Una delle fasi storiche che hanno caratterizzato l’evolversi della riproduzione sonora amatoriale è stata quella a suo tempo definita come “Rinascimento”. Sebbene un tempo vi si facesse riferimento con una certa frequenza, oggi è ormai dimenticata o quasi. Ebbe luogo nel momento in cui si comprese che ridurre a limiti infinitesimali la distorsione armonica degli amplificatori, con valori percentuali caratterizzati da un gran numero di zeri tra la virgola e la prima cifra utile, era del tutto controproducente. Fino ad allora invece, proprio quello era stato il cavallo di battaglia numero 1 della propaganda di tutti i grandi fabbricanti dell’epoca,
Valori di distorsione tanto contenuti si ottenevano essenzialmente adottando tassi di controreazione molto elevati, ossia reimmettendo in ingresso quote rilevanti del segnale presente alle uscite, da cui elettroniche che al banco di misura davano luogo a risultati d’eccellenza, ma una volta in sala d’ascolto non potevano che mostrare la loro sostanziale inadeguatezza.
Si è trattato di un momento essenziale, dato che ci si sarebbe potuti rendere conto già allora non dell’inutilità ma proprio della dannosità delle misure, stante il loro significato profondamente e inevitabilmente ingannevole. Pericolo scampato brillantemente grazie all’intervento di un manipolo di avanguardisti che ripristinò la credibilità dell’inganno eseguito fino a quel momento per mezzo di una bella riforma, con cui si promulgarono misure nuove di zecca.
Queste non solo non erano meno ingannevoli delle precedenti, ma presto gli stessi artefici del nuovo pacchetto dimostrarono di non aver capito nemmeno loro come andassero interpretate. Vollero presentare infatti un amplificatore finale, da loro stessi progettato e propagandato come rispondente ai nuovi canoni, che nelle intenzioni avrebbe dovuto sbarazzarci di tutti i problemi fino allora patiti. Invece si è rivelato persino peggiore dei suoi predecessori, e non di poco.
Comunque sia, l’abbandono dei tassi sconsiderati di controreazione utilizzati per abbattere la distorsione armonica diede luogo ad amplifcazioni finalmente in possesso di una loro compatibilità con le caratteristiche elettriche del carico cui erano destinate ad abbinarsi. Quindi a un comportamento che almeno sotto il profilo energetico era più in linea con le vere esigenze della riproduzione sonora.
Iniziò così l’era del “Rinascimento”, e di conseguenza la precedente venne definita come “Medioevo”. Fu caratterizzata dal diffondersi di amplificazioni musicalmente valide, soprattutto da parte della scuola inglese o più in generale europea, che però sono le meno considerate, o meglio del tutto trascurate, nell’attuale ritorno d’interesse nei confronti del vintage. Tendenza che attribuisce il rilievo maggiore proprio alle elettroniche “medievali”, stante l’attenzione soprattutto nei confronti del contenuti estetici e simbolici delle amplificazioni del tempo che fu, piuttosto che di quelli tecnici e musicali.
Quella rinascimentale è stata purtroppo una fase momentanea, dato che in breve si è ricominciato non solo a far crescere i tassi di controreazione, soprattutto tra le apparecchiature di costo elevato e dotate del maggior blasone, ma anche ad attribuire importanza crescente alle misure che da tale incremento ricavavano valori più convincenti.
Il motivo è sempre lo stesso: per avere la sua efficacia la pubblicità ha bisogno di concetti i più semplificati possibile, proprio perché sono quelli meglio in grado di fissarsi all’istante nella testa e nell’immaginario dei suoi destinatari.
Allo scopo nulla di meglio di un bel numero, soprattutto nei confronti di un pubblico bombardato per decenni con modalità non dissimili da quelle del cane di Pavlov affinché risponda in automatico a qualsiasi impulso di origine tecnica, o meglio tecnocratica, cui si è attribuito il valore di sinonimo di dogma evangelico o comandamento divino.
