Woodsound LBH 10, il diffusore più chiacchierato del decennio

Parlate di me, bene o male non importa, basta che ne parliate.

Ecco, questa potrebbe essere una chiave di lettura nei confronti del diffusore di cui andiamo a occuparci.

Il suo aspetto è molto simile a quello di un modello noto e apprezzato, frutto di quella che un tempo era definita scuola inglese ma ora non lo è più, per larga parte. Il suo costruttore infatti è entrato nell’orbita di uno dei più noti gruppi multinazionali operanti nel settore dell’elettronica che per forza di cose detta le sue regole e prospettive future.

A dire il vero, il diffusore cui rassomiglia tanto da vicino ormai è fuori listino, sostituito da un altro che non è dato sapere se ne rappresenti l’evoluzione o l’involuzione, ma che comunque ha il suo punto saliente nella conferma di un principio di cui ci siamo già occupati in passato. Come tale ci permette di comprendere cosa guidi realmente l’evoluzione tecnica, con ogni probabilità non solo in questo settore ma anche in diversi altri, e di come l’esigenza del progresso, concepito in un’ottica affaristica, quindi più come elemento di cosmetica e argomento di vendita piuttosto che in termini di spinta a una concreta evoluzione tecnica e prestazionale, domini i principi e le volontà in base ai quali si progetta e realizza un qualsiasi prodotto.

Dunque non di vero progresso si tratta, ma di mera spinta alla diversificazione, resa necessaria da un lato per la caduta tendenziale del tasso di profitto, principio basilare dell’economia capitalista, e dall’altro per la perdita, da parte del pubblico, dell’interesse nei confronti di un qualsiasi prodotto abbia più di qualche mese di vita. E’ conseguenza tipica delle condizioni in cui il rinnovamento dell’offerta assume ritmi esasperati, o per meglio dire parossistici, poco o nulla dissimili in linea di principio dalla heavy rotation tanto cara al settore radiofonico.

Poi in effetti le solite fonti allineate si adoperano con ogni mezzo per far credere si tratti di progresso effettivo, pretesto per mezzo del quale dare la stura alle giaculatorie del caso, doverosamente basate sul susseguirsi delle iperboli d’ordinanza che invece restano curiosamente sempre uguali a sé stesse, basate invariabilmente sul principio del superlativo assoluto.

Altrettanto curioso è che il ritmo di sostituzione del prodotto che l’industria vorrebbe imporre per i suoi interessi economici e commerciali non sia mai preso in considerazione, insieme all’impronta ambientale da esso derivante e al tasso di rottamazione incrementato che induce, ai fini della falsa emergenza riguardante il cambiamento climatico, ulteriore riprova della sua inesistenza.

In ogni caso tutta la colpa è solo del compratore cattivo, che per le sue libidini insaziabili di ordine comsumistico costringe la povera e incolpevole industria a cambiare di continuo la composizione dei suoi listini per non rischiare di finire in bancarotta.

Dimostrazione ennesima che l’emergenza climatica altro non è che un pretesto, ignobile, usato per comprimere le libertà individuali a livello globale. Proprio come lo è stata la farsa del covid, di cui costituisce il prosieguo.

Come scritto nero su bianco sul sito del World Economic Forum, in una URL dove compare la parola agenda così da far capire meglio a chi ne ha l’intenzione di cosa si occupa quell’ente, si è trattato di un test.

Attenzione però: non lo si definisce “un” test, ma “il test” di responsabilità sociale.

Purtroppo andato a buon fine, data l’obbedienza delle greggi umane che hanno abdicato all’utilizzo dell’ultimo barlume di ragione, stante il rifiuto irrevocabile di osservare le contraddizioni stridenti appositamente disseminate lungo tutta la narrazione che a quella verifica ha fatto da elemento conduttore.

 

Inevitabile pertanto che la logica, la dinamica, i moventi e le finalità da cui è stato caratterizzato il test trovino la loro reiterazione, nel presente e nel prossimo futuro. Con frequenza sempre più ravvicinata e premendo ancor più il pedale su tutti gli elementi attorno a cui si è articolato, data l’ottima prova che hanno dato di sé stessi.

Test di responsabilità sociale, dicono, che tradotto in pratica significa osservare fino a qual punto si riesce a spingere le persone all’autolesionismo, abbinando lo spaventarle con una serie di notizie, inverosimili e platealmente false ma adoperate secondo la logica del bombardamento a tappeto, e l’imposizione del credo in una scienza unicamente al servizio del miglior offerente secondo modalità indistinguibili da quello nei confronti della religione.

