Gli LP che spaccano – Jack DeJohnette “Tin can alley”

Gli LP che spaccano non sono quelli che suonano semplicemente bene, ma quelli che suonano meglio, e di parecchio. Riproducendoli l’impianto si esalta. Ma se per caso non va nemmeno con il loro impiego, forse è meglio valutare un intervento sulla sua composizione e messa a punto.

Penso sia quasi inutile dire che, a questo riguardo, mi terrò alla larga dalla banalità delle cosiddette registrazioni per audiofili. Tranne qualche caso, si parlerà di album destinati al normale mercato discografico, sia pure d’élite, termine che per una volta assume un significato buono. Dato che a me, e di conseguenza al Sito della Passione Audio, non basta una resa sonora al di sopra delle attese, per quanto di larga misura.

E’ necessario infatti le sia abbinata una qualità artistica ineccepibile e un tasso creativo altrettanto rilevante, soli attributi che secondo il mio punto di vista siano tali da dare un senso alla loro fruizione.

I tipici dischi per audiofili infatti mi hanno sempre annoiato terribilmente, per quanto possano suonare con efficacia rilevante e talvolta estrema. La banalità delle musiche in essi contenute e della loro esecuzione, infatti, mi è sempre risultata stucchevole. Poi sono uno che si scoccia presto, specie in fatto di musica: se un disco suona bene o persino meglio, ben venga, ma il lato artistico oltre a essere primario è anche imprescindibile.

Proprio perché da sempre sono appassionato innanzitutto di musica e secondo un’inclinazione progressiva. Che non attiene al genere del progressive rock, per quanto ne sia in pratica da sempre un cultore irriducibile, ma invece al suo contenuto di ricerca e sperimentazione di nuove modalità espressive e quindi rifugga lo scontato e il già sentito. Solo in funzione di tutto questo ritengo trovino una motivazione le qualità di registrazione e stampa.

Oggi può sembrare una posizione fin quasi demodé, stante la pochezza del repertorio usuale nelle collezioni degli appassionati-tipo, contenenti oltretutto quasi sempre la stessa minestra, a base di Pink Floyd, Dire Straits, De André e coscione varie con al vento porzioni sempre più ampie della loro epidermide. Peraltro vanno sempre più prendendo piede, come a voler sancire le inclinazioni più ricorrenti, e deteriori, del nostro settore.

Insomma se l’hi-fi ha un senso, lo ha esclusivamente in funzione della musica che si riproduce per il suo tramite. Altrimenti si tratta solo di soprammobili particolarmente ingombranti, coi quali s’intrattiene un rapporto sempre più degenerato, tale da averli resi veri e propri feticci.

Proprio allo scopo il tasso di pacchianeria che li unifica sempre più sta raggiungendo livelli oltre il sopportabile. Sembra fin quasi un’epidemia, quella dell’effetto speciale, da ottenersi prima ancora che per via sonica, già a livello visivo, per mezzo dell’estetica delle apparecchiature. Secondo quella che dal mio punto di vista appare come una vera e propria frenesia alla conquista preventiva dell’appassionato, a questo punto non si sa bene neppure di che cosa, che deve ad ogni costo essere conquistato, sedotto e infine sodomizzato, temo.

Si perviene allo scopo a botte di cafonate, oltretutto costosissime. Nelle sedi preposte non ci si accontenta più di celebrarle con una piaggeria che già da tempo ha superato i limiti del grottesco e non di rado approda al surreale. Oltretutto a insaputa dei suoi cantori e nell’assenza desolante del più remoto barlume di senso della misura.

Si arriva così a definire qualità accessibile roba da 12 mila euro, costringendo un casuale passante non del tutto inebetito a chiedersi se per dare certe valutazioni sia necessario vivere spacciando bianca o basti invece commerciare in pezzi di ricambio di neonati del quarto mondo.

