Una chiacchierata con… Massimo Ruscitto

Massimo Ruscitto è una persona dalle caratteristiche insolite.

Riunisce in sé il musicista, l’ingegnere del suono e l’appassionato di riproduzione sonora, identità espresse tutte a un livello decisamente elevato.

Il musicista Ruscitto è pianista e tastierista, a dispetto di quel che s’immaginerebbe dalla foto di apertura, fondatore del gruppo di jazz elettrico Town Street oltre a vantare collaborazioni con artisti di rango. Uno per tutti Roberto Gatto, per il suo disco “Notes” ma anche il sassofonista Maurizio Giammarco e in genere tutta la crema del jazz moderno italiano.

Di recente ha collaborato persino con Ennio Morricone, titolo che ben pochi musicisti, qualunque sia la loro estrazione, possono vantare.

L’ingegnere del suono Ruscitto è titolare dello studio L’Elefante Bianco, chiamato così in onore del brano omonimo degli Area. Non solo è molto ben curato per quel che riguarda l’acustica e le apparecchiature utilizzate, ma vanta anche due Premi Tenco e la realizzazione di un disco di Heavy Metal che ha trovato un buon successo negli Stati Uniti e da tempo è andato esaurito.

L’appassionato di riproduzione sonora Ruscitto, infine, caso più unico che raro tra i professionisti del settore musicale, possiede un impianto dalle doti sonore sopraffine. Date le premesse già questo non è poco, ma vedere la sua disponibilità alla sperimentazione, la sua capacità di cogliere nel segno con tempestività assoluta quando si tratta di capire se e in che misura un ritocco nella messa a punto sia efficace o meno e poi la sua conoscenza di aspetti relativi alla funzionalità dell’impianto e della riproduzione sonora che esulano quelli della stragrande maggioranza degli appassionati, lascia fin quasi esterrefatto chi come me conosce piuttosto a fondo il settore.

Più di tutto, però, di Massimo mi ha colpito la coincidenza fin quasi assoluta dei suoi gusti musicali coi miei e il fatto che i dischi e gli artisti che più apprezziamo sono sostanzialmente gli stessi.

La sola differenza è che sono un cultore sfegatato del Canterbury, che più di aver iniziato a seguire mi ha letteralmente “flashato” nella prima metà degli anni 70 e a lungo è stato l’orizzonte primario della mia ricerca personale, oltreché dei miei ascolti, mentre Massimo dice che non gli piace granché.

Però al concerto dei Soft Machine a Villa Pamphili nel 1975, con Ratledge, Jenkins e Holdsworth c’era pure lui… 😉

La chiacchierata da cui il titolo di questo articolo – intervista si è svolta proprio nello studio di registrazione di Massimo, che mi ripromettevo da tempo di visitare, per una serie di motivi che da quanto detto fin qui non è difficile immaginare.

 

Elefante Bianco

Già il nome dello studio è parecchio significativo, sorta di collegamento ideale agli Area e quindi alla loro musica. Questo è un altro degli elementi che condividiamo.

Quello che mi ha colpito dello studio è la relativa modestia dei mezzi con cui è stato allestito, abbinata però all’oculatezza del loro impiego e alla qualità delle soluzioni attuate. Tipo di approccio che mi trova del tutto d’accordo e del quale sono assertore convinto per averne sperimentato l’efficacia, non nell’ambito della produzione ma in quello della riproduzione sonora.

In sostanza, è ben più efficace un oggetto di fascia intermedia messo nelle condizioni di esprimersi come può e come deve, piuttosto che qualcosa di prezzo molto elevato, ma lasciato al suo destino.

Due esempi al riguardo sono il trattamento dei soffitti e la pedana presente nella saletta principale.

Riguardo al primo, l’alternarsi di superfici assorbenti e riflettenti determina un’acustica ambientale più naturale di quella delle salette acusticamente morte che sono le più diffuse negli studi di registrazione.

 

 

Della seconda, ben visibile nella foto di apertura, Massimo racconta che si tratta di un accorgimento preso da Nicola Arigliano. Artista che infatti si rifiutava di cantare, qualora sul palco non fosse presente appunto una pedana, sollevata di qualche centimetro. Proprio perché la sua presenza è fondamentale per aiutare e migliorare la diffusione della voce. Che quindi il cantante non era costretto a sforzare oltremodo nel corso della serata, a salvaguardia della sua integrità.

Massimo ci tiene montata la batteria, che a suo dire acquisisce una sonorità più gradevole e naturale. Per dimostrarlo sposta un tom a terra, lo posa sul pavimento e ci picchia sopra un paio di colpi, che appaiono duri, secchi e sostanzialmente privi di decadimento. Poi lo riporta sulla pedana, picchia nuovamente sulla pelle, che ora è più bella: piena, meglio diffusa in ambiente e soprattutto dal decadimento più lento e graduale, che ne rende decisamente più interessante la sonorità per l’udito.

I diffusori autocostruiti su progetto BBC sono un ulteriore elemento che suggerisce la cura con cui è stata ottimizzata l’acustica dello studio. Non si tratta di casse acustiche come l’appassionato di riproduzione sonora potrebbe immaginare, ma di elementi passivi atti alla diffusione del suono in ambiente, mediante un corretto equilibrio tra assorbimento e riflessione. La loro combinazione con una serie di diffrattori, un esemplare dei quali è raffigurato nella foto sotto, contribuisce ulteriormente alla naturalezza della sonorità dello studio, che per forza di cose si ripecuote sui prodotti in esso realizzati.

