Un appassionato di vecchia data mi ha inviato il messaggio pubblicato di seguito. Dato che l’argomento da lui sollevato non è solo d’interesse generale ma ha una serie d’implicazioni non indifferente, per analizzarlo con un minimo di esaustività è necessario lo spazio di un articolo vero e proprio invece di quello occupato dalla solita risposta.
Vediamo innanzitutto cosa scrive:
Buongiorno, i complimenti per ciò che scrive e come, cosa non indifferente. La profondità tecnica e i collegamenti interdisciplinari, diciamo, rendono i suoi articoli molto interessanti e densi, buon materiale per fare riflessioni complesse.
Vengo al punto, dolente. C’è un articolo su internet che con una certa conoscenza dei fatti, a quanto sembra, stabilisce che il percorso analogico nella realizzazione di un vinile non è più tale e comunque ibrido, a causa dei delay digitali di nuova generazione, Lexicon a altro, in uso già dagli anni ’70 (!!!).
Questa cosa potrebbe togliere il sonno a chi in effetti, al di là di rapporti S/N, rumble, flutter e compagnia bella, ama il vinile non solo per ciò che rappresenta come testimonianza fisica (parlando di stampe originali) del momento storico-artistico (una vera testimonianza fossile) ma anche e a volte sopratutto, per l’onda analogica che reca con se, cioè un messaggio ricco e naturale che distorsione eventuale compresa, è forse quello che ci comunica più realtà, realtà in senso percettivo e umano. Poco importa se imperfetto all’oscilloscopio, è un suono dinamico che emoziona coerentemente più di altre sorgenti analitiche, troppo analitiche a volte, quando a basso livello di budget.
Quello che Le chiedo con grande curiosità è se è possibile spiegare effettivamente dove interviene il digitale.
Parliamo di ieri, non di oggi.
Il segnale vero e proprio passava attraverso una conversione digitale nella prima fase di realizzazione “lacca” o era digitale solo il segnale anticipato per evitare errori?
Che diffusione hanno avuto, parlando di anni e geografia, i delay digitali ?
Fino a quando, domanda bollente, da che data (Usa, Europa, ecc…) possiamo considerare ancora completamente analogico un disco?
Personalmente non mi interessa più di tanto illudermi sull’oggi, ma è più il pescare nel passato che ha bisogno di riferimenti certi in questo senso. E’ un discorso ampio ma se si potesse mettere qualche paletto non sarebbe male e le assicuro che interessa a molti.
Per esempio ho qualche stampa americana in particolare (ma non solo americana), ’76, che mi emoziona sempre, ogni volta per incisione, volume, dinamica, tra l’altro un disco leggero più di tanti altri. Ecco, mi piace pensare che sia la trasposizione analogica di bobine usate per il master…
Grazie
S.
Grazie a te dell’apprezzamento e della lettera, parecchio significativa, grazie alla quale possiamo puntualizzare e sviscerare ancor meglio determinate questioni.
Come ho scritto qui, qui, qui e probabilmente anche da qualche altra parte che ora non mi sovviene, il dogma stante nella necessità dell’assoluta purezza analogica del segnale inciso su un disco LP, malgrado oggi sia assai diffuso e quel che è peggio creduto, è un falso.
Di LP che suonano in maniera eccellente malgrado provengano da registrazioni o master digitali ce ne sono un’infinità. Basta spendere qualche euro per aggiudicarsene una copia e ascoltarla, per rendersi conto che l’analogicità del suo suono è assolutamente impeccabile. Anche se sulla sua copertina campeggiano scritte come “Digital Master”, tipica di tutti i dischi LP stampati ad esempio dalla GRP, o addirittura “Digital Recording”.
La differenza rispetto all’immondizia che si dà alle stampe al giorno d’oggi è che allora, ossia a partire dal termine degli anni ’70, le tecniche digitali si utilizzavano secondo un retaggio, una cultura, un gusto e un’estetica sonora finalizzati al risultato migliore ottenibile nella produzione del supporto vinilico.
Stiamo parlando della ricetta andata perduta durante il ventennio in cui si è voluto imporre il predominio del digitale, e segnatamente del supporto noto come CD, in quanto preteso sinonimo di perfezione assoluta e a prescindere da ogni altro aspetto collaterale. Il che ha comportato il forzato abbandono dell’analogico e l’analfabetismo di ritorno che ne è derivato.
Un approccio non dissimile in termini di abito mentale, è quello che si tende ad avere più che mai al giorno d’oggi nei confronti della storia della riproduzione sonora. Volenti o nolenti, c’è stato un periodo in cui il digitale è stato visto un po’ a tutti i livelli come un elemento migliorativo per la qualità del prodotto discografico. Ciò è avvenuto quando ancora si era nel pieno dell’era analogica e il vinile era prodotto a tutto spiano.
Giusto o sbagliato che fosse, questo è stato. Quanti se ne sono accorti? Pochi, credo. Soprattutto, non c’è stato questo divario così importante tra prodotti dalla purezza analogica presumibilmente ineccepibile e quelli in varia misura “contaminati” dal morbo? Sinceramente non mi sembra e neppure il problema è stato sollevato più di tanto, al momento opportuno.
Ritengo quindi sia inutile, tantopiù al momento attuale, imbarcarsi in una sorta di crociata, che tra l’altro somiglierebbe al tentativo di fermare un fiume con le mani. Questo è stato: giusto o sbagliato che fosse, ora ce lo teniamo, c’è poco da fare.
Trovo oltretutto alquanto incoerente, anzi direi persino ai limiti del bipolare, essersi prima cibati in esclusiva di digitale, per vari decenni, e ora che il ritorno d’interesse per l’analogico ha assunto le proporzioni che sappiamo, assumere atteggiamenti tanto incongrui. Magari fatti propri dalle stesse persone che per un periodo molto lungo, invece, hanno accettato, ascoltato, collezionato e possibilmente anche esaltato, il digitale e il CD.
Quelle stesse persone cui fai riferimento, sarebbero in grado di stabilire, all’ascolto, quali siano le registrazioni e i missaggi influenzati, o meglio danneggiati dalle pratiche che andiamo a descrivere qui di seguito?
Temo di no, dal momento che nessuno vi è riuscito finora. A dimostrazione, dal mio punto di vista, che non è questione di un sistema o dell’altro, ma di come li si usa.
