Marantz CD 63 mkII – L’importanza della sorgente 3

Il Marantz CD 63 è stato preso in esame ormai qualche anno fa nella sua versione KIS, intitolata al progettista Ken Ishiwata, purtroppo scomparso alcuni anni fa.

Si trattava della versione più lussuosa e idealmente destinata alla clientela dal palato più esigente in termini di qualità sonora, sia pure riguardo a una sorgente destinata a una diffusione piuttosto ampia.

Stavolta invece ci occupiamo del lettore nella versione standard, successiva a quella con cui ha esordito sul mercato, denominata mkII.

Il CD 63 è stato tra le sorgenti di maggior successo, in termini assoluti.

Come è stato già rilevato, ma certe cose è meglio ripeterle, una buona sorgente è alla base di qualsiasi impianto da cui si vogliano ottenere sonorità di qualche valore.

Bravo, dirà qualcuno, ma oggi più che mai le sorgenti valide costano un bel po’ di soldi e sono sempre costate parecchio. Limitando per conseguenza le possibilità, sempre in termini di qualità sonora, di chi non sia in condizioni di spendere certe somme.

A questo riguardo la buona notizia, o meglio la prima di esse, è che ci sono eccezioni alla regola qui sopra: in questo momento un CD 63 in condizioni normali di funzionamento può essere acquistato per circa 150-200 euro o persino meno.

Quindi si può partire anche con poco, nell’avventura destinata possibilmente a mettere insieme un impianto di sonorità forse non a livelli da assoluto ma senz’altro memorabile. E soprattutto capace di dare seri grattacapi, in particolare sul campo ossia in sede d’ascolto, a chi è convinto che oggi non sia possibile allestire nulla di decente se non a colpi di svariate migliaia di euro, o persino decine di migliaia, per ciascun componente.

Questo ovviamente a patto di sapere cosa ascoltare e come un impianto debba suonare, il che non è mai da dare per scontato. Come del resto non lo è il saper riconoscere per tali un pregio o altrimenti un difetto e non scambiarli per il rispettivo contrario.

A questo riguardo è una questione di modelli che si prendono quale pietra di paragone. Poiché siamo nell’ambito della riproduzione sonora, si riterrebbe scontato o meglio ancora quasi istintivo fare riferimento agli impianti, più prestigiosi, rappresentativi o costosi che dir si voglia, dimostrati nelle salette delle mostre di settore che si tengono in molte regioni d’Italia o più ancora a livello internazionale.

Peccato che sia sbagliato, proprio perché essendo caratterizzati dalle dimensioni più grandi è inevitabile che portino con sé anche i difetti e i problemi maggiori nonché i limiti meglio evidenti e più complessi da risolvere o da oltrepassare, fino all’impossibilità materiale di farlo. Tantopiù se quello scopo va ottenuto entro limiti di spesa tali da rendere ancora possibile la vendita di quei prodotti, sia pure soltanto a una ristretta élite di ottimati.

Il solo modello che abbia un senso è la realtà, ossia quella in cui ci si trova di fronte allo strumento musicale durante un’esecuzione dal vivo. ovvero proprio quello che storicamente la stampa di settore ha ripetuto a oltranza non abbia senso fare.

Forse perché i limiti di quanto celebra ed esalta si renderebbero fin troppo evidenti e con essi la narrazione che altrettanto storicamente diffonde senza remora alcuna, in funzione dei suoi privatissimi interessi economici e di quelli dei suoi committenti.

L’amplificatore non è una chitarra o un violoncello e la sorgente o il diffusore neppure, ma è dalla realtà dell’esecuzione che occorre partire per capire cosa sia e quindi ottenere una riproduzione verosimile, secondo il significato effettivo della dizione “alta fedeltà”.

Che non riguarda certo i sogni bagnati di certi fabbricanti o direttori di testata, e men che meno degl’imbrattacarte dalla prosa a senso unico che ad essi fanno da manovalanza.

Ancor più grattacapi una macchina come il CD 63, se messa nelle condizioni di esprimere parte ragionevole del suo effettivo potenziale, è destinata a causarli proprio in chi ficca certe idee nelle capocce degli appassionati, che in larga parte e proprio a causa di quanto appena detto sono curiosamente ricettive per le fandonie più inverosimili, a patto che siamo diffuse a mezzo di fonti cui è attribuita per solito la maggiore credibilità, e anche questo è un gran bel paradosso. Per contro si dimostrano spesso refrattarie a qualsiasi elemento di buon senso, sempre riferito alla riproduzione sonora ovviamente.

Ritengo che questo si debba anche alla deriva intrapresa dal settore negli ultimi decenni, durante i quali si è fatto in modo di spostare sempre più l’attenzione verso questioni del tutto secondarie, escogitando allo scopo ogni pretesto, anche il più inverosimile, relegando di conseguenza l’elemento primario, ossia la qualità e dunque la verosimiglianza della riproduzione, sempre più ai margini, fino a derubricarla tra le varie e eventuali, seppure.

Dal canto loro i conficcatori d’idee balzane di cui sopra sono caratterizzati da un abito mentale di stampo orwelliano, e del più classico, come ho avuto modo di verificare per l’ennesima volta qualche giorno fa.

