparecchiature digitali.

Lo sapete il risultato finale qual è? Che i più grandi service italiani hanno nei loro magazzini mixer analogici come il sopra citato Midas XL4, macchine veramente eccezionali, dalle capacità sonore inarrivabili neanche tra 1000 anni, perchè fatti pensando alla sola cosa importante. Al suono.

Per carità, l’XL4 per essere trasportato, montato e smontato ha bisogno di almeno 6/8 facchini per la mole e il peso, ma è questo il problema? Ora li hanno in magazzino che si stanno rovinando. In America li danno via per poche migliaia di dollari, macchine che costavano come ville al mare.

Per cosa, per i touch screen, per tutte le lucette dei canali, per le migliaia di pagine di effetti, che nessuno adopererà mai.

Ci siamo tutti scimuniti?

Tanto il suono a chi interessa più, sarà per colpa dei riferimenti che abbiamo oggi, telefonini, iPod, iPad e simili: a cosa stiamo andando incontro in questo mondo folle?

E non parlo solo di mixer, ma anche di impianti fantastici, riverberi, compressori, tutta una serie di apparecchiature analogiche costruite con la sola idea in mente di tirare fuori il suono dallo strumento di turno. Tutto finito, e dico tutto, nei magazzini ad arrugginire.

Adesso, ai concerti, mega maxi schermi LED che ti abbagliano, luci a quintali.

Tutto fumo e niente arrosto (La cosa che succede sempre quando si perde di vista l’obiettivo primario e s’inizia ad andare per farfalle. Si nota per caso qualche vaghissima rassomiglianza al settore delle riproduzione sonora amatoriale? n.d.C.C.).

Arrivati a questo punto, si potrebbe dire: “Che problema c’è? Hai ancora tutto il tuo parco apparecchiature analogico in magazzino a prendere polvere. Vai, ritiralo fuori e spacca!”

Invece no: se per caso ti presenti col tuo service allestito e messo a punto per avere il suono, iniziano a guardarti storto e ti chiedono perché non hai il mixer ultraspaziale, il riverbero tal dei tali o l’effetto speciale all’ultima moda. Dopo aver fatto del tuo meglio per fornire il servizio migliore possibile secondo coscienza e quindi dare a chi sta sul palco tutto il necessario affinché possa esprimersi nel modo più congeniale e arrivare al pubblico nel modo più efficace, sei preso per un retrogrado inadeguato (proprio la stessa cosa che si diceva un tempo nei confronti di chi non abbandonasse il giradischi per il CD, persino dalle pagine delle riviste autoelettesi come “le più autorevoli” e oggi non utilizza la cosiddetta liquida. Alle volte, le combinazioni… n.d.C.C.). Poi le voci corrono nell’ambiente e finisce che non lavori più.

Usare certe apparecchiature allora è obbligatorio, anche sapendo che in quel modo i risultati sono quelli che sono.

Allora vi prego, torniamo indietro a quando non capivamo niente, eravamo trogloditi, ancora mangiavamo la verdura coltivata nei nostri orti, le uova delle nostre galline, la sera invece di guardare le serie TV su Netflix uscivamo e andavamo nei pub fino alle due di notte a suonare, bere e chiacchierare con gli amici, quando ancora nei fine settimana invece di andare nei centri commerciali ad acquistare cose inutili, uscivamo a fare delle passeggiate in campagna, nei piccoli e fantastici borghi di cui l’Italia è piena, alle fiere di paese.

Bei tempi, bei suoni…

 

 

4 thoughts on “Se vogliamo andare avanti, l’unica è tornare indietro

  1. “All that glitter is a mare’s nest”, Tutti questi lustrini sono un guazzabuglio inutile (Cardiacs – https://www.youtube.com/watch?v=lmitqsDp1uw )

    Considerazioni giustissime, che fotografano un aspetto di un declino molto più ampio: il pubblico è stato di fatto progressivamente diseducato al gusto – e certo chi normalmente ascolta musica dal cellulare, per dire, sarà più facilmente abbacinato dagli schermi con le app che da un suono vero.

    E passando dal merito alla metafora – verrà colpito dai lustrini, dal fumo – senza accorgersi se esista da qualche parte dell’arrosto.

    La sostanza è andata persa – e purtroppo, questo capita in molti ambiti, anche al di là della produzione culturale.

    Complimenti per l’articolo e per il sito!

