La Trimurti dell’hi-fi nazionale

Gironzolando per la rete come facciamo un po’ tutti, tempo fa mi è capitata sotto gli occhi un’immagine della Trimurti. Di solito non mi soffermo più di tanto sulle immagini di quel genere, ma senza che ne capissi il motivo, almeno in un primo momento, forse per istinto ho indugiato osservandola nei particolari.

Li per li non mi è sembrato ci fosse nulla di così interessante, a parte forse lo stile tipico e ben riconoscibile delle immagini venerate nel subcontinente indiano. Come a suggerire la profonda diversità nel modo con cui i popoli che vivono laggiù si rapportano non solo con le cose sacre ma con tutto il resto rispetto al nostro.

C’era qualcosa che sembrava volermi suggerire dell’altro. Sarà la forza delle immagini sacre, ho pensato, anche se non avevo mai notato questa capacità prima di allora, al di là dell’appartenenza a una religione tanto diversa da quella praticata qui da noi, nella quale oltretutto stento a riconoscermi e da alcuni anni ha assunto un ruolo ancora più ambiguo, per non dire altro.

Poi sono riuscito a mettere a fuoco sempre meglio e così ha iniziato a saltar fuori una serie di similitudini curiose. Come i tasselli di un puzzle, che all’inizio sembrano solo un mucchio di cartoncini che non hanno nulla a che vedere l’uno con l’altro,  ma poi man mano che li s’incastra vanno a presentare una loro fisionomia, sempre più riconoscibile.

Vediamo innanzitutto di cosa stiamo parlando: Trimurti è la triade divina post-vedica alla sommità della religione induista, di cui indica i principali aspetti ultraterreni nella forma di tre archetipi.

Brahma, Vishnu e Shiva sono concepiti anche come una singola divinità, rappresentata da una figura composita a tre volti. Secondo la fede, queste figure sono aspetti differenti dello stesso dio, in modo riconducibile a quel che avviene nella religione cristiana o alle triadi di molte divinità indoeuropee. Come Odino, Thor e Freyr; Giove, Giunone e Minerva e così via.

Per coincidenza, anche alla sommità dell’hi-fi nazionale, e non a caso c’è chi ne ha fatto una specie di religione, fin dalla notte dei tempi si è posta una triade.

Putroppo le sue divinità hanno nomi non altrettanto suggestivi, ma si fa quel che si può. Vediamoli in ordine di anzianità: Stono, Laido Deppiù e Fissità del Sonno.

Sembrano sempre sul punto di passare a miglior vita, ma poi si reincarnano miracolosamente o risorgono, a seconda delle preferenze di ognuno e delle convenienze del momento, in seconde e terze vite che trovano l’efficacia migliore nell’issare a rinnovato perfezionamento quanto di peggio erano riuscite a combinare in quelle precedenti.

Sprofondando quindi nel sacro Gange effigie del liquame di cui sono costituiti insieme i loro peccati e l’ambiente vitale in cui prosperano, corso d’acqua fetida presso cui si recano in devoto pellegrinaggio, per bagnarsi, abbeverarsi e trarne benedizione frotte di fedeli, in una sorta di rituale liberatorio.

In particolare dalla possibilità di pervenire in qualche modo che non sia puramente fortuito o accidentale al compimento delle loro aspirazioni.

Così come quelle della divinità orientale, anche le entità della trimurti nostrana sono intimamente legate le une alle altre, al pari dei rispettivi creatori. Nel loro insieme sono assimilabili a una sorta di Pantheon, sia pure alquanto sui generis. Una cupola, via, che in quanto tale ed essendo formata da tre elementi primari, si rifà al concetto di triade. Non così dissimile da quella cinese, organizzazione nota per le sue attitudini che non riguardano esattamente la beneficenza.

La trimurti di nostro interesse, invece, di beneficenza ne ha fatta tanta, sia pure di una tipologia alquanto particolare ed estranea alla tradizione della carità cristiana: quella che va a favore esclusivo di sé stessi.