 

 

Un ulteriore aspetto che personalmente reputo interessante nel Ruscitto ingegnere del suono è la sua disponibilità, o meglio predisposizione, a utilizzare elementi “naturali” per attribuire ai suoni le caratteristiche desiderate, piuttosto che servirsi di macchinari. I quali notoriamente e per forza di cose esigono sempre di pagare un pedaggio in cambio dei servigi che offrono. Non a livello economico ovviamente, ma sotto il profilo tecnico e quello inerente la qualità del suono.

Così per uno dei dischi dei Tete De Bois realizzati all’Elefante Bianco, desiderando una sonorità più riverberata per determinati interventi strumentali, l’ha ottenuta aprendo la porta del bagno, e lasciando quindi che la riverberazione propria di quel locale ne influenzasse le caratteristiche, piuttosto che intervenire con una di quelle scatole nere alle quali in genere si attribuiscono poteri taumaturgici. Salvo poi accorgersi che a volte fanno più danno che altro. Soprattutto quando manovrate senza la dovuta consapevolezza.

Credo che quanto detto fin qui sia sufficiente per presentare Massimo, quindi è giunto il momento di passare alla trascrizione dell’intervista realizzata presso il suo studio. Effettuata nel modo più fedele, nel bene e nel male, come mio solito.

C. Ciao Massimo, la prima cosa che ho intenzione di chiederti è di parlare della realtà attuale degli studi di registrazione: partiamo subito dalle note dolenti…

M. La cosa più triste di tutte è che gli incassi degli studi di registrazione sono precipitati perché oggi si fa tutto in casa, con il computerino e una scheda audio. Quindi si registra uno per volta, che è la cosa più antimusicale che si possa fare. Anche le grandi star fanno questa cosa. Gli americani hanno un po’ invertito la tendenza, tornando a suonare tutti insieme e quindi hanno bisogno di studi grandi. Noi arriviamo in ritardo e chissà quando capiremo che suonare uno per volta non è assolutamente una cosa musicale. Adesso i dischi si fanno così, con la schedina audio e il computerino portatile. Si fa tutto in casa, si missa là sopra eccetera eccetera. Si sente (ride), i risultati si sentono.

C. Secondo te quali sono le cause scatenanti di questa realtà?

M. Perchè ci sono cambiamenti travolgenti. Nel senso che il vecchio è brutto e il nuovo è bello. Quindi quando ho iniziato ad avere il mio studio i computer non esistevano. O meglio esistevano ma non ce la facevano a gestire l’audio. Quindi si registrava sugli ADAT, che sono dei registratori digitali su videocassetta, che andavano a doppia velocità eccetera. Poi man mano i computer sono diventati sempre più potenti e allora si è iniziato a missare su quello. Non ce la facevano a registrare, andavano “in corto”. Si registrava sempre sugli ADAT, poi si trasferiva digitalmente sui computer e si missava là dentro e già il suono è peggiorato. Poi, adesso si fa tutto li, si registra direttamente su computer con la tua schedina audio, mixi con quello, però l’importante è spendere poco. La qualità è l’ultima cosa.

Una coppia di registratori digitali ADAT fa tuttora bella mostra di sé nello studio di Massimo Ruscitto, insieme a preamplificatori microfonici valvolari e altre apparecchiature tipiche di uno studio di registrazione.

C. Secondo te il passaggio da analogico a digitale ha avuto un’influenza su questo percorso?

M. Quando c’erano ancora i registratori analogici non facevo il fonico ma il musicista. Mi ricordo i suoni dei miei dischi su 24 tracce analogico: era tutta un’altra cosa. Quindi si registrava su nastro da 2 pollici a 24 tracce e 38 cm al secondo. Poi dopo se facevi troppe tracce dovevi fare dei pre-mix, (ossia dei riversamenti traccia su traccia) il che ammazzava  un po’ il suono, che poi era la stessa cosa che succedeva ai Beatles ed è per questo che molti dischi di prog hanno questo suono un pò soffocato, un po’ scuro. Dovuto anche al fatto che a quel tempo si passò dal valvolare allo stato solido, cosa che diede anch’essa il suo contributo. Però la compressione quando arrivi a fine corsa di un registratore analogico è meravigliosa. Invece il digitale, quando arrivi a zero dB taglia di netto: crshhh. L’analogico invece ha una compressione morbida che è tutt’altra cosa, molto più musicale.

