Town Street Reloaded – “Seekers in the sky”

Massimo Ruscitto è una vecchia conoscenza per i frequentatori assidui di questo sito, ammesso che ne esistano.

A suo tempo infatti è stata pubblicata una sua intervista che ha toccato diversi temi interessanti, riguardo alla realtà musicale dei nostri giorni e a quella concernente la riproduzione sonora.

Massimo infatti è il solo musicista che conosca personalmente, anche se ovviamente non ne conosco moltissimi, anzi, a rivolgere verso la riproduzione sonora un’attenzione rilevante, in misura non troppo lontana da quella che rivolge alla musica e alla sua composizione ed esecuzione.

Questo ne fa un musicista più completo, proprio perché in grado di comprendere non solo le problematiche inerenti l’esecuzione e la produzione musicale, ma anche quelle con cui va a misurarsi chi si trova dall’altra parte della barricata. O per meglio dire del sistema di altoparlanti.

A un appassionato di musica, e in conseguenza di ciò di riproduzione sonora, questa prerogativa lo rende particolarmente simpatico. Ancor più nel momento in cui, a livello personale, ho potuto scoprire di avere con Massimo una similitudine di gusti, sempre a livello musicale, piuttosto spiccata.

Forse perché siamo all’incirca coetanei e come si suol dire “abbiamo frequentato la stessa scuola”, anche se poi lui ha approfondito in ben altro modo il percorso che lo ho portato a essere il musicista che è, mentre io, molto più banalmente, ho continuato a far parte del pubblico. Sia pure quello più appassionato e pronto a sobbarcarsi sacrifici e trasferte notevoli pur di vedere all’opera i gruppi e i solisti preferiti e di acquistare i loro dischi. Quindi anche d’impelagarsi in una materia oltremodo complessa come quella riguardante la riproduzione sonora, alfine di poter apprezzare nella maniera più compiuta e approfondita i contenuti della loro opera.

Massimo Ruscitto è salito agli onori delle cronache musicali con la partecipazione al primo album del batterista Roberto Gatto, “Notes”, per il quale ha composto anche un brano.

Fare il proprio esordio discografico su un album in cui compare anche Michael Brecker, allora considerato il sax tenore del momento e uno dei più illustri in assoluto di tutta la storia del jazz, in particolare per quello moderno, non è cosa da tutti. Massimo di questo va orgoglioso, a pieno merito.

Più o meno nello stesso periodo, stiamo parlando di quella fase a cavallo tra la metà e la fine degli anni ottanta in cui il jazz insieme alle sue diverse contaminazioni sembrò essere sul punto di entrare a far parte dei generi apprezzati anche dal pubblico generalista, Massimo ha fondato il suo gruppo, Town Street, che poi è anche il titolo del brano dell’album di Gatto a lui accreditato.

Come spiega lui stesso, il suo gruppo è nato sull’onda dell’emozione causata da album come “Decoy” e “Tutu”, entrambi di Miles Davis, dagli Steps Ahead in cui militava lo stesso Brecker e più generale della spinta propulsiva che il jazz elettrico ha indotto in quella fase storica. Ha costituito infatti un laboratorio stilistico e di ricerca dall’efficacia direi estrema, dalla rapidità evolutiva se possibile ancora più spinta, proprio in funzione della capacità di trarre ispirazione da pressoché qualsiasi stimolo esterno. Per poi riuscire ad amalgamarlo nel proprio lessico con una fluidità e una naturalezza divenute fin quasi proverbiali.

Appunto questo è stato uno dei motivi di successo per il jazz che si suonava in quegli anni, assurto a un livello di popolarità mai avuto prima e non più ripetuto dopo quella fase di grande fortuna. Nello stesso tempo ha costituito il capo d’imputazione numero 1 da parte di quanti prediligevano invece le forme più tradizionali, secondo una visione retrograda e manichea, oltretutto incapace di vedere e meno che mai di accettare la contraddizione insanabile gravante su quella posizione, essendo il jazz musica di mescolanza e contaminazione per eccellenza, già a partire dalle sue forme primigenie.