Ulteriore simbolo della trimurti è ovviamente il triangolo, inteso proprio quale allegoria massonica di assunzione, esercizio e spartizione del potere che si vorrebbe assoluto e a lungo lo è stato. La sola differenza è che al posto dell’occhio onnivedente posto al suo interno c’è un orecchio, purtroppo affetto da ipoacusìa irreversibile.

Destino segnato in partenza, d’altronde, nel momento stesso in cui si vanno a seguire i comandamenti dettati dalla divinità una e trina, che ha conformato il nostro settore a sua immagine e somiglianza.

Il creatore della più anziana in seguito ha dato vita alla più giovane delle tre, mentre quello della rimanente proprio nella prima ha trovato la sua affermazione iniziale, per quanto discutibile nel merito e ancor più nei metodi. Gli stessi utilizzati in seguito per portare la divinità di cui è stato artefice a dominare materialmente sulle altre due e far loro insieme da modello e da obiettivo, di accaparramento. Il destino beffardo però ha fatto in modo che proprio questa si accaparrasse il loro personale officiante. Che infatti, proprio in quanto tale, per attitudine congenita è sempre pronto a vendersi all’offerente migliore. Almeno in apparenza.

La divinità un tempo dominatrice è posizionata al centro dell’immagine, a cavallo di una tigre. Rappresentazione materiale delle pratiche border line prive di ogni scrupolo con cui è stata condotta attraverso le sue innumerevoli peripezie. Hanno avuto origine in un colpo di mano, poi dipanatosi lungo una sequela infinita di baruffe societarie, provocazioni, vendette, liquidazioni, fallimenti, passaggi di mano e teste di legno.

E’ dotata di una moltitudine di braccia, in numero doppio rispetto alle altre due. Simbolo della superiore e inarrivabile capacità di arraffare, da ogni dove e senza remore, singolari quantità di risorse, di qualunque tipologia esse siano. Che poi ha provveduto a dilapidare nei modi più inverosimili e demenziali, pur di non redistribuirle secondo una qualsiasi logica non dico di equità, principio del tutto estraneo a certe altezze, ma almeno di convenienza.

Ai suoi piedi c’è un pavone, raffigurazione che meglio di ogni altra riassume l’indole del creatore di quella che fu la più potente tra le tre divinità: animale da cortile particolarmente aggressivo dalla tendenza innata al predominio, del cortile stesso, ovviamente, sempre pronto a fare la ruota: simbolo di narcisismo e strumento atto a confondere e ingannare qualsiasi essere vivente da cui ritenga sia possibile trarre un interesse.

Nell’immagine il pavone non guarda alla divinità di cui è stato artefice, ha ripudiato, ripreso e infine abbandonato una seconda volta, ma a quella in cui si è formato. Forse per la nostalgia dei bei tempi andati, che furono la rampa di lancio di un’opinabile carriera.

Delle tre è la prima, quella che deve il suo nome proprio ai rumori sconnessi e privi di relazione reciproca alcuna, prodotti dalla specialità da essa propagandata secondo le metodiche fallaci con cui l’ha intesa. Il sitar che tiene tra le mani è lo strumento musicale simboleggiante l’origine materiale del settore in cui la Trimurti imperversa, devastato con singolare assenza di scrupoli, a scopo di profitto, visibilità e affermazione individuale. Ecco perché nelle altre due mani ha un monile e quello che ha tutta l’aria di essere un lingotto, raffigurazioni degli scopi fondamentali delle divinità  nel loro insieme, che proprio a tal fine trovano il significato ultimo della reciproca unità.

La terza, più giovane, porge dei fiori di loto, ovvero dell’oblio da cui deriva appunto il sonno, nella fissità della condizione immutabile di tutto il settore. Eterno presente che le stesse divinità hanno fatto tutto quanto nelle loro capacità ultraterrene per condurre e poi mantenere in uno stato di crisi e letargìa senza ritorno.

Come abbiamo visto prima, le entità che formano la Trimurti nostrana sono al tempo stesso tre e una. Quest’ultima rappresenta nel modo più efficace l’uniformità di metodi, d’intenti e di obiettivi che perseguono, sia pure sotto forme diverse. Ma solo in apparenza.