C. Vogliamo parlare un pochino della cosiddeta “loudness war”?

M. Ahahahh!!! Evvabbè, se n’è parlato tanto, dico la mia. Il problema riguarda il mastering della registrazione. Non ho questo problema a registrare alto, perché ogni cosa che faccio alla fine va mandata allo studio di mastering. Io non faccio mastering, sono due cose completamente diverse. Registro, faccio il mix, poi chi fa mastering fa un lavoro completamente differente dal mio e in genere fanno solo quello, quindi hanno altri problemi. Loro si sono dovuti arrendere alla richiesta del mercato, ossia i clienti che vogliono roba schiantata, cioé roba che va sempre a toccare lo zero del digitale, perché se non suona forte non interessa. Proprio oggi su Facebook mi hanno chiesto: ma tu ce l’hai il primo CD in assoluto che venne stampato dalla Philips? Si ce l’ho. Come suona? Suona bene, forse perché suona piano? (ride)

C. Si, questo lo riscontro anch’io, sul mio impianto personale. I dischi registrati troppo alti tendono a suonare maleForse anche perché vanno a toccare dei problemi dell’impianto di riproduzione, stimolarndo delle cose che altrimenti…

M. Anche, anche. Il suono “harsh”, quel suono terribile. Quelli sono proprio i “limiter” che sono impostati a -0,1 dB, subito primo che si verifichi il taglio da saturazione del digitale. Quindi  stanno a un decimo di deciBel sotto lo zero (che ricordiamo è il limite invalicabile per il livello di registrazione nel dominio digitale, al di là del quale c’è distorsione assoluta, specie di Colonne d’Ercole oltrepassate le quali non c’è più musica ma solo rumore, della specie peggiore). Lo 0 distorce, clippa, il – 0,1 no, però insomma, tutto schiacciato fisso, fermo là

C. Infatti, non sono assolutamente un professionista di studio, ma da quando è uscita la registrazione su hard disk ho il mio programma di editing che tra le altre cose ha appunto la funzione di “normalizzazione” ossia portare il livello dei picchi di segnale a 0 dB, dopo che con i compressori si è innalzato il più possibile il livello medio, che a quel punto è sempre vicino allo zero.

M.  Esatto, io non registro così, ma comunque sono fatti miei, eheh. C’è questa convinzione che la roba non deve stare a -18 ma sempre a 0 dB. Allora ti dicono: ah, ma così non sfrutti i 24 bit! Allora io dico: secondo te un pianissimo di volino è registrato a 1 bit? E’ una fesseria enorme (veramente il termine ha usato inizia per c e ha due z), che gira anche fra i tecnici. Quindi io registro molto più basso, perché secondo me suona meglio. Poi sono fatti del tecnico di mastering: gli chiedono quello? Purtroppo loro sono legati mani e piedi a fare questa cosa e quindi il mastering “deve” suonare fortissimo. Punto.

 

La postazione di regia dello studio L’elefante Bianco. I monitor Yamaha NS 10 sono immancabili.

C. Adesso passiamo al Massimo Ruscitto musicista. Mi vuoi parlare dell’influsso a livello compositivo e creativo degli strumenti che si hanno a disposizione. Ossia: una volta c’erano i sintetizzatori monofonici, poi sono arrivati i polifonici, poi siamo passati a quelli a campionamento. In qualche maniera questo ha influito sulla creatività del musicista o meglio ancora del compositore.

M. Non lo so, una volta ho letto un’intervista a Omar Hughes, quello che faceva musica dance anni 80 su tutta roba elettronica. Gli hanno chiesto, tu quando componi su che componi. Lui ha risposto sul pianoforte. Quindi non so quanto possa influire. E’ la mia risposta soggettiva, non so quanto possa influire, non c’è una regola.

C. Quindi non ti sei sentito influenzato da questo.

M. No, assolutamente. Io compongo per altri strumenti ma lo faccio sul pianoforte. Lo strumento non è vincolante.

 C. Ti ho fatto questa domanda, perché da ascoltatore ho avuto l’impressione che le varie fasi evolutive della musica moderna siano state in qualche modo influenzate dalla disponibilità di una certa tipologia di strumenti.

M. Questo è un discorso che secondo me andrebbe fatto a Herbie Hancock. Lui ogni volta che usciva una nuova tastiera faceva un disco, perché doveva usare quello strumento per quel disco. Gli piaceva quel suono, se ne innamorava, andava pazzo e si fissava. Quindi ha fatto vari dischi in base a queste cose. Da parte mia no, però appunto è un discorso soggettivo.

Questo è un aspetto di Hancock che in effetti ha trovato riscontro in vari suoi dischi. Tipico è l’esempio di quelli realizzati con il gruppo da lui formato subito dopo l’uscita dal quintetto di Miles Davis. Il cosiddetto sestetto che comprendeva tra gli altri Julian Priester e Billy Hart. Ne è un esempio Sextant, in cui l’elenco delle tastiere utilizzate sembra più che altro un almanacco di tutto quanto la tecnica dell’epoca ha posto a disposizione del musicista, nell’ambito degli strumenti a tastiera. (n.d.A.)

MQuindi a me non frega niente di tutte le tastiere, di là ho un Oberheim fantastico, Matrix si chiama. Insomma, io dopo vado a suonare là sopra. Poi ho la capacità di immaginare i suoni, e mi vado a cercare  come deve suonare. E’ tutta questione di immaginazione: quando suono una cosa so già come deve suonare, altri magari hanno bisogno di sentire direttamente da subito come suona sul Synclavier, sul sintetizzatore, sul campionatore, personalmente non ho di questi problemi.

 

C. Per quanto riguarda i possibili sviluppi futuri della musica che ci piace?

M. La musica che ci piace? Gli sviluppi futuri? Non lo so, non lo so, non ho idea, vedo tutti molto mosci.

C. Tu come la vedi, così?

M. Ahahahah! Futuro mio personale o degli amercani?

C. Tuo personale, degli americani, quello che ti pare.

M. Mio personale malissimo: si suona sempre meno, sempre per meno soldi, l’importante è risparmiare. Anche se a distanza di 25 anni ho riformato il mio gruppo.

