Da appassionato di musica prima ancora che di riproduzione sonora, ho sempre ritenuto la seconda una mera conseguenza della prima: in assenza di musica la riproduzione serve a poco.
Certo, anche nel silenzio quei frontali tirati a lucido, gl’imponenti blocchi di massello con finitura a pianoforte, l’aspetto monumentale della produzione di costo maggiore – a qual fine? – colpiscono l’occhio e l’immaginazione dell’osservatore, malgrado il senso dell’udito rimanga a riposo. Trovano così una loro giustificazione che va oltre la fruizione dell’evento musicale, cui personalmente non sono interessato e ritengo oltretutto propedeutica a quella sorta di feticismo che va diffondendosi.
Si può immaginare d’altronde che chi ha quale primo scopo quello di vendere, non sia più interessato di tanto riguardo ai motivi concreti in funzione dei quali riesce a piazzare il suo prodotto. E se un bel giorno qualche genio del reparto vendite scoprisse che posizionare una banana al centro del frontale o sopra il coperchio è d’aiuto, con ogni probabilità si proverebbe a metterci vicino anche una melanzana, dei fichi d’india o un bel trionfo di frutta esotica.
Proprio perché nell’ambito di nostro interesse con ostinazione d’altri tempi insisto ad anteporre il senso dell’udito a quello della vista, e di gran lunga, la registrazione dal vivo ha sempre esercitato su di me una forte attrattiva: da un lato è interessante e soprattutto istruttivo poter riascoltare in separata sede eventi di cui si è stati spettatori, inoltre permette di vivere il rapporto con la riproduzione musicale in maniera molto meno passiva.
C’è anche un terzo elemento, che in determinate condizioni finisce con l’assumere un’importanza almeno pari agli altri due: quando si è messo insieme un minimo di esperienza in quest’ambito, ci si accorge che ha avuto un ruolo fondamentale per l’educazione dell’udito e nel raffinare sempre più la capacità di cogliere l’evento musicale, eseguito per l’occasione o riprodotto che sia, nella sua interezza, anche per quegli elementi che possono non essere percepiti altrimenti o almeno non con altrettanta facilità.
Lo si deve da un lato all’assidua frequentazione di concerti e dall’altro alle necessità conseguenti il portare a casa una registrazione ascoltabile, il che significa innanzitutto riuscire a far stare la dinamica delle esibizioni dal vivo nell’intervallo concesso dal mezzo di ripresa, cosa tuttaltro che facile.
Infine malgrado le sue difficoltà e le peripezie cui si può andare incontro, o forse proprio per quello, registrare è divertente. Dà oltretutto la possibilità di costruirsi una raccolta fatta di veri e propri pezzi unici, dei quali è raccomandabile o meglio doveroso fare un uso strettamente personale.
Da tempo avevo intenzione di pubblicare un articolo riguardante questi microfoni, tra i più indicati e diffusi per la registrazione dal vivo amatoriale, date le loro caratteristiche e il costo contenuto. Lo faccio ora, anche in funzione di auspicio affinché si possa tornare al più presto ad avere la possibilità di utilizzarli non solo in privato, ma anche nelle occasioni appropriate. In primo luogo concerti, che in quanto fonte di assembramento sono vietati fino a data da destinarsi.
Inevitabile rilevare che altre occasioni non di assembramento ma di vera e propria ressa, oltretutto ben più frequenti e distribuite sul territorio, sono invece tollerate. Caso tipico quello di autobus e metropolitane. Ennesimo elemento di contraddizione nella gestione della crisi, che suscita ancora una volta il dubbio la si voglia ingigantire, prolungare ed estremizzare nelle sue conseguenze quanto più sia possibile.
