Il figlio del secolo, quello originale, è stato il personaggio costruito da un rotocalco piuttosto seguito, nei panni del quale il direttore della testata e la sua redazione misero un pover’uomo, tirato al centro della questione di un assassinio di cui nulla sapeva.
Come detto, prima lo mettono in mezzo riguardo a una faccenda con cui volevano portare alle stelle le vendite in edicola, a suon di raggiri e lusinghe dei quali non era il solo destinatario. Tanto è vero che nella sede del giornale incontra altri sventurati che fanno anticamera, chi memorialista chi altro: venuti a sapere che lui è addirittura un testimone oculare (“così dicono, ma io non ho oculato proprio un bel nulla”) si complimentano per la grande fortuna che gli è capitata.
Poi, quando il figlio del secolo, accortosi dell’inganno cerca di liberarsi, guardato a vista com’era nel grande albergo di cui era in apparenza ospite ma in realtà recluso, è costretto a indossare i panni di un’indossatrice, alquanto sui generis, per riuscire a fuggire. Però resta preso in una retata, scambiato per una di quelle, finendo così nel più vicino commissariato.

Colà viene presto raggiunto dal direttore del rotocalco, che guarda a volte le combinazioni, nella finzione filmica aveva un modo di fare e di rapportarsi agli altri somigliante in maniera incredibile a quello della medesima figura operante nella rivista con cui ho collaborato per troppi anni. Del tutto incurante degl’illeciti e dei raggiri ai danni non solo della sua vittima ma anche di tutti i lettori del suo periodico, accusa il figlio del secolo dei reati che è stato egli stesso a commettere: truffa, raggiro, millantato credito, appropriazione indebita eccetera. A tutto ciò si aggiungono il plagio e persino il sequestro di persona, compiuto quando il personaggio interpretato da Totò viene rinchiuso in una stanza dell’albergo e privato dei suoi indumenti, per rendergli più difficile la fuga.
Il direttore del rotocalco, chiamato Ieri, oggi e domani, con evidente richiamo a una delle testate scandalistiche più diffuse dell’epoca, è creduto all’istante dal commissario, infatuato dai suoi modi affabili la cui falsità è riconoscibile a chilometri di distanza. Con la perspicacia tipica del questurino procede immediatamente all’arresto della vittima che ha la sola colpa di avere fame e per questo essere caduta nel tranello tesogli, mentre riverisce quello che non è solo il colpevole ma un carnefice incallito, come certificato dallo stesso svolgersi dei fatti.
Questa per sommi capi è la trama di uno degli episodi di Siamo uomini o caporali? un altro di quei film che andrebbero fatti studiare nelle scuole.
E’ anche uno dei migliori, se non il migliore in assoluto di Totò. Non a caso fu sempre bersagliato fino a dopo la sua morte da una critica, per l’appunto giornalistica, che fece un punto d’onore il danneggiarlo in ogni modo possibile e il trascurare minuziosamente i suoi meriti numerosi e grandissimi, anche a livello umano. Iniziando dal fingere che il grande seguito da parte del pubblico non esistesse. Qualora costretta, lo avrebbe ascritto tra gli elementi a sfavore, secondo i metodi usuali di capovolgimento della realtà così frequenti in tale ambito. Del resto si sa: chi si autonomina a detentore del Verbo, anche di quello culturale, per il popolo prova sovente ribrezzo.
La stessa sorte fu riservata al messaggio che passava per mezzo dei suoi film meglio riusciti e della sua recitazione pirotecnica, malgrado il loro valore e la loro unicità fosse incontrovertibile.
In Siamo uomini o caporali? Totò faceva la parte dell’uomo, come tale vessato dall’eterno caporale, impersonato da un Paolo Stoppa a dir poco magistrale. Il ghigno sardonico che stampava sulla sua faccia, ogniqualvolta andava a imporre la sua prepotenza sull’individuo comune, è una vera e propria icona nel suo genere.
L’episodio insegna almeno due cose. La prima è che già allora la stampa e più in generale i media che oggi definiamo allineati, non si facevano scrupolo alcuno nell’utilizzare i loro metodi, basati sull’illazione, la menzogna e il raggiro. Tanto da essere fatti soggetto di un film dell’epoca tardo-neorealista, corrente a cui Siamo uomini o caporali si rifaceva in maniera evidente in particolare nella trama.
Nel corso del tempo, dunque, cambiano metodi e strumenti, ma le finalità restano sempre le stesse.
La seconda, tornata di grande attualità nel recente passato, che ancora non è dato sapere se sia davvero alle nostre spalle o meno per questioni di mero calcolo politico o meglio ancora di dominio, è che a una fetta consistente d’individui basta il minimo pretesto per trasformarsi in caporali, e meglio ancora in sceriffi o ducetti da cortile, potendo così dare libero sfogo alla loro indole, che da vili quali sono non avrebbero mai il coraggio di lasciar trapelare in condizioni normali.
Per dare campo libero a certi istinti è bastato molto poco, giusto una serie di atti amministrativi fatti passare per legge da media asserviti e comprati un tanto al chilo, ma in realtà del tutto illegali. Per quel tramite, di una falsa emergenza sanitaria ingigantita appositamente mediante l’eliminazione di massa praticata su chi meno poteva difendersi, sempre a norma di protocolli, s’intende, è stato fatto un utilizzo squisitamente politico. Al fine di giungere a risultati che in condizioni normali si riterrebbero non inaccettabili ma proprio inverosimili.
Come ha detto qualcuno, se si lascia mano libera ai politici nelle situazioni d’emergenza, inventeranno false emergenze di ogni tipo pur di accrescere il loro potere. E, aggiungo io, quello di chi li manovra a suo piacimento.
Quanto al mantenimento del consenso non ci sono problemi, almeno a breve termine: basta predisporre apposita mangiatoia, presso cui possa satollarsi parte significativa del corpo elettorale.
Il resto lo si controlla a distanza col terrore e il conto finale lo pagheranno i non caporali, con bollette triplicate e aperture di mutui ipotecari per il pieno dell’auto che serve per andare a lavorare.

Nove miliardi di mascherine. E pensare che quello in camicia nera, affacciato al balcone di Piazza Venezia, ha creduto di essere chissà chi coi suoi otto milioni di baionette.