Al confronto nulla può un discorso sia pure inappuntabile nelle sue argomentazioni: comprenderlo presuppone comunque uno sforzo mentale e una padronanza della logica che proprio allo scopo si è disabituato il pubblico ad affrontare e ad esercitare, oltre a una conoscenza che non solo non tutti hanno ma è opinione diffusa che è meglio non vi sia. Proprio perché sarà più facile abboccare a ogni amo lanciato dalla “comunicazione”, altro termine neolinguistico che spiega all’istante le sue origini e finalità, di settore.
Il secondo Rinascimento
Descritta per sommi capi la questione, possiamo osservare che alcuni anni dopo vi è stato un secondo Rinascimento, che questa volta ha rivolto i suoi influssi nell’ambito del digitale. Malgrado le differenze di contesto e di epoca, si è sviluppato secondo una traiettoria e sulla base di concetti del tutto intercambiabili con quelli che causarono il cosiddetto Medio Evo nel settore delle amplificazioni.
Tra le macchine-simbolo del secondo Rinascimento c’è proprio il Copland 266. Fece seguito al 288, modello di vertice altrettanto famoso, in particolare per aver creato grattacapi a molti dei suoi utilizzatori per via della tendenza della meccanica VRDS da cui era equipaggiato a macinare gl’ingranaggi interni. Il 266 ebbe una forma più snella e una realizzazione interna semplificata rispetto al modello maggiore, che con ogni probabilità ha avuto un risvolto positivo anche per il comportamento all’ascolto. La meccanica utilizzata era di produzione Sony.
A suo tempo ho avuto modo di provarne un esemplare in anteprima, poi rimasto a lungo nella mia saletta, che mi colpì fortemente proprio per la mancanza dei difetti principali che accomunavano tutte le macchine digitali ascoltate fino a quel momento. Ne ricavai quindi un’impressione largamente positiva che non tardò a trovare riscontro a livello di critica e di appassionati. Ancora oggi il 266 è una tra le macchine più indicate per allestire un impianto dotato di una vera musicalità, nonché capace di porre in evidenza tutte le manchevolezze tipiche dei formati a maggiore densità di dati e di tutti i sistemi adibiti alla riproduzione della cosiddetta musica liquida che non abbiano un costo pari a 4 o 5 volte il suo.
Il 266 ebbe anche il merito di porre finalmente a disposizione degli appassionati doti sonore di prim’ordine a un prezzo che se di sicuro non era basso, almeno era notevolmente più contenuto rispetto a quello delle macchine che fino ad allora si erano dimostrate in grado di issarsi a determinati livelli di musicalità.
Trattandosi di una macchina che ormai ha i suoi anni, un intervento di ripristino si rende necessario qualora se ne vogliano sfruttare a fondo le potenzialità. Lo descriveremo in seguito, insieme ai risultati che si ottengono per il suo tramite.
Prima, però, vediamo i motivi cui si possono attribuire le doti di musicalità dalle quali è caratterizzato.
Personalmente metterei al primo posto la sezione d’uscita a componenti discreti. Caso raro tra le macchine digitali, quella del 266 non annovera la consueta sfilata di operazionali a circuiti integrati. Per di più alloggia insieme allo stadio di conversione su uno stampato indipendente, sistemato centralmente, in corrispondenza del pannello posteriore.
A questo proposito mi sono sempre chiesto come mai per le macchine digitali si sia fatto quasi sempre ricorso ai circuiti integrati, nelle sezioni d’uscita delle quali si conosce da sempre la criticità ai fini delle doti sonore complessive. Tantopiù in relazione alla pretesa perfezione del sistema di riproduzione a codifca binaria.