Se è facile mettere al bando le iniziative culturali, tanto ci va di mezzo qualcun altro, non lo è altrettanto riorganizzare i servizi pubblici in modalità coerente con le necessità e le linee guida della cosiddetta pandemia, ai fini delle quali occorrerebbe impegnarsi in prima persona e destinare denaro che non sembra vi sia intenzione di spendere. Quindi resta solo da capire per quale motivo il vairuSS sarebbe oltremodo pericoloso se si fa musica o si recita da un palco, ma del tutto inoffensivo sui mezzi di trasporto pubblico o quando ci si trova seduti in un bar a bere un caffè.
Tuttavia quando le esibizioni pubbliche hanno il crisma dell’ufficialità, o meglio sono usate come strumento di propaganda, caso tipico quello del Festival di Sanremo, il vairus si ritrae e tutta la regione torna in zona gialla.
Per le feste comandate invece, Pasqua, Natale eccetera, occasione tipica d’incontro tra familiari, zii, nonni e amici che risiedono altrove, riacquista una forza spaventosa e tutt’Italia viene messa agli arresti domiciliari, che la legge impone possano essere comminati esclusivamente dal giudice, sulla base di una sentenza motivata.
A Natale ci hanno detto che si doveva restare chiusi in casa per salvare la stagione sciistica, ma poi il giorno prima della riapertura degl’impianti si è fatta marcia indietro. Ora, per Pasqua, si sta chiusi e basta. Poi si doveva riaprire subito dopo e invece il domicilio coatto di massa senza accusa né processo viene protratto a fine Aprile e poi chissà fin quando ancora.
Se prima era bastone e carota, anche se la promessa di quest’ultima è stata sistematicamente disattesa, ora è bastone e basta. D’altronde il popolo resta passivo, incentivando il (sotto)potere a inasprire le sue misure tiranniche.
I video delle occasioni ufficiali in cui i partecipanti s’imbavagliano solo al momento di scattare le foto di rito, quelle ufficiali, sono ormai di dominio comune, malgrado la censura ferrea a reti e testate unificate dei media di regime. L’apoteosi della presa in giro però credo si sia raggiunta qualche sera fa, durante la trasmissione di un concerto eseguito dall’Orchestra Sinfonica della Rai: gli orchestrali erano tutti imbavagliati, direttore compreso, tranne quelli che suonano gli strumenti a fiato.
Evidentemente loro devono essere esentati dalla malattia talmente letale che basta-un-metro-di-distanza-e-non-ci-fa-più-nulla.
Fino a quando gl’italiani si lasceranno prendere in giro in questo modo è un mistero della fede.

Forse la famosa resilienza significa proprio questo: accettare le panzane più inverosimili, ma devastanti per la vita e l’equilibrio psicofisico di tanta gente, per convincersi che si tratti della realtà e tutti siano in pericolo di vita imminente se non si sta chiusi in casa e non ci s’imbavaglia.
Pratica dall’evidente valenza repressiva e simbolica.
Con quel pretesto s’instaura una normativa monocratica, ossia stabilita da una sola persona che con una serie di stratagemmi si sottrae alla ratifica parlamentare, la cui formulazione è già di per sè gravata da numerosi elementi d’illegalità. Per quel tramite, e sulla base di motivazioni inesistenti come quella dello stato di emergenza, la cui proclamazione è limitata nelle cause, nei modi e nei tempi di mantenimento da una Costituzione della quale si è fatta carta straccia, si perviene all’abolizione di fatto delle libertà individuali primarie come il diritto al lavoro e alla libera circolazione, che le fonti giuridiche fondamentali stabiliscono siano inalienabili.
Il tutto sulla base di numeri taroccabili e taroccati a piacimento come quelli dell’indice RT. Lo si calcola sul rapporto tra numero dei tamponi positivi e posti letto disponibili. Quindi basta chiudere d’amblè tre o quattro ospedali per avere il valore desiderato. Solo nel Lazio di ospedali ne sono stati chiusi 16 nel corso degli ultimi anni, secondo un percorso a tappe forzate che oggi ci si chiede quanto sia ragionevole ritenere non sia stato preparatorio della realtà che siamo costretti a vivere.