Si concretizza in particolar modo in funzione del meccanismo di autoinganno, quello che è stato descritto da Orwell in “Teoria e pratica del collettivismo oligarchico”, libro fittizio inserito nella trama di “1984”: “Raccontare deliberatamente menzogne e nello stesso tempo crederci davvero, dimenticare ogni atto che nel frattempo sia divenuto sconveniente e poi, una volta che ciò si renda di nuovo necessario, richiamarlo in vita dall’oblio per tutto il tempo che serva, negare l’esistenza di una realtà oggettiva e al tempo stesso prendere atto di quella stessa realtà che si nega, tutto ciò è assolutamente indispensabile.”

A quasi ottanta anni dalla sua enunciazione, si tratta di un principio talmente diffuso, nella sua applicazione, da non destare più sorpresa alcuna in chi si trova a osservarlo. E’ tale anzi da essere riconoscibile con difficoltà sempre maggiore, proprio per via della consuetudine con cui viene praticato ed è quindi possibile osservarlo, da tempo sconfinata nell’abitudinarietà in funzione della quale non ci si fa più caso.

E’ osservabile ormai a qualsiasi livello sociale, in particolare a quelli più alti, ulteriore dimostrazione che il pesce puzza sempre dalla testa, e proprio in questi giorni ne stiamo avendo esempi piuttosto istruttivi. Come quelli che si strappano i capelli perché determinati personaggi (ri) saliti al potere sarebbero un pericolo di estrema gravità per la democrazia. In particolare per quella della specie particolarissima che poggia sul principio secondo cui quando un’elezione non porta risultati graditi a lorsignori, è necessario ripeterla fin quando non va nel modo dovuto.

Lo si è fatto a suo tempo nei Paesi in cui si è potuto votare, tra i quali non è compresa l’Italia, per il Trattato di Lisbona, base fondante delle mille regole senza senso e dei codicilli farneticanti da cui è scaturito il delirio normativo che ha portato alle condizioni di deindustrializzazione, regresso sociale e impoverimento di massa in cui si trova l’Unione Europea.

Ne abbiamo poi avuto da poco un esempio in Romania e da meno ancora il commissario UE Thierry Breton ha dichiarato che non si esiterebbe a ripetere operazioni del genere anche per le prossime elezioni politiche che si terranno in Germania e ovunque lo si ritenga necessario.

Non considerando ancora bastevoli misure tanto significative di democrazia concreta, intesa naturalmente secondo la logica di lorsignori, ci si porta avanti passando all’azione preventiva. Così che determinate formazioni politiche, guardacaso quelle che da qualche tempo riscuotono la maggior crescita di consenso di parte dell’elettorato, al punto da far temere che al momento cruciale si riveli maggioranza, non possano proprio presentarsi e quindi non sia possibile votarle.

La scusa è sempre la stessa, sarebbero fasciste. A giudizio di chi e soprattutto a qual titolo si emettano certi verdetti non è dato sapere. Inevitabile chiedersi se togliere il diritto di voto non a un tal numero di persone ma anche a una di esse soltanto, solo perché in base alla realtà concreta instauratasi ormai da troppo tempo si sono viste costrette a pensarla in modo poco confacente ai desideri di chi detta le regole, non sia per caso una forma di totalitarismo di gran lunga peggiore.

Addirittura, l’UE ha annunciato la sua nuova trovata, ossia l’EDS, scudo democratico europeo, che sarà tale da consentire l’invalidazione di qualsiasi tornata elettorale non dia risultati graditi per chi ne tiene le redini.

Sentono tremargli la poltrona sotto al sedere, tale e diffuso a tal punto è il malcontento che hanno prodotto in decenni di devastazione organizzata scientificamente ed eseguita a livello continentale. Così ora cercano di barricarsi nella stanza dei bottoni.

Col pretesto che chiunque non faccia parte della loro cricca, quella che ha portato l’Europa al tracollo e intende compiere fino in fondo il suo lavoro lautamente retribuito, così da renderlo irreversibile, non sia democratico a sufficienza.

 

Il futuro lo decidiamo noi

Come si sa tuttavia, la Natura tende a replicare i suoi meccanismi un po’ dappertutto e a ogni livello, sia pure conferendo ad essi proporzioni diverse. Così quel che accade sul piano infinitesimo riguardante la nicchia della sottonicchia, vera realtà dimensionale del fenomeno noto come riproduzione sonora amatoriale, lo si ritrova pari pari ai piani più alti del sottopotere in cui agiscono gli strapagati camerieri di rango maggiore al servizio delle élite che prendono le vere decisioni. Ossia quelle che contano sul serio, e per questo preferiscono tenersi il più possibile alla larga non dalla notorietà ma persino dalla possibilità che si possa avere contezza della loro esistenza.

In tal modo la (dis)informazione allineata ai canoni del cosiddetto mainstream, da cui deriva la vulgata generale, può definire chi azzarda a parlare di certe cose un visionario complottista. In quanto tale passibile di internamento, al quale per il momento non viene inviato solo per la magnanimità inarrivabile di quanti risiedono colà dove si puote, che così passano anche da benefattori.

Proprio nei giorni scorsi i sicari di quelle élite si sono riuniti a Davos, amena località svizzera, che per l’occasione si trasforma in un vero e proprio bunker, di anno anno sempre più fortificato. Un breve estratto dei proclami diffusi da quell’augusta tribuna credo sia doveroso pubblicarlo, non fosse perché le cosiddette fonti ufficiali stendono al riguardo una cortina di silenzio impenetrabile o per meglio dire omertoso.

 

Poche parole, ma significative come non mai, a significare la consapevolezza dell’enorme potere che simili eletti da nessuno sono ben consci di detenere: “Il futuro lo costruiamo noi, specialmente noi che ci troviamo in questa stanza”.

A quale titolo si ritengano autorizzati non viene detto, e nessuno tra quelli cui competerebbe si azzarda a chiederlo, peraltro. Tutti quanti “tengono famiglia”.

D’altronde se già nella nicchia della sottonicchia di cui ci occupiamo il livello di sudditanza è quello che ben conosciamo, figuriamoci cosa ci possa essere ai livelli in cui ci si ritiene in diritto di decidere i destini dell’intero pianeta.

Per quale motivo poi qualcuno ritenga necessario decidere come debbano andare le cose, invece di lasciare semplicemente che abbiano il loro corso naturale, non è dato sapere. Eppure quello stesso qualcuno ha fatto di tutto affinché ambiente e sostenibilità divenissero parole d’ordine sovraordinate persino ai comandamenti della religione cristiana.

Un tempo certa gente la si sarebbe spernacchiata alla morte, consigliandole di far pace col cervello, formula purtroppo caduta in disuso e per coincidenza va a collidere frontalmente proprio coi criteri suillustrati del collettivismo oligarchico.

Difficile capacitarsi inoltre come certa gente ritenga possibile che i suoi desideri, a tal punto coincidenti coi fondamentali della distopia, possano e debbano avverarsi. Per conto mio questo ha a che fare con la branca particolare della psichiatria che studia le forme comportamentali spinte a tal punto agli stadi terminali della dissociazione dalla realtà.

Sarebbe interessante anche approfondire il percorso che porta quei personaggi non solo a siffatti deliri di onnipotenza, ma anche a detenere quantità di potere tali da ritenerli alla portata dello loro possibilità. Rispetto a tutto questo la parola megalomania risulta profondamente inadeguata. Eppure non ce ne sono altre, a dimostrazione che compiere misfatti non definibili con le parole contenute nel dizionario, non solo non li renda concepibili dall’uomo della strada, ma equivalga a una sostanziale garanzia d’impunità.

Le conseguenze, devastanti, si ritrovano a pagarle tutti quanti non abbiano la forza di sottrarsi ai meccanismi indotti dagli Schwab di turno e da quanti ritengano indispensabile farsi belli agli occhi suoi e dei suoi simili. Ossia, scendendo gradino a gradino la scala del (vero) potere, gl’inservienti che siedono nei parlamenti e nelle istituzioni di Stati un tempo sovrani ma mai come oggi ridotti a meri strumenti di dominazione al servizio delle farneticazioni di un branco di esaltati, divorati da un fanatismo ultraumano.

A protezione di una così bella compagnia, quest’anno è stata messa in campo persino una squadriglia di aviazione, ovviamente e come tutto il resto a spese dei contribuenti che poi dovranno subire le conseguenze del delirio decisionista che da sempre costituisce la cifra politico-ideologica dei consessi cui partecipa questa speciale tipologia di personaggi. Come ha osservato a suo tempo il criminale psicopatico che risponde al nome di Mario Monti, ritiene fondamentale “sottrarsi ai meccanismi di designazione popolare”.

Lo scudo democratico europeo che abbiamo visto poco fa va esattamente in questa direzione.

Nessuno che non sia un addetto ai lavori può accedere all’area. Unica eccezione prostitute, prostituti e vie di mezzo delle gradazioni più svariate tra questi due estremi: essere semplicemente uomo o donna ormai è una forma di estremismo, che presto sarà bandita appunto in nome della democrazia, dell’inclusione che ne è principio fondante e della lotta all’intolleranza.

Nei confronti di quelle particolari figure professionali i partecipanti al convegno di Davos mostrano un gradimento particolare, sempre crescente. Tanto è vero che quest’anno si è toccato il record del personale reclutato per il privato intrattenimento dei pezzi grossi riunitisi nella località svizzera. Si è arrivati così a un piccolo esercito di ben 300 persone, contro le 170 del 2024, secondo la valutazione di Andreas Berger, portavoce della piattaforma d’incontri Titt4tat.

Per ciascuna prestazione, non è difficile si arrivi a compensi di 7.000 euro. Un bel volume d’affari, non c’è che dire.

E’ noto peraltro che, sempre in Natura, non esistano fluidificanti ed anestetici più efficaci del denaro. Quindi i compensi principeschi attribuiti al particolare personale di servizio chiamato a eseguire gli ordini delle élite, che ormai ha occupato militarmente qualsiasi istituzione dello Stato, di ogni ordine e grado, servono proprio affinché non abbia remore ad agire al fine di danneggiare, e persino terminare con ogni mezzo nonché in modo deliberato e scientificamente organizzato i popoli chiamati al pagamento delle sue retribuzioni.

Non prima di aver spergiurato di adoperarsi per il miglioramento del benessere e delle condizioni di vita di quegli stessi popoli.