C. Allora cominciamo a dire come si chiama il tuo gruppo e chi ne fa parte.

M. Il mio gruppo si chiama sempre Town Street, da tantissimi anni, e ne fanno parte Alessando Tomei al sax, Nicola Costa che è chitarrista di Patty Pravo e della Mannoia. Ho voluto un chitarrista blues nel mio gruppo…

C. Cosa di cui abbiamo parlato la scorsa estate, nel nostro ultimo incontro.

M. Si, da allora abbiamo fatto due date. Poi ci sono Luca Pirozzi al basso e Piero Iodice alla batteria.

C. Che sono due nomi di rilievo.

M. Si, però nonostante questo, grande qualità, pezzi originali ecc. ecc. ma non gliene frega niente a nessuno. Vabbè. Per quanto riguarda invece gli americani, si continua a fare molta fusion esattamente come tanti anni fa. Si fanno meno problemi su quello che è hard bop o fusion. Qui in Italia si suona solo hard bop.

C. Perchè altrimenti non si ha il “diploma di benemerenza”.

M. Non lo so, è come se Coltrane e Miles Davis non fossero mai esistiti il che è una cosa gravissima. In America invece non si fanno problemi: roba acustica, roba elettrica, si suona tantissimo, però vedo tutti un po’ spompati, a parte i ragazzini. Però non mi far dare un tale giudizio, non mi va.

C. No no, assolutamente. Non vogliamo dare giudizi ma fare una panoramica per come la vediamo noi.

M. Ecco, non voglio dire chi è meglio e chi è peggio. Ci sono sempre musicisti fortissimi in America, ma dipende. Non mi interessa tantissimo quello che fanno adesso. Per me il massimo è venuto con Coltrane e con gli Steps.. eheheeh.. Insomma mi interessano quelle cose li, anche se è roba 25-30 anni fa. Mi interessava quello. Io trovo che la fusion di allora era pazzesca. Aveva degli sviluppi mostruosi, sia armonici che di linguaggio. Adesso c’è molto questa miscellanea però la trovo più artificiale, più fredda, non lo so. I musicisti sono tutti innaturalmente più freddi. Non c’è più quello che sbagliava però spingeva come un matto. Adesso non esiste proprio più. Sono tutti fortissimi e basta, sia italiani che americani. Non c’è nessuno estremamente convincente.

C. Beh, forse c’è questo dualismo tra tecnica e, e…

M. Creatività! Si, non lo so, Coltrane era un mostro ma non era tecnicamente bravo, che ne so, come Scannapieco, no? C’è questo sassofonista italiano molto bravo, che suona tipo Coltrane. Suona uguale, però non ha lo stesso…

C. Coltrane è Coltrane, come Jimi Hendrix era Jimi Hendrix, perché? Mica perché…

M. Ahahah! Esatto, tutti lo imitano, però…

C.  Però nessuno ci riesce poi alla fine no?

M. Non hanno lo stesso cuore…

Paola (la mia compagna) Tipo tecnica senz’anima.

M. Si, c’è molto questa cosa.

C. Oh, ecco, qui arriviamo a una domanda cui non avevo pensato, ma che è interessante: questa grande spinta culturale che è data dal moltiplicarsi delle scuole di musica a tutti i livelli, secondo te come possiamo inquadrarne le conseguenze?

M. Resta sempre il fatto che uno anche se va a scuola deve usare la propria capoccia. Io sono andato a lezione da Amedeo Tommasi che suonava tipo Red Garland, però non suono come o tipo Red Garland. E’ importante studiare queste cose e poi filtrarle attraverso la propria personalità, Invece adesso, per sbrigarsi, vedo un sacco di musicisti fortissimi e poi vengono sfornati tutti uguali dalle scuole di musica.

C. Bravo, volevo arrivare proprio a questo. Però finché lo dico io che ascolto e basta e posso non capire niente è una cosa.

M. No, hai capito tutto, invece. Per loro non è assolutamente così se ci parli, ma è proprio così. Se viene un batterista e suona, io e il mio socio diciamo: “ma che hai studiato alla St. Louis?” Perché suona esattamente come tutti gli allievi della St. Louis! Tutti uguali. Hanno tutti lo stesso suono e suonato tutti alla stessa maniera. Quindi da un lato è utile che tutti studino, però devi anche stare attento a non farti…

C. Omologare.

M. Omologato, inscatolato e suoni, ragioni così. Hai quel suono, suoni quella musica, fanno tutti le stesse cose.

C. Questa tendenza secondo vale anche a livello della Berklee e di questi posti qui?

M. Questo non lo so, un mio pianista precedente si è diplomato alla Berklee, era molto bravo… Non lo so, non sono in grado di poterlo dire. Certo, dalla Berklee sono usciti Victor Bailey, Pat Metheny, non lo so…

C. Però di Bailey e di Metheny quanti ce ne sono, invece quanti escono dalla Berklee?

M.  A tonnellate, vabbé, però diventare artista è un’altra cosa.

C. Fermo restando che a me Pat Metheny piace quasi solo nei dischi degli altri e Voctor Bailey non piace per nulla. O almeno, mi piace nell’accompagnamento, ma nei soli tutto sommato…

M. Certo, infatti, sono d’accordo con te, I dischi di Pat Metheny non mi interessano.

C. Tranne qualcuno, tipo “Pat Metheny Group”, che è un disco…

M.  Qui poi andiamo nei gusti personali. A me non è mai piaciuto, però c’è “Secret Stories”, che è un doppio, quello è molto bello. Te lo consiglio.