Nello stesso tempo c’è chi a colpi di siringa, somministrati estorcendo il consenso informato a un prodotto coperto da segreto militare riguardo ai dati della sua sicurezza, si è pagato i materiali per la villetta nuova, che col superbonus al 110% poi ci scappa fuori tutto il resto, manodopera compresa.
Quando il meccanismo è lubrificato a dovere dal contante, non c’è contraddizione che tenga. Neppure la più marchiana o surreale.
Di scrupoli poi, manco a parlarne: la classe medica ha dimostrato di essere pronta nella sua maggioranza a mettere a repentaglio la salute e la stessa vita del primo individuo che gli capita a tiro per 6 euro lordi.
Se poi quel malcapitato ci rimette le penne, sarà per colpa di un malore, senza bisogno di altre spiegazioni: garantisce la $cienza.
Mentre sotto l’aspetto giuridico si è protetti dallo scudo penale, apoteosi di illegalità.
Oggi vige l’ossessione della sostenibilità, riguardo alla quale siamo martellati da ogni fonte con modalità ben poco dissimili da quelle del lavaggio del cervello. Stranamente però del numero enorme di quelle pezze, gettate nei cassonetti invece che tra i rifiuti speciali e dell’impatto ambientale conseguente al loro smaltimento, nessuno si preoccupa e tantomeno si azzarda a parlare.
Poi, nel caso, si ricorre a un uso sfacciatamente personale dei corpi dello Stato, come nella recente visita a Napoli del garante supremo, occasione in cui si sono ritenute necessarie ben 40 auto di scorta a difesa della sua sicurezza. A quel punto, tanto varrebbe servirsi di un battaglione di lagunari armati fino ai denti o di un reparto corazzato.
Quando la coscienza rimorde, basta mettersi al riparo. Come sempre a spese altrui.
Quello del figlio del secolo è un parallelo fin quasi inevitabile per un diffusore denominato Century, che vuol dire secolo come tutti sanno. E’ stato uno dei dominatori assoluti della sua epoca, protrattasi lungo tutto il corso degli anni 1970, ma per davvero e non a seguito della finzione su carta stampata, .
Se i figli e le figlie del secolo scorso avevano come abbiamo visto una connotazione senz’altro positiva, i figli più in vista di questo secolo sono invece la personificazione stessa del male più abietto, che praticano in quantità industriali e con una noncuranza inimmaginabile solo poco tempo fa.
Secondo alcune fonti l’L100 è stato il modello più venduto del catalogo JBL di allora, malgrado in esso fossero presenti modelli decisamente più abbordabili e quindi alla portata del grande pubblico.
In quella fase era usuale attribuire una denominazione di fantasia, possibilmente suggestiva, a ciascun modello di diffusore, affiancandolo alla sua sigla alfanumerica per migliorarne la riconoscibilità. Gli L 100 furono denominati appunto Century, gli L 26 e 36 Decade, gli L65 Jubal, gli L 88 Nova o Cortina, a seconda della serie, e così via.
Al titolo di diffusore più apprezzato del listino JBL, in particolare se si tratta di un modello piuttosto costoso, non si arriva per caso. Gli L 100 in effetti avevano e hanno tuttora fascino da vendere, per via del grosso woofer con la membrana di colore bianco, conseguenza della sua realizzazione in un materiale denominato Aquaplas. A griglia montata erano persino più gradevoli esteticamente, data la sua realizzazione pensata apposta per attrarre l’occhio.
Il responsabile del progetto, Arnold Wolf, era appunto alla ricerca di una soluzione adatta per attribuire all’L 100 una personalità unica. In un diffusore di tipo bookshelf, per quanto al giorno d’oggi sia inevitabile chiedersi che razza di libreria sia necessaria per ospitare e soprattutto sostenere oggetti di stazza simile, l’elemento distintivo pressoché unico è dato dalla griglia. Wolf decise così di realizzarne una diversa dal solito, che aggiungesse un elemento dimensionale al consueto pannello di tessuto utilizzato allo scopo.
La scelta cadde su una soluzione semplice se vogliamo, ma visivamente molto efficace, basata su un quadrettato i cui elementi erano in rilievo piuttosto marcato. La realizzazione pratica dell’idea si rivelò invece più complessa. Allo scopo fu valutato inizialmente l’impiego del dacron, un tessuto allora in voga per i pantaloni non-stiro, quelli che mantenevano la piega anche dopo ripetuti passaggi in lavatrice. La necessaria trasparenza al suono obbligava però all’impiego di un tessuto di bassa densità, inadatto per una realizzazione del genere.
Si passò allora a considerare il particolare tipo di spugna usato per le cuffie antivento dei microfoni, tale da soddisfare anche gli aspetti pratici del suo utilizzo. Restava da definire l’ultimo punto, relativo alla colorazione. Quella allora ottenibile nella fase di produzione del materiale scelto fu giudicata non abbastanza vivace. Si pensò così a un processo di verniciatura, che con l’impiego di un colorante della giusta densità portò infine al risultato voluto.

Gli L100 erano disponibili con griglie di colori diversi. Magari viste oggi in fotografia possono non sembrare chissà cosa, ma all’epoca il loro effetto fu dirompente, tale da scatenare l’istinto di possesso della stragrande maggioranza degli appassionati.
Non tutti ovviamente riuscirono a soddisfarlo.

Storia e tecnica
Gli L100 derivano dal 4310 Control Monitor, a sua volta ideato per riprodurre in dimensioni minori le caratteristiche sonore del diffusore che fino a quel momento aveva dominato in modo pressoché assoluto nel professionale, negli impieghi di studio: l’Altec 604 Duplex. Il 604 era lo standard indiscusso del settore, anche se la sua emissione era calante sulle alte e penalizzata da un picco evidente in gamma media. Questo non costituì un problema più grave di tanto per i tecnici, che ne erano a conoscenza e avevano imparato a porvi riparo. Lo è maggiormente invece per quanti sono inclini a pensare, in campo amatoriale, che tutto quanto possieda la denominazione di professionale sia baciato dalla luce sacrale della perfezione, cosa evidentemente piuttosto lontana dalla realtà.