Nel caso si siano già chiusi ospedali oltre ogni opportunità e ragionevolezza, basta moltiplicare il numero dei tamponi eseguiti su una popolazione che si è provveduto a terrorizzare e inebetire proprio affinchè vi si presti docilmente.
Si produce così l’indice RT più gradito e se lo si ritiene opportuno lo si manda alle stelle.
Se nel marzo 2020 per trovare un numero di casi in apparenza rilevante, ma in realtà trascurabile in percentuale alla popolazione del Paese, in base alla quale si calcola poi l’effettiva incidenza di una patologia, è stato necessario eseguire un numero di tamponi pari a poco meno del decuplo, nell’ottobre seguente il numero di tamponi necessario per procurarsi la stessa quantità di positivi, così da poter dire che il vairus era più attivo che mai e quindi vi fosse la cosiddetta seconda ondata, è stato di dieci volte tanto.
Quanto ai tamponi è ben noto che l’inventore della tecnica ad essi relativa, Kary Mullis, guardacaso scomparso all’improvviso pochi mesi prima dell’inizio della psicopandemia, abbia sempre messo in guardia rispetto alla sua totale inattendibilità come metodo diagnostico.
A questo proposito l’ECDC, ente europeo per il controllo e la prevenzione delle malattie, stabilisce in via ufficiale che il numero massimo di cicli di amplificazione del campione prelevato non possa superare il numero di 24, affinché l’esame possa avere una qualche attendibilità.
In Italia il numero di cicli di amplificazione applicato è dai 35 in su, fino a 45 e oltre, causando una percentuale di falsi positivi valutata oltre il 90% dei casi. Inoltre più tamponi positivi eseguiti su una stessa persona sono sempre stati considerati come nuovi casi. Evidentemente allo scopo di procurarsi numeri ritenuti necessari, che in altro modo non si sarebbero potuti reperire.
Insomma, ci si è inventati di tutto per gonfiare a dismisura i numeri coi quali eseguire il terrorismo mediatico che va avanti da più di un anno, devastando l’economia del paese e revocando l’ordinamento democratico. Il tutto nel sonno ininterrotto delle autorità di garanzia e della magistratura, malgrado l’obbligatorietà dell’azione penale sia tuttora in vigore, almeno sulla carta.
Un aspetto che trovo significativo, è che fino a qualche tempo fa, qualsiasi iniziativa volta a migliorare o solo a mantenere lo standard di qualità della vita della popolazione era data per impossibile, sempre per la stessa ragione: non c’erano i soldi. Motivo per cui si sono chiusi ospedali, ambulatori e guardie mediche.
Per i tamponi invece, che la cupola dell’industria farmaceutica tutto fa tranne regalare, problemi di soldi non ce ne sono mai stati e neppure la questione è mai stata sollevata da alcuno.
Tutti d’accordo, o solo ridotti a più miti consigli per tema dell’assalto mediatico di cui si sarebbe stati inevitabilmente fatti bersaglio?
D’altronde dinnanzi al profluvio di denaro, magico lubrificante di ogni ingranaggio, le remore si mettono a tacere.
Così può accadere che i somministratori di quei preparati si spaventino di fronte al numero crescente di rinunce che rischia di mettere fine al bengodi dei 40 euro l’ora, e nella chat room di medici e infermieri compaiano messaggi come quello che segue.

Ulteriore elemento di riflessione è che fino a qualche mese fa tutte le morti erano da covid, nessuna esclusa. Allo scopo sono emerse le direttive ufficiali per i medici legali chiamati alla constatazione dei decessi.
Anche quelle per incidente stradale, ictus, infarto o di vegliardi affetti da un numero rilevante di malattie pregresse o croniche. Oggi però è cambiato tutto: non c’è un evento che sia uno per cui venga mai non dico ammesso ma almeno ipotizzato il nesso causale del vaccino, malgrado il numero rilevante di persone in piena salute colpite dalle conseguenze di un preparato non sottoposto alla sperimentazione necessaria, per la quale servono molti anni, i cui fabbricanti hanno preteso di essere sollevati a ogni effetto dalle responsabilità conseguenti alla diffusione e somministrazione. Condizione di privilegio ottenuta con la più grande tempestività e senza discussione alcuna.