Tanto poi ci pensano i media allineati a convincere chi ancora si ostina a seguirli, secondo una vocazione al masochismo ormai evidente e frutto di una manipolazione quantomai approfondita, che purtroppo si è trattato di una catena inopinata di errori, susseguitisi gli uni agli altri in maniera inevitabile, a dispetto di qualunque teoria delle probabilità, anche la più azzardata. O, altrimenti, si è trattato altrettanto regolarmente di incompetenti e inadeguati alla carica attribuita loro.

Così la giostra va avanti e a un preteso incapace fa seguito uno ancora peggio, con una sistematicità ormai arrivata ben oltre il surreale e senza mai che si riesca a vedere il fondo di un meccanismo a tal punto perverso.

A questo riguardo un paio di notiziole dell’ultim’ora riguardano una la scoperta della richiesta per la fornitura immediata di forti quantitativi di Midazolam, inviata nel marzo 2020 dal governo italiano, quello di Conte e di Speranza, al fabbricante tedesco che ovviamente ha adempiuto.

Come noto il Midazolam, insieme al similare Propofol, è meglio conosciuto come farmaco dell’eutanasia. Ecco dunque l’origine della strage di Bergamo, poi propagatasi in ogni ospedale e ricovero per anziani d’Italia. Sull’ondata di terrore da essa causata e spinta al parossismo da media lautamente retribuiti, sempre coi denari del contribuente, si è costruita l’emergenza, ancora una volta illegale, in quanto la normativa dello Stato Italiano riconosce l’emergenza solo in stato di guerra, e tutto quanto ad essa ha fatto seguito.

Ma forse di guerra si è trattato effettivamente, mossa dagli apparati di quello stesso Stato all’intero popolo della Penisola.

La seconda notizia è che il team di verifica per l’efficienza del governo USA meglio noto come DOGE, ha scoperto che i famigerati laboratori di Wuhan sono stati finanziati col denaro dei contribuenti per sviluppare armi biologiche, tra le quali il covid 19.

Non che la cosa non si sospettasse, come sempre da parte dei soliti complottisti, ma ora ne arriva conferma quantomeno ufficiosa.

Dimostrazione ennesima che tra ogni teoria del complotto, anche la più fantasiosa, e la realtà è solo una questione di tempo.

E’ altrettanto assodato peraltro che proprio la realtà è capace di oltrepassare ogni fantasia. Anche questo è un detto caduto in disuso, chissà come mai.

Ci troviamo dunque quali spettatori di prima fila dinnanzi all’apoteosi del capitalismo nella sua fase terminale, dimostrazione ennesima nonché definitiva che, come ho scritto tante volte, per la sua stessa natura non può altro che divorare tutto quanto incontra lungo la sua strada.

Per questo arriverà infine a fagocitare persino sé stesso, anche se non potremo assistere allo spettacolo dato che per allora, ovviamente, avrà digerito ed espulso da tempo i resti di tutti noi.

In funzione del meccanismo infernale con cui avanza inesorabilmente, riesce persino a far si che le vittime della strage ne siano i finanziatori e dunque i complici, per mezzo del prelievo fiscale che poi gli organi dello Stato utilizzano in modo simile.

A quale punto di aberrazione possono essere giunte le istituzioni, proprio a causa dell’essere state infiltrate in ogni loro ganglio come abbiamo visto poco fa: non sono più al servizio del popolo, ma operando nel modo in cui fanno per prassi sono arrivate persino a renderlo complice delle stragi di cui lo fanno vittima. Pazzesco.

Infine, in piena ossequienza ai dettami della Teoria del collettivismo oligarchico, in una recente dichiarazione pubblica l’ex ministro Speranza ha dichiarato che il protocollo tachipirina e vigile attesa sia un’invenzione dei famigerati no-vax.

Si è trattato del tentativo ennesimo, plateale quanto maldestro, di riscrivere la storia: altro pezzo forte della distopica realtà orwelliana che siamo costretti a subire. Fatta propria dal socialismo fabiano del quale lo stesso Speranza è esponente di spicco.

A tale riguardo si può stare sicuri che si arriverà presto a negare persino che nel 2020 e a seguire nel 2021 nonché per parte del 2022 si siano obbligate le persone a restare rinchiuse nelle loro case, provvedimento che a rigore sarebbe unicamente nei poteri del giudice di tribunale, a seguito di una sentenza passata in giudicato.

Diranno ancora una volta che si sia trattato semplicemente di “un consiglio”.

Peccato che lo stesso ministero della salute (sic) di cui Speranza all’epoca era responsabile, si sia opposto alla sentenza del TAR del Lazio che invalidava quel protocollo e ne revocava l’obbligatorietà, sia pure fin troppo in ritardo, e lo abbia impugnato addirittura presso il Consiglio di Stato.

Questo ovviamente ha ribaltato la sentenza del TAR e dato ragione al ministero, secondo l’antica regola del cane non mangia cane. Rendendo così lo Stato complice una volta di più della strage perpetrata con quel metodo, in maniera ancora più limpida e incontrovertibile.

Il che tuttavia non lo rende meno esigente riguardo al finanziamento cui obbliga ciascuno di noi e in misura sempre più insostenibile, oltretutto a fronte dell’impoverimento di massa che persegue da tempo ormai immemore, rendendoci a nostra volta complici e vittime al tempo stesso delle decisioni scellerate che pone in atto.