Unico dunque è il loro fine: trasmettere, o meglio conculcare nei fedeli il verbo del culto trascendentale, non sotto forma di tavole scolpite nella pietra ma di pagine della carta più economica possibile, i cui contenuti in perenne scadimento assumono ugualmente il valore di leggi divine e immutabili.

Nulla può esistere di ciò che in esse non sia stato scritto. Chiunque osi abbandonarsi a pratiche difformi si macchia di conseguenza  del peccato di eresia. Va pertanto immolato su una pira ardente come Giordano Bruno, a esecuzione del verdetto emanato dal tribunale dell’inquisizione, strumento al servizio dei sommi sacerdoti che della Trimurti si sono arrogati l’amministrazione del culto. Guardiani dell’ortodossia fondata sull’atto di fede eterna nei confronti della piattezza della Terra e quindi dei suoni, ma soprattutto della sua assoluta e invariabile centralità nei confronti dell’universo tutto.

Quel dogma di anacronismo tolemaico è, è sempre stato e sempre sarà il perno su cui ruota lo scientismo con cui la casta cardinalizia della Trimurti intende spacciare il proprio credo para-religioso come pensiero scientifico, del quale non è altro che il cascame. In quanto tale viene utilizzato da costoro nella stessa identica maniera con cui un cavernicolo brandisce la sua clava, secondo la più primitiva e ancestrale delle forme di violenza e sopraffazione.

Nei suoi confronti, chiunque abbia il proprio riferimento nella laicità del pensiero, dell’azione e dell’osservazione di ciò che lo circonda non può che porsi mediante l’utilizzo del dispositivo che più di ogni altro distingue l’uomo moderno e le abitudini cui è pervenuto mediante l’impiego del raziocinio donatogli da Madre Natura: lo sciacquone.

Per il suo tramite, col semplice gesto che consiste nel premere un pulsante o tirare una catena, può liberarsi all’istante e senza rimpianti del retaggio anacronistico in cui la religione della Trimurti e soprattutto il suo clero tirannico e assolutista vorrebbero tenerlo avvinto. O meglio bloccato in una tanatosi come quella causata nelle sue vittime dall’ophiocordyceps unilateralis, nomen omen, parassita fungino che da esse trae fino all’ultima stilla di linfa vitale e riesce a sfruttare persino da morte, per passare più agevolmente alla vittima successiva.

Quale alternativa all’essere bruciato vivo, il reo di apostasia ha l’essere cacciato per l’eternità dall’empireo delle sonorità paradisiache, individuabili come tali solo in seguito all’assunzione di dosi improbabili del fiore di loto offerto dalla terza e più giovane divinità, nello stesso identico modo in cui Lucifero venne precipitato tra le fiamme dell’inferno dall’arcangelo Gabriele, armato della sua spada di fuoco.

Intesa naturalmente nella medesima accezione con cui la raffigura con gestualità piuttosto esplicita Mario Brega, nelle vesti del genitore impoegnato nel vano tentativo di riavvicinamento del film “Un Sacco Bello”.

Attenti allora, seguaci della Trimurti, a praticarne con osservanza la liturgia e soprattutto a non azzardarvi mai a volgere lo sguardo oltre il seminato che per voi è stato predisposto dai suoi ideatori e dagli amministratori del suo culto deviante, al fine di condurvi tutti quale gregge obbediente alla beatitudine.

Insignificante, al confronto, è l’obolo che allo scopo siete chiamati a versare con scadenze regolari per altari, idoli totemici, libri sacri e agnelli dal vello d’oro coi vu-meter dipinti di blu.

Cosa saranno mai poche decine di migliaia di euro sottratte al maggior benessere e alle prospettive future della vostra famiglia, grette miserie terrene in confronto alla simulazione infinita fatta di estasi artificiale e falso appagamento che la Trimurti si è adoperata a creare e tenere in piedi soltanto per voi?

 

 

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