A un certo punto Altec decise di sostituire il 604 con il 605 A, pensato per abbassare i costi di produzione e nello stesso tempo migliorare le prestazioni del predecessore. Allo scopo i magneti furono ridotti nelle loro dimensioni e ne derivò un calo significativo della sensibilità, ben 3 dB. insieme a un cambiamento di sonorità sia pure meno evidente. Ennesima dimostrazione che quando s’imbrocca un progetto che funziona è meglio lasciarlo stare, dato che le possibilità di fare danni, anche da parte di chi ha un’esperienza significativa alle spalle, è tutt’altro che remota.

Più o meno nello stesso periodo, JBL aveva realizzato il suo primo monitor professionale, il D50SMS, a sua volta derivato dall’S7 destinato all’utilizzo amatoriale e munito di un cabinet adatto al nuovo impiego. Per JBL le cose non stavano andando un granché nel settore dei diffusori da studio, fin quando in seguito alla sostituzione del 604 con il 605, e al malcontento generale che ne derivò, la Capitol Records provò il D50. Con soddisfazione s’immagina, tanto è vero che decise di standardizzare tutti i suoi studi con diffusori JBL.
Altec tentò di porre riparo al passo falso, per mezzo di una nuova versione del 604, la E Super Duplex, ma ormai la frittata era fatta. Verso la fine del decennio 1960 i monitor JBL stavano diffondendosi anche al di fuori degli studi Capitol. In particolare il modello 4320, che rispetto al D50 aveva un crossover a frequenza più elevata, innalzando la tenuta in potenza e con un miglioramento anche per l’integrazione tra il woofer da 15 pollici e il driver a tromba.
Fu poi la volta del 4310, realizzato appunto per imitare le prerogative soniche dell’Altec 604, mediante l’inserimento del midrange, ma in dimensioni più compatte. In quel momento si stava diffondendo la registrazione mutitraccia, con le prime macchine di quella tipologia. Nel loro impiego si riteneva necessaria la presenza di un diffusore per ogni pista, cosicché il fattore dimensionale assunse un’importanza ben maggiore che in passato. In seguito quel sistema di lavoro fu abbandonato, ma il 4310 e più in generale la fama dei monitor JBL avevano ormai trovato la loro affermazione.
Gli anni 60 d’altro canto videro il proliferare dei piccoli studi indipendenti, ai quali le proporzioni contenute del 4310 si attagliavano in maniera impeccabile.
Prerogativa saliente del diffusore era la ricerca volta a minimizzare i disturbi di emissione causati dall’irregolarità della superficie frontale. Allo scopo gli altoparlanti delle vie superiori furono inseriti su un blocco in rilievo dal profilo curvilineo, in modo tale che a griglia montata la superficie dell’insieme fosse perfettamente piana.

Un ulteriore elemento distintivo del 4310, rispetto alla produzione consimile dell’epoca, era dato dal posizionamento dei controlli per il livello di midrange e tweeter sul frontale. Li si rendeva così meglio accessibili, cosa assai utile in ambito professionale, ma soprattutto si conferiva al diffusore e più in generale all’immagine del marchio una connotazione tecnica che avrebbe avuto un ruolo essenziale nella sua affermazione definitiva.
Il 4310 ha caratteristiche simili a quelle degli L 100 A, per dimensioni del volume di carico, tipologia e posizionamento degli altoparlanti utilizzati. La differenza maggiore è data dal tweeter, per essi fu prescelto l’L20, mentre sugli L100 si sarebbe montato l’L25.
Per l’L100 prima serie, invece, la scelta cadde su una disposizione degli altoparlanti lungo l’asse verticale del diffusore, più in linea con le tendenze attuali. Fu però abbandonata per la seconda, la L 100 A cui appartengono i diffusori di cui ci stiamo occupando.
Un elemento chiave del loro successo, come per tutto il resto della produzione JBL destinata al mercato amatoriale, è proprio la similitudine con i diffusori dedicati al professionale e l’idea di esclusività e di raffinatezza tecnica e funzionale che ne consegue. E’ all’origine anche delle convinzioni che ancora oggi accomunano una parte rilevante del pubblico.
Negli L 100 A il posizionamento degli altoparlanti è in sostanza una via di mezzo tra quello dei 4310 e dei loro successori. I 4311 ebbero una realizzazione del frontale meno complessa, definita una volta resisi conto che le scelte riguardanti la disposizione di mid e tweeter sul predecessore avevano pochi o nulli effetti pratici.
Le variazioni, nei confronti dell’L100 A, sembrano da ascriversi più che altro alle necessità di differenziare i diffusori destinati al mercato amatoriale rispetto a quelli professionali, in particolare nella disposizione dei controlli di livello, che per i secondi avveniva su un estremità del frontale, così da renderli accessibili anche a griglie montate.

Nel passaggio da 4310 a 4311 fu anche sostituito il tweeter, passando a uno dalle dimensioni minori, tali da migliorare la dispersione, che comunque restava controllata per mezzo dell’anello di spugna posto intorno alla membrana. Al riguardo fu modificato anche il crossover, al fine di ottenere una risposta più omogenea.
Altoparlanti
Il woofer è senza dubbio l’elemento più caratterizzante di questa serie di diffusori, con il suo diametro di 30 cm, la membrana di cui abbiamo già parlato per sommi capi e la sospensione in tela pieghettata, scelta ideale per robustezza e longevità.
La finitura del cestello e in genere le sue caratteristiche realizzative, a iniziare dal magnete in alnico, e di finitura, ne fanno un qualcosa non solo di più unico che raro, ma anche d’irripetibile nella realtà di oggi.
Inutile domandarsi quanto costerebbe, al momento attuale, equipaggiare un diffusore con un altoparlante di caratteristiche simili: si potrebbe sparare qualsiasi cifra senza timore che sia troppo alta, date le condizioni in cui versa al momento il mercato della riproduzione sonora.
A questo proposito è d’obbligo rilevare che da qualche tempo è disponibile la riedizione degli L100, vero e proprio simbolo dell’impotenza sostanziale indotta dal progresso tecnologico propagandato come travolgente e foriero di destini magnifici e progressivi, ma che all’atto pratico si riduce allo scimmiottare le soluzioni di mezzo secolo fa.