Per decenni, a fine dell’aumento iperbolico dei loro profitti, i decisori globali hanno costretto i mercati a smerciare prodotti realizzati all’altro capo del mondo. I costi li conosciamo, in termini di disoccupazione, inquinamento, azzeramento della qualità e quindi accelerazione del ciclo di sostituzione, con quel che ne è derivato in termini prima di reperimento delle materie prime e poi del loro smaltimento, privo di qualsiasi considerazione altra.

Ora però della falsa emergenza climatica incolpano noi e intendono farcela pagare: restringendo sempre più la libertà di movimento che equivale a possibilità di sopravvivenza, col credito sociale alla cinese, con la valuta elettronica il cui utilizzo può essere revocato con un click, com’è appena successo a Kanye West che dopo aver detto parole sgradite si è ritrovato col suo Apple Pay inservibile, e con passaporti vaccinali per mezzo dei quali si viene spossessati del proprio corpo e diritto alla salute.

Per definire meglio cosa intendano al riguardo, ognuno di quei pupazzi da novanta si è recato al G20, e poi è rientrato in sede, a bordo del suo jet privato che consuma e inquina in un’ora come decine di migliaia di persone non riusciranno mai durante l’intero arco della loro vita. Però poi si mettono in favore di telecamera per fingere di piantare l’alberello, mentre nei banchetti di contorno si ammanniscono carni e pesce da centinaia di euro all’ettogrammo, mentre a noi vogliono far mangiare farine d’insetti.

E ci riusciranno. Chiaro il concetto?

La cosa più inverosimile a questo proposito non è il predicare bene e razzolare male, sia pure spinto a livelli mai visti prima, come d’altronde vuole il progresso. Lo è invece l’adottare modalità di comunicazione tali da da far sorgere il dubbio che siano convinti di rivolgersi non a gente distratta o magari un po’ tarda, ma proprio a dei minorati mentali.

Inevitabile chiedersi chi siano e quanto guadagnino i responsabili di una comunicazione studiata tanto a fondo, e poi come mai chi ne deve recitare il copione lo faccia senza curarsi assolutamente delle sue conseguenze, in termini d’immagine e credibilità personale.

Forse perché non hanno importanza alcuna?

Siparietto

– “Dimmi un po’, com’era il titolo di quel disco di Edoardo Bennato?”

– “Quale, Burattino senza fili?

-“Ah, ecco…”

Un’altro indizio di qual è il livello cui è stato spinto l’inganno sta appunto nell’immagine pubblicata sopra, riguardante il sito del WEF in cui si definisce test l’emergenza del Covid. Se ci si cura di leggerle, le parole che vi fanno seguito sembrano scritte da qualcuno che abbia assistito allo svolgersi degli eventi da spettatore del tutto distaccato dagli eventi.

Già questo è indice di un cinismo sovrumano, date le conseguenze ben note di tutta la faccenda. Il punto tuttavia è che il capo di quell’organizzazione, Klaus Schwab, ha vantato pubblicamente di avere nel suo controllo tutte le cariche politiche e istituzionali di spicco maggiore a livello mondiale. Tanto è vero che di fatto è impossibile accedervi senza aver prima frequentato i corsi organizzati dallo stesso WEF.

A che titolo poi Schwab avrebbe presenziato al G20? Forse per impartire ordini, appunto a chi ha nelle sue mani, vigilando poi che siano eseguiti nella maniera più scrupolosa?

 

La coniugazione del ritrovato tecnico a livello politico-sociale

Il marchio che ha commercializzato i diffusori cui l’LBH 10 si rifà in modo tanto evidente, deve parte considerevole del suo successo alla scelta operata in un tempo ormai lontano. Nel corso degli anni ’70 ha deciso di utilizzare un materiale allora particolarmente innovativo, il kevlar, per le membrane dei suoi altoparlanti, in particolare quelli adibiti a riprodurre le frequenze medie e a volte anche quelli destinati alle basse.

Così facendo, non solo ha differenziato il suo prodotto dai concorrenti in maniera quantomai significativa, ma è riuscito a ottenere caratteristiche di riproduzione pressoché inarrivabili in gamma media, di gran lunga la più significativa in assoluto ai fini dell’esperienza d’ascolto e della percezione qualitativa legata alla riproduzione sonora. Quantomeno da parte di un pubblico sufficientemente educato, tale quindi da assegnare il ci ci – bum bum e tutto il resto dell’effettistica speciale consimile al rango che gli compete.

Dunque il materiale adottato e i metodi della sua lavorazione sono stati la chiave del successo, soprattutto presso gli appassionati più attenti nei confronti della verosimiglianza della sonorità riprodotta e della sua raffrontabilità almeno a livello timbrico con quella dello strumento reale. Tanto è vero che nel corso dei decenni il suo impiego ha conosciuto un numero di coniugazioni pressoché incalcolabile, nei diversi modelli succedutisi a listino. Soprattutto ha costituito l’esempio meglio visibile del significato inerente il diffondersi di un ritrovato inizialmente riservato all’alto e altissimo di gamma, e poi gradualmente condiviso sulla produzione meno esclusiva, fino a equipaggiare i diffusori inclusi nelle serie più abbordabili.