Senza contare che tante cose cui a suo tempo venne mossa l’accusa di essere troppo compromesse con la musica popolare, riascoltate oggi suonano molto più “jazz” rispetto a tanta altra roba cui venne riconosciuto il crisma dell’autenticità senza la minima discussione. D’altronde il preconcetto e la “sovrastruttura”, come dice Massimo, giocano talvolta un ruolo preponderante rispetto a ciò che si va in effetti ad ascoltare.

Nella chiusura mentale propria di tale atteggiamento, nella cui pratica la critica musicale di ogni genere e latitudine ha spesso mostrato di trovarsi particolarmente a proprio agio, risultava praticamente impossibile accettare che il jazz potesse attingere a fonti d’ispirazione che non fossero quelle comandate. Da chi e a quale titolo era com’è ovvio una domanda che si è sempre trascurato minuziosamente di porsi.

Il successo che malgrado tutto arrise a quelle forme più libere, e meglio fruibili, di espressione musicale non ha avuto naturalmente importanza alcuna per i dotti soloni della critica ufficiale. Anzi era motivo ulteriore di discredito in quanto fenomeno inevitabilmente popolare e come tale deplorevole. Meglio ancora, degno di repulsione per quanti sono convinti di far parte di un’élite e vivono con gran convinzione la loro parte in commedia secondo il motto reso celebre dal Marchese del Grillo: “Io so io e voi non siete un…”

Il ribrezzo per il popolo è in certi casi un vero e proprio dovere, perché vestito in modo approssimativo, sudato e con le ascelle maleodoranti. Quindi per entrare a far parte di certe conventicole, tra le quali appunto quella della critica musicale paludata, ed essere bene accetti al loro interno, è opportuno mostrare nei suoi confronti il disgusto d’ordinanza.

Fu così che alle forme jazzistiche più disponibili alla contaminazione venne attribuita la denominazione di fusion, sempre a cura della critica di regime, termine del quale non si tardò a ufficializzare e a diffondere nell’immaginario comune l’accezione più negativa, inerente una connotato degradante, secondo un meccanismo semantico non dissimile da quello con cui si è coniato il termine “esoterico”, riferito alla riproduzione sonora e alle apparecchiature ad essa adibite, che non a caso detesto in maniera altrettanto cordiale.

Nella logica stessa delle profezie auto-avveranti, è inevitabile che l’apertura secondo i criteri di massima libertà nei confronti del diverso porti con sé il rischio che qualcuno ne approfitti oppure non si avveda dei limiti oltre i quali si abbandonano i territori del buon  gusto. Per non parlare del fatto che un genere di buon successo richiami un musicisti ed esecutori in quantità maggiore e pertanto sia logico che i tentativi discografici non baciati dai crismi dell’eccellenza, in termini ispirativi o di esecuzione, possano rivelarsi più numerosi del solito.

Di qui l’accezione deteriore assunta dal termine fusion, come spesso accade utilizzato sempre più a sproposito, ha acquisto un carattere dominante. Per il gaudio della critica più retrograda e in particolare presso quanti ne vi si riferiscono in maniera superficiale, ossia senza conoscere in misura almeno sufficiente la sua realtà e la sua storia, così da ritrovarsi non in grado di comprenderla.

Pertanto astenersi dall’utilizzare il termine mi sembra consigliabile, come per tutti quelli coniati appositamente con lo scopo di suscitare reazioni automatizzate, o comunque piegati a tale utilizzo, senza bisogno di disturbarsi ad attivare il cervello e di affaticarsi a farlo funzionare. Trasformando alla lunga l’individuo dotato di una qualche coscienza di sé in una sorta di fantoccio marciante a ranghi serrati secondo una direzione univoca, prestabilita con grande accuratezza. Ovvero i “Marching puppets” come quelli cui è dedicato il titolo di uno dei brani che fa parte del nuovo album del Town Street Reloaded, secondo una scelta probabilmente non casuale.