Stando all’odierna narrazione trionfalistica riguardante il progresso tecnico, tale da issarlo di fatto a nuova religione globale, un prodotto dell’età di cinquant’anni è roba da era dei dinosauri. All’atto pratico tuttavia è giocoforza ricorrervi, nel tentativo di rianimare in qualche modo un mercato i cui segni di vita sono ridotti al lumicino.
Le sue scelte tecniche sono peraltro le uniche in grado di restituire personalità a un prodotto che solo così riesce a differenziarsi da un’offerta ormai uniformata, stante il guazzabuglio di roba indistinguibile l’una dall’altra che è la conseguenza inevitabile della progettazione computerizzata divenuta prassi ormai da troppo tempo.
Gli L 100 di produzione attuale sono disponibili a una somma variabile tra i 4.500 euro ai circa 7.000, in funzione delle finiture. All’epoca il loro prezzo era di 385 mila Lire. Certo non erano poche ma la percezione del valore di quella somma era senz’altro inferiore a quella del costo di oggi, senza contare che le spese di produzione della versione moderna si avvantaggiano dello zero relativo alla casella ricerca e sviluppo, trattandosi del recupero di un prodotto di tanti anni fa.
Come sempre in questi casi, i calcoli relativi all’inflazione non rendono giustizia al rapporto effettivo tra il prezzo di allora e quello di oggi. La percezione del valore del denaro, del resto, è frutto di una convenzione e del rapporto complesso che s’instaura tra costo reale della vita, valore effettivo delle retribuzioni, in termini di potere d’acquisto, condizioni economiche e del mondo del lavoro, prospettive future e altro ancora.
Inevitabile pertanto che, soprattutto nel nostro Paese, qualsiasi somma espressa in valuta attuale sia in ogni caso troppo alta. Ancora più nel rapporto coi costi di un prodotto tanto anziano, commercializzato in un’epoca in cui uno stipendio poteva essere sufficiente per tirare avanti una famiglia, con la natalità di allora, mentre oggi non ne bastano due anche per famiglie senza figli, la procreazione dei quali è divenuta un miraggio tali e tanti sono i costi ad essa legati.
I dati dell’OCSE al riguardo sono impietosi: l’Italia è la sola nazione di tutta Europa, e forse del mondo, in cui le retribuzioni sono calate negli ultimi trenta anni, sia pure a fronte di un aumento di costi e tariffe che definire spropositato è ancora riduttivo.

Persino nella Grecia presa unanimemente a esempio della spietata crudeltà austeritaria dell’Unione Europea e dell’ex capo della sua banca centrale Mario Draghiula, artefici della nuova strage degli innocenti, mille volte più cruenta di quella di Erode date le centinaia di bambini greci morti per fame e malattie a causa delle imposizioni draconiane di Bruxelles, i salari sono aumentati di oltre il 30% in trent’anni. Da noi sono calati del 3.
Inevitabile chiedersi a cosa siano serviti i sindacati che ancor oggi proclamano di essere i più forti e dotati di sostegno d’Europa, se non accordarsi col padronato per scaricare sui lavoratori tutto il costo del recupero di competitività reso necessario dall’adesione a una moneta unica truccata e delle dinamiche economiche che ne sono derivate.
Qualcuno allora giurò che avremmo lavorato un giorno in meno pur guadagnando per un giorno in più, ma a nessuno è passato per la mente di metterlo di fronte alle proprie responsabilità, che sono enormi. Il vergognoso tornaconto personale che ne ha tratto è nulla in confronto alla tragedia in cui ha scaraventato un intero popolo, in combutta con la banda di malaffare politico travestita da partito alla quale apparteneva e appartiene tuttora.
La compressione salariale inoltre è il sistema più efficace per rendere obsoleto il sistema industriale di un Paese, e alla lunga disarticolarne tutto l’apparato economico e istituzionale. Potendo contare a piacimento su quella leva, al ceto datoriale non passa manco per l’anticamera di affinare il prodotto e metterlo all’altezza della concorrenza. Dato che per recuperare competitività basta impoverire ulteriormente i propri dipendenti, cosa ben più spiccia e meno faticosa.
Il meccanismo è quello che la lingua di legno confindustriale definisce incremento di produttività, tranne poi lamentarsi da ogni media che il personale non si trova.
Dimodoché non lo si riduce solo in mutande, ma lo si può tacciare a reti unificate di essere un lazzarone nullafacente.
Il gioco si ripeterà fin quando i lavoratori non li si sarà ridotti sul lastrico, ma per allora chi di dovere ne avrà tratto benefici sufficienti per mettersi al riparo dalle conseguenze di un’azione similmente dissennata.
Come il grafico appena mostrato spiega oltre ogni dubbio, pertanto, non sono tanto i prezzi delle apparecchiature ad essere andati fuori da ogni ragionevolezza, quanto invece i costi dell’appartenenza al baraccone europeo, oltretutto scaricati integralmente e come sempre su chi è stato messo nelle condizioni di non potersi più difendere, previa sottrazione di ogni rappresentanza politica, che hanno causato una percezione del valore del denaro del tutto fuori dalla realtà.
Come diceva lo slogan del partito del té, ai tempi della conquista dell’indipendenza degli Stati Uniti nei confronti dell’impero britannico, No taxation without representation.
Il motivo è semplice: in assenza di rappresentanza politica un qualsiasi ceto sociale è destinato a sobbarcarsi per intero i costi dello Stato, fino a venirne travolto. La realtà della dinamica salariale italiana e delle classi sociali che sono costrette a subirla lo certifica in maniera inequivocabile.
Il problema, a questo riguardo, è che alle persone più viene tolto e più hanno paura di perdere ulteriormente, il che è il deterrente migliore contro ogni prospettiva non di ribellione, ma almeno di azione concreta volta a far cessare uno stato di cose a tal punto inaccettabile.
Lo diceva, del resto, il cugino di Jean Louis Trintignant, possidente terriero e politico locale, nel film Il sorpasso: ai braccianti non si dà nulla, così nulla avranno a pretendere.
Chiaro il concetto?
Quali che possano essere i suoi costi nella riedizione attuale, osservare il woofer degli L100, ossia il glorioso 123-A, è davvero un piacere. La forma delle razze del cestello, la finitura della parte celata alla vista, prima ancora della sua membrana bianca lievemente rugosa e percorsa da ondulazioni concentriche a fini d’irrigidimento, non solo comunicano un’attenzione e una cura proprie del tempo che fu, ma spiegano il significato della parola capolavoro, sia pure nel suo piccolo, che non nasce mai in maniera deliberata ma è il frutto di una serie di scelte e di casualità non preventivabili.