Non male come testacoda della logica.
E’ noto oltretutto, s’insegna al primo anno di specializzazione, che attuare una campagna vaccinale durante un’epidemia sia il mezzo migliore per rafforzare il virus di essa responsabile. Proprio perché lo si costringe a evolvere, mutando in una forma capace di resistere alle sostanze da cui viene attaccato.

Nell’impazienza di tornare a usarli nelle condizioni per le quali sono stati concepiti, rileviamo che i microfoni in esame non sono solo indicati per la registrazione amatoriale, ma sono anche tra quelli che hanno un retroterra storico tra i più consistenti. In particolare l’AKG, ormai sulla breccia da qualche decennio, mentre i Rode sono alquanto più recenti.
Sono entrati a far parte del mio corredo con lo scopo di migliorare le prerogative dei microfoni integrati nel registratore digitale portatile Tascam DR 40 di cui ci siamo occupati qualche tempo fa.
AKG C1000 S mk4
La serie mk4 è l’ultima in ordine di tempo del C1000 S, microfono che come abbiamo detto è incluso nel listino AKG da parecchio tempo. Il marchio austriaco fa parte ormai da qualche anno del gruppo Samsung e con ogni probabilità la versione denominata mk 4 è nata proprio per adeguare il progetto alla realtà attuale.
In origine il C1000 S era fabbricato in Austria, aveva un corpo esterno con finitura dorata e viaggiava all’interno di una lussuosa valigetta in alluminio. Alcuni esemplari disponevano di una cassettina in legno.
Il suo prezzo, nel momento in cui sono entrato per la prima volta in contatto con esso, era superiore alle ottocentomila Lire per il singolo esemplare. Questo nella seconda metà degli anni 1990, epoca in cui detta somma aveva un potere d’acquisto e le veniva attribuito comunemente un valore rispetto al quale i 400 euro del giorno d’oggi sono semplicemente improponibili.
Ho avuto modo di apprezzarlo, e parecchio, perché ne presi una coppia in prestito dalla redazione della rivista con cui collaboravo, ivi presenti per la realizzazione di uno speciale dedicato alla registrazione. La mia intenzione era di usarla insieme al DAT portatile Sony TCD D8 di cui disponevo all’epoca, per l’acquisto del quale mi ero letteralmente svenato.
Fu una specie di colpo di fulmine, dato che la differenza con il microfono Stereo Sennheiser MKE 44 che utilizzavo all’epoca, ed era costato anche lui un bel po’, oltre quattrocentomila Lire, era semplicemente abissale. Ricordo che mi permise di realizzare la registrazione di un coro formato da numerose cantanti, circa una quindicina, se non ricordo male, in maniera decisamente lusinghiera. Almeno per i miei parametri dell’epoca.
Laddove vi era la necessità di eseguire riprese in campo relativamente vicino, inoltre, il Sennheiser mostrava presto la corda in termini di tenuta alle pressioni sonore elevate, rendendo di fatto impossibile ottenere una registrazione pulita, mentre il C1000 S dimostrava sotto questo aspetto ben altra stoffa.
Diciamo che fu una specie di colpo di fulmine, per via del quale il C1000 S è sempre rimasto nella mia testa. Quindi nel momento in cui ho deciso di regalare al DR 40 una coppia di microfoni di qualità maggiore, per quanto anche quelli integrati nella macchina non siano disprezzabili, il primo impulso è stato quello di andare alla sua ricerca.