Volendo, potremmo osservare quest’evoluzione come una “democratizzazione” del ritrovato tecnico, ideato per il vertice e poi esteso gradualmente fino al prodotto alla portata di quasi tutte le tasche, appunto seguendo i principi politico-sociali che non a caso hanno dominato la fase storica durante la quale il kevlar ha conosciuto il suo impiego iniziale e poi la sua diffusione via via più ampia. Tutto il contrario di quel che è avvenuto con l’avvicinarsi del passaggio di millennio, in cui colà dove si puote è stata decisa una brusca inversione di tendenza, i cui risultati si sono resi drammaticamente visibili per chiunque abbia la volontà di osservarli, in soli venti anni o poco più dall’avvio del “nuovo corso”.

Così anche la produzione di apparecchiature hi-fi si è adeguata. Ora la differenziazione tra le soluzioni proprie del prodotto destinato a un’ampia diffusione e di quello destinato alle fasce di clientela più ristrette e facoltose è ridiventata sostanzialmente incolmabile. Per conseguenza se si desidera il materiale o la soluzione speciale occorre per forza rivolgersi al modello di prezzo elevato, in genere incluso in una linea di prodotto apposita, mentre sperare che entrino a far parte di oggetti maggiormente alla portata è in buona sostanza una pia illusione.

Tornando alle modalità con cui si coniuga la parola progresso, rileviamo che il costruttore del prodotto al quale gli LBH 10 somigliano tanto non utilizza più il kevlar nei suoi prodotti di vertice, malgrado la sua efficacia. Alla cosa ha dato parecchio risalto, con l’effetto di comunicare al pubblico il suo saper tenersi al passo col tempi.

E chissenefrega, gli si dovrebbe rispondere, in coro e a voce ben alta, dimodoché tutti possano sentire, nella speranza vieppiù remota che invece di scandalizzarsi per il baccano così prodotto si pongano qualche domanda al riguardo. Ci pensano però gli operatori della stampa specializzata a evitare che possano verificarsi le conseguenze derivanti da tale presa di coscienza, grazie al loro spirito di abnegazione nella diffusione di corbellerie e panzane le più inverosimili, che come spiegava Goebbels basta ripetere il numero di volte necessario per trasformarle in verità.

Un esempio della loro attività encomiabile lo si è avuto proprio in occasione di quel cambiamento. A quel punto e solo allora hanno iniziato a scrivere dei suoi difetti, che secondo loro sarebbero stati non solo noti ma addirittura proverbiali.

Fatto curioso, però, non sono stati capaci di elencarli, forse per via del dovere della sintesi, col minimo corredo dei dati di fatto volti a suffragare la loro teoria. Men che meno ne hanno mai parlato quando si sarebbe dovuto, ossia fin quando il materiale che ne sarebbe gravato è stato utilizzato per i diffusori a listino: lo hanno fatto soltanto una volta che è stato abbandonato. Così da procurarsi senza fatica pseudo-argomenti tali da spingere il nuovo, venduto come di prammatica a costi moltiplicati e senza nessuna assicurazione che ne derivi un beneficio concreto.

Del resto quando si cade nella Fissità del Sonno diventa complicato accorgersi di certe cose. Non che gli altri siano meglio, anzi, dato che fra Stono e Laido Deppiù, gli altri componenti della trimurti dell’hi-fi nazionale, la gara è a chi riesca a immergersi maggiormente nelle profondità della fanghiglia più nauseabonda, sia pure a costo di scavare a oltranza nel sottosuolo.

Trimurti appunto, nome quantomai indicato, proprio perché come sono riusciti loro a devastare la riproduzione sonora, il suo mercato e le fila dei suoi cultori, sostanzialmente uccidendoli più e più volte, nessuno al mondo sarebbe mai stato in grado.

Va considerato infatti che gli effetti pratici della loro azione sono stati molto efficaci, oltreché condivisi dalla stragrande maggioranza del pubblico, pagante in cambio di quella solenne presa in giro. Infatti tutti o quasi sono convinti che col diffusore odierno più striminzito e dotato di altoparlanti visibilmente inadeguati, ma tanto bellino d’aspetto con la sua finitura in vetro fumé o nero pianoforte, doverosamente venduto a prezzi per cui il senso della misura è un oltraggio imperdonabile, un bel diffusore realizzato come si deve qualche decennio prima e con tutti i crismi, non possa ambire a raffrontarsi.