  2. Che dire… Sante parole che riflettono l’amarezza di quanto sia tutto evidente ormai a pochi. Sarà la conseguenza di una ridotta capacità critica causata anche da elementi esterni di varia natura a cui pochi sono rimasti refrattari, mantenendo la barra (per quanto possibile) nella propria visione e senza farsi trascinare in quel “mainstream” intellettualoide che inquina tutti i settori. Quello dell’audio, nel mio caso amatoriale, oltre al piacere di conoscenza che una mentalità aperta mi ha consentito di avere una visione alquanto profonda, riscontro l’evidente condizionamento delle masse che ha il sopravvento anche su un qualcosa come la fruizione musicale che dovrebbe fare del piacere dell’ascolto della musica l’unico obiettivo. Invece diventa un interessante luogo di osservazione dove spesso le peggiori frustrazioni e meschinità hanno il sopravvento ancorché pilotate da luoghi comuni e preconcetti. Il generale imbarbarimento rileva i suoi insulti anche sul versante della qualità della riproduzione ormai ridotta ad una fruizione, con oggetti di scarsa qualità e dove anche per chi potrebbe spendere qualche decina di euro al mese per una fruizione migliore con un abbonamento in streaming sembra uno spreco. O tempora o mores

    1. Ciao Filippo e grazie del commento, davvero ottimo e gradito, che va a cogliere un aspetto del problema tuttaltro che marginale.
      Come spesso avviene, per approfondire come meriterebbero gli argomenti da te sollevati non basterebbe un articolo solo, ma ce ne vorrebbe proprio una serie. I quali oltretutto andrebbero a toccare problemi che con la riproduzione sonora hanno a che vedere solo di riflesso, malgrado le loro conseguenze siano marchiane anche nel settore del nostro interesse. I fattori che entrano in gioco sono numerosi e riguardano tra gli altri la disabitudine alla concentrazione, infatti sono sempre di meno le persone che riescono a mantenere la propria attenzione su un testo più lungo di poche righe, un sistema didattico non più rivolto alla formazione dell’individuo, se mai lo è stato, ma una funzione squisitamente autoreferenziale volta primariamente a giustificare la sua stessa esistenza in vita. Ormai si è ridotto sostanzialmente a un diplomificio, da dove escono persone che un tempo avrebbero avuto seri problemi a passare l’esame di quinta elementare. Malgrado ciò viene loro attribuita una laurea, oltretutto col massimo di voti e la lode. Tempo fa ho potuto assistere alla discussione di una serie di tesi di laurea, caratterizzate da una povertà di argomenti, da una superficialità di analisi e addirittura dall’incapacità di esprimersi in un italiano ragionevolmente corretto, tali da lasciarmi basito.
      Se è quello il vivaio da cui dovrebbero uscire le classi dirigenti del nostro Paese, va da sé che anche nel nostro settore le cose vadano di conseguenza. E siccome stiamo parlando anche di piacere d’ascolto, è altrettanto scontato che lo si possa coniugare secondo una serie pressoché infinita di parametri e suggestioni che sempre meno hanno a che vedere con i canoni tradizionali di una riproduzione possibilmente verosimile dell’evento originario, ma rispondono soprattutto a stimoli che con il retaggio culturale dell’arte della musica e della sua fruizione non hanno più addentellati.
      In una società come quella attuale, nella quale l’ordinamento capitalistico è portato alle conseguenze più estreme, come avremo modo di vedere in un articolo che sarà pubblicato a breve, l’arte, la cultura, il piacere di coltivarle e i riscontri positivi che possono avere sul nostro modo di essere e di porci di fronte a quei fenomeni possono avere un senso solo nel momento in cui prefigurino la capacità di dar luogo a un ritorno economico, che deve essere il più sostanzioso possibile e materializzarsi nel tempo più breve. Se queste sono le premesse, è evidente che i fattori predominanti non possano essere più quelli tipicamente immisurabili e che tendono a sfuggire alla catalogazione, come la qualità sonora, l’ispirazione artistica, la creatività e così via. Per forza di cose vengono sostituiti da altri che si prestano maggiormente alla mentalità contabile-ragioneristica oggi così in voga.
      E siccome in economia è ben noto che la moneta cattiva scaccia sempre quella buona, non potranno che farsi largo i criteri dell’esclusività e dello status symbol, misurati essenzialmente sul costo degli oggetti che li rappresentano e sulla difficoltà che fasce di pubblico sempre più ampie incontrano nello sborsare le somme necessarie per il loro acquisto, sempre più prive di giustificazione. Tranne appunto che per il fine di dar luogo a una fascia di eletti, o meglio ottimati, basato unicamente su un prezzo inaccessibile per il 99% dei comuni mortali.