Per l’occasione ho avuto una delle pochissime sorprese positive riservatemi nel corso di tanti anni, data dal prezzo molto abbordabile a cui si può acquistare, nei dintorni dei 100 euro. Certo, la lussuosa valigetta in alluminio non c’è più, ora il C1000 S viene recapitato in una più consueta scatola di cartone, che essendo di dimensioni più che adeguate e imbottità in maniera molto generosa fa comunque il suo dovere, proteggendo il microfono nel modo necessario.

L’equipaggiamento comprende ora una borsetta in tessuto su cui campeggia una vistosa scritta AKG e, cosa più importante, il resto degli accessori che costituiva la dotazione dell’epoca.
A suo tempo il C1000 S era fabbricato in Austria, poi la produzione fu spostata in Polonia e oggi avviene in estremo oriente.
Immagino che questo sia un ingrediente essenziale del suo prezzo attuale, che ne fa uno dei microfoni dal rapporto qualità prezzo più elevato in assoluto. Tuttavia non gode di una buona stampa, o meglio di buoni commenti da parte degli utilizzatori nei forum di settore.
Inevitabile chiedersi se sarebbero dello stesso tenore qualora il prezzo di vendita fosse rimasto lo stesso di allora, riproporzionato al valore del denaro di oggi, domanda alla quale non può esserci risposta, anche se ritengo non sia troppo difficile da immaginare. Il pubblico interessato a questo tipo di prodotti, infatti, sembra non essere caratterizzato da inclinazioni così dissimili da quelle ben note, diffuse nell’ambito della riproduzione sonora amatoriale.
In particolare desta qualche preoccupazione l’origine attuale del prodotto, potenzialmente non all’altezza degli esemplari delle prime serie, fabbricati in Austria. Per questo motivo anche quelli molto vecchi mantengono quotazioni pari o addirittura superiori al prezzo d’acquisto attuale del microfono nuovo.
Caratteristiche e dotazione
Il C 1000 S mk4 è caratterizzato da un corpo particolarmente robusto verniciato in grigio scuro, tinta che lo rende decisamente meno vistoso rispetto alle prime serie. Il peso e le dimensioni del corpo sono ragguardevoli, come appare evidente anche dal confronto col Rode, insieme al quale è ritratto nella foto di apertura.
Tali caratteristiche ne riducono per ovvi motivi la praticità d’impiego nell’impiego che riguarda la registrazione dal vivo, anche se va spesa ancora qualche parola in merito alla sua robustezza, che ho potuto sperimentare di persona. Nella registrazione del coro di cui ho parlato in precedenza, uno di quelli che stavo utilizzando mi cadde dall’asta, quindi da un’altezza di almeno un metro e mezzo, impattando sul selciato. Fu un colpo particolarmente duro, dal quale uscì senza neppure una scalfittura.
Ingombro a parte, anche nella versione attuale il C 1000 S ha una serie di caratteristiche che lo rendono adatto per la registrazione dal vivo.
Prima fra tutte la possibilità di essere alimentato a batteria. Trattandosi di un microfono a condensatore, necessita appunto di una tensione per poter funzionare. In genere gli esemplari di questo tipo si avvalgono della cosiddetta alimentazione fantasma a 48V, che viaggia negli stessi conduttori di segnale ed è fornita dalle apparecchiature cui il microfono va collegato, preamplificatori o banchi di regia.
Nella registrazione amatoriale la disponibilità di un’alimentazione phantom è da dare tuttaltro che per scontata, quindi la possibilità di funzionamento autonomo del C 1000 S è una caratteristica degna di rilievo.
Anche se ormai è alquanto più diffusa rispetto a un tempo, ad esempio il Tascam DR 40 la fornisce per il tramite dei suoi ingressi XLR, Farne uso comporta un calo sensibile dell’autonomia di registrazione, dato l’inevitabile assorbimento che esercita sulle batterie presenti a bordo.
Rispetto alle prime serie, che utilizzavano una batteria da 9V, la versione mk4 del C1000 S ne usa due da 1,5V in formato AA. Le caratteristiche del microfono non sembrano averne sofferto ma se ne avvantaggia la reperibilità in situazioni d’emergenza, dato che una coppia di batterie stilo la si può trovare in pratica ovunque.