Eppure basterebbe guardare quest’ultimo e a colpo d’occhio ci si renderebbe conto di quanto sia meglio indicato ai fini concreti ed effettivi dell’hi-fi, ossia la riproduzione del suono secondo i crismi della fedeltà. Segno evidente che l’efficacia della Trimurti è stata inarrivabile: non solo nell’asfaltare il senso dell’udito nei suoi seguaci, ma anche di rendere inutilizzabile il loro organo visivo, mediante la rescissione irreversibile della sua connessione alle meningi.

Chi potrebbe chiedere di meglio?

 

‘O miracolo

Una rapida ricerca in rete permette di verificare che per l’acquisto di una coppia di LBH 10 occorre una somma che per quanto significativa equivale a una frazione, oltretutto piccola, di quella necessaria per aggiudicarsi i diffusori cui assomigliano tanto, fin quando sono stati in produzione.

Stiamo parlando oltretutto di un diffusore voluminoso e massiccio, per il quale il dispendio di materie prime, già per la realizzazione del volume di carico, senza contare il suo trasporto, è tuttaltro che indifferente. Vanta inoltre una  assolutamente non a tirar via, anzi può trovare posto senza sfigurare anche nel salone più pretenzioso.

Come sia possibile allora commercializzarlo poco sopra i duemila euro, quando per la stessa cifra oggi si fatica ad acquistare un esemplare da piedistallo appena decente è un mistero. O forse un miracolo. Anzi, ‘o miracolo, come nella famosa gag di Massimo Troisi e Lello Arena.

Oltretutto non si tratta del solito scatolotto più o meno voluminoso, ma di un diffusore parecchio complesso, basato su ben 4 parti distinte, ciascuna delle quali oltretutto denota una cura evidente ai fini di un aspetto privo di imperfezioni.

Parte essenziale del materializzarsi di questo “miracolo” deriva dall’aver affidato a terzisti dell’estremo oriente la realizzazione del diffusore. Almeno a giudicare dall’esterno però non si tratta assolutamente della solita cinesata, tutt’altro. La laccatura lucida di colore rosso del volume di carico dei woofer ha un aspetto impeccabile, con quest’ultimo posizionato su un piedistallo che non fa solo da base al diffusore ma assicura il mantenimento della quantità di spazio necessario al corretto deflusso dei condotti reflex. E’ colorato di nero, come l’estremità opposta del diffusore, e di realizzazione massiccia da cui deriva la stabilità notevole dell’insieme. Del resto il peso da sorreggere non è poco, scaricato sulle voluminose colonnette che fanno da tramite per i due elementi.

Il cupolotto rastremato in cui alloggia il midrange è realizzato in materiale sintetico ma il suo aspetto non è assolutamente plasticoso, anzi, almeno per quanto riguarda le superfici a vista di finitura lucida. Alla sommità prevede l’incavo destinato ad alloggiare il contenitore del tweeter, anch’esso conformato secondo una foggia simil Nautilus.

Insomma, almeno nella sua osservazione non ci si può che complimentare con sé stessi qualora si sia acquistata una coppia di LBH 10. Come noto peraltro, proprio la realizzazione del cabinet e la sua finitura costituiscono la voce di spesa primaria per la realizzazione di un diffusore prodotto in serie, tanto più se di complessità e dimensioni pari a quelle del modello esaminato. Il mobile della sezione principale è oltretutto curvato, soluzione che di sicuro non favorisce il contenimento dei costi di produzione.

Per quanto riguarda gli altoparlanti, la gamma bassa è affidata a due woofer da 25 cm di diametro. Anch’essi rassomigliano parecchio a quelli utilizzati al diffusore che gli LBH 10 hanno preso a modello, quantomeno nella vista dall’esterno. Le membrane sono caratterizzate dalla presenza di un copripolvere particolarmente ampio, realizzato in materiale di colore scuro che ricorda da vicino la fibra di carbonio. Il resto è in polpa di cellulosa, dallo spessore consistente, necessario per arrivare a un valore di massa dell’equipaggio mobile tale da ottenere una frequenza di risonanza di valore adeguatamente basso. Proprio in funzione delle caratteristiche di risposta da ritenersi irrinunciabili per un diffusore di proporzioni simili. La sospensione permette un’escursione della membrana  pronunciata, altro elemento a favore dell’estensione verso il limite inferiore dell’udibile.

Se i woofer li si osserva da dietro, s’inizia a capire come sia stato possibile ottenere il miracolo di un prezzo così contenuto. Il cestello è realizzato in lamiera metallica, oltretutto di spessore alquanto sottile e così ancor più tendente a risonare. Nondimeno la stabilità meccanica dell’insieme appare adeguata, pur con l’impiego di un magnete piuttosto generoso, sormontato da un ulteriore elemento magnetico utilizzato con funzioni schermanti. Al centro del gruppo una foratura di sfiato dal diametro rilevante evita l’insorgere di compressioni, favorendo probabilmente anche il raffreddamento della bobina mobile.