Vabbé, d’altronde se si è arrivati a promettere 700 euro giornalieri extra stipendio ai pediatri disposti a fare un po’ di straordinari nel somministrare già in tenerissima età gli elisir di lunga vita, chissà perché forniti da Pfizer, Moderna & c solo dietro l’obbrobrio giuridico dello scudo penale, si dovrà pur trovare un sistema affinché sia dato modo di spendere quel che si è guadagnato in maniera così disinteressata.

In una forma più prosaica, certuni avranno mai sentito parlare del cosiddetto sputo in faccia alla povertà? Probabilmente no. Ma questo sarebbe ancora poco, in quanto i pochi rimasti in possesso di un briciolo di ragionevolezza che si azzardano a rilevare l’assurdità di certe affermazioni, sono aggrediti o meglio si salta loro al collo insultandoli pesantemente.

Il tutto nel soave e leggiadro disinteresse degli amminestratori, sempre sul pezzo invece quando è messa in dubbio la virtù di qualche apparecchiatura plurimedagliata, che dev’essere come sempre fulgida e soprattutto intonsa, ma più che mai virginale.

Se questi sono i gruppi social che hanno il maggior numero d’iscritti, figuriamoci negli altri cosa potrà succedere.

Potrebbe anche darsi però, che proprio perché non hanno personale dal talento così spiccato nel pervenire a simili livelli di dissociazione con la naturalezza necessaria, e anche quello è un dono se vogliamo, di fare certi numeri non possano manco sognarselo.

Non so, osservando certe esibizioni d’immagini riguardanti apparecchiature hi-fi e interi impianti per oligarchi,  regolarmente inseriti in contesti sardanapaleschi, insieme alle reazioni di giubilo, agli osanna, e alle alluvioni di faccine con la bocca spalancata dalla meraviglia, a me sembra s’inneschino dinamiche non così distanti da quelle indotte da certe riviste per soli uomini, sulle quali signorine procaci e disinibite mettono in mostra le loro grazie con generosità. In entrambi i frangenti, infatti, si scatenano attacchi di onanismo che trovano la migliore delle conferme appunto nei commenti estasiati dei visitatori.

Se anche sulle copertine degli album delle interpreti femminili più apprezzate da certi audiofili si assiste a una tendenza simile, forse meno smaccata ma ancor più fuori luogo, un qualche nesso ci dev’essere.

Al confronto erano molto meno peggio le copertine degli un tempo famigerati LP di Fausto Papetti, sempre alquanto esplicite, ma che almeno non costringevano l’interprete a posare in atteggiamento discinto, sfoggiando magari un tanga leopardato.

Ecco, queste sono solo alcune delle manifestazioni più deteriori dell’hi-fi come la s’intende al giorno d’oggi. Meglio ancora, della sua decadenza probabilmente irreversibile, attuata da plotoni di volenterosa manovalanza, che spingendo al parossismo su quel pedale non può che affrettarne l’esito e, proprio per questo, riscuote il seguito maggiore.

D’altronde se sono decenni che a livello istituzionale e più su ancora, ossia laddove si generano e distribuiscono materialmente gli ordini, si persegue nelle modalità scientifiche volte all’istupidimento di massa, non sarebbe neppure ragionevole attendersi qualcosa di diverso.

Ecco un altro dei motivi che mi hanno spinto a partire con quest’iniziativa, malgrado gli articoli dedicati alla musica siano sistematicamente i meno letti. E’ volta al recupero, sempre che sia possibile, di una dimensione più centrata sui fondamentali della passione per la musica e per la sua riproduzione di elevato livello qualitativo.

Che non sono i legni pregiati scialati con dispiego preoccupante, le finiture a pianoforte, i frontali orologiati da Cartier e pannellati a suon di metalli preziosi, i vu-meter blu dipinti di blu e via andando con esempi sempre nuovi di un orpello che da che mondo è mondo non è solo il simbolo ma proprio il nocciolo duro, la sorgente del decadentismo che pervade una qualsiasi realtà, quando è in vista delle sue battute finali.

Quell’orpello dinnanzi al quale troppi si spellano le mani per applaudirlo, non è solo manifestazione di una volgarità esasperata e mai così tanto fuori luogo, ma è anche il primo responsabile per i costi folli delle apparecchiature attuali. A coprire i quali non di rado concorrono per la loro quota parte anche prodotti meno “esclusivi”, dato che così funzionano sia il mercato sia, su una base più ampia, l’ordinamento sociale odierno, cui sembra non vi sia alternativa.

E allora arriva il momento del sondaggio: quanti appassionati hanno avuto il coraggio di far conoscere alle rispettive consorti, amanti, conviventi e affini il costo reale, fino all’ultimo centesimo, dell’insieme delle apparecchiature con cui si dilettano?

Io dico nessuno, anche se sarei felice di esssere smentito. Per il semplice motivo che se lo vengono a sapere prima vi spellano vivi, poi vi sbattono fuori di casa, vi chiedono gli alimenti e infine trovano pure il sistema di non farvi più vedere i figli, se ne avete.

Tutto questo per che cosa, perche ci piace la suspense?

Tornare ai fondamentali dunque, è cosa necessaria e imprescindibile, innanzitutto per questioni di buon senso e di autoconservazione. Nel settore di nostro interesse i fondamentali stanno nella musica. E allora tanto vale che sia buona. Se poi suona anche bene, meglio ancora.

Con ogni probabilità il tentativo volto al recupero dei valori fondamentali non può contrapporsi, ma che sia almeno una possibile alternativa alla deriva indirizzata all’onanismo lobotomizzante, aggravato da ipoacusìa irreversibile stanti i postumi da Grande Abbuffata di liquami sonori cui ci si sottopone ormai da tempo.

L’abbuffata oltretutto procura danno irreparabile a quello che in piena buona fede si è convinti sia l’oggetto della propria passione, al punto da porre una concreta ipoteca sulle sue possibilità di sopravvivenza.

Ma che importa: dopo aver speso qualche decina di migliaia di euri per l’impianto, vantandolo oltretutto chiassosamente, la priorità fondamentale diventa proprio quella di non cacciare più un centesimo, manco con un coltello puntato alla gola.

Non solo per dare all’impianto ciò di cui ha bisogno, affinchè possa avere una qualche prospettiva di utilità su base permanente, ma ancor meno per acquistare cibo per la mente.

Non sia mai che possa risultare indigesto.

I nostri nonni solevano dire che insistendo in certe pratiche si diventa ciechi, ma ora che siamo nell’era moderna e la tecnologia imperversa al punto di essere stata imposta come Religione di Stato, il suo esito più scontato sembra diventato appunto quello della sordità. Cerebrale prima ancora che uditiva.

La nuova rassegna pertanto non può che essere centrata sul supporto fisico, il solo che per i motivi elencati fin qui, e poi negli articoli appositi, il vero appassionato di musica e riproduzione sonora, quello cosciente, ha voglia di usare.

Il primo LP della serie è “Tin Can Alley” di Jack DeJohnette, batterista noto tra l’altro per la sua collaborazione con Miles Davis durante il periodo cruciale della svolta elettrica.

Con Davis è rimasto fino al 1972, rimpiazzando Tony Williams, e ha registrato due tra gli album più rilevanti dell’epoca: “Bitches brew” e “A tribute to Jack Johnson”. Prima di allora comunque aveva già avuto collaborazioni di spicco, come quelle con Charles Lloyd e Bill Evans.

Con il leggendario pianista ricordiamo il disco dal vivo “Live al Ronnie Scott’s” in trio con Eddie Gomez al contrabbasso, mentre col tenorsassofonista ha registrato un altro disco dal vivo, “In Europe”, e poi anche “Journey within'” assieme a un quartetto che includeva uno tra i musicisti con cui avrebbe collaborato maggiormante negli anni successivi.