      Questo dal punto di vista dell’utilizzatore. Da quello del produttore invece l’unico aspetto considerato è la profittabilità del prodotto, tantopiù in funzione delle condizioni di mercato oggi in auge, basate appunto su quanto appena detto. Il tutto, spinto all’esasperazione da una propaganda martellante e senza requie, intenta a una guerra in cui non si fanno prigioneri, date le stesse conseguenze di un mercato ormai privo di reti di salvataggio e spaccato in due tronconi fra i quali è stata recisa ogni minima traccia di comunicazione. Nell’ambito della produzione è il successo o il fallimento, senza possibilità intermedie, in quello della fruizione è il prodotto per super ricchi, che non ha più neppure bisogno di suonare né bene né male, dato che il suo scopo è soddisfare la sete di status symbol della ristrettissima fascia di pubblico cui si rivolge, la cui priorità è dimostrare le proprie capacità di spesa. Che in un panorama d’impoverimento generale esasperato come quello attuale è innanzitutto indice di un degrado etico e morale tanto profondo quanto irrecuperabile.
      Al prodotto così esclusivo l’unica alternativa sono le apparecchiature “per i poveracci”, robaccia costruita a decine di tonnellate per volta in impianti in cui il neo-schiavismo la fa da padrone, fatti per costare poco anzi nulla, come certifica lo stesso cumularsi di margini e prelievi fiscali su di esso praticato, e illudere il fruitore di trovarsi di fronte a quella che un tempo è stata la riproduzione sonora ad alta fedeltà.
      Qui arriviamo al solo punto su cui non sono d’accordo con la tua analisi, riguardante lo streaming. E’ vero che costa poco su base mensile e sembra offrire molto, anzi tutto. Del resto è proprio su questo che si basa la sua attrattiva maggiore, che però stanti le premesse non può che essere guardato con sospetto. Nel lungo termine infatti le somme devolute al riguardo diventano comunque significative, ma soprattutto nel momento in cui si smette di pagare si resta con un pugno di mosche in mano. Ecco perché oggi è così di moda, in conseguenza delle modalità con cui viene spinto senza posa, non solo nell’ambito della riproduzione sonora ma un po’ in tutti i settori che abbiano a che vedere con il digitale, dagli applicativi per PC alla televisione eccetera. Senza parere, infatti, il sistema dell’abbonamento è quello che produce il ritorno economico più significativo a favore del suo gestore, che per cominciare si mette al riparo dalle incertezze tipiche del sistema commerciale basato sulla vendita del prodotto tradizionale, che oggi può essere di moda ma domani non lo sarà più. Soprattutto fa dei suoi produttori e dei fruitori dei veri e propri ostaggi, nei confronti dei quali il fornitore del servizio può fare il bello e il cattivo tempo.
      Del resto un battage pubblicitario tanto capillare e pervasivo ha per forza di cose le sue motivazioni, stanti appunto nella profittabilità spinta alle estreme conseguenze di un sistema siffatto. Tutto questo senza contare le abitudini deprecabili indotte dallo streaming e più in generale dalla musica liquida, la cui offerta sconfinata infine ha un ulteriore elemento dalle conseguenze subdole, come tutto ciò che appare troppo conveniente e privo di contropartite. Se da un lato ci solleva dall’impegno stante nel dover allestire pezzo dopo pezzo la nostra raccolta discografica, dall’altro cancella le ricadute positive di tale funzione in termini culturali, di esperienza, di affinamento delle capacità di analisi conseguente al processo di scelta e verifica tipico del supporto fisico, oltretutto acquistato a un certo prezzo. Tutto questo non può essere sostituite dalla libertà di saltabeccare senza posa di palo in frasca, utilizzo tipico e più diffuso di questa tipologia di media.
      Le conseguenze sono appunto la produzione di un pubblico senza qualità, senza gusti, senza conoscenza e come tale sostanzialmente amorfo, proprio in quanto privato del processo formativo sul quale ciascuno costruisce le proprie preferenze e referenze, in base a una serie di considerazioni che invece non hanno più neppure bisogno di essere formulate, proprio in quanto non è più necessario fare la propria scelta, giusta o sbagliata che sia.
      Le conseguenze sono appunto quelle che vediamo e che tu giustamente lamenti: non più un pubblico ma un gregge, che una serie di pastori s’incarica di guidare e governare secondo criteri per forza di cose zootecnici.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *