L’obi dell’analogico

Nel gergo dei collezionisti di materiale discografico, l’obi è la fascia posta sugli LP di stampa giapponese che riporta in ideogrammi il titolo dell’album, il suo autore ed eventualmente i partecipanti alla registrazione. Si tratta di un oggetto dalla funzione pratica sostanzialmente nulla nel mondo occidentale, tuttavia la presenza o l’assenza di questo particolare possono influire in maniera considerevole sulla valutazione dell’LP di cui fa parte.

Del resto ogni forma di collezionismo ha la sua componente compulsiva e malgrado si tratti di un accessorio in origine ideato per funzioni meramente utilitaristiche, ha assunto in qualche modo lo status di oggetto di culto.

Ciò si deve alla sua unicità, oltreché alla grande stima che gli analogisti più attenti attribuiscono al vinile di stampaggio giapponese, di solito caratterizzato da una qualità superiore rispetto al corrispettivo realizzato in occidente.

Durante l’epoca d’oro dell’analogico, nei confronti degli LP stampati in Giappone c’era una vera e propria caccia. Qui da noi le copie arrivavano con il contagocce e oltretutto a prezzi salati, almeno un 50% in più rispetto alle stampe americane o europee che già non costavano poco. Se poi si trattava di LP doppi, per accaparrarseli era necessario fare veri sacrifici, almeno per chi come me non nuotava nell’oro.

“Smoking In The Pit” degli Steps l’ho pagato 55.000 Lire, come da targhetta adesiva che dopo quasi quarant’anni resiste eroicamente sulla busta esterna trasparente in cui il disco era inserito. Nella prima metà degli anni ottanta era una sommetta di una certa importanza.

Malgrado ciò, se si vedeva un LP giapponese sugli scaffali di una rivendita di dischi, andava preso al volo, dato che anche soltanto una mezzora dopo il rischio di non trovarlo più era grande.

Motivo, la qualità del prodotto, neppure paragonabile con quella del corrispettivo occidentale. Vinile di qualità sopraffina, stampaggio impeccabile, qualità sonora di gran classe. Insomma si trattava di un prodotto in possesso di tutte le caratteristiche del disco “da audiofili”, sia pure venduto attraverso i canali commerciali consueti e a prezzo normale, almeno nel luogo d’origine.

Da noi invece, il costo di un LP di etichetta specializzata e uno giapponese era pressoché equivalente. La vera differenza stava nella qualità artistica del contenuto. Se la larga maggioranza delle edizioni per audiofili è sempre stata carente sotto questo aspetto, o altrimenti si trattava di ristampe più accurate degli album di maggior successo, l’LP giapponese ne colmava le lacune, offrendo appunto la superiorità tipica delle sue caratteristiche anche e soprattutto ai dischi di maggiore spessore artistico. Si trattava insomma di un connubio che per l’appassionato di musica e di riproduzione sonora insieme era praticamente senza rivali.

Queste cose le avrei volute scrivere tanti anni fa ma non fu possibile. La redazione con cui collaboravo era immersa completamente nel vortice dell’ebbrezza digitale e di conseguenza su tutto quanto fosse analogico o vi ruotasse attorno fece calare una cappa di silenzio impenetrabile, durato un quindicennio almeno. Del tutto impossibile quindi proporre un qualsiasi argomento avesse a che fare con esso.

L’unico che lo faceva ero io, con il solo risultato di veder stamparsi sul viso dei miei interlocutori un’espressione di compatimento.

Oggi sembra inutile dire chi veramente sia da compatire, tanto è evidente, ma avendo vissuto certe cose sulla propria pelle il loro ricordo è sempre vivo. Trovo sia giusto accennarvi per sottolineare come l’esperienza del passato faciliti la comprensione del presente.

Non a caso, con l’affermarsi della cosiddetta musica liquida si stanno verificando le stesse identiche dinamiche già viste nel corso degli anni ottanta e successivi con l’imporsi del CD. In particolare per l’immagine di retrogrado passatista che si vuole appiccicare a forza a chi non abbracci senza remora alcuna la nuova tendenza. La sola differenza è che allora non esisteva il forte ritorno d’interesse per un formato, l’analogico, che si riteneva morto e sepolto, mentre oggi è proprio il CD a conoscere un rifiuto persino più ampio di quello a suo tempo colpì l’analogico. Di fatto venne reso impossibile da acquistare ma poté contare su sacche di resistenza mai definitivamente eliminate, malgrado l’asfissiante battage propagandistico a testate unificate che lo tacciava delle peggiori nefandezze.

Se ci facciamo caso, è la stessa cosa che avviene nell’agone politico quando partiti resisi incapaci persino di stilare un programma per quale che sia, stante il loro totale asservimento ai poteri che li tengono in piedi, puntano tutto sulla demonizzazione dell’avversario. Incuranti che il Paese reale stia cadendo a pezzi, anzi rallegrandosene e facendo tutto il possibile per accelerarne la disgregazione.

Già, perché un rottame costa assai meno di un oggetto in buone condizioni, mentre chi dopo aver fatto di tutto affinché cadesse a pezzi, nel disinteresse della parte più ampia della collettività, e poi ripara i dispositivi da cui è composto, di essi deciderà il funzionamento e potrà accampare diritti cui altrimenti non avrebbe titolo.