Le risposte possibili che sono riuscito a darmi sono due. La prima riguarda appunto la certezza inerente la perfezione del digitale, spinta al punto da ritenere ininfluente nei suoi confronti il ricorso a qualsiasi bruttura, come appunto i circuiti integrati nelle sezioni d’uscita. La seconda è legata essenzialmente la logica della produzione industriale, secondo gli aspetti esaminati qui e qui, sostanzialmente indifferente alle conseguenze tipiche delle scelte volte in primo luogo a contenere i costi di produzione. Esse però hanno trovato ampio spazio anche per le sorgenti digitali di costo elevato, nelle quali tuttalpiù si provvedeva a moltiplicare il numero degl’integrati utilizzati, rendendo ancora più dannosa la loro scelta.
Sebbene considerando le caratteristiche tecniche diramate dai fabbricanti di tali componenti si sarebbe potuto pensare a una loro totale identità di comportamento rispetto ai circuiti realizzati con componentistica di tipo discreto, sarebbe bastato davvero poco per rendersi conto che all’atto pratico non solo la differenza c’è eccome, ma è anche consistente.
D’altro canto non si vede il motivo per cui nell’ambito delle preamplificazioni, invece, l’impiego dei circuiti integrati sia stato confinato ai modelli più economici. Un vero e proprio controsenso, l’ennesimo per un settore che dimostra da sempre l’efficienza maggiore nella loro produzione e diffusione seriale, reso ancora più stridente dal ruolo ricoperto dalla sorgente nell’ambito dell’impianto di riproduzione. E’ ben noto infatti che qualsiasi errore, omissione o aberrazione verificatasi in tale ambito non può più essere recuperata dai componenti a valle.
Eccoci di fronte a un altro argomento trascurato minuziosamente dalla pubblicistica di settore e dai suoi cantori. Non solo per il fatto in sé, ma anche per le sue implicazioni. La più evidente delle quali è che se molti appassionati, per effetto delle conseguenze del martellamento propagandistico senza requie è convinto che l’industria di settore sia nata e resti in piedi per soddisfare la loro passione e dar loro le apparecchiature più efficaci possibile dal punto di vista del comportamento all’ascolto, la realtà osservata senza paraocchi dimostra che fa esattamente il contrario. Penalizza scientemente il prodotto che realizza, oltretutto su elementi che influiscono a fondo sulle doti sonore, e non si cura in alcun modo delle conseguenze delle sue scelte, dato che in caso contrario le sezioni di uscita basate si circuiti integrati non dico che sarebbero state bandite dalle sorgenti digitali, ma quantomeno le si sarebbe riservate solo alle macchine di fascia bassa e intermedia.
Anche perché mettere al loro posto una manciata di transistor e resistenze non è che costi chissà cosa.
Sulla base di riflessioni del genere si potrebbe pensare addirittura che lo si facesse apposta a penalizzare il prodotto. E se non fosse vero, come penso che non lo sia, paradossalmente sarebbe anche peggio, perché vorrebbe dire che non ci si rende conto di cosa si stia facendo e delle conseguenze del caso.
Un altro quesito, anche più annoso, riguarda la cosiddetta parcellizzazione delle possibilità tecniche insite in un qualsiasi sistema di riproduzione, altra abitudine dell’industria di settore: per quale motivo ci si è decisi di smettere di penalizzare le potenzialità dell’audio digitale, che a quei tempi voleva dire essenzialmente CD, appunto deprimendone le sezioni d’uscita a suon d’integrati da pochi centesimi alla carriola solo nel momento in cui stava per passare la mano ed essere sostituito, almeno nelle intenzioni, da SACD e DVD Audio?
Il Copland 266, infatti, è stato il campioncino dell’era finale del CD o almeno di quella che al momento si riteneva sarebbe stata tale.
Solo in seguito ci si sarebbe accorti che la posizione di predominio del formato con cui l’audio digitale ha fatto il suo esordio era sostanzialmente inattaccabile e i nuovi dischi a maggiore densità di dati, coi relativi formati, si sarebbero rivelati un tonfo epocale.
Conseguenza ultima dello sforzo enorme, a livello propagandistico, eseguito dall’industria di settore: vero e proprio contrappasso al successo arriso al CD, talmente vasto e inarrestabile da non permettere ad alcun formato fonografico digitale venuto in seguito di prendere il suo posto.
Si, ora c’è la cosiddetta liquida, ma a parte che non è un formato fonografico, è soprattutto un sistema da iniziati, confinato ad alcune frange specifiche di appassionati della riproduzione sonora. In particolare quelle affette dalla forma di idolatria a sfondo masochistico per il falso progresso indispensabile ad affrontare le sue innumerevoli e non di rado irrisolvibili difficoltà e complicazioni, a seguito delle quali ci si ritrova in condizioni d’ascolto peggiori a quelle del CD. Infatti è ancora quest’ultimo ad avere la meglio, in qualsiasi confronto si svolga non a parità di risorse impiegate ma che non sia basato su un divario incolmabile a favore del sistema più moderno.
Il “dopo 266”
Il Copland 266 ha i suoi motivi d’interesse anche per altri aspetti, il maggiore dei quali riguarda la sorte avuta dal suo sostituto. Come nel caso dei B&W CDM 1, diffusori fin troppo validi che avrebbero trovato un evidente ridimensionamento in termini di qualità sonora da parte dei loro successori, anche il 266 ha avuto nel modello che ne ha preso il posto, il Copland 822, una macchina non in grado di ripeterne le gesta.
Sotto questo aspetto, il dubbio riguarda la possibilità che esista una componente casuale per l’ottenimento di determinati risultati da parte delle apparecchiature o dei diffusori che hanno dimostrato di poter andare “troppo” oltre i limiti attribuiti di solito alla loro classe di appartenenza. Nel momento in cui se ne accorge, il fabbricante procede immancabilmente a ridimensionarne le prerogative. Per mezzo di un modello successivo che in questi casi arriva rapidamente a terminare la vita utile del prodotto “troppo valido”. Dimostrando ancora una volta che il cosiddetto progresso tecnologico altro non è che un pretesto, mero argomento di vendita per indurre il gregge detto anche clientela potenziale ad acquisti non del tutto necessari, se non agli utili del sistema di profitto che si regge sui cosiddetti prodotti ad elevato contenuto tecnologico.
Perché mai affrettarsi a togliere di mezzo un prodotto dimostratosi tanto efficace, quando invece potrebbe reggere l’assalto della concorrenza per molti anni ancora, dimostrando così l’eccellenza a livello progettuale e produttivo da cui ha avuto origine?
Innanzitutto perché in funzione del pensiero capovolto che oggi ha il predominio assoluto si ritiene che se un oggetto risale a più di qualche mese prima è immancabilmente sorpassato, o meglio obsoleto. Ma soprattutto perché se si tratta di un oggetto di classe intermedia, dà fastidio a quelli di rango maggiore, che si vedono così ridimensionati nelle loro prerogative e ambizioni,
Pertanto, come il CDM 1 poteva rappresentare un’alternativa non del tutto peregrina ai diffusori B&W da piedistallo della serie 800, e se messo a punto nel modo opportuno sopravanzarli persino, così il 266 poteva addirittura essere preferito ai lettori di vertice Copland di allora, il 288 e il 289. Soprattutto in sala d’ascolto, dove la sua sonorità dinamica, precisa e caratterizzata da un’autenticità ben percepibile, avrebbe potuto porre in evidenza le limitazioni tipiche delle timbriche tronfie e roboanti, ancora una volta frutto della controreazione spesa a piene mani, che si ritengono necessarie per le macchine di vertice.