Il nome del gruppo ha assunto il suffisso “Reloaded” proprio a significare il suo essersi riformato dopo i lunghi anni in cui ha interrotto l’attività, in conseguenza della controffensiva con cui le forme musicali più deteriori hanno ripreso il sopravvento dopo la fase in cui il jazz elettrico ha avuto il seguito il seguito che sappiamo.

Allora i Town Street pubblicarono anche un LP, “Play of light”, purtroppo passato largamente inosservato. Quello cui ci troviamo di fronte allora è il secondo album del gruppo, che insieme al fondatore ha mantenuto nei suoi ranghi soltanto uno tra i componenti originari, il bassista Francesco Puglisi.

Gli altri suoi membri sono Cristiano Micalizzi, batteria, Massimiliano Filosi, sassofoni e Massimiliano Rosati, chitarre.

La gestazione del nuovo album è stata piuttosto lunga e forse anche travagliata. Circa un paio di anni fa infatti Massimo mi raccontò di aver composto nuovi brani da includere in un album e fece in modo che un paio di essi li potessi ascoltare in anteprima.

Manifestai già allora il mio apprezzamento, spronandolo a completare il lavoro al più presto.

Così non è stato purtroppo, dato che c’è voluto più di qualche tempo per vedere finalmente l’album in carne e ossa. D’altronde le cose si fanno sempre più complicate per chi non ritiene necessario “togliersi le mutande sul palco” (cit.) quale complemento dell’opinabile forma d’arte che va a proporre o comunque non costituisce modelli deteriori per il pubblico, specie quello giovanile più facilmente suggestionabile, tuttavia ritenuti confacenti da chi controlla l’industria discografica e l’apparato propagandistico al suo servizio.

Nel frattempo il sistema di somministrazione da remoto del repertorio musicale messo in liquidazione ha dilagato, ponendo sotto il proprio controllo masse sempre più rilevanti di ascoltatori. Anche tra quanti si ritengono grandi appassionati di musica oltreché di riproduzione sonora, che hanno ceduto alle lusinghe della pretesa comodità e più ancora a quelle della grande abbuffata. Senza comprendere che in ultimo avranno corrisposto ai gestori del sistema somme ancora maggiori solo per ritrovarsi alla loro mercé, cooperando fattivamente alla distruzione della possibilità stessa di creare e diffondere musica in forma indipendente.

Ovverosia in libertà, termine che perde inevitabilmente di significato nello stesso momento in cui l’individuo non sente più la necessità di esercitarla. Così da entrare anche lui a far parte, per forza di cose, dell’esercito dei “Marching puppets”.

Anche questo è un elemento della gabbia digitale che tassello dopo tassello le oligarchie globalizzate stanno allestendo per acquisire il controllo totale della popolazione e il diritto di vita e soprattutto di morte su di essa. Non a caso i loro portavoce parlano sempre più spesso di “mangiatori inutili”, ovverosia chiunque non sia parte del loro clan, e della necessità di depopolare.

Come disse Maurizio Giammarco, al pubblico certe cose non gliele spiega nessuno. Personalmente tuttavia sono anni che mi sgolo al riguardo, ma come noto non c’è sordo peggiore di chi non vuol sentire. Eppure si atteggiano tutti a orecchie d’oro quando pubblicano sui social di settore i loro commenti riguardo a questa o all’altra apparecchiatura.

Detto questo, da ritenersi essenziale quando un intero sistema sta tentando di inibire la stessa libertà di esercizio dell’arte musicale, e non solo quella, a me il disco è piaciuto subito, fin dal momento della sua gestazione. Ora che è un’opera compiuta ho ritrovato tali e quali le stesse sensazioni. Anzi, l’apprezzo ancora di più, data la forma meglio ponderata con cui le composizioni sono state eseguite e poi fissate sul supporto fonografico.

D’altronde come mi sembra di avere già detto, i gusti musicali di Massimo e i miei sono quasi perfettamente gli stessi. Il disco pertanto è formato da composizioni mature e ispirate, oltretutto eseguite in maniera assolutamente impeccabile da quelli che sono veri e propri mostri.