Interessante rilevare che è utilizzato a gamma intera, ossia privo di qualsiasi forma di filtraggio. Una scelta obbrobiosa se non addirittura sacrilega per la setta sempre più folta degli Adoratori della Complessità Realizzativa Tecnocraticamente Certificata e per i suoi capobanda: che ne sarà di tutto quanto va oltre la gamma di frequenze assegnata d’ufficio all’altoparlante?
Dal mio punto di vista, quale assertore convinto della massima semplicità, il cui difetto peggiore e ineliminabile è quello di non permettere la pubblicazione di foto atte a stimolare le pulsioni onanistiche negli Adoratori, le cose andrebbero osservate con meno superficialità di quanto avvenga per solito.
Dunque, se da un lato è vero che che l’altoparlante tende a emettere fin dove arriva, e li sta soprattutto alle sue qualità il contenere al meglio possibile picchi e fenomeni di break up in gamma media, dall’altro lo è ancor più che è proprio il woofer a emettere tutte le fondamentali della stragrande maggioranza degli strumenti che prendono parte all’esecuzione, e poi anche delle voci.
Dette fondamentali pertanto sono prive delle rotazioni di fase, fenomeno cui l’udito umano è particolarmente sensibile e gradisce ben poco, nonché delle altre aberrazioni causate dalle reti di filtraggio. Si determina così una naturalezza di emissione che ha ottime probabilità di controbilanciare con gl’interessi i fenomeni negativi eventualmente connessi con il protendersi del woofer su frequenze che non gli competono.
Per quanto mi riguarda, proprio qui sta il segreto degli L100 e del grande successo che hanno riscosso a livello planetario: lasciare libero l’altoparlante di lavorare come meglio può, senza imporgli le limitazioni di quanto appare tecnicamente doveroso sotto l’aspetto teorico, ma che all’atto pratico causa problemi significativi e soprattutto dall’influsso innegabile sulla nostra percezione.

La targhetta posta sulla copertura del magnete riporta l’identità dell’altoparlante e integra la retina di protezione per lo sfogo di decompressione, particolare allora non così comune negli altoparlanti destinati al mercato amatoriale.

Il midrange è l’LE 5-2 e ripropone la medesima e squisita fattura del woofer, sia pure in proporzioni minori. Ne deriva un aspetto decisamente massiccio, tale da indurre un’idea di robustezza tale, a livello meccanico, da produrre l’impressione di poterci piantare chiodi nel muro senza neppure scalfirlo. Sul frontale la flangia metallica finemente spazzolata ne incrementa se possibile le doti di raffinatezza e lo rende ancora una volta molto gradevole da osservare.
Al pari del woofer non è tagliato verso l’alto ma dispone di un singolo condensatore che fa da filtro sul versante opposto, per un taglio a 6 dB per ottava. Dispone poi di un L-pad per calibrarne il livello d’emissione.

Il tweeter è come abbiamo detto l’L 25 A, il classico esemplare a conupola che abbiamo visto chissà quante volte nei diffusori del marchio californiano. Flangia metallica, magnete sostanzioso, sospensione in grado di permettere ampie escursioni della membrana, per quanto nelle proporzioni relative a un altoparlante destinato a emettere sulle frequenze alte, sono gli elementi tipici del prodotto qualitativamente inappuntabile dei tempi che furono.
La presenza dell’anello di spugna atto a calibrarne l’ampiezza di emissione conferma l’idea che i tecnici JBL avessero ben chiare le idee su determinati fenomeni che restano trascurati dalla massima parte se non dall’intera produzione attuale. Ma che fa, basta una bella finitura a pianoforte per far strabuzzare gli occhi agli appassionati, tanto è con quelli che ascoltano nella stragrande maggioranza.
Quella finitura oltretutto è un ottimo argomento per portare alle stelle il prezzo di vendita, mentre invece un misero anello di spugna quanto lo vuoi far pagare?
Le spugne in dotazione ai diffusori pervenuti devono aver conosciuto tempi migliori. Lo stesso vale per la membrana dei tweeter, la cui protuberanza deve essere stata schiacciata, forse dalle dita di un infante giustamente curioso, che ormai sarà diventato un padre di famiglia e forse persino nonno.

Per la rete di filtraggio del tweeter, le scelte sono del tutto identiche a quelle del midrange: un solo condensatore per un taglio a 6 dB/ottava e un L-pad per il controllo del suo livello.
A questo proposito va rilevato il succedersi delle scelte relative alla fase attribuita agli altoparlanti nelle diverse serie in cui è stato realizzato il diffusore. Alcune avevano persino il woofer in controfase, mentre mid e tweeter sono stati collegati in opposizione oppure in accordo, probabilmente allo scopo di integrare meglio l’emissione di ciascun altoparlante a quelle degli altri due. Gli L 100 qui descritti hanno tutti gli altoparlanti in fase.
L’intervento
Giunti via corriere quasi del tutto incolumi, malgrado l’imballo lasciasse parecchio a desiderare, gli L 100 non hanno avuto soverchie difficoltà a narrare della loro storia, che dev’essere stata alquanto tribolata. Almeno quella recente: il forte odore di muffa che emanavano era testimonianza di un abbandono durato forse qualche decennio, probabilmente all’interno di un ambiente parecchio umido come una cantina.
Una volta rimossi gli altoparlanti, il forte odore è diventato pestilenziale. Inimmaginabile poi è quel che è uscito fuori al momento di rimuovere l’assorbente interno, operazione svolta per fortuna all’aperto, così da rendere improcrastinabile un’opera di bonifica particolarmente accurata.
Considerando che c’è stato addirittura chi ha trovato un topo morto, in uno di questi diffusori, si può dire che nonostante tutto la sorte toccataci non è stata delle peggiori.
Anche le condizioni delle superfici esterne in legno, in particolare quelle impiallicciate, lasciavano parecchio a desiderare. Ruvide e seccate, erano ulteriore prova di un abbandonato ultradecennale, al punto tale che il legno sembrava quasi aver “alzato il pelo”, come si dice in gergo.