Passando al midrange, le prerogative appena descritte divengono se possibile ancora più evidenti. Se dal davanti si può apprezzare la realizzazione tipica degli esemplari utilizzati nei modelli di punta del celebre marchio di ex scuola inglese, caratterizzati dalla membrana in kevlar, dall’assenza di sospensione e dall’impiego dell’ogiva rifasatrice, una volta estratto l’altoparlante dal suo alloggiamento si nota una realizzazione ben più ordinaria, con un cestello in materiale sintetico per il quale poco o nulla è stata considerata l’opportunità di ridurre l’ostacolo all’emissione della faccia posteriore della membrana.

Il gruppo magnetico non particolarmente generoso dispone anch’esso del suo bravo foro di sfiato, mentre osservando meglio si nota che all’estremità esterna la membrana ha un anello in gomma che fa da giunzione alla flangia, di conformazione arrotondata per meglio controllare eventuali fenomeni di diffrazione.

Delle tre tipologie di altoparlanti utilizzati nell’LBH 10, il tweeter è forse quello più rinunciatario. Vero è che la realizzazione del suo alloggiamento deve aver comportato spese non indifferenti, ma l’adozione di un esemplare realizzato con cura maggiore avrebbe senz’altro giovato alla sonorità del diffusore, a fronte di costi realizzativi di sicuro più elevati ma forse non del tutto improponibili. Il magnete alquanto striminzito e la cupola in materiale sintetico priva di elementi di particolare rilievo caratterizzano l’altoparlante.

L’indagine nei suoi confronti non si è potuta spingere più di tanto, essendo accuratamente sigillato nella flangia che s’inserisce a vite nel suo alloggiamento, realizzato in metallo. Ovviamente non era possibile rischiare di romperlo, quindi non è dato sapere se l’equipaggio mobile sia smorzato o meno per mezzo di olio magnetico.

Scelte di ordine simile riguardano anche il crossover, il cablaggio e la coibentazione interna.

Il primo impiega componentistica di qualità non eccelsa, ma tutto sommato in linea con la realtà del diffusore e con quella della stragrande maggioranza degli esemplari in commercio nella stessa categoria. Nelle reti di mid e tweeter sono utilizzati condensatori a film plastico marchiati Rifa, che però non è dato sapere se siano effettivamente realizzati dal rinomato produttore o invece un succedaneo di provenineza incerta, cosa del resto comune per quanto abbia la medesima origine del diffusore. Nel complesso comunque la rete di filtraggio denota una buona accuratezza realizzativa.

Il cablaggio interno purtroppo è quello che è, realizzato con cavi di qualità media e sezione fin troppo risicata. soprattutto per quanto riguarda le connessioni coi woofer, mentre la coibentazione è limitata allo stretto indispensabile. tramite l’impiego di materiale spugnoso di spessore decisamente ridotto e pari efficacia.

Da tutto questo discende un comportamento sul campo che se sulle prime può apparire sorprendente, dato che gli LBH 10 suonano in maniera apprezzabile e soprattutto senza difetti timbrici di particolare gravità, al protrarsi dell’ascolto finisce con l’annoiare un pochino, se vogliamo, proprio per la mancanza delle prerogative tipiche, nell’immaginario comune, di esemplari di stazza pari alla loro.

A questo proposito non va mai dimenticato che, data la realtà del mercato attuale, per quello che li si paga danno fin troppo. E’altrettanto vero però che in un lasso di tempo piuttosto breve è facile rìtrovarsi a desiderare quel qualcosa in più, in particolare se si dispone di un’esperienza tale da aver formato parametri di qualche rilevanza nel loro ascoltatore.

A questo riguardo la gamma bassa, per quanto ben frenata, non sembra all’altezza della presenza di ben quattro woofer da 25 cm, sia pure nel pilotaggio da parte di amplificazioni di potenza considerevole e qualità sonora adeguata. Nello stesso modo, le frequenze medie e alte sono si esenti da soverchi problemi, ma anche da prerogative di rilievo. Tutto sommato ci si forma l’idea che sarebbe possibile ottenerle anche da sistemi molto meno pretenziosi, almeno nel loro aspetto.

Ecco, in sostanza è proprio quest’ultimo, effettivamente ben curato e forse persino troppo, a destare aspettative che per forza di cose si scontrano con la realtà effettiva del diffusore, che come abbiamo visto è caratterizzata profondamente dalle scelte inevitabili per presentarlo sul mercato a un prezzo di listino tanto invitante, in particolare se rapportato al suo aspetto.

Dato che pur senza stravolgere il diffusore di spazi per un possibile miglioramento ce ne sono, e pure belli ampi, di concerto al suo possessore è stato deciso di esplorare le possibilità di farlo esprimere per quanto possibile al meglio del suo potenziale.