Come tali dimostrano piena padronanza dei propri strumenti, ma soprattutto il possesso di senso della misura e la capacità di non cedere alla tentazione di strafare.

Forse proprio per questo gli spazi per eseguire dal vivo questo tipo di musica sono reperibili con sempre maggiore difficoltà. Gente così del resto rovina la piazza, come si suol dire. Un pubblico minimamente avvertito, dopo averli ascoltati, e compreso a cosa si trova di fronte, come reagirebbe di fronte ai “Marching puppets” che oggi vanno per la maggiore, ossia a quei gruppi che di meglio non riescono a fare, se non scimmiottare l’opera degli artisti più noti avvicendatisi nel corso del passato?

Insieme alla somministrazione da remoto di tracce audio, le cosiddette tribute band sono un altro sintomo della malattia terminale che ha colpito il panorama musicale di oggi, e anche quello del passato recente, in una forma talmente endemica da non lasciare praticamente scampo a tutto quanto non vi si conformi, rientrando nei confini oltremodo angusti così stabiliti.

Riflettendo sulla questione, sembra quasi impossibile che qualcosa di diverso riesca ancora a essere prodotto, a conferma delle implicazioni devastanti di fenomeni a tal punto regressivi, ma ai quali quasi nessuno sembra voler far caso, adattandosi ad essi anche con un certo entusiasmo. D’altronde se c’è chi paga un biglietto, neppure troppo a buon mercato, per andare a vedere delle esecuzioni scimmiottate, per quanto a volte nei minimi particolari, per poi riferirsi alla cosa parlando con gli amici o nei sistemi di messaggistica in termini del tipo “ieri abbiamo visto i Pink” oppure “stasera ci sono gli AC/DC”.

Se in un’epoca di grande libertà, esercitata in una misura oggi incomprensibile per chiunque non l’abbia vissuta in prima persona c’era il “Progressive”, oggi a dominare è il Regressive rock e nessuno o quasi ci trova nulla di ridire.

Difficile possa trattarsi di una mera casualità.

Se poi si ritiene conveniente anche l’asservirsi a un sistema pronto a lasciarti a piedi, e a rendere il costoso impianto audio null’altro che un ingombrante soprammobile alla prima dimenticanza di pagamento della quota mensile,  o solo a un disservizio della rete più o meno temporaneo, vie d’uscita non se ne vedono.

Si rimane anzi persino stupiti se qualcuno, come i Town Street Reloaded, cerca in qualche modo di sottrarsi all’abbraccio soffocante del nuovo normale che va somigliando sempre più a quello che è in effetti: un tentativo di strangolamento.

Al riguardo vale la pena rilevare innanzitutto il livello qualitativo dell’album, privo di cali ispirativi, cui siamo abituati anche da opere di ben altra rinomanza, per tutta la sua durata. Se possibile anzi ci si trova di fronte a un crescendo che si protrae brano dopo brano e tocca il suo punto più elevato proprio alla fine dell’album.

Se il gruppo intendeva mostrare quali sono le potenzialità, artistiche ed espressive, proprie delle proposte alternative ai sistemi oggi più in voga, difficilmente si sarebbe potuto immaginare qualcosa di più efficace.

I diversi brani tra l’altro esprimono una compiutezza, una maturità tali da far pensare che la contaminazione, elemento alla base del concetto musicale di Town Street e più ancora del genere musicale che praticano, si sia fatta mainstream, nel senso più nobile della parola, proprio per la capacità di attribuire tanta coesione ai diversi elementi compositivi che caratterizzano i brani in scaletta.

Musica di alto livello dunque, persino inusitato per la realtà di oggi, ed eseguita in maniera magistrale, a testimonianza di una maturità e di un affiatamento tra i diversi membri del gruppo che non sembra risentire degli spazi pressoché inesistenti offerti colpevolmente da un meccanismo ormai ripiegato inevitabilmente su sé stesso, in grado di rispondere soltanto alle sue personalissime necessità di cassetta.