Tornio incisore e modalità d’uso
Nel processo di trasferimento dal nastro magnetico a due tracce su cui si trova il missaggio dell’esecuzione che si intende mettere su disco, c’era e c’è tuttora un passaggio fondamentale, quello della realizzazione della cosiddetta lacca, dalla quale mediante una serie di passaggi positivo-negativo si ottengono le matrici, ovvero gli stampi utilizzati per la pressatura dei vinili.
Dal cosiddetto cutting deriva la qualità d’ascolto del disco. Se in esso si compiono errori, non solo le doti della registrazione e del mix migliore vanno a farsi benedire, ma ne risulta impossibile persino la tracciatura del disco da parte della puntina.
Si tratta insoma di un passaggio particolarmente critico, per il quale non a caso è nata una figura professionale ben precisa, lo specialista del mastering. Tra di essi uno dei più noti e capaci è stato Stan Ricker, che da qualche anno purtroppo non è più con noi. In rete è disponibile una lunga intervista, in cui parla anche del suo lavoro al tornio incisore.
Per far stare il segnale audio con tutte le sue variazioni in termini di livello e frequenze all’interno del solco, è necessario agire sul tornio variandone il passo, e quindi le dimensioni stesse del solco. Questo presuppone che chi opera al tornio possa ascoltare con un qualche anticipo quel che sta per andare a incidere, dimodoché possa predisporre le regolazioni opportune.
Il lavoro al tornio va eseguito un’intera facciata alla volta, senza interruzioni, e in caso di errori occorre buttare via tutto. Il che rende cruciale lo svolgimento corretto dell’operazione.
Allo scopo si utilizzavano registratori dotati di una testina di pre-lettura, posta in maniera tale da anticipare sulla linea di ascolto dell’operatore il segnale inviato allo stilo incisore del tornio. Coi nastri registrati alle velocità molto alte tipiche delle registrazioni professionali di studio, ne conseguiva che la testina di pre-lettura andava distanziata in maniera considerevole rispetto al gruppo adibito alla lettura vera e propria, il che causava la lievitazione dei costi delle speciali macchine adibite allo scopo.
Così, un bel giorno, qualcuno se ne uscì con l’idea brillante che invece di spendere tutti quei soldi per la macchiina necessaria a far le cose nel modo dovuto, sarebbe bastato l’impiego di un’unità di ritardo, digitale. Con la non trascurabile conseguenza che tutto quanto inviato al tornio sarebbe stato influenzato non solo dalla digitalizzazione del segnale e poi dalla sua riconversione in analogico, ma anche dalle limitazioni intrinseche dell’unità di ritardo utilizzata.
In un’industria che muove miliardi e ancora di più ne muoveva durante l’epoca d’oro del vinile, sembra assurdo il ricorso a trucchi del genere, ma questo è stato. Non è dato sapere tuttavia quale diffusione abbia avuto il prcedimento descritto e quali siano i titoli per i quali lo si è utilizzato.
Si può ipotizzare, tuttavia, che abbia interessato soprattutto produzioni minori o comunque laddove sussistessero limitazioni di origine economica, tali di indurre all’impiego di uno stratagemma del genere.
Dalla lettura del racconto di Stan Ricker linkato prima, si viene a conoscenza di altri elementi interessanti riguardo al procedimento descritto, inerenti ad esempio la necessità di utilizzare amplificazioni diverse a seconda delle caratteristiche dei torni utilizzati nel procedimento d’incisione. Quelli della Westrex, ad esempio, permettevano l’impiego di amplificazioni valvolari, i Neumann richiedevano invece una quantità d’energia decisamente maggiore, tale da rendere necessario il ricorso ad amplificazioni a stato solido di potenza elevata.
Si tratta di una differenza di non poco conto: dal punto di vista degli appassionati, che poi è quello che c’interessa. Non pochi, se costretti a scegliere, preferirebbero forse utilizzare nella loro catena una sorgente digitale abbinata a un’amplificazione valvolare, invece di una vinilica abbinata a uno stato solido di potenza elevata, caratterizzato dalle limitazioni che conosciamo bene anche se oggi per motivi commerciali non se ne parla più.
Un aspetto del genere, tuttavia, oggi non attrae interesse, dato che la contrapposizione tra valvole e stato soldio non è all’ordine del giorno come lo è invece tutto quello che ha a che vedere con l’analogico. Come vediamo, è inutile, o peggio fuorviante, concentrare tutta l’attenzione su un singolo passaggio del complesso procedumento che dall’esecuzione musicale porta al supporto fonografico, oltretutto quello che per un motivo o per l’altro ha assunto maggiore visibilità, trascurandone altri altrettanto se non più siginificativi.
C’è poi un altro aspetto, altrettanto importante. Un conto è il digitale come lo si è imparato a conoscere in ambito amatoriale, che soprattutto nella sua prima era è ben noto fosse gravato da limitazioni enormi, conseguenti soprattutto alla necessità di contenere i costi dei lettori CD affinché il loro prezzo al pubblico fosse sufficientemente abboordabile, pur mantenendo nello stesso tempo il margine di profitto necessario. Altro, invece, è stato il prodotto professionale: non per la sua superiorità intrinseca come taluni hanno voluto far credere soprattutto nell’ambito dell’ana,ogico, sempre per i soliti interessi personali, ma perché le macchine destinate a determinati impieghi e a una clientela così particolare non sono gravate in modo così pesante dalle necessità di contenimento del prezzo di vendita.
Dunque, vediamo ancora una volta che soffermarsi sul singolo particolare, che sia quello di maggiore interesse o più sulla cresta dell’onda per motivi che nulla hanno a che fare con la sua realtà storica, è quanto di più controproducente. Per farsi un’idea corretta, soprattutto a svariati decenni di distanza dal momento in cui si sono verificati determinati accadimenti, questi andrebbero osservati nella loro completezza e soprattutto inseriti nella loro prospettiva storica. In caso contrario è alquanto probabile farsi un’idea che non è sbagliata, ma è proprio tutto il contrario di quel che di fatto è avvenuto.
Se si trascurano determinati accorgimenti, ecco che determinate teorie, come quella dell’assoluta necessità di purezza per il pedigree analogico di quel che ascoltiamo attraverso il supporto vinilico, malgrado siano un nonsenso dimostrato fino alla nausea diventano perfettamente plausibili.
Soprattutto agli occhi di chi per motivi anagrafici non ha avuto la possibilità di vivere in prima persona determinate fasi storiche, e malgrado l’esistenza di quantitativi tuttora rilevanti di LP che dimostrano come non sia questione di analogico o di digitale ma solo ed esclusivamente del modo in cui si facevano e si fanno le cose.
Ovverosia di manico e soprattutto di rispetto. Per l’opera e per le scelte fatte a suo tempo, di sicuro per un buon motivo, dal musicista o da chi per lui.
Non ultimo, per chi acquista e poi va ad ascoltare il disco, da cui ci si fa pagare per prenderlo marchianamente per il didietro.
Pertanto, quella scritta nell’articolo di cui parli è una cosa magari vera di poco senso. L’analogico ristampato oggi non suona male perché è stato digitalizzato, ma per il modo in cui lo si è fatto e ripetuto, vandalizzandolo più e più volte, affastellando manipolazione su manipolazione, disastro su disastro.
Il tutto allo scopo di massimizzare l’esperienza d’ascolto nelle condizioni peggiori e più in generale quelle tipiche di oggi: digitale su telefono e cuffietta da pochi soldi. Proprio perché è con mezzi simili che si svolge la stragrande maggioranza degli ascolti.
Ovvio che se poi si pretende di rimettere pari pari su vinile le conseguenze di quei disastri e le si riproduce per mezzo di un impianto dotato di una selettività sia pur minima, le conseguenze saranno a dir poco desolanti. Proprio perché un LP realizzato a partire da materiale devastato in tale misura non potrà far altro dal porre in un’evidenza plateale tutte le brutture conseguenti al trattamento cui lo si è sottoposto.
Le ristampe ottenute da materiale sottoposto al trattamento descritto e rimesso pari pari su vinile secondo l’usanza di oggi, sono solo operazioni commerciali, ai fini delle quali non si esita a calpestare qualsiasi cosa, secondo la logica di accumulazione a oltranza tipica del capitalismo iperliberista. Che devasta e divora tutto quanto trova sul suo cammino. E fatalmente finirà un giorno per divorare anche sé stesso.
Non tutto è così, per fortuna, ma solo la stragrande maggioranza di quel che si stampa oggi su vinile.
Pertanto, forzare la realtà attuale al prodotto discografico di qualche decennio fa, oltre a creare grattacapi inutili produce anche errori marchiani di visuale.
Oltretutto i delay che preoccupano tanto gli assertori dell’assoluta purezza analogica, li si è utilizzati, e con ben altra assiduità, sia a livello di esecuzione che di registrazione. Per dare maggiore profondità ad alcuni passaggi, effetti o sonorità, difficilmente o meglio mai su tutto il mix e lungo porzioni temporalmente rilevanti dell’esecuzione.
Seguendo un determinato percorso logico, allora anche tutto quello che è stato “inquinato” da scelte del genere dovebbe essere rifiutato a priori. Ma come abbiamo ripetuto più volte, e lo facciamo ancora, gli LP ricavati a suo tempo da master o registrazioni digitali, come abbiamo visto annoverano una lunga serie di titoli che suonano decisamente bene. Il disco suona come deve? Ascoltiamolo in santa pace, senza ficcarci in testa tarli privi di senso. Proprio perché la questione della purezza del pedigree analogico non ha molto significato ai fini della qualità di riproduzione.
La mia impressione, è che si vadano a sollevare certe cose a fini di ricerca del sensazionalismo a ogni costo e della dipendenza da scoop compulsivo, in funzione dei quali non si esita a diffondere idee capaci di porre l’appassionato in uno stato d’incertezza al solo scopo di procurarsi una qualche visibilità.
La logica è sempre la stessa: in precedenza abbiamo parlato di capacità, nel maneggiare la registrazione di un esecuzione musicale, e di rispetto, nei confronti dell’opera d’arte che rappresenta. Si tratta di concetti che confliggono a fondo con gli usi, i costumi, la mentalità e le finalità proprie del giorno d’oggi.
Ai fini della massima profittabilità di ogni singola azione compiuta dall’essere umano, che per comandamento divino dev’essere finalizzata alla produzione della massima quantità di denaro, si è compreso che è inutile fare tanti discorsi ma è necessario imporre simboli, appunto come sinonimi di qualità. Ad essi si va ad attribuire una valenza squisitamente taumaturgica, e purtuttavia fondata su una pretesa base di scientificità, che in virtù dei presupposti anzidetti è del tutto inesistente. O meglio incompatibile nei loro confronti.
Il simbolo allora è una scorciatoia, ai fini della massima accumulazione di denaro. Per mezzo dei metodi opportuni a livello di propaganda, per prassi a reti e testate unificate a fini di lavaggio del cervello, gli si attribuisce la valenza di sinonimo di qualità inoppugnabile. Questo avviene in tutti i settori merceologici e quindi anche nella riproduzione sonora e più nello specifico in quella analogica.
In tale ambito il simbolo oggi più abusato è quello dei 180 grammi. Per quel tramite si vorrebbe imporre che ogni massacro da remastering plurimo diventi come per magia oro zecchino. Solo perché è stato impresso su un supporto di peso maggiore a un altro.
Eccoci di fronte a un altro elemento tipico dell’inganno totale e definitivo caratteristico dei nostri tempi, dove al contenitore si attribuisce un’importanza non maggiore ma infinitamente più rilevante rispetto al contenuto.
E le persone ci credono. Da un lato perché se lo sentono ripetere senza posa e da ogni dove per 24 ore 7 giorni alla settimana, dall’altro perché a partire da un certo punto in poi si è deciso di abolire la capacità critica e di analisi nell’individuo, già dai metodi e dalle finalità con cui s’impartisce l’istruzione scolastica. Volta non più al fine di formare individui in grado di ragionare sulla base di un livello sia pur minimo di autonomia, ma alla realizzazione di greggi umane pilotabili e plagiabili in qualunque modo, proprio ai fini della massima estrazione di profitto dalla loro stessa esistenza in vita.
E’ quello che si definisce reificazione, ovvero riduzione a merce, dell’essere umano che per ottenere la massima efficienza dal processo di moltiplicazione del profitto, deve essere spossessato di qualsiasi meccanismo possa opporsi al suo controllo a distanza.
Cosa costa meno, mettere qualche grammo in più di plastica nell’LP o cercare di produrlo nel modo realmente più efficace? Dedicando tempo, risorse, macchinari e dedizione alla ricerca, al recupero e al miglioramento di conoscenze gettate da troppo tempo nel dimenticatoio e poi di nastri ormai irrecuperabili, dato l’accumularsi su di essi di azioni irreversibili di brutalizzazione, volte allo stravolgimento dell’equilibrio sonoro dell’opera e dei rapporti di livello tra gli strumenti, oltreché al pompaggio, al ripompaggio e al pompaggio ennesimo del già strapompato all’esasperazione.
Qual è, poi, l’argomento più indicato per l’aumento delle vendite, una serie di informazioni fumose riguardo a tecnicalità inaccessibili e accorgimenti per iniziati, come tali poco comprensibili o meglio privi di significato per l’individuo ridotto apposta a consumatore, oppure schiaffare sulla copertina un bell’adesivo nero e oro che riporta a caratteri cubitali un numero che si è accortamente provveduto a imporre non come sinonimo ma proprio come essenza stessa della qualità sonora?
Dimostrazione ennesima che è proprio attraverso il numero che si possono non solo far credere ma proprio imporre quale dogma evengelico cose che non stanno né in cielo né in terra, data la capacità di penetrazione, persuasione e per forza di cose d’inganno insita in quella rappresentazione grafica.
La contrapposizione tra digitale e analogico, intesa riguardo alla purezza del pedigree della prooduzione discografica attuale, ha una valenza e un utilizzo assolutamente non dissimile da quelli attribuiti al marchio dei 180 grammi. Andrebbe osservata come una questione puramente simbolica, sorta di grimaldello attraverso il quale procurarsi maggiori profitti.
Conoscenza dei fatti, incapacità a interpretarli
Nella lettera, a un certo punto c’è il riferimento a “una certa conoscenza dei fatti, a quanto sembra“.
Ecco, credo che il punto stia proprio in quell’a quanto sembra.
Sembra, ma non è. Si conoscono i fatti, o meglio li si piega a uso e consumo delle proprie necessità, evitando di analizzarne il significato, di interpretarli e metterli in relazione al contesto cui attengono, meno che mai in una prospettiva dotata del minimo barlume di consequenzialità.
A questo serve l’eterno presente che è il contesto preferito dai propagandisti di ogni epoca, ambito ideale affinché l’individuo non possa comprendere la realtà che lo circonda, in quanto privatosi volontariamente di esperienza storica, prospettiva temporale nei confronti del passato e capacità di proiezione futura. Fardelli fin troppo scomodi, complicati da maneggiare e portarsi appresso, quando invece c’è bell’e pronta la narrazione così confortevole, fatta calare dall’alto per il tramite di mere scimmie parlanti, dalle quali assorbire come spugne tutto e tutto il suo contrario. Persino contemporaneamente, se necessario.
E’ lo stesso meccanismo della cosiddetta musica liquida: perché detenere un ingombrante supporto fonografico quando c’è la possibilità di ascoltare tutto quel che si può desiderare per mezzo dello streaming? A pagamento, così il giorno che si smette di pagare, o non si potrà più farlo, si resterò con un pugno di mosche. Poi che per quel tramite, proprio in conseguenza della disponibilità enorme di materiale, si finisca con il non ascoltare più nulla, perché ci si è ridotti a saltabeccare non da un album e neppure più da un brano all’altro, ma a una porzione di esso secondo il meccanismo dello zapping compulsivo, non fa nulla, perché è tanto, tanto comodo. E ancora non è tutto, dato che la consapevolezza di tanta disponibilità non può che portare al rifiuto di qualsiasi cosa non colpisca o gratifichi all’istante, data la quantità virtualmente infinita di scelte alternative.
Quali saranno le conseguenze sulle scelte fatte in ambito di produzione musicale da condizioni di fruizione siffatte? Non ci vogliono particolari capacità profetiche per comprendere che per forza di cose si andrà verso un appiattimento totale e definitivo, tagliato su misura della necessità di colpire e lusingare l’ascoltatore, fornendogli all’istante quel che gli piace, ossia crede di apprezzare, dato che altrimenti passerà ad altro.
Di fatto, allora, quella che ci viene presentata come un’ampiezza di scelta virtualmente illimitata, condurrà fatalmente ad ascoltare sempre e solo la stessa cosa.
Cosa ne sarà, infine dell’ elemento culturale connesso proprio al detenere un parco-supporti più o meno ampio, dal quale imparare a conoscere lo stile di determinati musicisti, la sua evoluzione in funzione delle fasi storiche e una serie di altri aspetti che costituiscono la formazione musicale secondo modalità d’importanza almeno pari rispetto alla mera fruizione dell’opera riprodotta? In mancanza, l’ascoltatore diverrà un elemento esclusivamente passivo, sorta di contenitore, o megli di discarica, in cui accumulare la quantità maggiore possibile di materiale discografico che per i motivi suddetti sarà alla fine indistinguibile l’uno dall’altro, allo scopo di ricarvare dall’operazione il massimo profitto possibile.
L’idolatria della perfezione
Tornando all’analogico, emerge ancor più un elemento dalla valenza mistificatoria enorme. Quello riguardante l’aver talmente spinto all’estremo il concetto di perfezione analogica, costruendo attorno ad esso una cornice leggendaria, tale da aver prodotto una sorta di beatificazione del supporto attraverso il quale se ne rende possibile la fruizione, ossia il vinile, facendone così un feticcio, un idolo dal vello d’oro, che in quanto tale va innanzitutto protetto da qualsiasi ipotesi di contaminazione.
Nei suoi riguardi non ci si pone più in termini di utilizzo ma di adorazione, dando per conseguenza via libera a ogni estremizzazione, come quella di cui il nostro amico ci ha gentilmente e provvidamente dato notizia.
Un procedimento del genere, in tutta evidenza, è possibile soltanto nei confronti di chi, o meglio è accettabile solo da chi non abbia vissuto in prima persona o abbia dimenticato la cosiddetta era dell’analogico, durante la quale era solo un supporto fonografico, seppure il più gradevole da ascoltare. Come tale senza tanti infiocchettamenti e ricamature, che uno dopo l’altro, nell’eterna gara a chi la spara più grossa, per forza di cose portano a enunciare le panzane più inverosimili. Credendo in esse oltretutto, quindi facendolo con la più grande serietà.
In questo trovo parecchio significativo anche un altro aspetto: la reiterazione, nei confronti dell’analogico, dello stesso identico procedimento adoperato a suo tempo per imporre il CD, basato sulla pretesa perfezione del sistema che gli aveva dato vita, ossia la codifica binaria del segnale in PCM.
Dunque il CD, in quanto digitale, era perfetto a prescindere. L’unico elemento che potesse contaminare la sua perfezione stava nella registrazione e nel mastering analogici, nel caso degli album realizzati prima del suo esordio e poi ristampati in digitale.
Ora la stessa identica cosa, invertendone i termini, la si vede fare nei confronti dell’analogico, che però all’epoca dell’esordio del CD fu di fatto la vittima di tale atteggiamento. Ma siccome da allora a oggi sono passati quasi quarant’anni, quello stesso meccanismo si palesa giocoforza in una veste portata a conseguenze ancora più estreme. Si genera così un talebanismo analogista conclamato e persino rivendicato, per mezzo del quale si perde ogni addentellato con la realtà storica. Con la quale, in tutta evidenza, s’instaura un rapporto conflittuale e distruttivo.
Quindi ora è l’analogico, nella sua perfezione altrettanto inesistente, a pretendere che da esso sia bandito il digitale, in qualsiasi forma si presenti.
Per chi lo ricorda in seconda elementare, quando si sono studiate le addizioni e le moltiplicazioni, ci è stato spiegato che invertendo l’ordine dei fattori il risultato non cambia. Di fatto allora, se tra era del digitale ed era del ritorno d’interesse per l’analogico l’ordine dei fattori è stato invertito, il risultato rimane sempre lo stesso: menzogne su menzogne, corbellerie su corbellerie, sensazionalismo su sensazionalismo, sempre allo scopo di procurarsi più denaro o più visibilità.
Il potere della fandonia
Un certo signore soleva dire che basta ripetere il numero di volte necessario la più solenne delle bugie per farla diventare verità inconfutabile. Gli era stato spiegato, indirettamente, da un altro figuro, molto meno noto ma dagli ascendenti della più pura nobiltà parascientifica. Si trattava nientemeno che del nipote di Sigmund Freud, Edward Bernays, il quale a suo tempo diede alle stampe un libro, intitolato “Propaganda”, in cui si spiegano le tecniche di induzione nelle masse di comportamenti predeterminati. E’ stato studiato a fondo da molti dei personaggi storici noti o meno dello scorso secolo e la pratica delle sue teorie ha trovato piena applicazione negli ultimi decenni e nella fase storica che stiamo vivendo.
Il problema esposto nella lettera, allora, non sta tanto nella questione in sé ma nell’apparenza della fandonia consistente nella necessità assoluta di purezza analogica per il segnale audio immagazzinato nel supporto vinilico. Tale apparenza la rende non dico credibile ma almeno verosimile, già a prima vista, così da poter essere diffusa da personale adibito allo scopo e come tale inadeguato.
Innanzitutto a comprendere che non è questione del sistema, analogico o digitale che sia, utilizzato per giungere a un determinato risultato, ma del modo con cui si procede a tal fine.
Dunque siamo di fronte al dogma, del quale gli stessi enunciatori diventano le prime vittime, ansiose di accomunare al proprio destino il maggior numero di persone possibile.
Proprio in questo modo l’assoluta necessità di purezza per il pedigree dell’analogico diventa un mito dell’hifi, vero emblema dell’immaginario distorto per audiofili: elemento fondante di quell’audiofolclore fatto di leggende, credenze, dogmi e rituali. A presidio dei quali si pone il personale adibito all’amministrazione e alla diffusione del culto che li racchiude: veri e propri guru e santoni il cui denominatore comune primario sono la sordità e la supponenza.
La sordità che li accomuna non è tanto a livello di sistema uditivo, per quanto anche li ci sarebbe da discutere e non poco, ma innanzitutto a livello mentale e cognitivo. Qualsiasi cosa abbia una remota parvenza di aderire al criterio minimo del buon senso è da costoro non evitata ma proprio rifuggita, come l’aglio dal vampiro e l’acqua santa dal demone.
L’azione d’inganno e mistificazione instacabile che eseguono è credibile, malgrado tutto, per una platea alla ricerca perenne di nuove suggestioni. Si forma così il codazzo di seguaci e fedelissimi che li segue sempre e comunque, pronti a sostenere qualunque enormità o fandonia senza curarsi non della sua verosimiglianza ma neppure dell’assoluta incongruità delle basi su cui poggia tutto l’impianto di una mistificazione così teatrale.
Non solo le conseguenze di quelle azioni arrivano ai limiti estremi dell’immaginabile ma addirittura vanno oltre. Così vediamo appassionati come il nostro amico che non solo ci credono, ma ci lavorano e rimuginano sopra, ponendosi interrogativi che al dunque si rivelano talmente pressanti da non dormirci la notte.
E tuttavia si, già nelle registrazioni pubblicate su LP in un periodo in cui il CD non s’immaginava neppure cosa fosse, l’impiego dei delay digitali andava diffondendosi.
Jaco Pastorius
Nel 1975 un certo signor John Francis Anthony Pastorius, in arte Jaco, entrò a far parte del gruppo parecchio noto nell’ambito del jazz moderno o elettrico che dir si voglia, o meglio ai vertici di quella corrente musicale, chiamato Weather Report. Non solo in virtù dell’indubbia padronanza tecnica nei confronti del suo strumento, il basso elettrico, ma anche per le sonorità inusitate che ne traeva e in un lasso di tempo molto breve ebbero un larghissimo numero di estimatori e di emuli che ne ripresero in qualche modo lo stile e le timbriche, profondamente influenzate dal suo modo di suonare sulle armoniche.
Quella che in breve divenne conosciuta come sonorità del “basso alla Pastorius” ha avvinto intere generazioni di appassionati e di musicisti, oltre ad aver fatto dello stesso Pastorius l’eroe del basso elettrico per eccellenza.
Più di tutto, Pastorius ha fatto cantare il suo strumento, che prima di allora era visto in funzione esclusivamente ritmica, innalzandolo a guida della melodia dell’intera esecuzione. E’ questa la parte maggiore, la vera eredità che Pastorius ci ha lasciato: ha dato finalmente modo al basso elettrico di mettere in luce fino in fondo le sue possibilità espressive.
In tal modo ha restuito dignità a uno strumento inteso fino ad allora come un succedaneo del contrabbasso, utilizzato per via delle minori dimensioni e difficoltà di trasporto nonché dalla maggior potenza di emissione ottenuta elettrificandolo.
Aspetto significativo di tutta la questione, è che lo ha fatto non differenziandolo maggiormente come si potrebbe immaginare, ma rendendolo più simile al predecessore. Dal lato tecnico e realizzativo per mezzo della rimozione dei capotasti, da quello sonoro utilizzando una serie di artifici atti ad ampliarne l’estensione e a renderne il timbro più ricco armonicamente.
Dunque, se Pastorius ha realizzato quella sonorità così tipica e avvincente, fluida, lirica e sognante al punto di renderlo un’icona incancellabile, se ha composto ed eseguito alcuni tra i brani più memorabili di tutti i tempi rivoluzionando la storia del jazz, lo ha fatto a partire e mediante l’abbinamento al suo strumento delle unità di ritardo e riverbero operanti digitalmente che da qualche tempo si erano rese disponibili sul mercato degli strumenti musicali e delle apparecchiature di contorno ad essi dedicate.

Ora però arriva qualcuno a spiegarci che la musica di Pastorius e i dischi sui quali è stata pubblicata in origine non li si deve ascoltare, in quanto i delay digitali utilizzati allo scopo andrebbero a inficiare la purezza della sonorità analogica.
Cosa ha a che fare tutto questo con il pedigree analogico di album come “Black Market”, “Heavy Weather” “Mr. Gone”, “Night Passage” e soprattutto “8.30”, doppio dal vivo in cui è presente un brano, “Slang”, che non è altro dalla sintesi del lungo solo che Pastorius eseguiva a ogni esibizione dal vivo del gruppo di cui faceva parte?
Assolutamente nulla. Come nulla ha a che fare con la questione la sonorità di Percy Jones (Brand X), Mark Egan (Pat Metheny Group, Elements), Jimmy Haslip (Yellowjackets), Jeff Berlin, Ares Tavolazzi (Area, segnatamente in alcuni brani di “1978, Gli dei se ne vanno, gli arrabbiati restano”) e dei millemila altri strumentisti che hanno ripreso in maniera più o meno pedissequa o si sono in qualche modo rifatti alla sonorità di Pastorius.
Anzi, proprio il primo disco degli Elements, gruppo formato da Mark Egan insieme al batterista Danny Gottlieb, è uno tra gli esempi di quale sonorità devastante si possa trarre da un disco vinilico, che per impatto, dinamica e trasparenza ha pochi rivali anche tra le registrazioni digitali di ogni tempo. In particolare nella riproduzione per mezzo di un impianto adeguato di “Starward”, secondo brano della prima facciata.
Per quale motivo allora non ci si cura di verificare se le cose che si pubblicano possano avere almeno il minimo di attinenza con la realtà storica delle esecuzioni musicali e della riproduzione sonora?
Purtroppo il disco degli Elements non è tra i più facili da reperire, dato che venne tirato in un basso numero di copie, ma soprattutto fu penalizzato da problemi di stampaggio riscontrabili in gran parte se non in tutte quelle distribuite. E’ stato comunque riedito in CD.
Sintetizzatori, polifonici e digitali
Più o meno nello stesso periodo andavano diffondendosi i sintetizzatori polifonici, salto epocale rispetto a quelli di prima generazione, che di conseguenza si ribattezzarono monofonici, come il capostipite Moog, e poi gli ARP, gli EMS e tanti altri, tra cui quello realizzato dalla nostrana Davoli.

Primo tra i polifonici fu il mitico Oberheim, utilizzato anche dagli stessi Weather Report e dal loro tastierista e fondatore Joe Zawinul. In realtà erano ancora analogici, ma sono stati un passaggio fondamentale lungo il percorso che ha portato alla realizzazione di tastiere digitali.

I polifonici analogici erano ancora nel pieno del loro boom, per chi se li poteva permettere ovviamente, che arriva una deflagrazione ancora più grande, quella dei primi sintetizzatori digitali.
Capostipite ne fu il Synclavier, prodotto dalla New England Digital. Il nuovo salto generazionale causò uno scalpore enorme, dando la stura alle illazioni più azzardate, prima fra tutte quella che per il loro tramite fosse possibile creare ogni suono possibile e immaginabile, oltre naturalmente alla gamma infinita e imponderabile del non ancora immaginato.
Come avviene di solito in questi casi, la realtà palesatasi sul campo ridimensionò in breve tali previsioni.
Se le loro possibilità ipotetiche destarono impressione, ancora più grande fu quella suscitata dai loro costi, che li rendevano inavvicinabili in pratica a chiunque. Un Synclavier entrò a far parte dell’equipaggiamento dello studio casalingo di Frank Zappa, l’UMRK (Utility Muffin Research Kitchen), ed è stato utilizzato per eseguire diverse parti della sua produzione discografica degli anni ’80.
Ancora oggi il Synclavier è una macchina molto costosa, se in condizioni perfette.

L’anno successivo fu la volta del CMI (Computer Music Instrument), prodotto dall’australiana Fairlight, marchio da cui fu presa la denominazione usualmente attribuita al sintetizzatore, cui ci si riferiva come “il Fairlight”. Profondamente diverso dal Synclavier, che ancora conservava le sembianze di un comune sintetizzatore, come suggerisce il suo nome ufficiale era somigliante più che altro a un computer, con tanto di schermo e tastiera alfanumerica, cui se ne aggiungeva una musicale dall’estensione insolita di sei ottave. Le sue potenzialità erano molto maggiori rispetto al predecessore e ancora oggi si può attribuire al nucleo funzionale la caratteristica propria di una macchina moderna. Si basava infastti su un sistema di campionamento digitale a 16 bit, con frequenza di campionamento fino a 100 kHz, realizzato mediante due processori a 8 bit della serie 68000.

Al di là dei loro costi, macchine simili avevano una spiccata connotazione sperimentale che ne rendeva possibile l’impiego solo negli studi di registrazione più grandi e dalle maggiori capacità di spesa.