 

Il tempo passa

Malgrado si faccia di tutto per immergere tutti noi nell’eterno presente da cui risulta praticamente impossibile osservare la ripetitività sempre uguale a sé stessa di determinati meccanismi, anche nell’ambito della riproduzione sonora, il tempo scorre, implacabile come sempre.

Insieme ai suoi effetti di maggiore importanza ne porta con sé anche altri, insignificanti se vogliamo ma che per determinati aspetti assumono comunque un loro rilievo.

L’esemplare di CD 63 pervenuto nelle mie mani ne è un esempio, tale da sottolineare la transitorietà di determinate mode e soprattutto le condizioni provvisorie a seguito delle quali acquisiscono la loro diffusione.

Mi riferisco appunto alla tendenza che porta una fascia di pubblico sempre più impoverita o comunque resa vieppiù timorosa di spendere del denaro che per conto suo ha un potere d’acquisto in perenne caduta verticale, a rivolgersi all’usato. E persino al vecchio, che allo scopo si è ribattezzato con la denominazione suggestiva di vintage.

Un tempo non lo si sarebbe tenuto neppure in considerazione e così quanto veniva sostituito da un prodotto nuovo e possibilmente più efficace, seppure in maniera marginale, tale da produrre quasi sempre un mero spostamento laterale, prendeva quasi sempre la via della cantina o della soffitta, se non ceduto a parenti o amici.

Da qualche tempo da quelle cantine e soffitte esce fuori di tutto e di più, con la convinzione che siccome lo si è lasciato tanto a lungo al suo destino, si sia mantenuto nelle stesse identiche condizioni in cui si trovava quando ha preso la via del ripostiglio.

Questo evidentemente non è possibile, proprio perché il tempo ha i suoi effetti, che si fanno tanto più evidenti per tutto ciò che rimane in stato di abbandono. Senza considerare inoltre che tanto del materiale che oggi va a costituire l’offerta del mercato dell’usato si avvicina pericolosamente ai quarant’anni di vita e talvolta li supera.

Accade così, allora, che un numero sempre crescente di apparecchiature delle quali si procede al recupero, per mezzo di revisioni più o meno approfondite, magari non mostri perdite di acido evidenti su stampati e superfici interne del telaio, causato dall’elettrolita che i condensatori non riescono più a trattenere. Inducendo così a pensare che le sue condizioni non siano poi così male o persino inappuntabili.

Tranne poi, nel momento stesso in cui si va a poggiare la punta del saldatore sulle piazzole cui quegli stessi componenti sono ancorati, percepire l’odore caratteristico di quell’acido e peggio ancora veder sollevarsi le piste dalla base sottostante, per poi rompersi data la loro sottigliezza. Così da costringere alla loro ricostruzione, spesso annosa, quantomeno se si desidera riconsegnare in condizioni di funzionamento l’oggetto su cui si è intervenuti.

Dunque, per l’intercessione benevola del Santi Patroni dell’elettronica e della riproduzione sonora, nel momento in cui vengono recuperati sul mercato dell’usato quegli oggetti riescono ancora a funzionare, in qualche modo, ma con ogni probabilità non riusciranno a farlo ancora a lungo. Proprio a causa del protrarsi del loro invecchiamento, ulteriormente peggiorato in larga misura dal non aver potuto funzionare per tanti anni.

Ovviamente poi c’è da intendersi sul significato del verbo funzionare. Si, alla pressione sul tasto di accensione, in qualche maniera riescono a reagire e il display si accende, persino. Una volta inserito il disco gira e così si dà per scontato che tutto sia nella norma.

Tuttavia quando apparecchiature del genere le si collega all’impianto, è pressoché inevitabile rilevare una sonorità piatta, ottunderata e peggio priva di qualsiasi accenno di energia e di vitalità.

La cosa interessante è che c’è gente, oltretutto parecchia stando a quanto si legge su forum e social dedicati alla riproduzione sonora, che apprezza le sonorità di questo tipo. Sono definite riposanti e poco fastidiose, appunto in seguito all’opera di danneggiamento ultradecennale eseguita dai guastatori in servizio attivo permanente sui media di settore.

Quella che ha portato all’allestimento di impianti oltremodo costosi che avrebbero dovuto essere il non plus ultra, stando alla critica operante su quei media. Invece, specie dopo essere stati installati nelle sale degli appassionati, si sono rivelati inascoltabili, data loro tendenza allo strillo e alle sonorità metalliche e trapananti. In funzione della trascuratezza dei criteri minimi di allestimento per un qualsiasi impianto, che quegli stessi media non hanno sistematicamente applicato, ma fatto di essa la loro bandiera.

Proprio perché il loro motto è da sempre “Desidera e compra l’oggetto più costoso in assoluto, così sarai sicuro di aver risolto i tuoi problemi”.

Del resto il personale operante in quelle sedi non solo non è mai stato non a conoscenza di quei criteri, e proprio per questo ha coniato tale motto per poi affidarvisi ciecamente, ma come mostra la realtà nel modo beffardo di procedere che le è tipico, non è in grado proprio d’immaginare l’esistenza dei concetti stessi che di quei criteri sono alla base.