Sembra inutile quindi dilungarsi nella descrizione più o meno minuziosa delle peculiarità di ciascuno dei brani contenuti nell’album, malgrado ce ne siano a iosa. Un’eccezione solo nei confronti di “Peasants”, il brano che ho apprezzato maggiormente per la singolarità delle sue atmosfere, inusuali anche per un genere di solito improntato alla maggiore libertà, quale è appunto il jazz moderno. In particolare per le reminiscenze seppur vaghe alle musiche di Rota, quelle che il grande maestro ha composto a supporto delle immagini di Fellini.

Del resto anche quello che forse è stato il più grande cineasta italiano e forse del mondo dovette a un certo punto lamentare l’ostracismo cui venne messo di fronte dal sistema nel suo complesso, già in tempi che oggi saremmo portati a definire non sospetti. Dimostrazione che i massimi sistemi funzionano sempre alla stessa maniera, ossia ponendo ai margini tutto quanto non si attagli alle tendenze ritenute più confacenti per gli obiettivi che per il loro tramite s’intendono perseguire.

Le parti soliste sono affidate in gran parte al sassofono, in particolare al soprano, scelta diventata per certi versi  inusuale ma che personalmente mi trova concorde. L’apprezzo per l’atmosfera bucolica che almeno al mio orecchio  il particolare timbro dello strumento è in grado di evocare e la trovo indicata anche per la cifra stilistica della musica dei Town Street, poco incline a durezze per le quali in genere si usa preferire il tenore o al limite l’alto.

Forse ancora di più ho apprezzato le parti soliste affidate alla chitarra: non avevo avuto modo di ascoltare Massimiliano Rosati in precedenza, ma devo dire che il suo lavoro mi ha conquistato per autenticità, lirismo e ancora una volta senso della misura, da non dare mai per scontato in tema di chitarristi.

Massimo Ruscitto spiega che si è trattato di un recupero al jazz. Per quanto mi riguarda avrebbe potuto avere difficilmente un esito migliore. Ora che si trova in quest’area, ci si può solo augurare che vi rimanga, possibilmente a lungo.

Di Puglisi cosa dire che non sia stato già detto e ridetto. Dato per scontato il suo supporto come sempre impeccabile alla ritmica, si esibisce in alcuni assolo particolarmente ispirati, degni di menzione, e ovviamente di plauso.

Micalizzi è la solita, implacabile, macchina da ritmo e tanto basta. Merce rara al giorno d’oggi, dove per smania di protagonismo si perdono spesso i fondamentali della materia, tutt’altro che facile da affrontare, in special modo se a a questi livelli.

A questo punto credo sia doveroso un cenno anche per quanti hanno prestato la loro opera nella realizzazione dell’album quali collaboratori: Ettore Gentile, pianoforte, Massimo Pizzale, tastiere, Leandro Piccioni, sintetizzatori, Pietro Venza, chitarre, Carlo di Francesco, percussioni.

Anche sotto questo aspetto siamo di fronte a un album fuori dall’ordinario: gli autoprodotti come “Seekers in the sky” sono in genere ristretti al minimo essenziale e talvolta anche meno, non solo riguardo ai musicisti ospiti ma persino agli stessi titolari. Qui invece siamo di fronte a qualcosa che assomiglia alle grandi produzioni del passato, ulteriore testimonianza dello sforzo profuso da Ruscitto e da tutti quanti hanno collaborato con lui per dar vita a un album memorabile, per qualità musicale e delle esecuzioni.

Roba da All Stars insomma. Di fatto, ossia nel concreto delle esecuzioni ancor più che per i nomi, tra l’altro al di là di qualsiasi discussione.

Sotto il profilo tecnico ci sono notizie altrettanto confortanti. Iniziamo col dire che le registrazioni sono state eseguite presso lo studio Elefante Bianco gestito dallo stesso Ruscitto. L’album suona in maniera decisamente efficace: in particolare ho apprezzato la dinamica del segnale audio, non tanto per come s’intende il parametro nella sua forma attuale e più deteriore, ossia in funzione dei colpi improvvisi e gratuiti fatti apposta per impressionare il pubblico alla ricerca innanzitutto dell’effetto speciale.