Dal vivo e non solo, pertanto, i polifonici analogici continuarono a occupare i vertici della popolarità. Primo fra tutti il notissimo Prophet 5, appunto a 5 voci, utilizzato da un vero e proprio esercito di tastieristi, operanti nelle più correnti musicali più disparate. Anche per via della loro flessibilità operativa e soprattutto per via della facilità di cavarne suoni interessanti, mentre dalle macchine digitali si avevano spesso sonorità abbastanza banali e oltretutto stucchevoli. Soprattutto, per il loro impiego fruttuoso era necessario affidarsi all’opera di programmatori specializzati, figura professionale che non a caso iniziò a comparire con una certa frequenza nelle schede del personale pubblicate sulle copertine degli LP dell’epoca.
Un esempio fra tantissimi, “Belo Horizonte” di John Mc Laughlin, album molto godibile per le composizioni, per le esecuzioni, affidate tra gli altri alle sorelle Labeque, e per le sonorità.

Con la velocità di evoluzione tecnica caratteristica del digitale, non ci volle molto affinché si arrivasse a un sintetizzatore operante su codice binario che potesse essere trasportato con facilità, e robusto abbastanza da non comportare rischi per la sua incolumità. In quest’ambito lo Yamaha DX7 è stato probabilmente il più diffuso nel corso degli anni ’80 e per buona parte del decennio successivo. Tanto è vero che divenne una specie di standard, o meglio di tormentone, dato che a lungo non si utilizzò praticamente altro che quello, a livello dei tastieristi dei gruppi più in voga. Discendeva dal GS-1, sempre di Yamaha, tra i primissimi digitali caratterizzati dall’approccio volto soprattutto alla musica invece che alla programmazione di stile informatico. All’epoca, il GS-1 è del 1981, si era ancora abbondantemente dentro l’era dell’analogico: il CD avrebbe esordito nell’autunno del 1982.

Allora che facciamo, i dischi di Weather Report con Pastorius, quelli dello stesso Pastorius, di Pat Metheny con Mark Egan, di Zappa, dei Brand X e quelli di tutti i gruppi in cui hanno presenziato tastieristi alle prese con Synclavier, Failight e DX7, insieme a tutte le altre digitali li portiamo in discarica, perché a dispetto della loro registrazione e del master analogico da cui derivano, comprendono brani eseguiti con strumenti o delay digitali?
Al di là dell’assurdità della cosa, ci sono ottime probabilità che del materiale prodotto a partire dalla metà degli a nni ’70, da ascoltare non rimarrebbe più nulla o quasi, a parte la pizzica salentina o il saltarello laziale. Sono comunque meritevoli d’interesse, ci mancherebbe, ma forse costituiscono un panorama alquanto limitato per l’ascoltatore comune.
Resta ovviamente la musica classica, ma chi garantisce ai sostenitori dell’assoluta purezza analogica che non si sia utilizzato qualche delay digitale per attribuire una maggiore ambienza alle esecuzioni?
Nella stragrande maggioranza delle occasioni, un tastierista ricorre a un ampio numero di tastiere e sintetizzatori, in funzione dei “colori” che ha deciso di utilizzare. Magari, un sintetizzatore digitale è stato utilizzato solo per qualche battuta, in cui si è resa necessaria una particolare sonorità. Può bastare questo affinché si debba buttare via tutto?
La sonorità di quegli LP è e resta squisitamente analogica. Spesso e volentieri, anzi, rappresentano il meglio di quel che si è ottenuto per mezzo del supporto analogico. A questo proposito mi piace fare riferimento all’esempio costituito da Massimo Ruscitto. Oltre a essere un valente tastierista e un ottimo tecnico di registrazione nel suo studio L’Elefante Bianco, ha anche grande competenza in ambito hi-fi. Per far esprimere al meglio le doti sonore del suo bell’impianto dotato di sorgente analogica, un Well Tempered se non ricordo male, usa spesso un disco come “Cool Nights” di Gary Burton, pubblicato da GRP a partire da master digitale.
Slang
Torniamo per qualche istante al brano che come abbiamo visto, nel doppio LP “8.30” riprendeva, riassumendolo, l’assolo eseguito da Jaco Pastorius nei concerti con i Weather Report. Invece della consueta esibizione di virtuosismo basata sulla esecuzione singola del suo strumento, appunto in assolo, Pastorius si costruiva prima una base ritmica, rendendone oltretutto palese il procedimento. Partiva da una frase molto breve, che faceva ripetere a oltranza dal dispositivo di ritardo incluso nel suo equipaggiamento, alla quale ne sovrapponeva altre, insieme a colpi vibrati allo strumento a mano piena, come a simulare una batteria. Uno dopo l’altro, realizzava la stratificazione di tali elementi, sui quali, una volta raggiunta la forma da lui desiderata, iniziava a eseguire quella che con un gioco di parole alquanto forzato si potrebbe definire la parte solistica del suo assolo.
Il tutto mandava in visibilio le folle dell’epoca, delle quali più di qualche volta ho avuto anch’io la fortuna di far parte: nel 1976 e nel 1981 per le esibizioni romane di Weather Report, e più tardi in occasione dei vari concerti tenuti da Pastorius con i suoi gruppi, tra cui quello del 1986 con Bireli Lagrene, sfortunatamente non sempre all’altezza delle sue capacità. Comunque fosse, la notizia di un concerto di Weather Report o del gruppo di Pastorius dalle nostre parti costituiva un evento cui era obbligatorio presenziare, a qualsiasi costo.
Quel visibilio era dovuto alla novità della cosa e poi ovviamente a quello che Pastorius faceva durante il suo assolo e più in generale dutante tutto lo svolgersi dei suoi concerti, non soltanto ponendo in evidenza il suo virtuosismo tanto inedito quanto inarrivabile, ma anche perché riprendeva parti salienti di brani molto conosciuti. Uno tra tutti “Third Stone From The Sun” di Jimi Hendrix, e più avanti “Purple Haze”, insieme a diversi altri.
Al di là del fatto artistico, il cui rilievo è indubitabile, la cosa aveva anche una forte valenza a livello simbolico, poiché esaltava il concetto basato sull’assenza di confini, recinti e steccati dell’espressione musicale nella sua forma più pura. Questo al di là del corporativismo musicale (cfr. “Maledetti” Area, 1976) e catalogatorio, con le conseguenti gerarchie di merito, marchianamente false e ancor più vistosamente pretestuose, di cui si serve da sempre una particolare tipologia umana. Per un verso nel tentativo di rapportarsi a cose nei confronti delle quali è inadeguata innanzitutto a livello concettuale e percettivo, e per l’altro al fine d’imporre una pretesa superiorità rispetto ai propri simili, per mezzo di quella che è a tutti gli effetti una ghettizzazione basata su un settarismo piuttosto evidente. A sua volta è precursore di quello che si definisce razzismo, che però quelle persone disprezzano e stigmatizzano con tutte loro stesse. Ovviamente solo quello degli altri, spesso inesistente, dato che del loro, che invece è palese, neppure si rendono conto.