Questo non solo per una sua manchevolezza, dato che tutto sommato il 75% dei suoi acquirenti potrebbe farselo andare bene così com’è, data appunto la mancanza di difetti particolarmente vistosi, ma anche perché è un tema tecnico parecchio interessante andare a vedere fino a che punto si può ridurre il divario nei confronti dei diffusori che prende a modello, e se possibile dar loro del filo da torcere o persino sopravanzarli sotto qualche parametro specifico.

Se questo in una valutazione eseguita da profani o comunque da persone non del tutto consapevoli dei risultati ottenibili per mezzo di determinati interventi può sembrare impossibile, avendo esperienza al riguardo non è comunque il caso di dare garanzie assolute. Nello stesso tempo però si ha la consapevolezza che quasi sempre è possibile ottenere qualcosa capace di andare al di là delle attese. Talvolta anche di parecchio.

A questo riguardo è fondamentale l’approccio: va bandita ogni tentazione di ricorrere a scorciatoie, quali che siano. Ogni cella di filtraggio va pilotata singolarmente, con cavo realizzato in funzione delle rispettive necessità. Questo porta a dover realizzare un totale di ben quattordici spezzoni di cavo, ovviamente a mano e di caratteristiche differenziate, di cui sei per il collegamento tra i morsetti d’ingresso ed i crossover, e gli altri otto tra questi e gli altoparlanti.

Il rifacimento della coibentazione interna è altrettanto importante, al pari della componentistica utilizzata per le reti di filtraggio e nelle modalità della loro realizzazione.

Di pari rilievo è il contenimento delle risonanze, per quanto possibile, esguita tanto a livello degli altoparlanti quanto dei loro contenitori. Si tratta di aspetti trascurati, non solo in questo caso ma in genere nei prodotti di origine industriale, che al di la del prezzo di listino a cui sono commercializzati risentono appunto delle relative logiche volte al contenimento dei costi. Non solo a livello delle parti realizzative ma anche e soprattutto del loro assemblaggio.

A questo livello si può fare molto, non solo sui diffusori, ed è uno tra i motivi per cui oggetti curati in certo modo possono sopravanzare il livello prestazionale del prodotto realizzato in serie, in cui determinate problematiche non sono proprio affrontate e quindi sono lasciate al loro destino.

 

Senza entrare in particolari la cui definizione è strettamente in funzione dell’esperienza e della sensibilità di chi esegue un lavoro del genere, va da sé che nel suo insieme si tratta di un lavoro parecchio complesso, che solo per la preparazione delle parti necessarie richiede tempo. Poi anche il riassemblaggio dell’insieme ha le sue necessità, il che ovviamente si ripercuote su un livello di costi di un certo rilievo.

Tuttavia diffusori come gli LBH 10, messi così a punto, restano comunque lontani dall’impegno economico richiesto per gli esemplari cui assomigliano, mentre a livello prestazionale diventano qualcosa di assolutamente comparabile, in grado come abbiamo detto d’imporsi su alcuni parametri. Appunto quelli ai cui fini la cura di determinati particolari si rivela particolarmente efficace.

Questo spiega innanzitutto come un diffusore non sia fatto solo di altoparlanti, cosa che purtroppo non viene mai tenuta abbastanza in considerazione. Anzi, ponendo l’accento solo su questi ultimi in maniera sempre più esasperata, come ormai è consuetudine, tanto a livello di produzione quanto di critica, si ottiene l’effetto esattamente contrario. Ossia si vanno a esaltare proprio gli effetti negativi conseguenti alla loro superiore qualità. In quanto tale, infatti, determina un’indagine di efficacia e accuratezza maggiori sulle caratteristiche del segnale che ad essi perviene. Ma se questo è degradato per un serie di motivi, dovuti in massima parte a curare al massimo quel che si vede per lasciare al suo destino ciò che resta nascosto, secondo la logica del “Quel che si vede è di camicia“, nulla di anormale che nel momento in cui si utilizzano altoparlanti meno raffinati, ma in un contesto volto a farli esprimere al meglio delle loro potenzialità, si ottengano risultati di rilievo tale da rendere un’eventuale comparazione non del tutto fuori dal mondo.

E’ noto che una volta eseguiti interventi del genere occorra del tempo affinché i componenti del crossover insieme a tutto il resto raggiungano il rendimento ottimale. Di conseguenza nel momento in cui eseguo le verifiche del caso, al primo ricollegamento all’impianto dopo l’ottimizzazione, mi diverto sempre a rimettere da capo il primo CD che ci ho ascoltato, una volta giunto al termine. Proprio perché nel giro della prima ora di funzionamento, poco più o poco meno, le differenze subentrate risultano già molto evidenti.