 

 

C. Adesso parliamo dei musicisti che ti piacciono di più?

M. A me? Andiamo nel passato. Prima di tutti Miles Davis. Perchè è stato capace di attraversare tutte le fasi del jazz. Dal Be bop all’Hard bop e poi negli anni 60 non suonava Free. Si, suonava Free, attraversato a modo suo, creando ‘sto quintetto fantastico, poi ha avuto il coraggio di fare questa svolta che i puristi hanno definito rock, ma non era affatto così, dato che faceva delle cose musicalmente mostruose. Avrà fatto rock nella scansione ritmica, ma armonicamente era fantastico, fino alla musica che ha suonato nell’ultima fase, ispirata a “Decoy” e a “Tutu”. Quindi per me il massimo è Miles Davis, poi c’è John Coltrane, poi c’è Ornette Coleman, anche se da come suono io non si sente ma mi piace molto il Free Jazz. Questi sono i tre grandi per me. Poi tanti altri. Vabbé poi Michael Brecker, gli Steps… Mi piace molto come compositore Mike Stern, più che come chitarrista. Come chitarrista lo trovo ripetitivo, invece come compositore mi piace veramente tanto. Gliel’ ho pure detto. Lui si è schermito e ha detto “Ma no”, e io gli ho detto “No, guarda, tu come compositore sei veramente un grande. Io mi compero i tuoi dischi solo per sentire te. E lui “ma no, che dici…” I suoi temi sono davvero bellissimi, alla chitarra classica specialmente, sono meravigliosi.

C. Però non hai accennato a nessun tastierista.

M. Io mica sento i tastieristi! Ahahahahh! Tutti quanti copiano i tastieristi, però io non copio le frasi dei pianisti o dei tastieristi.

C. No no, qui stiamo parlando di gusto d’ascolto, al di là della questione….

M. Eh, Miles Davis, ha avuto un sacco di tastieristi forti, come Hancock. Però non voglio suonare alla Hancock, già ce ne sono cento in Italia che suonano come Hancock, benissimo, bravissimi.

C. Però il tuo vero faro tastieristico è un altro…

M. Si, c’è anche Don Grolnick

C. Oooohhh, era questo che ti voler sentir dire!

M. Però, insomma, non era una cima come tastierista, mi piace il suo gusto, la sua scelta dei suoni.

C. Però i pezzi più belli degli Steps chi li ha composti?

M. “Pools” è suo, si certo. Poi è andato via e ha lasciato questo pezzo e non solo. Tu la sai la storia degli Steps no? (ovvio che si n.d.A)  Era questo gruppo nato per fare delle tournee in Giappone, poi quando hanno fatto il disco della gente se n’era andata (si riferisce a “Steps Ahead”, primo loro disco pubblicato sul mercato occidentale, in realtà preceduto da altri 3, stampati solo in Giappone , che per comperarli all’epoca mi dovetti svenare n.d.A.) Un po’ di queste storie sono accennati nel libro di Peter Erskine, che è molto bello, si intitola “No Beethoven”. Un librone così, molto incasinato perché lui parla ma senza un filo logico. Ci sono un sacco di cose interessanti e anche il periodo degli Steps. Sopra c’è scritto “Il perché di Pastorius” ma poi nel libro ne parla poco. Il libro è un casino, perché va avanti e indietro continuamente. Perché è un casino penso lui, non è stato capace di fare un lavoro “scientifico”, magari si sarebbero persi dei pezzi, non so. Quindi fa avanti e indietro più volte ma è un librone così, con tutti i ricordi suoi, pazzesco.

C. Beh, Erskine ha suonato con entrambi i gruppi più grandi del jazz elettrico, Weather Report e Steps Ahead. Poi ha fatto anche un sacco di bei dischi da solo.

M. Si, lui è un grande band leader. Si, infatti parla di queste cose qui, un libro veramente bello e interessante. Lui è anche molto modesto, perché dice: “Non so perché mi sono trovato in queste situazioni, ma certo non lo meritavo”. Però poi dice anche che il batterista dei Rush, ritenuto il più forte del rock e del progressive, va a lezione da Peter Erskine!. Peter Erskine è piccolo così e non sa come sbarcare il lunario, ma poi un batterista che ha i miliardi va a lezione da lui.

Una volta ho registrato un disco di un gruppo molto interessante, così gli ho chiesto: ” ma voi a chi vi rifate, perché siete molto interessanti”. Loro mi hanno risposto: “ai Rush”. Allora sono andato a comprarmi il disco dei Rush, ma preferisco questi che li “copiavano”! Il disco è questo (me lo mostra), loro si chiamano The Far Side.