Per prima cosa quindi è stata necessaria una leggera passata di carta vetrata sottilissima, una 1000 già usata più volte, che oltre a lisciare almeno un po’ le superfici ha reso meno vistosi alcuni graffi presenti su di esse.
Una lisciatura finale può essere eseguita con della carta da cucina in rotoli, che a questo riguardo ha dimostrato un’efficacia sorprendente.
Ripulito il tutto, tre passate di olio paglierino, a distanza di un giorno o due l’una dall’altra hanno riportato lo stato delle superfici a un aspetto decisamente meno sofferto. Il legno quell’olio se lo è bevuto persino con avidità, oserei dire. Le vistose macchie di scoloritura presenti sui diffusori sono divenute pressoché invisibili.
Il loro possessore tra l’altro mi ha raccontato che la persona da cui li aveva acquistati poco tempo prima lo ha assicurato che erano stati “ricondizionati”.
Non oso immaginare in quale stato fossero, prima di tale ricondizionamento.
Gli altoparlanti per fortuna funzionavano tutti, a riprova di quanto siano tetragoni ai maltrattamenti e alla trascuratezza più feroci. Pertanto il resto del recupero si è articolato sul consueto rifacimento totale della coibentazione interna e poi del cablaggio e del crossover, compresi 4 L-pad nuovi di pacca.
E’ noto che per gli L 100, come per diversi altri diffusori storici tra i più diffusi, siano disponibili reti di crossover riprogettate nei modi più vari, che secondo le intenzioni dei loro realizzatori dovrebbero colmare le lacune della veste d’origine.
Il problema, a tale riguardo, è che se a livello visivo, ossia del tracciato della risposta in frequenza che ne deriva, sembrano poter dare luogo a un concreto passo avanti, quantomeno in termini di linearità complessiva, sempre molto gradita a vedersi, soprattutto per chi apprezza in modo particolare certe cose, quel che ne deriva all’atto pratico è uno snaturamento sostanziale della sonorità dei diffusori.
Il che, dopo aver speso somme che difficilmente sono indifferenti, non so se possa essere considerato il risultato più desiderabile.
Personalmente resto convinto di una cosa, che peraltro ho scritto tante volte e ripeto ancora: se a suo tempo le cose sono state fatte in un certo modo, è probabile che vi sia un buon motivo. Tantopiù se le scelte in questione sono state fatte in una fase storica in cui l’imperativo del profitto non era pressante come al giorno d’oggi.
I progettisti di allora inoltre non erano assolutamente degli sprovveduti, tutt’altro. Riuscivano a realizzare, a orecchio e sulla base della loro esperienza empirica con le risorse tecniche del tempo diffusori che non solo sono entrati nel mito, ma hanno dimostrato di funzionare molto meglio di tanta robaccia attuale, sia pure realizzata con l’ausilio delle tecniche di calcolo computerizzate più raffinate. Ma si sa, gli sbarbati di oggi credono di sapere e di aver capito tutto, mentre invece brancolano nel buio, senza neppure rendersene conto, tanto sono impreparati, innanzitutto a livello cognitivo.
Per cui, a mio avviso, la cosa migliore è sempre attenersi all’assetto originale del diffusore, migliorandolo dove possibile, ossia nelle parti per cui all’epoca non c’era grande considerazione e quindi erano lasciate un po’ al loro destino, come il cablaggio interno e la componentistica della rete di filtraggio.
Anche la coibentazione, se eseguita a modo e coi materiali giusti fa la sua parte, oltretutto rilevante, quindi già così di margine ce n’è più che in abbondanza e i risultati lo dimostrano. Senza contare il rispetto dovuto a un prodotto dal simile retroterra storico, che impone di agire su di esso con il necessario senso della misura e in maniera filologicamente rispettosa.
Quel che ne deriva è una sonorità molto godibile, e non solo con il rock e il blues come prescrive la vulgata riguardante i diffusori JBL. Anche gli strumenti acustici e persino quelli ad arco trovano un’intrepretazione non solo gradevole ma verosimile, il che può sembrare improbabile ma questo è.
A dimostrazione che i limiti timbrici attribuiti per antonomasia ai JBL sono dovuti alle scelte eseguite per la loro realizzazione pratica in aspetti che con ogni probabilità sono stati ritenuti secondari, come del resto usuale nella loro epoca e sovente anche al giorno d’oggi.
Del resto basta guardare i cavi d’origine per darsi una spiegazione della loro realtà nella veste iniziale e in quel che si può ottenere lavorando su tale aspetto. Per quel che riguarda le reti di filtraggio, quanto a componenstistica erano anche meno peggio di tanti loro contemporanei e soprattutto di JBL ben più costosi di epoca successiva. Purtroppo però l’invecchiamento da un lato, e dall’altro le prerogative tecniche di quei componenti in confronto alla produzione odierna di qualità elevata, le cui caratteristiche all’epoca sarebbero state persino oltre la fantascienza, producono una realtà del tutto diversa da quella di allora.
Quelli che sembravano limiti insormontabili, nella nuova veste dei diffusori non appaiono più come tali ma semplici inflessioni che vanno persino a beneficio della chiarezza di emissione e soprattutto della sensazione di presenza in ambiente degli esecutori, che diviene addirittura palpabile.
A differenza di quello che avveniva un tempo, e succede tuttora con gli esemplari in condizioni d’origine, non c’è più bisogno d’impazzire per delle ore a smanettare sui controlli di livello alla ricerca di un equilibrio accettabile, peraltro senza riuscirvi. Basta lasciarli in posizione centrale e gli L 100 fanno tutto da soli, a patto naturalmente che l’impianto fornisca loro un segnale congruo.
La riproduzione del contrabbasso è tra le migliori in assoluto che sia dato ascoltare, proprio per via della mancanza delle consuete aberrazioni timbriche causate da un filtraggio magari in grado di dare risultati tecnici in apparenza ineccepibili, ma che poi mostra i suoi limiti a livello acustico. Pieno, rotondo, esteso e controllato, ma soprattutto naturale e credibile, nella sua matericità, eccelle non solo nel pizzicato ma anche quando suonato con l’archetto.