Proprio la necessità di alloggiare le batterie all’interno del corpo-microfono ne determina l’ingombro alquanto rilevante. Va tenuto presente inoltre che anche per il funzionamento con alimentazione fantasma, comunque possibile, le batterie devono essere al loro posto.
La griglia di protezione della capsula è decisamente robusta. Subito sotto si trova un anello argentato che dissimula le feritoie presenti sul corpo, mediante le quali è attribuita al microfono la sua caratteristica polare cardioide. Come tale privilegia la captazione delle onde provenienti dal davanti, con una contemporanea attenuazione di quel che arriva dai lati e sempe più verso il retro del microfono, mantenendo comunque le necessarie doti di panoramicità. Si tratta di una prerogativa parecchio utile nella registrazione di eventi aperti al pubblico, nella quale è preferibile evitare i modelli ominidirezionali.
Il microfono ha anche un interruttore di accensione, all’intervento sul quale s’illumina per qualche istante la spia rossa posizionata subito sopra di esso. La stessa spia lampeggia quando la tensione fornita dalle batterie diventa insufficiente.
Oltre all’usuale cuffia antivento e alla clip per il bloccaggio sull’asta, la dotazione del C1000 S comprende due inserti da applicare a incastro in cima alla capsula interna. Uno serve a modificare la curva di risposta, esaltando le frequenze nei dintorni dei 5 kHz, il secondo varia la caratteristica polare del microfono, trasformandola da cardioide come in origine a supercardioide.

In sostanza va a restringere l’angolo di ripresa del microfono, caratteristica utile quando si devono eseguire registrazioni in luoghi affollati e laddove aumenta la possibilità che rumori indesiderati vadano a disturbare la ripresa dell’esecuzione.
All’interno del corpo microfono ci sono poi due interruttori. Il primo riduce la sensibilità di 10 dB, incrementando ancora la già rimarchevole capacità di fronteggiare pressioni sonore particolarmente elevate, pari a 137 dB; il secondo attenua la gamma inferiore, sempre di 10 dB, permettendo un adattamento migliore alle riprese in campo vicino e riducendo la sensibilità a inneschi dell’effetto Larsen.
Si tratta insomma di un microfono dalla flessibilità considerevole, in grado di adattarsi a situazioni di ripresa ampiamente diversificate.
A un esame visivo la capsula interna non sembra aver subito modifiche rispetto alle prime versioni. E’ ancora di tipo dorato, sia nel guscio esterno che nella realizzazione interna, per meglio resistere alle insidie dell’utilizzo all’aperto, ed è montata su un supporto elastico che la pone meglio al riparo da disturbi meccanici.

Quella del C1000 S è una realizzazione impeccabile, rimasta di fatto immutata malgrado il calo del prezzo di vendita.
Rode NT 5
Rode è un marchio australiano che nel corso degli anni si è costuito una reputazione considerevole grazie alle qualità indubbie dei suoi prodotti.
L’NT 5 viene commercializzato in versione singola oppure “Matched Pair”, comprendente due esemplari dalle caratteristiche sonore il più possibile simili, dedicata alle registrazioni stereofoniche.

Le sue dimensioni molto contenute lo rendono adatto alle registrazioni dal vivo, a patto di di disporre di un’alimentazione fantasma, necessaria per il funzionamento della sua capsula a condensatore. La caratteristica polare è cardioide, ma è possibile innestare sul corpo microfono capsule dalla caratteristica diversa, da acquistare a parte.
Anche in questo caso siamo in presenza di un corpo dalla solidità particolare, resa ancora più spiccata dal diametro ridotto del corpo, abbinato a una spessore del metallo da cui è costituito decisamente ragguardevole. Nondimeno il peso è contenuto, appena superiore ai 100 grammi. La finitura metallizzata migliora l’aspetto dell’NT5, anche se rendendolo alquanto vistoso. E’ disponibile comunque una versione nera.