C. Mai sentiti.

M. Questo è prog italiano, 1000 copie…

C. Adesso vuoi parlarmi del tuo gruppo?

M. Certamente. Il mio gruppo si chiama Town Street, è un gruppo di musica originale. Non suoniamo proprio jazz, ma dobbiamo essere cinque jazzisti, perché ogni volta che ho chiamato batteristi o altri musicisti di altre culture ho sempre avuto enormi problemi di background, di… Non ci capiamo più. Nello stesso tempo, ultimamente ho chiamato un grandissimo talento al sassofono e ho avuto lo stesso tipo di problema. Lui suona solo be bop, invece io non faccio be bop e quindi proprio, due ore e non ci siamo capiti. E’ enormente difficile. Se tu metti un Calderoni (batterista del Banco) in un gruppo come il Perigeo, ci sono grossi problemi di cultura, succede che gli dici “fa questo” e lui non capisce, “fa quest’altro” e lui non capisce. Così si va a finire male. Anche se a me piacerebbe pescare batteristi rock per fare il mio genere, ma è quasi impossibile. Questa cosa presupporrebbe che potessero fare 25.000 prove, ma questo oggi non è possibile. Si fa una prova e si va a suonare. Invece negli anni 80, nella versione originale del gruppo Town Street abbiamo fatto un sacco di prove. Il gruppo originale era formato da Dario La Penna alla chitarra, Gianni Savelli al sassofono, John Arnold alla batteria e Francesco Puglisi al basso. Un gruppo fenomenale ma abbiamo fatto un sacco di prove, per trovare il nostro linguaggio, prima di uscire fuori, cosa che adesso non si fa più. E’ anche fuori moda fare le prove.

C.  Che vuol dire è fuori moda fare le prove?

M. Che se fai troppe prove sei un pivello. Una castroneria enorme. Morricone suona sempre le stesse musiche, conosco vari musicisti che suonano con lui. Ogni volta che deve fare un concerto fanno una settimana di prove e sono i migliori musicisti italiani. E’ assurdo? Che Morricone è stupido? No, ha ragionissima, ha stra ragione, così si fa. Eppure tra i jazzisti è così, si fa una prova e si va a suonare. Questa moda è sempre andata: solo i “polli” fanno le prove.

C. Ho capito. Poi magari succede che se fai una serata in cui suoni in maniera un po’ scongegnata è proprio perché non hai fatto prove, o no?

M. Si, è così, se ho capito cosa intendi.

C. Scognegnata nel senso che i componenti del gruppo vanno ognuno per conto suo, non c’è un interplay, che non c’è un chiamarsi e rispondersi, che deriva appunto dal suonare insieme e dal conoscersi, no?

M. Hai ragionissima. Ho suonato con un chitarrista che si chiama Paolo Zu e ha un gruppo che non ricordo come si chiama, dovrei andarlo a cercare. Va tantissimo di moda questo gruppo, lo sono andato a sentire e ho capito che questi hanno fatto una montagna di prove per suonare così. Hanno un linguggio tutto spezzettato, il tempo fatto a pezzi. Queste cose mica vengono da sole, per suonare così di prove ne devi fare una montagna. Loro l’hanno fatto e fanno bene.

C. Poi c’è anche un discorso di maggiore o minore banalità, no? Perché appunto facendo prove…

M. Si, esatto. Questo è un discorso che si può fare se suoni standard. Che ti metti a provare gli standard? Anche se i finali andrebbero provati, perché sei davanti a della gente che paga. Li è il problema, quando suoni dei pezzi senza provare come finisci? Quindi tutti che si riacchiappano. Si possono fare gli standard così, ma se fai musica originale, se non prova cosa fai?

C. Del rock invece chi ti piace?

M. Del rock? Quando ero ragazzino andavo pazzo per gli Yes. A quell’epoca l’Italia era divisa in due: da una parte tutti gli amanti dei Genesis, che in Inghilterra non se li filava nessuno mentre in Italia spopolavano, quindi metà Italia per i Genesis e metà per gli Yes. Io appartenevo alla categoria degli Yes (invece come al solito andavo per conto mio e nel mio periodo prog andavo su King Crimson e Van Der Graaf Generator, anche se subito dopo sono passato al Canterbury n.d.A.). Poi vabbè, mi sono messo a studiare jazz e ho abbandonato questa cosa. Qualche anno fa mi è capitato di andare a sentire un gruppo che faceva cover degli Yes…

C. Difficilissimo, se fai cover degli Yes sei un pazzo, un folle…

M. Infatti, e dagli errori che facevano mi sono reso conto che è una musica difficilissima, assurdo.

C. Si, riguardo a Wakeman mi sono reso della sua grandezza. Magari non era questo grande virtuoso della tastiera, come ad esempio un Keith Emerson. Però ascoltando i dischi degli Yes dopo che se ne era andato, hanno perso tutto. Si sentiva in modo molto pesante la mancanza di quel respiro dell’escuzione, di quella stratificazione dei suoni incredibile, quindi tecnicamente era un organizzatore di suoni, tappeti e quant’altro…

M. Sono d’accordo, sono tornati come erano agli inizi, che per i primi due dischi ebbero un tastierista “normale”.

C. Pete Banks.

M. Poi è arrivato Wakeman, è cresciuto tutto, sono esplosi e poi quando se n’è andato sono tornati esattamente dove stavano prima. Li c’è un altro grandissimo secondo me, che è il chitarrista, Steve Howe, un gigante. Comunque, non li ho più sentiti per 30 o 40 anni, poi sono andato a questo concerto di un gruppo che faceva loro cover e sentendo le toppe, ma tante, che facevano, mi sono reso conto di quanto fosdse complessa la loro musica, assurdo.