Soprattutto, il suo esempio avrebbe messo in un’evidenza plateale la contraddittorietà delle scelte eseguite a livello tecnico per le macchine di vertice nei confronti di quelle intermedie, laddove le soluzioni ritenute più efficaci si rivelano di fatto controproducenti, andando a sollevare per conseguenza una serie di quesiti riguardo alla congruità di determinate usanze a livello progettistico e realizzativo, e di conseguenza alla reale padronanza della materia da parte dei fabbricanti più illustri del settore, e quindi alla congruità degli scopi che perseguono, con tutto quel che ne deriva.
Si potrebbe inoltre essere assaliti dal dubbio che la tecnica elettronica sia una cosa e la riproduzione sonora dotata di un livello di realismo almeno accettabile ben altra, spesso in contraddizione con i dogmi che nella prima sono inattaccabili.
Allora, meglio eliminare il prodotto che rischia di mettere in discussione la congruità di determinate gerarchie e di altrettante convenzioni, possibilmente in breve e senza dare troppo nell’occhio, con la sicurezza che la critica di settore non andrà mai a puntare l’attenzione su certi argomenti. Non solo perché non ne ha l’interesse, ma perché il personale di cui si serve non è concettualmente all’altezza di determinate valutazioni, pervaso com’è dall’idolatria che non a caso riesce a trasmettere con l’efficacia che sappiamo al pubblico che ne segue le indicazioni ed è l’elemento primario alla base della sua cooptazione.
Da fine intenditore ad appestato
Come accennato in precedenza, il 266 venne affidato a me per la prova tecnica e d’ascolto e, dato il tenore molto positivo dei miei commenti, si fece lo stesso con l’822. Purtroppo però l’esito fu ben diverso: di conseguenza, come in seguito alla prova dei B&W 705 non mi sarebbe mai più stato assegnato un diffusore di quel marchio, dato che avevo osato non parlarne nei termini entusiastici che si ritengono necessari, dopo quella dell’822 avrei potuto valutare un’apparecchiatura realizzata da Copland solo molti anni dopo, quando ormai collaboravo già da tempo con un’altra rivista.
Se ancora qualcuno ha dubbi in merito alle modalità di assegnazione delle apparecchiature ai vari redattori, e ancor più cosa accade quando si ha l’ardire di esprimere delle perplessità su un qualsiasi prodotto, peggio che mai se ben motivate, credo che l’accaduto sia esplicito. A dimostrazione ennesima che le prove delle apparecchiature audio o recensioni che dir si voglia, altro non sono che pubblicità occulta. Ovvero una presa in giro eseguita dalle riviste di settore nei confronti del pubblico pagante.
Se così non fosse si accetterebbe serenamente il responso del critico, per quale che sia. Invece lo si prende per oro colato quando è positivo, riconoscendo al suo autore la più grande esperienza tecnica e d’ascolto, per trattarlo come un appestato non più degno di misurarsi con l’eccellenza sovrannaturale di determinati prodotti, nel momento in cui si azzarda a fare il suo mestiere nel modo dovuto.
L’intervento
Dato che il suo possessore vive a una distanza non esagerata da me, ho avuto la possibilità di ascoltare l’esemplare di 266 di cui ci stiamo occupando nelle condizioni in cui si trovava e con l’impianto di cui fa parte, comprendente un pre valvolare a due telai Dissanayake, un finale Pass e diffusori AMT 330.
In tutta sincerità mi ha fatto un’impressione alquanto distante da quella che ne ho ricavato a suo tempo e anche da altri esemplari che ho avuto modo verificare nel frattempo. E’ anche vero che molto può dipendere anche dal resto dell’impianto, si ascolta infatti il suo complessivo, anche se è su di un singolo componente che si cerca di puntare l’attenzione. Tuttavia, una volta arrivato qui da me e collegato al mio impianto, ha dato luogo a impressioni meno marcate a tale riguardo ma tutto sommato non così diverse.
Probabilmente si tratta di un esemplare piuttosto sfruttato, che malgrado le condizioni dell’esterno, assolutamente impeccabili, pone in evidenza cosa è probabile ricavare da un’apparecchiatura che anche se non vecchissima ha comunque i suoi anni. Aspetto, questo, di cui andrebbe sempre tenuto conto nell’acquisto di oggetti usati.