Ovviamente non basta così poco affinché il tutto vada a regime: nella fase successiva il processo di “maturazione” del sistema diventa più graduale. Nondimeno, in capo ad alcune decine di ore di funzionamento, il diffusore denota un ulteriore cambiamento sostanziale, in direzione di un ulteriore affinamento della sua sonorità, che a quel punto si può ritenere ragionevolmente definitivo.

Purtroppo non ho avuto modo di ascoltare gli LBH 10 al completamento di quell’iter, ma già al primo collegamento i cambiamenti resisi evidenti sono stati parecchio rilevanti. In sostanza si ha un diffusore che in termini di qualità sonora non è più neppure lontano parente di quello di prima, ma che per quanto riguarda le caratteristiche timbriche, in particolare per l’allineamento e il rapporto reciproco tra le diverse gamme di frequenza resta sostanzialmente invariato.

Nel caso degli LBH 10 è emersa innanzitutto una prestanza della gamma bassa prima neppure immaginabile. Potenza, dinamica, estensione e controllo sono ora tutt’altra cosa, mentre l’articolazione e la capacità di mantenere la modulazione anche nei passaggi più ostici, laddove prima si scadeva nel muggito, sono al di là di ogni paragone con la configurazione originale. La vibrazione della corda pertanto resta sempre ben percepibile, quando prima si aveva solo un insieme indistinto.

Naturalezza, nitidezza e fluidità di emissione sono proprio di un altro pianeta: al posto della tendenza alla durezza percepibile in precedenza, che rappresentava forse il limite maggiore del diffusore, ora si ha capacità di affrontare il continuo divenire del segnale e i passaggi che di esso sono caratteristici, con una grazia e una flessuosità, se mi è permesso l’uso di questo termine, che prima erano semplicemente inimmaginabili. Si tratta di qualcosa di molto difficile da incontrare nell’ascolto di diffusori di origine industriale, per quale che sia il loro costo, proprio per via della loro realizzazione che di determinati aspetti non tiene alcun conto. Sono quelli in definitiva che fanno parte dei cosiddetti “segreti del cuoco”, riguardo ai quali ovviamente non entro in particolari, in grado di far pervenire a risultati tanto più evidenti quanto è elevato il livello dell’insieme.

Va considerato infatti che al di là delle sue prerogative intrinseche, il diffusore è fortemente legato alla qualità del segnale che gli perviene, cosa che molti appassionati si ostinano a trascurare. Così delle magagne del loro impianto danno la colpa ai diffusori, quando invece il solo demerito che hanno è di essere più efficaci di quanto sarebbe desiderabile, in quelle condizioni.

Altri due elementi che evidenziano il salto di qualità più ragguardevole sono la dinamica e la pulizia di emissione, dando finalmente ragione all’impiego di diffusori dimensionati così generosamente, rispetto a i quali prima ci si poteva chiedere ove risiedessero le prerogative conseguenti al loro impiego, se poi si ricadeva nelle limitazioni usuali di esemplari più “normali”.

Un ultimo aspetto infine riguarda la gamma superiore, prima sempre piuttosto ruvida e poco dettagliata, ora molto meglio indagata nei suoi elementi, anche quelli di entità minore, oltretutto in un contesto di ben altra morbidezza.

Vediamo allora cosa dice Andrea, il possessore degli LBH 10.

Ciao, sto ascoltando, ma non ancora con la dovuta calma. La prima impressione è un suono enormemente più pulito e definito con una estensione di gamma, una tridimensionalità ed una “pienezza” fantastiche.

Tieni presente che sono davvero prime impressioni. Certo che la differenza è davvero notevole. Prima era tutto più “impastato” per cui questi dettagli erano inesplorati.

Le pecche dei diffusori consistevano in medi ed alti abbastanza limpidi ma “strillati” e bassi, nonostante i woofer da 25 pollici (in realtà centimetri n.d.A.), abbastanza udibili ma poco definiti ed assai poco “robusti”. Il tutto un po’ “rumoroso”, come se ci fosse una “nebbia” di fondo.

Di qui il tuning.

Il risultato è onestamente, almeno per me, strabiliante: medi ed alti puliti, precisi e non più “urlati” e bassi precisi, netti, profondi e corposi. Oggi è facile identificare la posizione di ogni strumento sul palco, capire cosa sta facendo ogni musicista e percepire le minime variazioni di intonazione della voce. Addirittura diventano intellegibili le scelte di registrazione fatte live, ossia dove sono stati posizionati i microfoni on stage in occasione di registrazioni dal vivo.

Insomma, un altro mondo: è sparita ogni confusione e tutto è diventato chiaro come l’orizzonte in un giorno di sole ventilato dopo la pioggia.

Arrivati a questo punto, non mi sembra ci sia molto altro da dire, tranne forse che nella veste acquisita dopo l’intervento di ottimizzazione, hanno innalzato i loro limiti in maniera inaspettata, cosa che del resto accade spesso quando si lavora in un certo modo sui diffusori.

