Come già rilevato nella prima puntata di questa rassegna, gli LP che spaccano non sono quelli che suonano semplicemente bene, ma quelli che suonano meglio, e di parecchio. Riproducendoli l’impianto si esalta. Ma se per caso non va nemmeno con il loro impiego, forse è meglio valutare un intervento sulla sua composizione e messa a punto.
Desidero fare ancora una volta presente che, a questo riguardo, è mia ferma intenzione tenermi alla larga dalla banalità delle cosiddette registrazioni per audiofili. Tranne qualche caso, si parlerà di album destinati al normale mercato discografico, sia pure d’élite, termine che per una volta assume un significato buono. Dato che a me, e di conseguenza al Sito della Passione Audio, non basta una resa sonora al di sopra delle attese, per quanto di larga misura.
Nella loro maggioranza, infatti, i cosiddetti dischi per audiofili rispecchiano con buona precisione le attitudini del pubblico cui si rivolgono. Al quale, va riconosciuto, sia pure con rammarico, che della musica e della sua qualità artistica interessa poco o nulla: quello che desidera innanzitutto è far andare al meglio l’impianto, per rassicurarsi sulla sua effettiva resa sonora o forse solo per finalità onanistiche, riguardo a cui anche il tunz-tunz e il peggior ci ci-bum bum risultano perfettamente funzionali.
Magari qualcuno potrebbe sentirsi offeso, cosa che ovviamente mi dispiace, ma è un problema suo. Comunque ha tra le mani lo strumento più indicato per entrare nel modo più approfondito possibile nella fruizione e nella comprensione dell’esecuzione e della composizione musicale: basta semplicemente usarlo per quello per cui è nato, l’ascolto di musica, appunto nella maniera più fedele possibile. Evitando se possibile di fare della sua fedeltà o di quella che più spesso si pretende di definire come tale ma in realtà non lo è assolutamente, il fine invece che il mezzo.
Concetto tutto sommato semplice ma spesso equivocato o proprio trascurato, proprio in quanto è sulla fedeltà, più o meno pretesa, più o meno reale, che si spinge con maggior forza, finendo col parlare solo di quello. La musica, seppure, la si mette in un angolo, proprio perché non se ne può fare a meno. Invece è lei che ci dà l’emozione: se poi è veicolata mediante un tramite di efficacia eccellente, tanto meglio. Essenziale tuttavia è il tenere presente che sempre di un tramite si tratta e come tale va inteso.
Lo so, è difficile continuare a considerarlo tale quando i suoi realizzatori si affannano a caratterizzarlo in modo sempre più appariscente, sfondando sovente i limiti del pacchiano più deteriore, ovviamente a fini commerciali, mentre nello stesso tempo una pletora di corifei ricorre al suo intero arsenale dei pretesti semantici, che va riconosciuto essere non solo fin quasi infinito ma in perenne espansione, per convincerci ogni volta che proprio quello è l’oggetto che fa per noi. Esattamente come per tutti quanti gli altri.
Fondamentale a questo proposito è quella che si potrebbe definire saldezza dei nostri principi e soprattutto della nostra capacità di attribuire una scala corretta di priorità a quanto ci troviamo di fronte. Dunque in primo luogo c’è la musica: è per il suo tramite che innalziamo il nostro spirito, ci si allarga il cuore e volendo si acquisisce anche un retroterra culturale che può rivelarsi utile anche nell’analisi di altri aspetti e questioni. In funzione di essa c’è l’impianto, dato che serve a riprodurla. In sua assenza servirebbe davvero a poco e ancora a meno servirebbero le alettature poderose, i frontali massicci e tirati a lucido, le manopole e le lucine, insieme a tutto il resto dell’orpello che fa da contorno alla riproduzione sonora, per quanto vi sia chi fa di tutto per metterlo al primo posto.
L’orpello tale è e tale rimane, il piacere della musica è destinato a sollevarci, virtualmente in eterno, il compiacimento per elementi che definiamo accessori per non chiamarli deteriori, come sarebbe più corretto, è effimero. Può durare per qualche istante o forse settimana, ma il suo destino non può essere che quello proprio delle cose fini a sé stesse o tuttalpiù al fatturato di qualche furbo commerciante.
Non a caso, l’occupazione cui si dedica con l’impegno maggiore chi attribuisce importanza maggiore all’impianto che alla musica è il compra-compra. Proprio perché le sensazioni che genera l’idolatria del pezzo di ferro, per quanto possa essere tirato a lucido, hanno bisogno di essere rinnovate di continuo.
Chi invece apprezza innanzitutto la musica, al punto di ritenere necessario ascoltarla nel modo migliore possibile, da essa è accompagnato per il corso della sua vita.
Ecco perché si cerca di spossessarlo della proprietà del supporto fisico e quindi di poterne disporre a piacimento: l’affare che ne deriva ha risvolti economici di estrema rilevanza e soprattutto assicura ai gestori del sistema un predominio ancora più smisurato, che una volta a regime diventa sostanzialmente inattaccabile e avoca a sé il controllo dell’intera filiera, estromettendone le diverse professionalità e per conseguenza deturpando e impoverendo il prodotto finito. Proprio quel che dimostra, in maniera plateale, la realtà odierna della scena musicale ma che proprio per questo diventa enormemente più profittevole.
Dunque è il supporto fisico, quello caratterizzato dalla qualità più elevata su entrambi gli aspetti, quello artistico e quello tecnico, il più indicato alle finalità concrete dell’appassionato di musica ed è ad esso che vale la pena dedicare le proprie attenzioni ed eventualmente un dispendio economico.
Hanalei Bay
Se è vero, come è vero, che gli anni ’80 sono stati quelli dell’impazzimento generale, secondo quel che dicono molti e anch’io ripeto sovente, lo è altrettanto che non tutti hanno perduto il lume della ragione durante il loro svolgersi.
Tra questi ritengo che una menzione sia dovuta a Lew Soloff, trombettista in credito di riconoscimento come pochi altri, nonché colonna portante della big band di Gil Evans, forse l’ultima della storia a operare in pianta stabile in ambito jazzistico, secondo una modalità indipendente.
Per inquadrare il contesto nel modo dovuto, va rilevato innanzitutto che dalla collaborazione con Gil Evans derivano alcuni tra gli album migliori di Miles Davis e della storia del jazz nel suo complesso. Tra di essi è impossibile non menzionare “Birth of the cool”, “Miles ahead” e “Quiet nights”.
Non solo, la collaborazione tra i due artisti avrebbe indicato la strada per l’evoluzione del jazz nei decenni a seguire.



Fino alla cosiddetta svolta elettrica, per la quale Davis, come noto, fu letteralmente criminalizzato dalle frange più oltranziste dell’ortodossia corporativa legata alla critica musicale. Probabilmente perché in essa vedeva un pericolo per la sua stessa sopravvivenza, ma della quale lo stesso Evans è stato non solo tra gli artefici ma anche tra gli alfieri più convinti.
Basti pensare, a questo proposito, che con la sua big band ha realizzato uno tra gli album caposaldo del genere: “Plays the music of Jimi Hendrix”

Evans aveva pianificato di sperimentare l’innesto della voce e della chitarra di Hendrix nella sua band, proprio nello stesso modo con cui Davis intendeva collaborare col chitarrista mezzosangue nero-pellerossa. La sua morte però rese impossibile l’incontro, fissato per la settimana successiva.
Con la denominazione di “Monday Night Orchestra”, per alcuni anni l’orchestra di Gil Evans si è esibita ogni lunedi allo “Sweet Basil”, locale di New York in cui ha registrato due doppi LP dal vivo, “Live at Sweet Basil Vol. 1 e 2” e due singoli, “Bud and Bird” e “Farewell”.
Quest’ultimo è uscito postumo, dopo la morte di Evans, avvenuta nel 1988.




Proprio sull’onda dei due dischi doppi, quando mi sono trovato nella città statunitense, per combinazione fortunata di lunedi, è stato inevitabile prenotare un tavolo allo Sweet Basil, per ascoltare la Monday Night Orchestra nel suo ambiente naturale.
La big band si è esibita più volte anche in Italia, segnatamente a Umbria Jazz, nella chiesa di S. Francesco al Prato dove ha tenuto concerti memorabili, nel secondo evento della serata. Solo nell’ultimo anno, il 1988 se non ricordo male, è stato ammessa al rango di evento principale, con la conseguente esibizione ai Giardini del Frontone.