Qui allora la dinamica è posta al servizio della musica, o meglio delle esecuzioni, dando conto in maniera inusuale e istante per istante dell’approccio del musicista nei confronti dello strumento di cui si serve per sottolineare determinati passaggi, sfumare in altri o altrimenti concorrere alla determinazione della timbrica complessiva.

Un altro aspetto che ritengo doveroso menzionare è la rinuncia a inseguire sonorità levigate allo spasimo come quelle oggi abituali, in particolare per determinati generi musicali. In genere sono frutto di manipolazioni che seppure possono dare un risultato gradevole, almeno superficialmente, finiscono col produrre risultati artificiosi. In questo caso il realismo delle sonorità è ben palpabile, insieme al loro equilibrio, tale da produrre la sensazione, almeno quella, di trovarsi di fronte all’evento originario, quantomeno se il mezzo di riproduzione è all’altezza e come tale lo consente.

Al proposito ha un ruolo essenziale anche la ricostruzione scenica, che se è un elemento d’importanza primaria nella funzionalità di un impianto degno di questo nome, va da sé che non possa essere una prerogativa da questo “inventata” ma debba risiedere innanzitutto nella registrazione che si va a riprodurre.

Si tratta malgrado ciò di un aspetto non ben considerato e spesso relegato tra le varie e eventuali. Non in questo caso, evidentemente.

Quanto di tutto ciò ha un legame con l’attenzione che Massimo Ruscitto rivolge nei confronti della riproduzione sonora? A mio avviso molto, proprio perché si può essere dei geni della produzione nella misura che si vuole, ma se non si ha un riscontro per quel che infine ne deriva all’ascolto, o meglio una vera e propria inclinazione al riguardo, determinati risultati sono alquanto difficili da ottenere, come insegna la discografia ufficiale da vari anni a questa parte.

Questo non significa che “Seekers in the sky” sia uno dei classici dischi prova-impianti, altra denominazione abusata ma che detesto cordialmente. Un disco che suona bene o persino benissimo è del tutto inutile, come infatti lo è nel mio modo di vedere le cose la maggioranza schiacciante dei dischi “per audiofili”, se non ha innanzitutto delle basi artistiche particolarmente solide. Cosa che non accade praticamente mai e tuttavia resta necessaria per invogliare all’ascolto in nome della musica invece che per complimentarsi con sé stessi o pavoneggiarsi con amici e conoscenti sulla base dell’effettismo effimero esibito dall’impianto che si possiede.

“Seekers in the sky” allora è prima di tutto un bel disco che poi suona anche particolarmente bene, per quanto già detto e poi anche per la solidità ragguardevole delle timbriche di ogni strumento che prende parte alle esecuzioni, il che lo rende per certi versi ancora più interessante.

Inutile cercarlo nei cataloghi dei somministratori di tracce audio da remoto, propedeutici alle grandi abbuffate di materiale liquidato, la cui valenza è identica a quella delle bettole in cui per 10 euro ti puoi ingozzare fino a scoppiare, con cibo di che qualità, provenienza e trattamento è giustamente cosa ignota, oppure tra le offerte dei mercanti globali.

Occorre acquistarlo direttamente dal fondatore del gruppo, tra l’altro a un prezzo super-invitante mediante richiesta all’indirizzo e-mail audiofilo60(at)yahoo.it oppure tramite il sito dell’etichetta che lo ha dato alle stampe, la Amp.

Acquistare supporto fisico, oltretutto con queste modalità, e al di là del disco in questione, è aspetto d’importanza fondamentale. In primo luogo perché si sostiene la produzione indipendente, azione essenziale in una fase storica in cui i grandi potentati del settore hanno deciso d’imporre il loro volere in maniera irrevocabile.