La tenuta alle pressioni sonore elevate è ancora superiore a quella del C 1000 S ed è pari a ben 143 dB.
La coppia abbinata di NT 5 viaggia all’interno di una valigetta piuttosto robusta, e ben imbottita, che comprende anche le clip per l’innesto sull’asta e le cuffie antivento.
L’impiego sul campo
Per la verifica delle loro caratteristiche, le due coppie di microfoni sono state collegate al mio Tascam DR 40, che tra le altre sue funzioni ha anche la possibilità di generare l’alimentazione fantasma necessaria per i Rode.
In realtà le coppie di microfoni erano 3, dato che per l’occasione c’erano anche due C1000 S prima serie, quelli prodotti in Austria e che costavano un bel po’ di soldi. Avendo avuto notizia della loro disponibilità, non ho esitato a farmeli prestare per metterli a confronto con gli esemplari più recenti, di produzione orientale.
Questo perché si ritiene che gli esemplari di una volta siano migliori, proprio per via delle loro origini. La prova a confronto sembrerebbe aver dimostrato che differenze tali da giustificare tale opinione non ve ne siano, almeno nelle condizioni in cui si è svolta.
I prima serie sembrano caratterizzati da una timbrica di un nonnulla più brillante, a danno però dell’equilibrio generale della sonorità e dell’aderenza del materiale registrato per il loro tramite con le sensazioni ricavate nell’ascolto dal vivo dell’esecuzione.
Quindi sembra che i dubbi siano dissipati e in caso d’incertezze quelli da scegliere siano i mk 4 e non i prima serie. Almeno se è l’attendibilità del timbro quel che si desidera. A questo proposito rileverei anche che potrebbe essere proprio l’assenza di particolarità timbriche spiccate il motivo della scarsa reputazione di cui il C1000 S gode presso il pubblico maggiormente interessato al professionale, che lo ritiene indicato soprattutto per l’impiego “overhead” nella ripresa della batteria.
Va tenuto presente comunque che la registrazione stereofonica dal vivo e la ripresa di singoli strumenti sono cose del tutto diverse. La prima necessita soprattutto di regolarità della risposta, viceversa nella registrazione di strumenti singoli un’impronta più spiccata attribuisce maggior carattere al segnale e quindi risulta più indicata per chi ha necessità di “fare il suono”, piuttosto che di fissarlo per quello che è.
In ogni caso, anche nella ripresa di strumenti singoli il C1000 S si dimostra affidabile e versatile. L’unica pecca che gli si può ascrivere è un’estensione e una potenza della gamma inferiore non da primato, ma per un microfono reperibile a meno di 100 euro, costruito oltretutto in maniera impeccabile e caratterizzato da grande robustezza, non si tratta solo di un peccato veniale ma è anche difficile fare di meglio.
Passando al Rode NT5, in un primo momento sembra che la differenza di prezzo, del 50% in più, dia ragione a quest’ultimo. Gli estremi banda godono entrambi di maggiore presenza, dando luogo a una sonorità dalle caratteristiche più spiccate.
Dopo l’euforia del primo momento, però, se si continua ad ascoltare ci si accorge che la sonorità dell’NT 5 ha una certa connotazione artificiale che definirei hi-fi. In alcuni passaggi diventa anche troppo evidente, in particolare sulla gamma alta. Più in generale si ha la sonorità tipica della risposta a sella, con le frequenze basse e quelle alte più in avanti rispetto alla gamma media, allineamento del quale non sono un grande estimatore.
Malgrado le registrazioni eseguite con il Rode dimostrino forse maggior carattere, personalmente ho finito con il preferire il C1000 S, soprattutto nel lungo termine. La maggiore uniformità del suo comportamento produce registrazioni più attendibili e meno improntate all’effettismo che è sicuramente di maggiore impatto sul primo momento, ma che alla lunga finiscono col peccare in termini di naturalezza.