Era troppo tardi, purtroppo. Gil Evans non c’era più e la band era nelle mani del figlio Miles, anche lui trombettista, con grande forza di volontà ma per forza di cose senza l’autorevolezza e il carisma del padre, pur con il sostegno dello stesso Soloff. Vi fu così chi non seppe stare nei ranghi, cosa essenziale in una big band, e nel corso del concerto Bireli Lagrene volle esibirsi in un assolo non preventivato, lanciandosi nel quale bersagliò Miles Evans con uno sguardo di sfida alquanto plateale, sotto gli occhi di un pubblico che in buona parte, forse, neppure si accorse di quel che era accaduto.
L’equilibrio dell’esibizione, nel suo insieme non ne fu toccato più di tanto, ma l’episodio è significativo dello sbandamento che ormai aveva colto la band, in particolare tra gli elementi meno collaudati, che in breve avrebbe portato al suo scioglimento.
Altri, e in particolare i membri storici della band, non avrebbero mai osato un gesto simile, non fosse altro che per il rispetto dovuto alla memoria di un musicista del calibro di Gil Evans. Altri invece non se ne curarono, o meglio ritennero più importante il mettersi in evidenza, sia pure in un modo così discutibile e in un contesto d’importanza men che secondaria.
Impossibile non menzionare anche l’esibizione dell’87, con Sting nella formazione come cantante, forse a corollario della sua impresa para-jazzistica che ebbe risultati di grande successo ma sostanzialmente improbabili, come rilevato a suo tempo.
Il richiamo del grande nome, agli occhi del pubblico generalista, è stato tale da rendere necessario lo svolgimento del concerto allo stadio di Perugia. Dall’evento è stato tratto un triplo LP, forse non provvisto di tutti i crismi dell’ufficialità, intestato a “Sting e Jill Evans”. Il titolo è “Miles Davis/Jazz Festival”, forse in omaggio alla lunga collaborazione dei due musicisti che ha dato vita ad alcuni tra gli album più memorabili nella discografia di ciascuno, nonché dell’intera storia del jazz”.
In esso si può ascoltare fino a che punto la voce di Sting fosse in buona sostanza fuori contesto rispetto alla musica dell’orchestra, culminando con il suo violentare “Little wing” di Jimi Hendrix, innestandovi nello spazio riservato all’improvvisazione vocale un richiamo alla beatlesiana “From me to you”, secondo una scelta che definire di pessimo gusto è ancora riduttivo.
Personalmente mi riesce difficile proprio il comprendere come certe idee possano affacciarsi alla mente di chicchessia e soprattutto come le si possa ritenere attuabili.

L’impegno che Soloff profondeva nelle esibizioni dell’Orchestra di Gil Evans era rilevante. Al punto che, alla fine del concerto del 1988, potei osservare personalmente come avesse aveva il labbro superiore piagato, quando ho avuto la possibilità di scambiare con lui qualche parola.
In “Hanalei Bay”, le esecuzioni denotano la loro vicinanza con quelle della big band di Gil Evans, affrontate però da un organico più ristretto. Ne derivano brani più brevi, anche per via del non dover lasciare lo spazio necessario agli assolo dei componenti la big band, e ficcanti, proprio in virtù della loro maggiore compattezza.
Il disco parte subito a tutta con “Salazar”, brano dalle inflessioni latineggianti in cui Soloff si esibisce in una serie di soli da manuale, intercalandosi col tastierista Pete Levin, altro elemento fisso dell’orchestra di Evans. Già dai primissimi istanti d’ascolto si può rilevare la parentela tra la musica eseguita sul disco in questione e quella della big band dei lunedi sera. Manca ovviamente la corposa sezione fiati, ma il piglio, l’attitudine e le finalità sono senz’altro simili.
Il brano successivo, “My buddy” è decisamente più riflessivo e si apre con l’introduzione al basso senza capotasti di Mark Egan, tra i più stimati specialisti dello strumento. Vi fa seguito l’assolo di Lew Soloff, che per l’occasione ricorre alla sordina, ponendo in evidenza innanzitutto la capacità di differenziarsi in maniera ben percettibile dalle sonorità davisiane, vera e propria icona del genere, al punto di essere divenuta una sorta di luogo comune nel quale fin troppi sono incappati. La delicatezza dei toni pastello, solo a tratti inframmezzati da brevi sprazzi più sostenuti energeticamente, caratterizza l’esecuzione di Soloff, semplicemente superba.