C.  Ti credo, su del genere ti cimenti con un compito improbo. Come fai a fare le cover degli Yes, è come dire facciamo cover di Frank Zappa, sei un pazzo…

M. Ahahahahhhh!!!  Verissimo, anche se ho suonato per un periodo con Sandro Oliva, lo conosci?

C.  Come no!

M. Il Frank Zappa italiano. In quel tempo lui si faceva i baffi con le candele, abbiamo fatto un paio di prove per montare le sedici battute iniziali di un pezzo suo… Arrivederci, non esiste proprio. Due prove, quattro ore per montare sedici battute dell’intro di un pezzo suo, non è possibile. 

C.  Per quanto era complicato.

M. Si, eppure a quel tempo ero forte tecnicamente…

C. Quindi che vuoi dire, che adesso sei diventato… Un pippone?

M. Eh, adesso tecnicamente non sono più affatto come prima. Sono fuori allenamento, non studio più come studiavo prima, quando preparavo gli esami di conservatorio. Allora tecnicamente ero bravo. Adesso sono un pippone ma solo testa.

C. Torniamo al discorso di prima: prima più tecnica, escludendo i presenti un po’ fine a sé stessa, poi un po’ meno tecnica ma più capacità espressive e di espansione del linguaggio.

M.  Si, è per questo che ho voluto questo chitarrista blues…

C. Hai fatto una sorta di Yellowjackets di ritorno.

M. Insomma, è vero che lui a volte suona un po’ come Robben Ford

C. Non voglio dire ovviamente che hai rifatto gli Yellowjackets, ma che loro in sostanza erano un gruppo di fusion con un chitarrista blues. Che poi è stata l’intuizione di quel disco di Robben Ford, lui che era un chitarrista blues, farsi accompagnare da jazzisti, oltretutto con la produzione di Steve Cropper. Da quell’intuizione poi sono venuti fuori gli Yellowjackets.

M. Hai detto una cosa che nessuno sa, che gli Yellowjackets erano il gruppo di Robben Ford…

C. Certo…  Come non lo sa nessuno, lo sanno tutti!

M. Beh, insomma. Lui poi per motivi contrattuali doveva risultare come esterno, no? Però il gruppo era il suo.

C. Si, infatti ho quel disco di Robben Ford, “The Inside Story”, dove suonano Ferrante, Haslip e Lawson. E’ una specie di anticipazione degli Yellowjackets, un pochino più sul blues e con alcuni pezzi cantati, interessante. Più lirico se vogliamo rispetto agli Yellowjackets, che a volte sono un po’ troppo tecnici, no?

M. A me piacciono da pazzi. Li trovo la giusta sintesi tra tecnica…

C. Si, anche a me piacciono molto, anche se trovo che abbiano raggiunto la loro maturità e siano diventati veramente grandi quando è entrato Bob Mintzer. Perché hanno fatto il primo disco, bum, un’esplosione, e poi una serie di passi falsi a ripetizione, anche con l’ingresso di Marc Russo che secondo me è inascoltabile.

M. Sono d’accordo…

C. Ecco, a me sorprende che io e te abbiamo questa…

M. Sinergia?

C. Si, esatto, e mi inorgoglisce molto, perché allora penso…

M. Si, pensiamo sempre la stessa cosa. Si, Marc Russo è l’ennesimo clone di David Sanborn…

C. Solo che è molto peggio…

M. Si, anche perché Sanborn è quasi inimitabile. Quindi lui ha lo stesso stile, solo che nei soli è ridicolo, e anche nell’esposizione dei temi…

C. Si, quando entra lui devi mandare avanti il disco di un pezzetto-

M. Però “Four Corners” è bello eh.

C. Si, perché già avevano preso quella deriva che avrebbero sviluppato in seguito con Mintzer.

M. Esatto, proprio così, poi lui non fa soli, così non rovina niente.

C. Infatti lui poi è andato a finire con i Doobie Brothers, l’ho scoperto per caso, quando stavo scrivendo l’articolo sul concerto degli Yellowjackets a Roma.

M. D’altronde era un turnista…

C. Anche Marcus Miller era un turnista, lo stesso Brecker era un turnista… Infatti c’è stata unìepoca in c’era l’inflazione di Brecker, stava dappertutto.

M.  Si, c’è questo pezzo, “Georgia” fatto da un cantante che non mi ricordo come si chiama. Biondo, bello. Ci suona Michael Brecker, a un certo punto fa il solo, ma per radio sento anche l’intro di Brecker, prendo il disco e invece non ci sta!

Paola Michael Bolton

M. Ecco brava, Michael Bolton, su quel pezzo c’è Brecker. Hai mai sentito “Georgia” fatta da Bolton, pazzesca, sotterra quella di Ray Charles ahahahahhh!