In tale frangente si vanno a interessare anche le frequenze di pertinenza delle vie superiori: si tratta di un’esperienza che andrebbe fatta almeno una volta per rendersi conto del significato di certe soluzioni e di quel che inducono in termini di emissione. Con la sicurezza che una volta provate, certe sensazioni non le si dimentica più.
Il problema casomai è per tutto quello che verrà dopo: per forza di cose sarà valutato come non pienamente all’altezza, proprio in conseguenza di quanto toccato con mano, e non solo in senso metaforico, con degli L 100 similmente preparati.
La sensibilità del diffusore non solo risulta accresciuta ma è più che sufficiente per non destare rimpianti anche coi 45 wattini di un Sansui AU 888 appena ricappato, insieme al quale forma un’accoppiata vintage di ottima coerenza.
Una sorgente che valichi appena i limiti della decenza, condizioni di contorno non del tutto abbandonate a loro stesse ed ecco formato un impianto ancora economico ma capace di indurre soddisfazione che non sono da dare per scontate in tanti mostri per oligarchi che oggi sembrano la sola possibilità di un settore che, ormai da troppo tempo, s’impegna al meglio per suicidare sé stesso. Non prima di aver fatto scappare a gambe levate persino i più volenterosi e affezionati.
Non mi dilungo oltre, dato che non ce n’è bisogno: le figlie del secolo scorso, se trattate con un minimo di cura, sono capaci far sfigurare tanti e persino troppi campioni autoproclamati del secolo attuale.
Scusate se è poco.
Grazie per il bellissimo articolo sig. Checchi, è sempre un piacere per me leggere la vostra rubrica. Da appassionato di riproduzione hifi avevo pensato di comprare i nuovi L100, ma ho constatato che sono estremamente difficili da pilotare avendo impedenza e fase da brividi su alcune frequenze, quindi ho desistito. Mi domando come mai i nuovi progettisti JBL hanno trascurato un fattore così importante? Sembra ormai un contagio generale, anche altri marchi importanti producono diffusori ostici, spesso si vedono situazioni in cui per pilotare diffusori sotto i 2000 euro occorrono amplificatori dal costo triplo e non si è nemmeno certi del risultato a lungo termine temendo un guasto dell’amplificatore stesso a causa della sua inadeguatezza…. Sono io che sono sfortunato ad aver incappato in simili situazioni o, al giorno d’oggi è normale?
Saluti cordiali
Gennaro
Ciao Gennaro, grazie dell’attenzione e dell’apprezzamento.
Dal mio punto di vista, le cose vanno verificate sul campo. Dai parametri tecnici spesso si ricavano idee che non trovano riscontro all’atto pratico. In ogni caso il quadro che prospettano è talmente parziale e limitativo da non permettere di comprendere la reale personalità di un qualsiasi oggetto destinato alla riproduzione sonora. Il più delle volte, se non sempre, i dati che forniscono sono del tutto ingannevoli, proprio perché scollegati dalla realtà del funzionamento concreto, caratterizzato da una complessità di elementi e di concomitanze che misure e dati tecnici non riescono neppure lontanamente ad approssimare.
Invece di preoccuparsi riguardo a cose del genere, è utile cercare di porre ciascun componente dell’impianto nelle condizioni di esprimersi nel modo migliore, come tante volte ho scritto nei miei articoli.
Questo non si ottiene seguendo i consigli interessati di siti e riviste allineati, che spingono solo ed esclusivamente a fini di vendita dei prodotti, ma con la messa a punto del sistema, in funzione delle condizioni in cui opera e dei risultati cui si ambisce.
Quindi se ti piacciono gli L100 prendili pure e vedrai che qualsiasi buon amplificatore di potenza adeguata sarà in grado di pilotarli in maniera congrua. Preoccupati invece di far si che ai morsetti d’ingresso dei diffusori e più ancora ai contatti degli altoparlanti arrivi il segnale migliore possibile e che i componenti a monte dell’impianto operino fattivamente in tal senso.
Nel caso, quando avrai installato il tuo sistema inviami un messaggio per mezzo del modulo di contatto e vedrai che potrà
fare un salto di qualità del tutto inimmaginabile, fermi restando i suoi componenti di base, come avviene del resto per qualsiasi impianto su cui metto le mani.
A presto
Grazie mille per la gradita risposta e disponibilità. Francamente ho un po’ paura di addentrarmi in una nuova avventura con le L100 di nuova generazione in quanto ho già avuto due terribili esperienze per cercare di far funzionare due diffusori apparentemente innocui, ovvero B&W 685 S2. Con questi diffusori sono passati a miglior vita due amplificatori, un NAD 326 ed un Audio Analogue Fortissimo, i quali dopo appena 2 anni di esercizio, subito dopo la scadenza della garanzia, si sono danneggiati in modo non conveniente da riparare. Sfiduciato quindi mi sono disfatto dei suddetti diffusori ed ora sono alla ricerca di diffusori “docili”, ho contattato varie fabbriche sia all’estero che in Italia, per chiedere i grafici di fase ed impedenza per i diffusori e le curve di carico per gli amplificatori, ma nessuno me ne ha mai dato riscontro manco fossero dati coperti da segreto di stato. Capisco che tali dati non possono essere esaustivi per comprendere a pieno la situazione, ma non c’è altro modo a mio avviso per avere un primo approccio. Un costruttore italiano di amplificatori si era impegnato di prestarmi un amplificatore da 6000 euro da tenere in prova per 3 mesi per pilotare le L 100, se dopo tale termine l’amplificatore non si fosse rotto avrei dovuto comprarlo. Ho apprezzato molto tale disponibilità tuttavia non me la sento di procedere per tentativi su una somma complessiva diffusore / amplificatore di 10000 euro. Se questo è il modo di procedere credo che il settore abbia bisogno di un “punto di ripristino” per tornare “umano” ed accessibile a tutti. Grazie infinite per la pazienza e mi scuso per essermi dilungato.
Saluti cordiali
Gennaro
Rieccomi a te, Gennaro.
Le diagnosi a distanza sono notoriamente colme d’insidie e tendenti all’errore in maniera fin quasi inevitabile, ma per come la vedo io i B&W 685 non hanno caratteristiche tali da causare le disavventure che riporti.
Quindi tendo a pensare che il problema risieda altrove. A naso, direi nel resto dell’impianto o altrimenti nelle modalità di utilizzo.