Questo c’insegna che gli altoparlanti da cui è equipaggiato un diffusore sono importanti ma non sono assolutamente tutto. In assenza di “retrovie” all’altezza della situazione il loro rendimento viene penalizzato in misura rilevante, ma soprattutto inimmaginabile.

Ecco il perché dei risultati così sorprendenti quando s’interviene in un certo modo: rimuovendo non dico del tutto ma almeno in larga parte le limitazioni da cui sono gravati, possono esprimere finalmente la loro voce per quella che è, significativamente migliore di quella che si sarebbe portati a credere.

Inutile rilevare ancora che il lavoro è stato lungo e faticoso, oltre ad aver avuto i suoi costi. Ne è derivato però un altro diffusore: invariato nel suo aspetto a confronto della versione d’origine, ma finalmente in possesso di una personalità sonica all’altezza delle premesse e soprattutto degl’impianti a cui gli LBH 10 hanno le probabilità maggiori di essere abbinati. La spesa complessiva dal canto suo è rimasta di una parte rispetto a quella che ci si attende di mettere in ballo per ottenere prestazioni di livello simile.

 

 

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2 thoughts on “Woodsound LBH 10, il diffusore più chiacchierato del decennio

  1. salve, grazie dell’articolo interessante.E’ possibile avere un’idea dei costi prevedibili per l’upgrade effettuato del diffusore in oggetto? E soprattutto la domanda fondamentale: vale la pena portare ad ottimizzazione quel diffusore con driver economici o conviene rivolgersi direttamente ad altro progetto diffusore ( magari diy) con componenti migliori, pur se di ispirazione cabinet poco blasonata??…penso ad uno dei kit di Troel Gravesen per es…saluti e grazie ancora.

    1. Ciao Massimo,
      grazie della domanda.

      L’aspetto fondamentale dell’articolo, che mi sembra di aver sottolineato in maniera almeno sufficiente, è che specie da parte dell’appassionato, si tende a considerare troppo quel che si trova in vista, ed è spinto maggiormente dai media di settore, nei confronti di altri elementi che alla resa dei conti si rivelano più importanti ancora. Hanno però il brutto difetto di essere celati e quindi tendono a essere trascurati dal pubblico, in maniera direi inevitabile, e dalla critica, dal mio punto di vista ben più colpevole.
      A questo propsito ti consiglio di leggere, se già non lo hai fatto, l’articolo intitolato “Quel che si vede è di camicia”.
      Non a caso in ambito tecnico si usa dire che il crossover è il vero cuore del diffusore e, insieme a cablaggio e coibentazione interna, ha un influsso sul risultato finale ben superiore a quello degli stessi altoparlanti.
      Riguardo a questi ultimi, se ne possono utilizzare della qualità più impeccabile, ma se a monte non si curano le condizioni con cui gli si fa pervenire il segnale, le loro potenzialità non potranno che essere compromesse, oltretutto in maniera grave e peggio ancora poco riconoscibile se non si sono fatte determinate esperienze.
      Gli altoparlanti in dotazione ai Woodsound, per quanto non paragonabili a quelli utilizzati per gli esemplari cui somigliano tanto, non sono di qualità così andante e comunque sono in grado di porre in luce in maniera ben evidente il miglioramento sostanziale che si ottiene intervenendo come descritto nell’articolo.
      Dunque, nel raffronto con un eventuale diffusore autocostruito il primo aspetto ad emergere riguarda i costi del cabinet. Ammesso e non concesso che un qualsiasi autocostruttore possa accedere a livelli di scelta dei materiali, realizzazione e finitura paragonabili a quelli dei Woodsound, la spesa da affrontare sarebbe senz’altro superiore a quella del costo in negozio dei Woodsound. A fronte del quale si ha però un diffusore completo e in grado di funzionare, in maniera tutto sommato valida, sia pure non proprio eccelsa.
      Il costo di una messa a punto fatta come si deve è importante, ma quando sommato a quello del diffusore determina risultati tali da non essere minimamente avvicinabili da qualsiasi diffusore d’impegno economico paragonabile o anche sensibilmente superiore.
      In merito ai prodotti realizzati dal tecnico da te menzionato, infine, in tutta sincerità non ne conosco i diffusori. A suo tempo però ho avuto modo di valutare una sua scheda per DAC alquanto rinomata, che pur preceduta da una sezione di alimentazione progettata da un altro specialista del ramo, scelta che ha portato piuttosto in alto la spesa complessiva, in tutta sincerità non ha dato l’idea di poter giustificare i costi affrontati e meno ancora la differenza di prezzo rispetto a prodotti all’epoca più abbordabili e forse anche diffusi.

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