C. A dirlo così sembra una bestemmia

M. Sarebbe una bestemmia, ma vattelo a sentire e poi ne riparliamo!

C.  Mi fido, del resto siamo talmente similli come gusti. Giusto sul Canterbury non ci prendiamo…

M. Ahahahahhh!

C. E’ gravissimo, è gravissimo, i Soft Machine…

M.  Li è una questione di età, i Soft Machine li ho visti a Villa Pamphili, forse era il 72..

C.  Veramente era il 75, concerto epico, c’era Allan Holdsworth e tutta la gente sotto che si strappava i capelli mentre faceva quelle scale da paura. Quella volta sono rimasto allucinato. E’ uno di quei ricordi incancellabili. Di concerti ne ho visti a migliaia  ma come quello…

M. Da ragazzino abitavo li vicino, quindi… Addirittura i concerti li sentivo da casa.

C. Che fortuna! io mi dovevo fare delle traversate mostruose, che roba! Passiamo all’ultima parte dell’intervista, quella con il Massimo Ruscitto appassionato di riproduzione sonora.

M. Ho scoperto la riproduzione sonora perché venne recensito il mio disco su una rivista specializzata in hi fi. Comperai la rivista e così ho scoperto questo mondo.

C. Quando è successo?

M. Nel 1988.

C. Proprio l’anno in cui ho iniziato a collaborare con quella rivista.

M. Ahahahahhh! quindi ho scoperto così la riproduzione sonora, quindi ho continuato a comperare la rivista, sebbene mi interessassi soltanto di musica in quel periodo. Come sapete è un discorso lunghissimo, anzi un percorso lunghissimo, devi fare una montagna di errori, e poi può darsi che trovi la tua strada, ma può anche darsi che dopo altri cinque anni scopri che anche quella era un errore, quindi non si sa mai quando hai imboccato la strada giusta. Diciamo che per un certo numero di anni anch’io ho continuato a cambiare apparecchi perché cercavo la timbrica, ma adesso per me il parametro più importante è l’immagine. Questo è stato il mio percorso audiofilo.

C.  Anche se poi il tuo percorso è stato molto più articolato, valvolare, stato solido…

M. Si, fa tutto quanto parte di quel percorso. Poi sono convinto della superiorità del valvolare sullo stato solido però insomma…

C. Tanto è vero che adesso hai un finale in Classe D, diciamolo…

M. Ahahahahhhh!!!! mah, la Classe D  secondo me ha enormi potenzialità in quel senso. Gli mancano i bassi.

C. Anche sul tuo eh? (possiede un esemplare realizzato da un artigiano parecchio stimato)

M. Anche sul mio, si. Poi ho scoperto che non è per niente sensibile. Secondo me andrebbe fatto qualcosa in quel senso. Ho il finale con le 845 da 22 watt e il Classe D suona solo leggermente più forte. Quindi vul dire che non è sensibile, altrimenti che 400 watt è?

C.  Mah, qui il discorso si fa complesso. Una delle mie ultime esperienze riguardo un ascolto fatto a casa di una persona che questi finali mono da 500 watt di marchio molto noto. Tu vedevi sti vu meter correre da una parte all’altra, ma senza che succedesse niente.

M. Si anche con i 1200, pensa…Spernacchiano. Vabbè, ma questa è una cosa oggettiva. Io sto uscendo dallo stesso pre, con lo stesso volume e il 22 watt suona quasi come il 400 watt.

C. E se alzi?

M. Stessa cosa.

C. Perché a un certo punto, se tu alzi, o vai oltre…

M. Vabbé, il 22 watt a un certo punto inizia a clippare e il 400 watt va avanti, fino a che arrivi a fondo corsa, allora hai voglia see si sentono i 400 watt. L’altro nel frattempo è morto. Però se allo stesso livello di pilotaggio suonano quasi uguale, vuol dire che c’è un problema di pilotaggio. Secondo me si dovrebbe lavorare là.

C. Può darsi anche che il tuo pre non si adatti alle esigenze di quel finale. Poi c’è anche un altro discorso, se lo fai troppo sensibile, un amplificatore così potente, rischia di diventare uno sfonda casse. Il progettista cosa dice?

M. Che è poco sensibile, si. infatti suona meglio in bilanciato.

C.  Come vedi il mondo dell’hi-fi.

M. Ci sono belle persone e brutte persone. In massima parte brutte, però ho trovato anche gente forte.

C. Va bene, concludiamo con un accenno ai premi che hai vinto con le registrazioni del tuo studio.

M.  Ho vinto due Premi Tenco, con i Tete de Bois e i Musicanuda, Musicanuda 2. Poi un sacco di gente è passata di qua e poi è andata a finire a Sanremo, Roberto Angelini, Giulia Nania gli stesso Tete de Bois. Comunque qui si è sempre fatta non roba commerciale ma roba d’arte. Che sia brutta o bella, ma sempre roba d’arte. Poi c’è questo disco di Heavy Metal che ha trovato un buon successo in Amertica ed è ormai esaurito. Il gruppo si chiama Mad City Rockers e il disco è “Black Celebration”. E’ un gruppo italiano che ha un cantante americano. Con lui i pezzi sono cambiati da così a così e su un pezzo c’è anche il cantante dei Kyuus, altro gruppo metal leggendario in America. Li conosci?

C. No, il metal per me è arabo.

M.  Si, c’è lui come ospite, non so come abbiano fatto ad agganciarlo. Se l’avesse fatto un altro studio l’avrebbe sbandierato…

C. Vabbè, adesso lo sbandieriamo.

Grazie per la bellissima intervista, Massimo.

  

 

 

 

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