Un assolo costruito in modo simile era possibile solo ed esclusivamente in virtù della disponibilità delle apparecchiature di ritardo digitali. In precedenza, le unità d’eco erano a nastro, e i riverberi a molla, supporto la cui macchinosità di gestione, per mezzo di dispositivi meccanici di trascinamento, lettura e riavvolgimento, senza contare la durata limitata dell’effetto proprio a livello temporale, avrebbe reso impossibile il solo pensare di realizzare qualcosa di vagamente simile a quello che ha fatto Pastorius in “Slang”.
Questo esempio mostra come meglio non si potrebbe l’assurdità di certe pretese: la qualità sonora del disco vinilico non è data dalla purezza analogica del segnale in esso presente e meno che mai dall’assenza di strumenti musicali o dispositivi operanti digitalmente nell’esecuzione dei brani in scaletta e nel fissaggio sul supporto fonografico.
L’inadeguatezza a livello sonico della quasi totalità degli LP di produzione attuale è figlia della violenza che è stata praticata e ripetuta a oltranza sui master e le registrazioni da cui derivano. A uso e consumo delle pratiche più deteriori di produzione e di ascolto digitale, che con certe cose non hanno nulla a che vedere.
Il fatto stesso che ci sia bisogno di dire certe cose è una prova ulteriore per l’esistenza dell’analfabertismo di ritorno che ha colpito l’analogico in seguito al ventennio di predominio indiscusso del CD e del digitale.

Buongiorno sig. Claudio,
ho letto il suo articolo per puro caso facendo una ricerca su google in merito alla catena di registrazione che porta alla realizzazione di supporti d’ascolto sonori vinilici. Devo dire un’analisi lucida e realistica di ciò che è stato e ciò che è, prefigurando ahimè ciò che potrebbe essere in futuro. Suono chitarra da 40 anni circa e faccio e ascolto musica da quando ero bambino in dolcissima età (5 anni). Ho ascoltato musica per decenni sia in studio, live e a casa comodamente seduto sulla poltrona. Personalmente ritengo che la musica sia un mezzo di comunicazone fondamentale ed alternativo al linguaggio comune, un sistema articolato di onde a frequenza variabile che va a stimolare l’antenna ricevitrice del nostro essere più profondo che vive di energia e si alimenta quotidianamente di onde elettromagnetiche , il più delle volte parassite e devastanti per il nostro equilibrio psico-fisico e per il benessere spirituale. La musica è un modo di ricevere un messaggio che può portare in noi armonia e benessere, o viceversa depressione ,frustazione e violenza. Tale messaggio per essere realistico e quindi percepito dall’ascoltatore nella sulla pienezza, trasparenza ed essenza, andrebbe colto senza alcuna modifica, nessun filtraggio e nessuna colorazione…dovrebbe semplicemente essere trasmesso all’ascoltatore così come l’interprete di quel messaggio vorrebbe che fosse trasferito. Oggi questi aspetti non solo non sono assolutamente considerati dalla discografia ma addirittura la colorazione dei messaggi avviene in modo volontaria, oserei dire premeditata. Oggi è cambiato anche in buona parte il creatore di quel messaggio, l’inventore di quelle armonie….è cambiato il modo sostanziale di fare musica, di conceprie la finalità del messaggio musicale e di conseguenza si è totalmente sminuito il valore che si da alla catena nella sua interezza che porta alla realizzazione finale di tale messaggio alle orecchie di chi ascolta. E’ un insieme di cose che come lei giustamente ha detto sono la conseguenza di una società priva di consapevolezza, pensiero critico, capacità di analisi dei valori, etc etc. I 5 sensi materiali della vita hanno preso il sopravvento, così come la materialità ed il denaro, e tutto ciò che ci coivolge emotivamente e spiritualmente ha perso di ogni significato…poche eccezioni confermano la regola, ovviamente.
La ringrazio nuovamente per il suo bellissimo messaggio. Buon proseguimento e saluti, Mario
Ciao Mario e grazie del bel messaggio.
Le tue parole testimoniano di un rapporto con la musica profondo e vissuto con intensità, cose che purtroppo mancano di frequente in molti appassionati, presi soprattutto dalla questione tecnica. Questa, voglio ripeterlo ancora una volta, ha ben poco significato se non legata alla fruizione dell’evento musicale.
Spero che le tue parole sia d’esempio e che diventi un frequentatore assiduo del sito.
A presto e ancora grazie.
Gentile Claudio,
grazie per la risposta. Avendo capito quantità, entità e qualità dei contenuti discussi e commentati in questo tuo blog non posso far altro che confermare che leggerò con assiduità i tuoi articoli e se emotivamente mi sentirò coinvolto darò anche il mio modesto contributo con un messaggio.
Buona giornata
Mario
Perfetto, i tuoi commenti saranno i benvenuti.
A presto
Ciao Claudio,
come sempre ci delizi con articoli molto interessanti, che fanno chiarezza sull'”analogicità” del vinile. Ammetto di aver creduto anch’io che la registrazione completamente analogica fosse il meglio che ci si potesse aspettare. Tuttavia ci sono incisioni in digitale come “The Nightfly” o l’abusato “Brothers in arms” che, credo senza alcuna possibilità di obiezione, siano considerati dei riferimenti dal punto di vista della registrazione, oltre che quello artistico (non meno rilevante).
La digressione sugli strumenti musicali e sulle tecniche di esecuzione di Jaco Pastorius completano il quadro della situazione.
Ancora una volta grazie per condividere le tue conoscenze e per arricchire le nostre.
Un saluto,
Alberto
Ciao Alberto, per quanto non apprezzi granché l’equilibrio sonoro di “The Nightfly” e “Brothers In Arms” faccia parte di un genere musicale che non seguo, si tratta di due tra gli esempi più tipici di quanto vado dicendo riguardo all’inesistenza della necessità di purezza assoluta per il pedigree analogico di quanto reperibile siu vinile. Ti ringrazio quindi per averli menzionati e più in generale per aver portato il tuo contributo all’argomento. A presto.