Malgrado il giochetto stante nella demonizzazione dell’avversario sia stato reiterato più volte e quindi appaia scontato nei suoi metodi ingannevoli e nelle sue finalità pretestuose, trova sempre adesione entusiastica. Soprattutto tra quanti sono convinti in cuor loro di essere parte della parte più nobile e virtuosa della società civile. Tale convinzione, vieppiù rafforzata da un qualsiasi tipo di accusa nei confronti dei conterranei che si ritengono non altrettanto meritevoli, è all’origine della mentalità autorazzista così diffusa dalle nostre parti. In virtù di essa ci si lascia guidare docilmente come un gregge da chiunque utilizzi le formule adeguate, di fatto indistinguibili da un telecomando. Non per amplificatori, cancelli o apparecchi TV, ma per masse umane.

Ancora una volta si tratta di un fenomeno previsto da George Orwell, che lo descrisse mediante il rituale dei “Due minuti d’odio”, che aveva luogo quotidianamente e per oggetto il famigerato personaggio di nome Emmanuel Goldstein.

Se l’LP poté contare sulle sacche di resistenza summenziionate, il CD sembra scontare il ripetersi beffardo, e in proporzioni ancor più grandi, di quel che a suo tempo proprio per il suo tramite venne eseguito per il suo tramite nei confronti dell’analogico.

Il CD tuttavia ha ancora meno armi a disposizione, proprio per la mancanza sostanziale di differenze nei confronti della cosiddetta liquida, dato che opera nel suo stesso formato, quello digitale, sia pure con una densità di dati minore. Neppure può contare sulle dimensioni, quelle che a suo tempo per l’LP furono annoverate sotto la voce difetti, ma che in realtà si sono dimostrate importantissime per la collezionabilità dell’oggetto. Hanno reso poi disponibile lo spazio necessario per lo sviluppo della cosiddetta “arte di copertina”, componente essenziale per lo stimolare l’istinto di possesso nei suoi confronti. Non a caso, il passaggio a un supporto di dimensioni minori, di quella forma d’arte ha decretato la sparizione.

 

Gli LP giapponesi

Nel momento in cui l’LP è tornato al centro dell’interesse di un numero di appassionati sempre crescente, credo sia  doveroso dare alle stampe giapponesi lo spazio che meritano. Non solo a titolo di cronaca ma anche in relazione alle lamentele che riguardano l’attuale produzione vinilica di massa e ancor più per fare il minimo di chiarezza necessario, in merito alla questione della tipologia del segnale da cui trae origine.

Un altro aspetto di grandissimo interesse dei dischi giapponesi riguarda la quantità di titoli inediti sui nostri mercati, anche se a nome di musicisti occidentali. Molti di essi sono quindi rimasti sconosciuti o quasi per gli appassionati del resto del mondo, a dispetto di contenuti artistici non di rado di grande rilievo. Questo non si è verificato soltanto durante l’era dell’analogico, ma è rimasto tale anche nel periodo successivo.

Un esempio tra i più tipici è “Eight Times Up” di Larry Carlton, registrato dal vivo durante una tournée in Giappone. Uscito nel 1983, ci sono voluti quasi venticinque anni affinché fosse finalmente riedito su CD, sempre da un’etichetta giapponese.

Acquistarlo all’epoca della sua uscita, quindi, è stata per me una grande fortuna. Si tratta infatti del disco che reputo di gran lunga più bello del chitarrista statunitense. Le esecuzioni in esso incluse sono d’ispirazione, tensione e solidità semplicemente non paragonabili con gli altri suoi album. Sia che si tratti di registrazioni in studio sia dal vivo, come nel caso di “Last Nite”, di qualche anno successivo ma neppure paragonabile a “Eight Times Up”.

Ricordo ancora che ne arrivò una copia soltanto e riuscii ad aggiudicarmela solo perché, combinazione, ero presente nel negozio in cui l’ho acquistato nel momento in cui veniva aperto il cartone appena recapitato. Lo stesso mi è accaduto in seguito per “The Source” di Bob Mintzer, altro titolo praticamente sconosciuto.

Non mi è più capitato di vederlo sugli scaffali di quella o di altre rivendite, per quanto specializzate in materiale d’importazione. Il dubbio è che già all’origine fosse distribuito solo in un numero limitato di copie sui mercati esteri.

Ci sono dei dischi che ti colpiscono in modo particolare ed “Eight Times Up” è uno di quelli. Lo riascolto ancora oggi di frequente e sempre con grandissimo piacere. Non solo per le sue doti musicali ma anche per quelle sonore, che sono di prim’ordine. In realtà non si tratta neppure di quello, malgrado contribuisca, ma è la sua capacità di portare l’ascoltatore nell’atmosfera dell’evento, rendendo palpabile l’illusione di trovarsi lì, sul posto.

Quali sono le prerogative che permettono di ottenere un risultato del genere? Personalmente non saprei dirlo, si tratta di qualcosa di realmente impalpabile, e dunque non quantificabile, a dimostrazione ennesima che le sensazioni più sottili non possono essere catalogate e tantomeno parametrizzate, per poi sottoporre il tutto a una qualche misurazione. Tipo di procedura che allora, per forza di cose, deve rassegnarsi a stilare una classifica di mediocrità, come tale del tutto inutile. Anzi dannosa, data l’ingannevolezza dei parametri che per quel tramite si prendono in considerazione, proprio in quanto fisiologicamente del tutto privi di addentellati con quel che riguarda la vera qualità.

Pensandoci bene, però, a questo proposito un elemento di valutazione ci sarebbe. E’ dato dal dispiacere che si prova quando il disco finisce. Più è forte, più il disco ha dimostrato la capacità di calare l’ascoltatore nell’atmosfera che va a ricostruire, e pertanto consegue il proprio obiettivo.

Ci sono dei dischi, allora, che una volta finiti si passa al successivo a cuor leggero o meglio senza neppure curarsene, se non addiruttura con sollievo. Altri invece creano quel dispiacere, o meglio la sensazione di disagio o vero e proprio straniamento, dovuta alla consapevolezza che la puntina sta tracciando i loro ultimi solchi per poi arrivare a quelli muti di fine incisione. Di conseguenza rendono difficoltoso l’ascoltare quasiasi altra cosa dopo di essi, facendola apparire inadeguata.

“Eight Times Up” ha dalla sua anche doti sonore d’eccellenza ancora oggi, figuriamoci allora quale fosse il loro impatto quasi quarant’anni fa.

Eppure sulla sua copertina campeggia la scritta “Digital Recording”. A dimostrazione, per l’ennesima volta, che la necessità dell’assoluta purezza analogica per la registrazione ed il master non ha nulla a che vedere con la qualità sonora del supporto vinilico.

Oggi però è un argomento molto di moda, almeno come il revival degli LP. E’ stato strumentalizzato oltremodo e fatalmente ripreso da una moltitudine di fonti, che evidentemente fanno capo a personale non solo dall’esperienza inadeguata, ma anche dalla supponenza tale da non suggerirgli di fare una verifica riguardo alla fondatezza degli argomenti che vanno a sostenere con tanta leggerezza e superficialità.

Del resto che il supporto analogico per suonare come deve abbia bisogno di un’assoluta purezza di origini è un argomento non solo verosimile, malgrado sia falso, ma soprattutto valido nella sua estetica. Quindi è credibile, al punto da poter costruirci sopra un dogma, a uso e consumo del pubblico formato soprattutto da neo-analogisti, ovvero da quanti approdano al supporto vinilico solo ora, dopo aver costruito la propria esperienza esclusivamente sul digitale.

Non c’è occasione migliore, e quindi è doveroso sfruttarla, per sottolineare di nuovo il concetto.

Di titoli editi su LP e derivanti da registrazioni o master digitali, caratterizzati da sonorità impeccabili e del tutto in linea con gli aspetti migliori dell’analogico ce ne sono tuttora a centinaia, sul mercato dell’usato. Proprio perché il punto non sta nell’impiego o meno di specifiche tecniche di registrazione e masterizzazione, ma nel modo con cui lo si fa.

Nella fase storica in cui il supporto vinilico non era ancora stato soppiantato dal CD, il digitale veniva utilizzato con criteri, modalità, accortezze e finalità rivolti in ogni caso alle necessità dell’analogico e all’ottenimento da esso del livello di qualità migliore possibile.

All’epoca, come chiunque l’abbia vissuta in prima persona e disponga tuttora di una memoria in forma almeno discreta, era l’analogico a non funzionare sul supporto digitale, o meglio sulle macchine ad esso dedicate, e non viceversa.

Proprio da questo è derivata l’usanza deprecabile del remastering, stante la necessità di adattare le prerogative dell’analogico, che per conto suo suonava già benissimo, alle caratteristiche del formato digitale. Con lo scopo di ottenerne un risultato non sonicamente valido ma almeno interessante.

Sulla base della certezza assoluta che il digitale avrebbe soppiantato definitivamente l’analogico, tutto o quasi l’archivio delle case discografiche è stato digitalizzato. Ovviamente secondo i canoni necessari affinché da esso si potesse trarre un prodotto valido in funzione dei canoni dominanti che da allora in poi sono andati affermandosi, appunto in conseguenza delle peculiarità del digitale e in funzione dei suoi limiti, malgrado la sua pretesa perfezione.

Ora, se l’analogico non funzionava sul digitale, riteniamo sia possibile che una volta conformato alle necessità di quest’ultimo possa tornare a dare gli stessi risultati di un tempo quando lo si riporta sul suo formato d’origine?

Non di rado, poi, le rimasterizzazioni si sono affastellate le une sulle altre, dato che le mode degli anni 90 sono apparse superate negli anni 2000 e 2010. Per cui si è passati dal pompaggio al ripompaggio, e poi al pompaggio ennesimo del già sovrapompato. Il tutto a colpi di loudness war, compressioni esasperate e successive normalizzazioni, sfruttando all’osso tutto il margine dinamico consentito dal digitale. Notoriamente non può andare oltre lo 0 dB, quando invece l’analogico aveva un margine di saturazione e quindi di sovraccarico piuttosto ampio, che permetteva di tenere più su il livello medio e quindi di dar luogo a una sonorità più convincente al nostro orecchio.

Il che a sua volta è la dimostrazione ennesima che i parametri secondo i quali si vorrebbe definire la qualità del suono, e quella dei formati, hanno come sempre una valenza ingannevole e come tale dannosa.

Se tutto questo ha dato luogo a sonorità inascoltabili già in digitale con un impianto audio neppure tra i più selettivi, in quanto fatto apposta per la moda dominante del momento, ossia il riproduttore portatile o per cuffiette da 4 soldi vendute a prezzi spropositati al giovane privo di esperienza e al quale è stata sottratta scientificamente ogni possibilità che gli permetta di formarsi una qualsiasi capacità di analisi, come possiamo pensare che torni a funzionare sull’analogico?

Naturalmente le case discografiche, e ancor più le compagnie specializzate nelle opere suddivise in fascicoli settimanali distribuiti attraverso il canale delle edicole, problemi del genere non se li fanno proprio.

Il loro discorso è stato il seguente: l’analogico torna a tirare? Benissimo, si ricominci a stamparlo.

Ovviamente a partire da quel che c’è disposizione. Appunto lo strapompaggio del già pompato alla morte, in conseguenza delle necessità del digitale e alle mode ad esso legate. Si tratta comunque di qualcosa che è perfetto per definizione e come tale altro non può produrre che materiale infuso di tale intrinseca e indubitabile, pertanto dogmatica, perfezione.

Questo ovviamente in funzione del profitto che s’intende ricavare dal prodotto e dev’essere il massimo possibile. Non sarebbe più tale nel momento in cui s’intraprendesse una ricerca atta al reperimento di materiale non devastato nel modo descritto e al suo successivo restauro, ammesso e non concesso che esista tuttora e che vi sia personale non dico tecnicamente preparato allo scopo ma almeno in grado di portare a termine la cosa in una forma che non sia proprio indecente.

Va tenuto conto, inoltre, che le tecniche di remastering, ossia del pompaggio come se non ci fosse un domani, sono per loro natura distruttive riguardo alle caratteristiche del materiale d’origine. Stanti le logiche di risparmio all’osso, o meglio di massima profittabilità subentrate nel frattempo, non so fino a che punto sia stato possibile conservare copie di sicurezza allo stato originario, poiché non avrebbero rappresentato altro da un costo che il manager di turno non avrebbe mai autorizzato. Dato che il suo compito non è la preservazione dell’arte e delle sue opere nelle condizioni originarie, ma il fare carriera e quattrini, dando la scalata a incarichi sempre più redditizi accumulando denaro e potere.

Persino la NASA ha dichiarato ufficialmente di aver distrutto i nastri con le immagini del primo sbarco sulla Luna, per motivi di costi.

Tutto quanto descritto fin qui è la dimostrazione ennesima che il capitalismo, soprattutto nella sua odierna forma terminale, con la sua corsa autistica all’accumulazione di profitti non può che distruggere tutto quanto trova sul suo cammino, divorandolo, per mezzo dei mostri che esso stesso materializza durante l’evolversi di tale processo. Per arrivare fatalmente al punto in cui avrà divorato persino sé stesso.

Spesso e volentieri, inoltre, il remastering non funziona neppure su digitale. Il disco menzionato in precedenza ne è un esempio: una volta riedito su CD ha perso molte delle prerogative che lo rendevano per molti aspetti unico. anche sotto il profilo della sonorità. Nelle condizioni in cui è reperibile attualmente, inoltre, gran parte della sua capacità di destare le sensazioni descritte in precedenza sembrano svanite. Elemento che chiarisce ulteriormente quanto sia critica e potenzialmente distruttiva ogni azione volta a modificare, il più delle volte stravolgendola, la sonorità di una registrazione. Se a suo tempo è stata fatta in un certo modo, di sicuro è per qualche buon motivo, come ripeto per l’ennesima volta.

Lo stesso destino lo hanno conosciuto anche altri album pubblicati in origine su LP e solo in Giappone, come ad esempio quelli degli Steps. Vividi e coinvolgenti nell’edizione vinilica, sostanzialmente piatti, o meglio smorti, in quella digitale, che di fatto ne è una pallida e dimenticabile imitazione.

 

Analfabetismo di ritorno

Oggi si usa parla con una certa frequenza di analfabetismo funzionale, definizione cruda che definisce quanti pur in grado di leggere e scrivere non riescono a comprendere il significato di un testo scritto o di un messaggio, quando caratterizzati dal minimo di complessità. Una variante del fenomeno è l’analfabetismo di ritorno, che ben si attaglia alla realtà attuale del supporto analogico. Soprattutto nei confronti delle tecniche più efficaci per la sua produzione, causato da oltre un ventennio di abbandono totale, indotto dal predominio assoluto e che si è ritenuto definitivo da parte del digitale.

Dell’analogico, per quello che è stato nella sua fase di massimo splendore, in cui guardacaso le tecniche di registrazione e missaggio digitali erano già diffuse, in sostanza si è persa la ricetta.

E se qualcuno ancora la possiede, e soprattutto è in grado di attuarla nei modi consoni, non credo la dia in giro per la gloria. Semmai farà in modo di ricavarne il massimo profitto, dato che questo prescrive non il dogma capitalistico, ma la condizione materiale da esso instaurata. Facendo altrimenti si otterrebbe soltanto di ritrovarsi in breve nella povertà assoluta, dati i costi della vita attuali.

Tenuto presente tutto quanto elencato fin qui, nel momento in cui si esegue la forzatura inerente lo sfruttamento di registrazioni e master deturpati ai fini delle necessità del supporto digitale per riportarlo in analogico, e ancora più delle mode oggi in auge, va da sé che si ottengano risultati peggio che mediocri.

Dunque, non è il digitale in sé che penalizza l’analogico, rispetto al quale non dobbiamo cadere nella tentazione di applicare le forzature eseguite a favore del CD, attribuendogli una perfezione che non è e non è mai esistita, ma sono invece le consuetudini invalse in seguito al dominio assoluto del formato a codifica binaria.

In sostanza, allora, è questione di metodi e soprattutto di manico.

L’ascolto di una copia di “Eight Times Up” disco sulla cui copertina la scritta “Digital Recording” campeggia in forma particolarmente vistosa, è illuminante a questo proposito. Come lo è quello di “Times Like These” o di “Cool Nights” di Gary Burton o di tanti altri dischi editi nella fase finale dell’analogico e prodotti a partire da registrazioni e master digitali.  Anche se gli ultimi due non sono stati stampati in Giappone, almeno nella loro edizione originale.

Oggi però la superficialità dilaga, così come l’appiattimento ad essa. Troppe persone non sono più disponibili a qualsiasi analisi vada oltre i suoi limiti. Pertanto si è diffusa la leggenda metropolitana che solo quanto possa vantare la più assoluta purezza di pedigree analogico possa suonare decentemente su supporto vinilico.

Si tratta appunto di una solenne fesseria. Anche il ripeterla a oltranza, come oggi si vede fare, non cambierà di un millimetro la siituazione.

Come abbiamo detto, basterebbe veramente poco per sincerarsi che le cose stanno in ben altro modo. Giusto il denaro necessario ad acquistare una copia degli album menzionati. Ovviamente però ci si guarda bene dal farlo, dato che non ha senso impegnarsi sia pure per quel poco necessario, solo al fine di assicurarsi di aver detto un’emerita corbelleria. Ponendosi poi di fronte al dilemma del dire le cose come stanno e per conseguenza mettersi contro la tesi dominante, che malgrado sia falsa è ben più comodo e redditizio assecondare.

Da li potrebbe derivare un caso di coscienza. Cosa scegliere, l’emarginazione riservata a chiunque osi contraddire il Verbo o la consapevolezza di essere un burattino, nel momento in cui si comprende che per fare una vita più comoda è meglio seguire la corrente?

Meglio allora non porsi neppure determinati quesiti, evitando di entrare in terreni scivolosi, relegando la consapevolezza di un atto simile in un angolino remoto della propria coscienza, da dove prima o poi finirà per scomparire.

Tra l’altro sarebbe interessante verificare quanto corrispondano al vero le dichiarazioni di purezza analogica assoluta riguardo a tante riedizioni attuali. Potendo, sono convinto che molte di esse, insieme alle loro etichette discografiche, ne uscirebbero con la reputazione devastata. Proprio perché è sufficiente fare le cose a modo per avere un vinile che suoni come si deve. E anche un digitale se è per questo, sia pure partendo da registrazioni e master analogici.

Proprio la discografia giappponese, lo diciamo ancora una volta nella speranza che entri finalmente in testa a chi di dovere, è stata pioniera nell’ìmpiego delle tecniche digitali volte alla produzione di dischi analogici. I quali suonano tutti, nessuno escluso, in maniera impeccabile e a volte persino inimmaginabile.

Forse, allora, prima di lanciarsi in determinate asserzioni, sarebbe il caso di costruirsi una cultura al riguardo. Anche perché poi le persone che solo per motivi anagrafici non possono sapere certe cose, alle castronerie di quanti si mettono in cattedra a pontificare ma senza averne le capacità, ci credono. Soprattutto i giovani ma non solo loro.

 

Inediti di lusso

Tornando agli LP mai stampati sul mercato occidentale, facciamo qualche altro esempio d’eccellenza.

Il primo è quello di “Twins I” e “Twins II”, doppio LP di Jaco Pastorius commercializzato su edizioni singole e registrato con la sua “Word Of Mouth Big Band” durante la tournée giapponese che seguì la sua dipartita da Weather Report.

Vera e propria rarità all’epoca, è rimasto anch’esso inedito sui mercati occidentali per decenni. Credo anzi che sia inedito tuttora. Ne circolano infatti delle copie, anch’esse riedite su CD dopo un gran numero di anni, sempre di etichetta giapponese.

La sua popolarità, che come sempre in questi casi assume i contorni della leggenda, fu tale che a un certo punto, ben quindici anni dopo la sua uscita, venne pubblicato un CD, “The Birthday Concert”, ricavato dalle registrazioni relative al concerto tenuto dalla stessa banda in occasione del compleanno di Pastorius.

Tuttavia, malgrado i pezzi compresi nel CD siano quasi gli stessi, e l’occasione fosse senz’altro propizia, col disco giapponese non c’è proprio paragone. Ancora una volta a causa della tensione dell’esecuzione, nell’esposizione dei temi e negli assolo, e per conseguenza della qualità complessiva propria delle esecuzioni.

“The Birthday Concert” di fatto è solo una pallida imitazione di “Twins I” e “Twins II”, probabilmente tirata fuori dagli archivi proprio per soddisfare la richiesta inevasa per il doppio giapponese.

Forse i musicisti, quando si trovano in Giappone, suonano sistematicamente meglio che altrove? Dipende forse dall’aria che si respira o dai panorami che si osservano? Magari dal fuso orario e dallo scompenso che ne deriva, secondo una coniugazione in termini musicali dei contenuti del film “Lost In Translation”?

Personalmente non saprei: di sicuro il pubblico giapponese è tra i più entusiasti al mondo, un po’ per qualsiasi genere musicale. E’ possibile quindi che il suo supporto spinga chi si trova sul palco a dare di più o proprio tutto quel che ha. Difficile quantificare materialmente la differenza, fatto sta che i dischi giapponesi registrati dal vivo hanno di solito qualcosa di generalmente irreperibile in quelli registrati altrove.

Come tali catturano proprio l’essenza dell’esecuzione dal vivo, che riascoltata produce una sensazione vicina a quella che si avrebbe essendo presenti di persona all’evento e nello stesso tempo il rammarico non averne avuto la possibilità. E’ una sensazione strana, che non mi riesce di descrivere meglio, ma che personamente ho provato molte volte.

A volte poi il paragone con altre riprese dal vivo è addirittura impietoso, come nel caso menzionato prima tra “Eight Times Up” e “Last Nite” di Larry Carlton.

Senza aver mai ascoltato il giapponese, quello americano potrebbe essere valutato come un disco dal vivo impeccabile, ma se per caso se n’è avuta la possibilità, la differenza è tale che del secondo se ne fa volentieri a meno. O meglio, lo si dimentica proprio.

Un altro esempio d’eccellenza è quello degli Steps, gruppo che ha costituito la punta di diamante del jazz moderno nel corso degli anni ottanta e ha rappresentato uno tra i rari squarci di fulgore in un decennio da dimenticare, non solo per quel che riguarda il settore musicale.

Diversamente dalle consuetudini di questo genere musicale, il gruppo è rimasto a lungo legato a sonorità quasi del tutto acustiche. Addirittura ai suoi componenti fu fatto firmare un contratto che li impegnava a registrare dischi soltanto per il mercato giapponese.

Quale fosse la motivazione di una riserva del genere non saprei dirlo, ma questo è stato. Così i loro primi tre album, i più belli, sono stati stampati esclusivamente in Giappone. Si tratta di “Smokin’ In The Pit”, doppio dal vivo, “Step By Step” e “Paradox”. Il titolo di quest’ultimo, forse il più raro dei tre, lo si deve probabilmente al fatto che è stato registrato dal vivo in America, precisamente nel locale di propretà dei fratelli Brecker, ma la sua pubblicazione è avvenuta esclusivamente sul mercato giapponese.

Così, per poter pubblicare dischi anche in occidente, gli Steps dovettero cambiare nome, almeno ufficialmente, mutandolo in “Steps Ahead”, che è anche il titolo del loro primo album per il resto del mondo, oltreché l’unico paragonabile per qualità artistica e cifra stilistica ai precedenti.

In seguito gli Steps Ahead sarebbero andati non verso l’elettrificazione per tanti versi consueta, ma proprio verso un elettronificazione forsennata, che li avrebbe portati già dall’album successivo, il cui titolo è emblematico al riguardo, “Modern Times” a stravolgere le loro sonorità, penalizzando così anche le loro composizioni ed esecuzioni. Per poi arrivare addirittura a brani dei quali l’ossatura portante era rappresentata da sequenze automatizzate mediante la famigerata interfaccia MIDI. Di fatto una sorta di karaoke strumentale, come accennato da Diego Spano nel testo del suo ultimo articolo pubblicato.

Ennesima riconferma dell’impazzimento di massa che è stato il vero e solo denominatore comune di quel decennio scriteriato, in cui si costruirono batterie elettroniche da suonare a mano e non per caso ha avuto inizio l’offensiva ademocratica che ha portato la società umana alle condizioni attuali.

Come ho avuto modo di verificare di persona, durante un concerto cui ho assistito, la midizzazione delle esecuzioni degli Steps Ahead, nella formazione che potremmo definire della terza ora, con Bendik al sassofono e Jimi Tunnel alla chitarra, arrivò a un punto tale che in caso di malfunzionamento del dispositivo non erano più nemmeno in grado di eseguire i loro brani. Infatti durante quel concerto partirono con un brano che dovettero interrompere, tentando poi di riprenderlo ma senza esito, proprio perché la base Midi non ne voleva sapere di funzionare a dovere. Pazzesco.

Nell’iniziale passaggio da Steps a Steps Ahead era avvenuto anche un cambiamento d’organico, il primo dei tanti che poi avrebbero visto il gruppo perdere tutti i suoi componenti d’origine, tranne il vibrafonista Mike Mainieri. Il pianista e tastierista originario, Don Grolnick, vero idolo segreto e modello di tanti tastieristi jazz dell’era moderna, uscì dalla formazione sostituito prima da Eliane Elias, al tempo moglie del trombettista  Randy Brecker, che a sua volta era il fratello del sassofonista Michael, colonna portante degli Steps, e poi in pianta stabile da Warren Bernhardt, altro grandissimo della tastiera e anch’egli in gran credito di riconoscimento.

 

Perché l’LP giapponese

Dopo questa chiaccherata arriviamo al dunque: oggi l’LP stampato in Giappone, anche usato, è quanto di meglio l’appassionato possa reperire, sia a livello artistico che in termini di qualità sonora, per apprezzare le prerogative della riproduzione da supporto analogico. Sul mercato dell’usato se ne trova ancora in grande quantità e a costi un po’ maggiori, ma non sempre rispetto al prodotto più diffuso, che vale senz’altro la pena affrontare.

In confronto alla porcheria stampata oggi su vinile dalle major o peggio dalle compagnie editoriali, poi, non c’è proprio paragone. Le fonti migliori si trovano ovviamente in Giappone e anche se c’è da aspettare un po’ di più per la consegna da parte dei servizi postali è tempo ben speso.

Personalmente ho acquistato diversi LP giapponesi usati, anche se in numero minore rispetto a quelli che a suo tempo presi da nuovi. Devo dire che le loro condizioni sono sempre state più che soddisfacenti, per quanto mi sia rivolto sempre a gradazioni che fossero almeno Exc, sigla che sta per Excellent.

Insomma, anche per quel che riguarda l’accuratezza della conservazione del materiale venduto, credo di poter dire che la fonte giapponese oltrepassa agevomente la norma. Si tratta di un aspetto che preoccupa molti e li tiene lontani dal mercato dell’usato. Invece, per quanto mi riguarda, etichette specializzate a parte è l’unica fonte presso cui oggi valga la pena rifornirsi di materiale analogico.

Poi, che ci sia l’obi o meno non credo abbia molta importanza. Dato che l’elemento utilitaristico ha in questa sede importanza maggiore rispetto alle necessità del collezionista propriamente detto. Anzi, se non c’è e si può risparmiare qualcosa, per molti può essere un incentivo ulteriore.

Che i giapponesi siano persone spesso molto attente alla qualità del prodotto è cosa ben nota. Tra l’altro proprio da loro è stata sperimentata la realizzazione di LP registrati in diretta, ossia dal microfono al vinile, senza passare per le consuete operazioni di registrazione su nastro, rimissaggio e mastering, dando luogo ai Direct Disk di JVC dei quali ci siamo occupati già in passato.

Già questo spiega molte cose. Più in generale si tratta di un prodotto di qualità eccellente, curato sotto ogni punto di vista e in particolare quello artistico. Oltretutto con un’apertura di orizzonti e di mentalità neppure concepibili per il gretto uomo d’affari occidentale.

Un esempio è dato dalla ristampa, a suo tempo, di tutto il catalogo del rock progressivo italiano, anche dei titoli che qui da noi non hanno trovato l’accoglienza dovuta, stante il numero assai esiguo di copie stampate. Questo in un periodo in cui i discografici italiani spingevano Sabrina Salerno, i Righeira e le compilation Bimbomix, inzeppate dell’immondizia peggiore.

Per conseguenza, se i titoli di questo sottogenere, oggi forse sovrastimato in diversi casi, sono reperibili in una forma poco o nulla dissimile dall’originale, lo si deve proprio alle stampe giapponesi. In quanto le ristampe che circolano da noi sono state realizzate a partire da materiale digitalizzato malamente e senza alcuna cura o rispetto per le prerogative dell’opera nella sua originalità.

Alle stampe giapponesi del prog italiano sono seguite quelle coreane, realizzate dall’etichetta Si-Wan, che sembra fosse condotta da un grande appassionato del genere, al punto di decidere di ristamparne tutto il catalogo o quasi. Le stampe coreane non sono altrettanto valide, ma in molti casi tuttaltro che disprezzabili. Hanno comunque permesso di accedere a determinate opere in edizione analogica senza dover sottostare ai prezzi folli prodotti dalla speculazione collezionistica degli originali realizzati in Italia e neppure alla digitalizzazione fatta coi piedi tipica delle ristampe oggi in circolazione.

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4 thoughts on “L’obi dell’analogico

  1. Ciao Claudio, sono ancora Innocenzo Alfano (al terzo commento in pochi giorni, e un po’ più lungo degli altri due…). Questa volta mi sono dedicato alle tue considerazioni sugli lp giapponesi, che mi hanno dato ancora una volta lo spunto per dire qualcosa. La prima riflessione riguarda i famosi “obi”, cioè le fascette che si trovano sugli lp e sui cd di produzione nipponica, e che per qualche motivo in Europa hanno ormai raggiunto lo status di oggetti da collezione. Anche a me non è mai risultata chiarissima la ragione per cui siano così ambiti dai collezionisti, trattandosi di semplici strati di carta con informazioni per lo più superflue rispetto ai dischi ai quali sono abbinati. A casa ho un unico lp con la fascetta “obi”: una ristampa degli anni ’80 di “Projections” dei Blues Project, pubblicato per la prima volta – dalla Verve Folkways – nel 1966. Acquistai l’lp ad una Fiera del disco in Toscana una quindicina d’anni fa, e stavo quasi per buttar via la fascetta poiché, appunto, mi sembrava che contenesse informazioni non essenziali (oltretutto in giapponese!) e in più, e forse soprattutto, copriva una parte non piccola della copertina, sia sul fronte che sul retro. Poi ho deciso di lasciarla dov’era, in quanto unico esemplare di long playing in mio possesso con quella particolarità; una specie di curiosità storica… Se però provo a mettermi nei panni di un collezionista, e ad entrare nella sua testa, il suo ragionamento sarebbe probabilmente il seguente: l’edizione originale giapponese del disco tal dei tali è uscita con la copertina apribile, una busta interna bianca da un lato e nera dall’altro, un foglio pieghevole con i testi (in giapponese e inglese), un inserto pubblicitario, un poster gigante e la fascetta “obi”, quindi la copia da collezionare dovrà avere, “a qualunque costo”, tutte queste caratteristiche. Il discorso, in effetti, non farebbe una piega. Una cosa che non mi piace dei collezionisti di dischi, soprattutto di dischi rock, è che spesso sono molto più interessati al colore delle etichette e ai codici alfanumerici stampati sul vinile che non alla musica in sé. Sovente non collezionano, cioè, opere musicali, bensì numeri ed etichette di carta più o meno colorata.
    Per quanto riguarda invece la qualità sonora degli lp giapponesi, anche in questo caso posso fare un esempio, che avvalora la tua tesi sulla eccellenza dei dischi prodotti in Giappone. Il secondo ed ultimo lp “made in Japan” della mia collezione di dischi in vinile, acquistato un po’ casualmente nei primi anni del nuovo millennio, si intitola “Latin Percussion”, di Y. Segami & Exciting Company (Denon Stereo SX-7003). Il disco è prodotto dalla Nippon Columbia e reca la data ’77-1. Sulla prima pagina dell’inserto apribile in tre parti vi è questa avvertenza: “From analog to DIGITAL. Now entering a new century of sound with PCM recording”. Aprendo l’inserto si notano un paio di schede tecniche – in inglese – sul sistema di registrazione DENON / PCM [Digital] RECORDING e l’indicazione di vari lp di musica classica, jazz, popular (colonne sonore e world music) e traditional (musica giapponese) realizzati con questo procedimento. Bene, al di là di ciò, quello che vorrei dire è che l’lp in questione è di gran lunga il migliore, per qualità audio, tra i dischi presenti nella mia collezione, che comprende titoli appartenenti a numerosi generi musicali stampati, a partire dagli anni ’60, in vari paesi del mondo. L’impressione che fosse superiore, sotto ogni punto di vista, a qualunque altro mio disco, la ebbi già la prima volta che lo feci girare sul piatto, ed è un’impressione che, a distanza di molti anni e con la collezione che nel frattempo si è ampliata, non è cambiata di una virgola. Può anche essere che si tratti di un caso, non potendo io fare altri confronti (se non con “Projections”), tuttavia la sensazione, piuttosto forte, è che non lo sia affatto.

    Cordiali saluti.

    1. A suo tempo tolsi gli obi da alcuni LP di stampa giapponese, poiché mi davano fastidio nella consultazione delle copertine. Li ho messi da parte ma purtroppo sul posto sono arrivate mani che non dovevano e le preziose fascette hanno fatto una brutta fine.
      La qualità sonora delle stampe giapponesi è di solito superiore a quella delle occidentali, a volte di parecchio, e questo vale anche per i dischi Denon PCM. Il tuo commento andrebbe fatto leggere agli analogisti di fresca data, convinti che il vinile ricavato da registrazioni o master digitali sia sinonimo di sonorità discutibili. Questo vale senz’altro per molte riedizioni attuali ma non per quelle d’epoca.
      Alla prossima.

  2. Buongiorno Claudio e grazie per i tuoi articoli sempre interessanti e stimolanti per noi che amiamo la buona musica , di qualità , sotto il profilo appunto , dell’incisione. Dal canto mio mi sono subito messo all’opera e ho reperito a Berlino una copia “Japan” di Eight times up , VG + senza Obi ma alla stratosferica cifra di… 10€!! Ho aggiunto LP di Al Di Meola ( Elegant gypsy, 17 € VG+) e sono in attesa che arrivino a casa.
    Steps by steps invece per 25€ con tanto di Obi ,l’ho trovato in Italia LP- NM e già in arrivò anche quello! Sto “lavorando” per reperire gli altri due degli Steps .. grazie ancora , a presto.

    1. Ciao Viscardo, ben tornato.
      Grazie a te per la testimonianza.
      Hai scelto tutti bei dischi, almeno per quanto mi riguarda, a costi tuttaltro che impossibili.
      Ulteriore dimostrazione che ascoltare un analogico come si deve è possibile, tantopiù andando sull’usato.
      Buona caccia per i dischi che ti mancano, anch’essi di grande spessore artistico prima ancora che a livello di registrazione e stampa.

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