Se si desidera trarre da essi tutto quel che sono in grado di dare, è quasi sempre necessario sottoporli a un intervento di ripristino. Che, se eseguito in modo opportuno, è in grado di issarli a un livello di qualità sonora persino superiore a quello d’origine.
Non ho prolungato più di tanto l’ascolto, prefendo iniziare subito i preliminari dell’intervento di ripristino.
A questo riguardo sono stati sostituiti tutti i condensatori, nessuno escluso. Allo scopo, già la veriifica dei valori di ognuno, necessaria per la “lista della spesa”, ha portato via un certo tempo. Come sempre ho dato la preferenza a componenti realizzati specificamente per l’impiego in apparecchiature audio, visti i risultati di rilievo che hanno dimostrato si ottengano per il loro tramite, anche se il loro costo è sensibilmente maggiore di quello del prodotto commerciale.
Su macchine del genere d’altronde non avrebbe molto senso lesinare sui 50-100 euro in più da destinare alla componentistica, denaro che viene ripagato con gl’interessi una volta che le si ricollega all’impianto.
L’interno del 266 non crea problemi di spazio, date le dimensioni del telaio, mentre la componentistica è collocata con grande razionalità. Malgrado ciò un problema l’ho incontrato, tale oltretutto da richiedere parecchio tempo per risolverlo.
Gli stampati su cui si articola la realizzazione del 266 hanno dimensioni dei fori per il passaggio dei reofori ridotte all’osso. Viceversa, quelli della componentistica audiophile sono in genere piuttosto abbondanti, anche perché spesso sono realizzati in rame, materiale più morbido e quindi caratterizzato da una resistenza meccanica minore. Ampliando il diametro dei reofori, si riduce anche la loro resistenza elettrica, sia pure per valori infinitesimali, che tuttavia moltiplicati per il numero dei componenti impiegati assumono anch’essi la loro importanza.
C’è chi sostiene ani che la gran parte della differenza nei confronti della componentistica più andante risieda proprio in tale aspetto.
Resomi conto del problema, le soluzioni erano due: allargare i fori o ridurre i reofori al punto di farli entrare nei fori disponibili. Ho scelto quest’ultima soluzione, tutto sommato meno foriera di problemi anche se più annosa da mettere in pratica, dovendo lavorare i reofori uno ad uno. In tal modo però non si perde il rivestimento conduttivo interno al foro, fondamentale negli stampati a doppia faccia.
L’opera di sostituzione ha necessitato di una quantità di tempo ben superiore al preventivabile, anche per via del numero di componenti coinvolti. Per fortuna non tutti i condensatori hanno necessitato del trattamento, ma solo quelli di valore più elevato. Si tratta comunque di un esempio dei problemi in cui ci si può imbattere quando si realizzano lavori del genere.
Sono poi stati sostituiti i ponti a diodi, fondamentali per la sonorità di una qualsiasi apparecchiatura, e utilizzati bypass nei punti strategici, tanto per l’alimentazione che per la sezione d’uscita. Anche quest’ultima, malgrado lo spazio interno a disposizione, ha necessitato di contorsionismi niente male, essendo installata a diretto contatto con il pannello posteriore e avendo numerosi tra i componenti interessati proprio a ridosso di quest’ultimo.
Di fatto, allora, malgrado la prima impressione che si potrebbe ricavare osservando l’interno, il lavoro ha comportato difficoltà di un certo rilievo. Nulla d’irrisolvibile, per carità, ma per fare le cose a modo c’è stato bisogno anche di una certa inventiva. Anche perché non si è potuta sfruttare la faccia inferiore delle schede, essendo posizionate nelle immediate vicinanze del pannello di fondo.