Realtà che d’altra parte è da sempre funzionale ai veri scopi dei media che hanno cooptato quel personale, ossia apportare un contributo sempre crescente alla vendita continuativa di materiale nuovo, per mezzo della spinta al parossismo del ritmo di sostituzione delle apparecchiature, da cui il noto fenomeno del cambia-cambia.

E’ evidente che un individuo soddisfatto di quello che ha, e più ancora di quello che è, difficilmente sentirà la tentazione di spendere le quantità di denaro che ben sappiamo con l’unico scopo di sostituire quel che possiede, oltretutto per mezzo di qualcosa destinato con ogni probabilità a funzionare come se non peggio di quel che aveva prima.

D’altronde questo prescrive il primo comandamento della società capitalista, secondo il quale ogni attività degna di tenersi in piedi deve presentare anno per anno margini di profitto in crescita. Come questo sia possibile ottenerlo, se non svuotando il prodotto al suo interno, ancor prima delle tasche dei suoi compratori, per poi aumentare l’attrattiva di tutto quanto rimane a vista, non è dato saperlo.

Inevitabile pertanto che da quel processo di sostituzione parossistica si determini null’altro che una serie di spostamenti laterali, ossia variazioni di ordine timbrico o di altro genere più o meno percepibili, anche in funzione delle condizioni ambientali o di esercizio del sistema di riproduzione, che come tali non sono assolutamente in grado di incidere in misura significativa sull’elemento effettivamente qualitativo della riproduzione.

D’altra parte l’induzione del fenomeno del cambia-cambia ha risvolti positivi non soltanto per il settore distributivo-commerciale, ma anche per quanti ne sono le vittime predestinate.

Infatti, in sede di discussione su social e forum di settore si potrà vantare di aver posseduto e ascoltato apparecchiature a decine e talvolta persino a centinaia, elemento quantomai favorevole alla considerazione di sé stessi e quindi al sussiego che si esibisce nel rapporto con altri appassionati. Così da ritenersi autorizzati o meglio ancora in dovere di guardarli dall’alto in basso, quali destinatari per intercessione divina, quella del Dio Denaro, del diritto di mettersi in cattedra ogniqualvolta.

Senza essere mai sfiorati dal dubbio, ovviamente, di non essersi concessi il modo di arrivare a capire un’emerita non solo di ciascuna di quelle apparecchiature, ma proprio dei principi che ne regolano il funzionamento e poi anche della gerarchia inerente le prerogative attribuite nel concreto a ciascuna di esse.

Così facendo ci si ritrova regolarmente, o meglio con una sistematicità tanto spinta al surreale da avvicinarsi persino al metafisico, al punto di partenza.

Altro non può essere d’altronde, già per il fatto stesso che dopo decenni di cambiamenti susseguitisi gli uni agli altri e delle relative spese folli, le cui somme si sono tra l’altro sottratte al benessere e alla qualità della vita della propria famiglia, si continua a discutere sempre degli stessi problemi.

Evidentemente insormontabili, se quello è il criterio con cui si ritiene di risolverli, giustappunto in funzione del principio della rotatoria del quale ci siamo occupati poco tempo fa, rispetto al quale si è dimostrazioni viventi, per quanto inconsapevoli, dell’esattezza.

Ma che importa, tanto chi mai verrà in casa a contare i difetti dell’impianto che si possiede? E anche se ciò avvenisse, a quale titolo lo si potrebbe fare, oltretutto in un ambito in cui il relativismo detta legge, secondo il principio del “A me piace”?

E’ altrettanto noto che ogni scarrafone è bello a mamma sua e non a caso su quel tema sono state composte canzoni che hanno scalato le hit parade e reso denaro a palate a chi le ha cantate.

Insomma, l’esemplare pervenutomi di CD 63 è stato si pagato molto poco, ma purtroppo era in condizioni non proprio esaltanti. Dall’esterno tuttavia nulla lasciava trasparire la sua realtà, essendo sotto questo aspetto conservato con una certa cura, che però non ha indotto chi lo aveva con sé a collegarlo di tanto in tanto alla rete elettrica e a farlo funzionare per qualche ora, magari a vuoto, tanto per.

Ulteriore dimostrazione che soprattutto per le apparecchiature di una certa età condizioni estetiche impeccabili possono deporre al massimo per loro stesse ma non dicono nulla sulle reali condizioni di funzionamento e peggio ancora sulle possibilità di esibire una sonorità di qualche correttezza.

Realtà del genere richiedono un intervento radicale e quanto più possibile approfondito, con l’eliminazione di tutto quanto sia toccato dal processo di invecchiamento, al punto di ritrovarsi ormai esausto.

Proprio l’odore pungente che come abbiamo visto si libera nel momento stesso in cui la punta del saldatore va a toccare lo stampato è la testimonianza migliore che sia vicino al momento di esalare l’ultimo respiro.

Dunque si riterrebbe la situazione in cui versava il CD 63 largamente compromessa, ma come si sa ogni medaglia ha il suo rovescio. Proprio la necessità di un intervento a tal punto radicale fa da presupposto ai risultati che si sono avuti con la sua effettuazione.

E’ evidente che a tal fine vada eseguito con determinati criteri, quelli volti appunto a ottenere il massimo possibile dal progetto di partenza, senza ovviamente mettere a repentaglio l’affidabilità della macchina e se possibile migliorandola persino, per mezzo delle scelte più opportune al riguardo.