Si arriva così alla traccia che dà il titolo all’album “Hanalei Bay”. E’ un samba, sia pure alquanto sui generis, in cui Soloff ha modo di porre in evidenza ancora una volta il suo virtuosismo, stavolta al flicorno, legato strettamente all’immancabile espressività. La sezione cruciale del brano però è quella in cui trova spazio l’assolo di Hiram Bullock alla chitarra. Lo esegue accompagnandosi con la voce ed è un esempio del suo retaggio bluesistico quantomai solido, unito a una comunicativa tale da far si che ricordi Jimi Hendrix, ma senza le esasperazioni a corde tirate allo spasimo di troppi dei suoi epigoni. Il senso della misura di Bullock anzi è commendevole e, unito al feeling che pervade il suo modo particolare di suonare, ha fatto si che divenisse il chitarrista fin quasi obbligatorio nel periodo immediatamente successivo, per le registrazioni di jazz elettrico.
Di lui ricordo in particolare i concerti con il gruppo di David Sanborn, durante i quali, al momento dell’assolo, scendeva dal palco e continuava a suonare passando in mezzo al pubblico, fermandosi di tanto in tanto. Rimaneva tra gli spalti piuttosto a lungo, spostandosi un pò di qua e un po’ di là, mentre i presenti andavano giustamente in visibilio ed esprimevano rumorosamente il loro gradimento.
Innanzitutto perché fino ad allora nessuno aveva azzardato mai cose del genere, rese tecnicamente realizzabili dal trasmettitore che portava appeso alla cintura, e in secondo luogo perché nelle sue escursioni continuava a esercitare sullo strumento e sull’esecuzione un controllo impeccabile.
Immaginiamo quindi cosa volesse dire avere un chitarrista di levatura simile a pochi centimetri di distanza, fin quasi da poterlo toccare, e osservare i suoi virtuosismi. Personalmente non ne ho bisogno, avendo avuto più volte la possibilità di vivere quell’esperienza, che si è stampata ovviamente nella mia memoria e mi piace ricordare di tanto in tanto come un episodio tra i più coinvolgenti emotivamente degli innumerevoli concerti cui ho assistito.
La prima facciata dell’LP si chiude con “A felicidade”, la cui introduzione vede vede Bullock ancora una volta protagonista, ma alla chitarra acustica. Il brano del resto è eseguito sostanzialmente in un duo di chitarra e tromba, solo arricchito di tanto in tanto dall’intervento, appena accennato, delle percussioni di Manolo Badrena. La vena intimista del brano, o meglio ancora la sua evidente saudade, ne fanno un oggetto prezioso, un piccolo ma fulgido gioiello che brilla di luce propria sia pure in mezzo a tanto materiale di livello artistico impeccabile.
La seconda facciata dell’LP si apre con “La toalla”, brano composto da Kenwood Dennard, batterista che ha conosciuto la prima notorietà con i Brand X, sostituendo Phil Collins quando era affaccendato con i Genesis. Di quel gruppo ha composto anche uno tra i brani più rappresentativi dell’intero repertorio, “Malaga virgen”.
La sezione ritmica, in cui Dennard prende il posto di Adam Nussbaum, è ovviamente in grande evidenza e nell’introduzione basso e persino tastiere sono suonati in modalità percussiva, mentre nello svilupparsi del brano hanno modo di porsi in evidenza gli assolo di Hiram Bullock alla chitarra e in particolare quello di Soloff, che esegue il suo con grande energia e altrettanta precisione. Malgrado sia piuttosto lungo, Soloff riesce a mantenere inalterata la tensione durante tutto il suo svolgimento, cosa da non dare assolutamente per scontata.
Talvolta, anzi, quando i brani sono così caratterizzati ritmicamente gli assoli tendono fatalmente a perdere d’incisività. Non è assolutamente il caso per “La toalla” e malgrado la sua lunghezza, oltre 8 minuti, gli esecutori tirano dall’inizio alla fine, come dannati.
Non è solo questione di tecnica o di energia, ma anche di mestiere, e a questo proposito tendo a pensare che gli anni di militanza nella big band di Gil Evans in pratica per tutto il personale presente sul disco costituisca un fattore imprescindibile.
Eccoci giunti dunque al brano dell’album che preferisco, “Emily”, che si apre con una intro di grande poesia, di nuovo al basso senza capotasti di Mark Egan, sostenuto dal sintetizzatore e poi da un piano elettrico minimale ma forse per questo ancor più suggestivo, dietro al quale sedeva proprio il grandissimo Gil Evans.

Forse è in questo che si vede la grandezza del musicista. Tanti cercano d’impressionare con vere e proprie gragnuole di note, delle quali però va finire che non se ne ricordi nemmeno una. Ai veri grandi basta invece suonare una sola, piccola nota, nel modo e al momento giusto, per dare vita alla magia, proprio come in questo caso.