Completata l’opera di sostituzione dei componenti, ho ritenuto fosse il caso di dedicarsi anche al contenimento delle risonanze del telaio, elemento storicamente trascurato nelle apparecchiature di qualsiasi ordine di prezzo, ma che ha dimostrato di poter dare già da solo un contributo importante al miglioramento della loro sonorità. Il Copland 266 oltretutto, con le sue dimensioni abbondanti è particolarmente ricco di superfici pronte a risuonare, con tutte le conseguenze del caso. Una volta smontato, il pannello superiore se percosso anche senza troppa energia dimostra di funzionare come un bel gong: l’impiego di materiale smorzante lo ha reso decisamente più sordo.
Lo stesso è stato fatto sul pannello di fondo, sulla piastra di supporto della meccanica e più in genere ovunque se ne palesasse la necessità. In particolare sotto la scheda relativa alla circuitazione d’uscita, che è stata dotata anche di supporti morbidi realizzandone il montaggio elastico, altro accorgimento fondamentale per la sonorità delle apparecchiature destinate alla riproduzione sonora.
Lo stesso purtroppo non è stato possibile per la scheda dell’alimentazione, dato che supportando il pesante trasformatore avrebbe avuto bisogno d’inserti dalle dimensioni tali da rendere difficoltoso o meglio negare il montaggio del pannello superiore.
Anch’essa però ha ricevuto il suo supplemento d’intervento, mediante la realizzazione di un nuovo cablaggio interno, che stante la profondità del telaio, e di conseguenza la distanza tra la presa IEC del cavo d’alimentazione esterno e il punto in cui il cavo entra nello stampato di pertinenza, ha un influsso ancora maggiore del solito.
Qualche altro ritocco per spingere ancora più in alto la sonorità della macchina, tra cui cavi per le uscite di segnale realizzati a mano, e il 266 era pronto per ridargli corrente e poi collegarlo all’impianto per la verifica dei risultati ottenuti per mezzo dell’intervento descritto.
In questi frangenti, malgrado l’esperienza fatta su numerosi interventi del genere la sorpresa è sempre grande. Tantopiù per macchine del livello del 266, che hanno già nel loro DNA i caratteri per mettere in evidenza i risultati conseguenti a ogni intervento migliorativo, sia pure di dettaglio.
Di fatto rispetto al lettore ascoltato qualche giorno prima sembrava di essere di fronte a un’altra macchina. Non solo la durezza riscontrata in precedenza era del tutto scomparsa, ma aveva lasciato il posto a una fluidità del tutto sconosciuta al 266, anche se in condizioni perfette. Di estremo rilievo si è dimostrata anche la sua capacità di posizionare gli esecutori sul fronte sonoro, con una precisione non solo del tutto inaspettata, ma anche difficile da trovare su macchine di ogni ordine di prezzo.
Un altro elemento significativo ha riguardato un problema alquanto diffuso tra le macchine digitali con più di qualche anno di attività alle spalle, ossia la tendenza a non riconoscere i dischi o solo a incantarsi su determinati passaggi. Anche il 266 in questione lo aveva evidenziato di tanto in tanto, e infatti ero d’accordo col suo possessore che, se a intervento completato se ne fosse riscontrata la necessità, avremmo proceduto al montaggio di un pick up laser nuovo.
Installati componenti freschi, invece, il problema non si è più presentato. Già altre volte è accaduta una cosa del genere, il che lascia pensare che la colpa non sia proprio tutta e sempre del dispositivo di lettura, che si tende a sostituire d’ufficio, ma a volte le sue incertezze possono dipendere da un’alimentazione non più adeguata, stante il degradare della componentistica adibita allo scopo.