A questo proposito la buona disponibilità di spazio all’interno ha avuto un ruolo non indifferente. Si tratta di un aspetto essenziale, dato che anche con la buona volontà migliore dove non esista la possibilità materiale di alloggiare determinata componentistica non ci si può inventare chissà cosa.

Lo spazio disponibile comunque è stato sfruttato al massimo e forse anche qualcosa di più, tuttavia pur se con qualche equilibrismo alla fine si è fatto in modo che tutto trovasse un suo posto.

Interventi finali ma non meno importanti hanno riguardato l’eliminazione del cavo di alimentazione originale, il classico filino buono tuttalpiù per far accendere un lumino di cimitero. Al suo posto è stata posizionata una presa tripolare, seguita dalle accortezze necessarie affinché la sua presenza non rivestisse una funzione puramente estetica.

Lo stesso per quanto riguarda i connettori di uscita, non più collegati alla circuitazione per mezzo di elementi in pura latta, ma con l’impiego di cavi in carne e ossa realizzati manualmente.

 

Un risultato inaspettato

Si è arrivati così al momento di ricollegare il lettore all’impianto. Prima, una rapida verifica che tutto fosse in ordine e che la meccanica operasse come dovuto nelle sue diverse funzioni.

Quando la musica ha iniziato a fluire, le sue prerogative sono state assolutamente sorprendenti.

Sembrava infatti di essere al cospetto di una macchina di ben altro rango, un po’ sotto tutti gli aspetti.

In primo luogo per la regolarità di risposta e per l’estensione agli estremi banda. Il tutto in un contesto di grandi nitidezza e fluidità, con capacità d’indagine per l’informazione e per l’articolazione con cui viene emessa non soltanto di prim’ordine, ma tali da risultare del tutto imprevedibili. Non solo per una macchina di calibro simile, ma anche per oggetti di classe notevolmente superiore.

A dire il vero, anzi, sono spesso le macchine più costose a risultare goffe, tronfie, caratterizzate in definitiva da una lentezza di esecuzione tale da far passare del tutto inosservati elementi dell’esecuzione che nella riproduzione da parte del Marantz CD 63 mk II rimesso a punto acquisiscono un rilievo e una naturalezza che anche col migliore ottimismo si reputerebbe fuori luogo attendersi.

Questo perché le sorgenti digitali più costose sono quasi sempre penalizzate dagli stessi ingredienti che i loro fabbricanti reputano essenziali per attribuire ad esse i canoni realizzativi ritenuti irrinunciabili per il loro rango, tali inoltre da rendere giustificato, in apparenza, il loro prezzo di vendita.

Riguardano in primo luogo una ridondanza della componentistica particolarmente esasperata. Proprio perché nelle foto pubblicate da siti e riviste l’appassionato medio esige di ritrovare la quantità massima di componenti, altrimenti ne riterrebbe il prezzo irragionevole. Ovviamente senza chiedersi se si tratti di roba utile o meno e men che mai porsi il dubbio che possa rivelarsi persino controproducente.

L’essenziale è che ci sia tanta roba. Più ce n’è e meglio è, proprio come in quelle bettole di terz’ordine in cui si pagano 10 euro e ci si può ingozzare fino a che si scoppia. Inutile chiedersi di che genere possa essere il cibo servito in quegli esercizi e quali criteri adotti la clientela che ad essi si rivolge.

Non a caso, tante elettroniche sono stipate alla morte di componentistica, esattamente come gli stomaci di chi per la propria alimentazione va tanto poco per il sottile e predilige innanzitutto la quantità, da ottenersi ovviamente al prezzo minore che sia possibile.

Proprio quel genere di panorami induce i componenti del Coro Degli Entusiasti A Prescindere a innalzare le loro lodi fino al cielo: basta che sia tutto disposto in bell’ordine, come tanti soldatini allineati e coperti. Tanto, dei giri di Peppe che per ottenere tutto ciò è necessario far compiere al segnale, oltretutto su piste di stampato che non sono mai ininfluenti ma allo scopo vengono allungate e incasinate come più non si potrebbe, come tali quasi mai giovevoli per il suo passaggio, nessuno si preoccupa.

Perché dovrebbe del resto, una volta che l’occhio è soddisfatto, la bocca si riempie dei più bei paroloni e la ragione ne è sopita, non c’è null’altro che si possa desiderare.

Ecco perché il CD 63 nella veste in cui questo esemplare di mkII si trova dopo la revisione approfondita cui lo si è sottoposto, risulta più convincente all’ascolto rispetto a tante macchine con le quali si riterrebbe il paragone del tutto impossibile.

La sua circuitazione è fin quasi costretta alla semplicità, stanti appunto i criteri di realizzazione obbligatori per una macchina destinata a costare una somma abbordabile. Quindi il percorso che obbliga il segnale a percorrere, dal pick up ottico all’uscita, risulta per forza di cose semplificato oltreché scevro dalla ridondanza di componentistica inutile ritenuta indispensabile per conferire l’aspetto d’ordinanza alle apparecchiature di costo maggiore.

Una volta rimosse le limitazioni attribuite in origine alla componentistica, sempre in funzione della necessità di comprimere i costi di produzione, ci si ritrova con un oggetto in condizioni di funzionare con un’efficacia non solo inattesa ma persino insospettabile a priori.