Così facendo inoltre si mantiene viva una realtà che si vuole a tutti i costi eliminare, nello stesso identico modo, in linea di principio, con cui nei decenni passati i cultori dell’analogico hanno continuato a esercitare il loro diritto a utilizzare il tipo di supporto che preferivano. Così da costringere l’industria del settore, una volta oltrepassata la soglia di massa critica, a tornare sui suoi passi e a dare spazio di nuovo al disco nero e alle macchine adibite alla sua riproduzione.

Se tutti avessero obbedito ai diktat con cui si voleva imporre il digitale a ogni costo, crediamo che esisterebbe ancora la possibilità di utilizzare l’analogico e di ascoltare la sua sonorità ineguagliata per realismo e naturalezza?

Dunque, per evitare di lasciarsi trasformare in un “Marching puppet” da sistemi pensati espressamente affinché acquisiscano una forza soverchiante nei confronti di tutto e tutti, opporsi è essenziale. Non solo scrivendo le proprie opinioni sui social fatti apposta per catalogare chi si serve di essi e fare da canale di sfogo affinché tutto resti perennemente immutato, ma per mezzo di gesti concreti. Necessari innanzitutto per continuare a esercitare la realtà materiale in contrapposizione alla dittatura del virtuale, ormai sempre più palpabile e che proprio col digitale dedicato alla riproduzione sonora ha mosso i suoi primi passi.

I Town Street Reloaded si esibiranno il 25 Aprile prossimo al Quid, locale sito in Via Assisi a Roma: un’ottima occasione per ascoltare dal vivo musica di grande qualità.

 

Edit

Come ho appreso soltanto ad articolo già in linea, contrariamente a quello che avevo capito inizialmente i brani contenuti nel CD sono reperibili anche sui alcune piattaforme di somministrazione, oltre al solito youtube. Poiché le loro politiche di remunerazione degli artisti sono semplicemente scandalose, e più ancora perché stanno stringendo l’intero settore musicale in una morsa da cui non sono intenzionate a lasciare scampo, l’acquisto in prima persona di questo e altri dischi attuali di produzione indipendente riveste un’importanza fondamentale, per chiunque sia un vero appassionato di musica e come tale abbia a cuore non soltanto il suo ascolto, ma anche che si possa continuare a comporla, eseguirla e diffonderla in futuro. Senza dover passare sotto le forche caudine di quei sistemi di sfruttamento, da un lato, e schedatura dall’altro che si stanno adoperando con ogni mezzo affinché sia possibile ascoltare solo quello che interessa loro e possano esercitare un controllo ferreo su quel che il pubblico andrà a richiedere.

 

 

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2 thoughts on “Town Street Reloaded – “Seekers in the sky”

  1. Buongiorno Sig.Checchi,ho trovato il suo sito da poco e lo trovo interessante.
    Volevo solo condividere,se lo ritiene,che spinto dalla curiosità che rintengo una spinta vitale,ho trovato con piacere in una piattaforma di musica “liquida” il disco dell’articolo.
    La ringrazio.

    1. Buongiorno Alessandro, grazie a te dell’attenzione e della segnalazione.
      L’aver trovato all’interno di un sistema destinato alle grandi abbuffate e alla distruzione della possibilità stessa di produrre ed eseguire musica in forma indipendente dovrebbe fare da sprone, per chi è un vero appassionato di musica e riesce a osservare la realtà che si va delineando anche con l’impiego di strumenti simili, a comprendere la necessità di sostenere in prima persona gli artisti che cercando di opporsi al diktat dei sistemi digitali globalizzati, appunto acquistando il supporto fisico contenente il frutto delle loro fatiche.
      Per esprimere compiutamente il mio pensiero, trovo davvero surreale che vi siano tante persone che spendono migliaia e migliaia di euro per il loro impianto, e continuano a spenderne nel continuo compra-compra di apparecchiature tutte afflitte dagli stessi identici problemi, per poi dargli in pasto l’esatto equivalente del cibo reperibile nelle bettole del “paga 10 euro e ingozzati fino a scoppiare”.
      D’altronde andare alla ricerca di un barlume di logica nella realtà di oggi è da ritenersi totalmente illusorio.

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