Con un intervento lungo si ma non particolarmente complesso, si è ottenuto un lettore all’altezza di qualsiasi confronto. Mi domando soltanto cosa sarebbe avvenuto se oltre ai condensatori si fossero sostituite anche le resistenze, il cui influsso sulla sonorità di una qualsiasi elettronica è molto importante, quando si montano esemplari destinati agl’impieghi audiophile in luogo di quelle standard, sia pure a bassa tolleranza, utilizzate nella produzione di serie. Oltretutto di resistenze sul percorso del segnale ce ne sono sempre tante e, anche se la loro sostituzione ha il suo costo, in considerazione dei prezzi della materia prima e del lungo lavoro necessario, la differenza è ancor più che ragguardevole. Soprattutto con gl’impianti capaci di porre nell’evidenza migliore quel che si ottiene con accorgimenti del genere.
Non è detto tuttavia che in un futuro non possa dare ragguagli anche a questo proposito.
Per il momento mi fermo qui e lascio la parola a Marco, il possessore del 266, che ci racconta le sue impressioni.
Il primo ascolto è stato effettuato sull’impianto di Claudio. Ne ho ricavato una sensazione di estrema pulizia e naturalezza del suono. La cosa più evidente era una spiccata microdinamica, con le piccole percussioni che erano spettacolari per la loro sensazione di presenza, e la quantità di spazio intorno agli esecutori. Ogni strumento era in un suo spazio ben definito ed il suono era “nell’aria” e non nei diffusori. Il suono era ‘espressivo’ come se i differenti “tocchi” dei vari esecutori conservassero ognuno la propria individualità con precise e diverse caratteristiche. Questo era più evidente con gli strumenti percussivi ma comunque ricchi di armoniche come il pianoforte o il vibrafono.
Portato il lettore a casa mia, ho collegato il lettore con il suo nuovo cavo di alimentazione, già utilizzato nell’occasione precedente. Il mio impianto, composto da preamplificatore Dissanayake, finale Pass e diffusori AMT 330, è rimasto fermo nel periodo in cui sul lettore è stato eseguito l’intervento.
Ho atteso solo pochi minuti di ‘riscaldamento’ prima di cominciare ad ascoltare. Era tardi ed avevo fretta; all’inizio la sensazione è stata piuttosto strana. Il disco che stavo ascoltando, molto ben conosciuto, sembrava diverso dal solito e mi ha lasciato interdetto.
Il suono sembrava troppo ricco di medio-alte frequenze ed il risultato non era molto piacevole. Ho cambiato disco ma la situazione non è cambiata molto; il suono era dettagliato ma sempre poco dolce ed innaturale. Piuttosto deluso ed essendo già tardi, ho spento tutto e ho rimandato l’ascolto.
Alcuni giorni dopo ho ricominciato ad ascoltare cercando di dimenticare le sensazioni di qualche giorno prima e sperando che un po’ di ‘rodaggio’ avrebbe migliorato il suono. In effetti continuando ad ascoltare il suono ha cominciato a migliorare: l’eccesso di medio-alte frequenze si è pian piano trasformato in una piacevole ricchezza di particolari dettagliati e ricchi di armoniche. Anche le basse frequenze erano ben presenti ed estese verso il basso. Sto riscoprendo molti CD che non ascoltavo da tempo e rimango sorpreso da quante informazioni siano contenute nelle registrazioni che in precedenza non venivano estratte o si perdevano nei meandri dei circuiti del lettore. Si tratta di informazioni minime ma fondamentali per ricreare l’illusione dell’ascolto dal vivo, rendere evidente la ricchezza armonica dei vari strumenti e ricostruire l’ambiente nel quale l’evento musicale è stato registrato.
La musica assume una ‘realtà’ superiore e l’attenzione dell’ascoltatore si focalizza sulla natura artistica, sull’emozione che deriva dall’ascolto della musica preferita e non sull’ascolto dell’impianto. Questo aspetto è sicuramente l’obiettivo principale di chi ama ascoltare la musica e godere delle bellissime sensazioni che solo quest’arte sa regalare.
Grazie Claudio per la tua competenza e per la passione che metti nella tua attività.