Da un lato a suffragare la giustezza delle teorie a favore della semplificazione dei percorsi di segnale, quindi della rimozione del massimo numero di ostacoli che il segnale è costretto ad affrontare e valicare lungo il suo tragitto, dall’altro attribuendo al lettore doti sonore che a priori si riterrebbero ben oltre l’inverosimile.

In particolare per quel che riguarda la potenza di esecuzione e la dinamica, come nel solo di batteria presente in “My shining hour” di Chuck Loeb, registrazione dal vivo in presa diretta su due tracce realizzata a suo tempo per mezzo di un DAT Nakamichi 1000.

Non solo è reso in maniera travolgente, ma è caratterizzato anche da un’articolazione e soprattutto da una rapidità d’esecuzione, nel riproporre le minuzie più sottili del lavoro del batterista e della sonorità del suo strumento da lasciare semplicemente a bocca aperta.

Come noto la batteria è uno tra gli strumenti più difficili da riprodurre in maniera non dico realistica ma almeno tendente al verosimile, se non il più difficile in assoluto. In particolare per gli aspetti riguardanti dinamica e controllo dell’emissione.

Lo stesso avviene su un qualsiasi altro brano che si possa far riprodurre al lettore, oltretutto in una forma del tutto priva degli inconvenienti che si è abituati a riscontrare nelle macchine in grado d’indagare il segnale con l’approfondimento migliore.

Difficilmente si sarebbe potuto sperare in una conferma migliore per le teorie a favore della semplicità realizzativa, nei confronti della ridondanza tanto comune sulle apparecchiature di costo maggiore. E, nello stesso tempo, di quelle su cui si basano determinati interventi, che incidentalmente hanno ben poco a che vedere con le modalità scolastiche secondo le quali si opera di solito nel ripristino di una qualsiasi apparecchiatura.

Meno ancora lo hanno con quelle che fanno tanto tecnologico, e ancora una volta sono le più efficaci nel riempire la bocca degli appassionati e far apparire chi le compie come un genio dell’elettronica, ma sono del tutto inutili se si trascurano gli elementi di fondo che non sono tali per mera casualità.

Come già rilevato, un tetto tempestato di diamanti serve a poco, tranne che alle chiacchere, se non poggia su basi della solidità necessaria.

Una sorgente del genere dunque, ovviamente sottoposta al trattamento necessario affinché possa esprimere le doti fin qui elencate, alle quali tra l’altro si affianca un realismo ancora una volta sorprendente, è quanto di meglio per allestire impianti economici ma capaci di suonarle di santa ragione anche e soprattutto a quelli più costosi. Generalmente gravati dai limiti connessi con le modalità realizzative ritenute irrinunciabili dall’industria di settore e dalla propaganda di cui si serve.

Immagino quindi un CD 63 abbinato a un amplificatore di pari semplicità e da pochi watt, ma curato come si deve nella componentistica e in tutto il resto degli aspetti sistematicamente trascurati nella produzione su grandi numeri, come un Nad 3020 ottimizzato, e a una coppia di diffusori CDM 1, anche quelli messi a punto nel modo che sappiamo.

Ne scaturirebbe qualcosa di inverosimile, oltretutto a un costo piuttosto contenuto e nonostante questo in grado di lasciare a bocca aperta o persino causare la rivolta, sacrosanta, dei possessori di certi impianti costati un occhio della testa ma che non riescono a spiccicare nemmeno una nota nel modo in cui andrebbe riprodotta.

Vediamo infine le valutazioni di Davide, il fortunato possessore di questo esemplare di CD 63.

Ho provato un paio di tracce e suona veramente molto bene. “Miles runs the voodoo down” da “Bitches brew” di Miles Davis è una roba fuori di testa, una sardana infernale (Montale), in senso buono ovviamente ed è quasi riduttivo.

Suppongo che con gli ascolti migliorerà ancora.

A mio avviso la qualità migliora ancora abbassando il volume del CD da telecomando, per alzare quello del preamp. Prima di mandartelo, ogni tanto il disco saltava, ora non più.

A conferma, dico io, che non sempre i problemi di lettura sono causati dal pick up ottico, quanto dall’alimentazione. Se al dispositivo di lettura non arriva la corrente “giusta”, difficilmente può lavorare come dovrebbe.

Da qui in poi ancora Davide: Più è ben inciso il cd, più la qualità del suono si esalta e tocca livelli di potenza immani… Con il remaster di Bitches Brew le sensazioni erano veramente incredibili, e non era nemmeno rodato a dovere.

La batteria di “Save your love for me” di N’Dea Davenport, mi ha strainchiodato alla poltrona peggio di un politico italiano.

A livello generale è cambiato veramente tanto. Un salto veramente enorme, su tutti i punti di vista.

Non penso sia necessario aggiungere altro, se non rilevare ancora una volta come da macchine in apparenza modeste, operando nel modo opportuno si possa tirar fuori un potenziale tale da far arrossire di vergogna tanti esemplari fin troppo osannati, i loro fabbricanti e i coristi che ne innalzano i peana fino al cielo, credendo in tal modo di garantirsi l’ammissione al paradiso, quando è ben noto che già con le migliori intenzioni è lastricata la via dell’inferno.

Figuriamoci con le loro.

 

 

 

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