L’esposizione del tema è affidata ovviamente alla tromba di Soloff che in questo caso rasenta il sublime. Mostrando inoltre la capacità del titolare dell’album di esprimersi con padronanza impeccabile nelle situazioni più diverse, cosa anche questa da non dare assolutamente per scontata. Sono appena tre minuti e mezzo, ma per quanto mi riguarda di godimento assoluto, che valgono da soli il prezzo del biglietto.
Chiusura in grande spolvero con “Well you needn’t” di Thelonious Monk che si abbina con grande efficacia allo stile del gruppo. Personalmente mi ricorda la tessera di un puzzle che s’incastra a perfezione con le altre e va a completarne l’immagine altrimenti parziale. Gl’influssi monkiani sono del resto una componente significativa per la musica della big band di Gil Evans, nei confronti della quale l’album di cui ci stiamo occupando è forse il più vicino, tra quelli intestati a Lew Soloff, malgrado le differenze di organico, soprattutto in termini quantitativi.
La serie degli assoli si apre ancora una volta con quello di Hiram Bullock alla chitarra, suggerendo nuovamente la sua vicinanza stilistica con l’Hendrix migliore. Attenzione però: non si tratta di una scopiazzatura pedissequa o meglio ancora pedestre e improntata al vorrei ma non posso, cosa del resto inevitabile dato che di Hendrix ce ne può essere uno e uno soltanto, come siamo stati abituati in cinque decenni di epigoni che sembrano fatti con lo stampino. E’ invece qualcosa di più sottile, fin quasi a livello di suggerimento e soprattutto di attitudine, che tuttavia non può passare inosservato per chi ha fatto proprio al livello più intimo il messaggio hendrixiano. Una sorta di omaggio insomma, per quello che è stato il vero capostipite della chitarra moderna, per come la s’intende oggi.
“Hanalei bay” in sostanza è la dimostrazione vivente che il jazz suonato con strumenti elettrici non solo può tranquillamente continuare a essere tale, ma può assurgere a livelli di prim’ordine, in termini esecutivi, emozionali e di comunicatività. Chiarisce soprattutto che il connubio tra jazz ed elettrificazione non dev’essere per forza sinonimo di fusion. Meno che mai nel senso deteriore che viene attribuito di solito a questa definizione. Soprattutto da quanti sono convinti che il destino del jazz sia quello di essere messo in una camicia di forza che lo costringa a restare fermo agli anni 40 e 50 del secolo scorso, per poi essere esposto al museo delle cere.
Siamo di fronte quindi a un disco da ascoltare di cima a fondo con piacere, grande oltretutto, sia per il livello artistico delle esecuzioni, sia per la qualità della registrazione, davvero eccellente. In particolare per la capacità di attribuire realismo alla sonorità degli strumenti utilizzati per essa.
Ultimo particolare, “Hanalei bay” deriva da registrazione e missaggio digitali. Dimostrazione ennesima che non c’è alcun bisogno per gli LP di avere un pedigree analogico del tutto immacolato. Almeno fin quando il digitale lo si è usato in un’ottica e con metodi e finalità inerenti le esigenze dell’analogico.
Sono le schifezze di questi ultimi anni a essere incompatibili con la sonorità dell’analogico, trattandosi di riedizioni basate su rimissaggi fatti apposta per il digitale, oltretutto con una concezione dell’analogico d’origine e delle sue possibilità non solo anacronistica ma culturalmente priva di qualsiasi addentellato con la realtà. Frutto più che altro di luoghi comuni, peraltro malcompresi. Ovvio che nel momento in cui si riporta immondizia del genere su LP i risultati non possano che esserne la conseguenza, non di rado tragica. Quando invece il digitale era utilizzato ai fini delle prerogative del suono analogico, com’era usuale all’epoca di Hanalei Bay e nel periodo immediatamente precedente, il problema non si poneva.
L’ascolto del disco ne è una conferma.
Lew Soloff – Hanalei Bay
Electric Bird K28 6365
Lew Soloff Tromba e flicorno
Gil Evans Piano elettrico
Pete Levin Sintetizzatori
Hiram Bullock Chitarre
Mark Egan Basso
Adam Nussbaum Batteria
Kenwood Dennard Batteria (La Toalla)
Manolo Badrena Percussioni