In genere poi, le rotture degli amplificatori, quando localizzate negli stadi finali degli esemplari a stato solido, condizione in cui si può eventualmente chiamare in causa quanto vi si trova a valle, tendono a trascinare con sé anche gli altoparlanti, bruciando le bobine specie dei woofer, o in altri casi i tweeter, cosa di cui però non parli.
Comprenderai anche che i problemi da te patiti non possano essere considerati “di normale amministrazione”, altrimenti come dici giustamente, questo settore sarebbe defunto già da parecchio tempo.
Non spieghi poi se gli amplificatori che si sono rotti erano stati acquistati nuovi oppure usati e nemmeno qual è stata la diagnosi dei tecnici cui li hai affidati per la riparazione e il loro eventuale commento riguardante le cause dell’accaduto.
Quindi davvero non so: se la rottura è avvenuta deve avere per forza di cose uno o più motivi ma è la realtà stessa del resto degli appassionati, al di là della logica, a spiegare che non si tratta di quello che pensi.
Quindi il discorso degli oltre 10 mila euro necessari per “andare sul sicuro”, sintetizzando così le tue valutazioni, non ha senso. Anche perché l’esperienza dice che sono proprio le apparecchiature più costose a essere maggiormente esposte a problemi di affidabilità.
Cosa del resto inevitabile, al di là del luogo comune che vorrebbe un oggetto più costoso realizzato con cura maggiore rispetto a uno più economico. In genere le apparecchiature alto di gamma hanno una realizzazione interna più complessa rispetto alle altre, ma un proverbio piuttosto noto dice che quello che non c’è non può rompersi. Inoltre, questo lo aggiungo io, quello che non c’è non costa nulla.
Le apparecchiature di livello tra l’altro hanno maggiori probabilità di essere tirate per i capelli, in qualche aspetto della loro funzionalità, vuoi per ottenere un determinato comportamento, vuoi ai fini di un sensazionalismo delle caratteristiche tecniche volto ad attrarre l’attenzione del pubblico. Proprio in casi del genere dimostrano di essere prive come sempre del significato che si tende ad attribuire loro ma particolarmente esplicite invece nel dimostrare la loro ingannevolezza e quindi la loro sostanziale dannosità.
Neppure ha senso la tua richiesta inviata ai vari costruttori, riguardo ai quesiti di tuo interesse, i dati che che intendono rendere noti li hanno già resi pubblici e sono appunto quelli contenuti nelle loro tabelle delle caratteristiche tecniche.
La verifica di elementi ulteriori le rimandano casomai alle pubblicazioni che ancora insistono a fare le cosiddette misure, con il consueto scambio di favori legato a doppio filo con i contratti pubblicitari. Dette misure, insieme alle loro modalità di definizione e di esecuzione, sono talmente appropriate che ormai da vari decenni le stesse pubblicazioni che ne fanno il loro maggior vanto vanno alla ricerca della correlazione con le sensazioni di ascolto, ma per colpa di un destino beffardo ancora non le hanno trovate.
Proprio come avviene, del resto, per le varie associazioni, da quelle per la ricerca sul cancro a quelle che dicono di voler combattere la fame nel mondo: ci sfracassano gli attributi da una vita e con ogni mezzo, ma la terribile malattia e le condizioni di vita disumane non solo non sono arretrate di un millimetro, ma vanno via via acquisendo nuova incidenza e diffondendosi anche in zone del mondo che un tempo si sarebbero ritenute immuni dal fenomeno.
Dunque? Sono sbagliati i metodi con cui perseguono le loro finalità o proprio queste ultime, è opportuno intenderle solo di facciata mentre invece la vera ricerca è nei confronti qualcos’altro?
Inutile scusarsi di essersi dilungati, infine, anche se sembra sia diventato di prammatica. Il pensiero più complesso oggi ritenuto desiderabile per la mente umana si fa di tutto al fine di ridurlo a un mero grugnito. Per gentile interessamento dei social di ogni genere, luoghi in cui per curiosa casualità le loro vittime sono nello stesso tempo anche i carnefici. Peraltro così facendo si giustificano anche le modalità zootecniche con cui di fatto sono gestite e custodite le mandrie umane. Più le si riduce a uno stato animalesco e più saranno facili da condurre ove ritenuto più opportuno.
E’ evidente d’altronde che più è complesso l’accadimento che si ha intenzione di descrivere e più necessiterà di spazio, ma è proprio la battaglia nei confronti della logica, anche la più elementare, quella che oggi si combatte senza quartiere e senza voler fare prigionieri.
gran bella presentazione. oserei affermare deliziosa.Una cosa mi chiedo : ad essere fortunati se ne trovano ancora di quelli made esclusivamente IN USA MAGARI COL MAGNETE IN ALNICO. PARLO DEL WOOFER metti il caso che una persona li volesse nuovi di pacca,e qui sorge il dubbio,si compra un prodotto made in CINA. Nella di Lei lunga esposizione non ne da menzione. Per cui il dubbio rimane…. COSA COMPRO? Che dire., per ora mi accontento delle mie. NEW ADVENT LAUDSPEAKER… QUELLE COL TWEETER A UOVO FRITTO 45 ANNI DI BUON LAVORO E NOTEVOLI PERFORMANCE ASSIEME AL MIO TRIO KENWOOD KA -9100.COMUNQUE GRAZIE MOLTE. CORDIALMENTE. D T L
Ciao Luigi, grazie dell’apprezzamento.
Acquistare degli L 100 d’epoca è sempre un bel terno al lotto, non conoscendo le modalità con cui sono stati tenuti nel corso degli anni. In ogni caso con un buon restauro si può sempre recuperare un diffusore molto gradevole alla vista e all’ascolto, tranne ovviamente i casi disperati.
Non ho parlato del modello di produzione attuale, in quanto non ho notizie certe riguardo alle sue prerogative effettive. Se ne trovano talvolta a prezzo invitante, fermo restando che con un intervento di messa a punto dovrebbe essere anch’esso in grado di fornire prestazioni interessanti.
Dell’Advent non c’è molto da dire: si tratta di un classico che suonava bene allora e lo fa anche oggi. Anche in questo caso un intervento eseguito come si deve può dare risultati persino inattesi, sempre nel rispetto della personalità originaria del diffusore.