Stiamo parlando di Keith Jarrett, che per diversi anni si sarebbe accompagnato con la sezione ritmica formata da DeJohnette alla batteria e da Gary Peacock al contrabbasso.

Più o meno in contemporanea con la partecipazione al gruppo di Davis, ha registrato il primo album a suo nome, “The DeJohnette Complex”, caratterizzato dall’ampio impiego da parte dello stesso DeJohnette della melodica, strumento non molto comune in abito jazzistico. Ha inoltre messo a segno un’altra collaborazione d’eccellenza, quella con Cedar Walton per l’album “Spectrum”.

Non aveva ancora compiuto venticinque anni, DeJohnette, ma già aveva alle spalle un curriculum da musicista navigato, con alcuni tra i capibanda più in vista dell’epoca e con almeno un paio di campioni assoluti della musica afroamericana, come si usava chiamarla allora. A dirla tutta, nel 1966 si esibiva già col menzionato quartetto di Charles Lloyd, in particolare al Festival Jazz di Monterey di quell’anno, la cui testimonianza è presente nell’album “Forest Flower, Charles Lloyd at Monterey”.

Possiamo dire che nel corso degli anni successivi DeJohnette ha collaborato con tutti i nomi più in vista del jazz moderno, da Herbie Hancock a Pat Metheny ai fratelli Brecker, passando per Michael Mantler e persino Robert Wyatt e poi Kenny Barron, John Abercrombie, Terje Rypdal, John Surman, Ron Carter, Dave Liebman, Eddie Gomez e qui mi fermo, altrimenti non si finisce più.

“Tin can alley” deriva da una registrazione dal vivo in studio del 1980. Non dimostra assolutamente la sua età, anzi ci fossero più dischi di produzione recente realizzati così.

Per l’occasione DeJohnette si è servito di Special Edition, gruppo con cui predilige l’approccio più diretto al jazz canonico, per quanto inteso sempre in un modo assai personale. L’altro invece è Directions, dedicato alle forme più fruibili, sempre tenendo saldo il legame con la tradizione, ma non disdegnando, tuttaltro, gl’influssi delle tendenze più moderne.

L’album si apre con il sax tenore di Chico Freeman e il baritono di Henry Purcell che dialogano liberamente in solitaria, riproposti in una presa diretta sostanzialmente priva d’interposizioni, appena stemperata da un’ambienza che se possibile ne rende ancora più palpabile il realismo.

I due solisti vanno avanti così per un po’ in questa forma libera e rilassata, lasciando  che l’ascoltatore abbia il tempo di acclimatarsi con essa. Poi all’improvviso, o meglio a tradimento, partono all’assalto: dal silenzio quasi assoluto il segnale passa alla modulazione piena dell’esposizione del tema, una fanfara sghimbescia ma di grande presa, anche perché i sax sembrano letteralmente esplodere fuori dagli altoparlanti.

Insieme a loro la batteria di DeJohnette e soprattutto il contrabbasso di Peter Warren che fornisce all’insieme una forza propulsiva di rilievo eccellente.

Il tema, a chiamata e risposta, è tenuto largo tra le due sezioni da cui è formato, proprio per lasciare alla ritmica tutto lo spazio per esprimere la sua capacità di trascinamento.

L’insieme ha una sonorità dirompente, da un lato perché alla dinamica dell’esecuzione le briglie sono tenute sciolte, e dall’altro avendo lasciato all’energia dei sassofoni la possibilità di emergere, cosa che nelle registrazioni si tende in genere a filtrare pesantemente.

Con il contributo della nitidezza alle alte frequenze propria delle registrazioni ECM, spazio nel quale le percussioni metalliche di DeJohnette hanno modo di esprimere il loro rilievo, ne risulta una sonorità di realismo fuori dal comune, come poche volte è stato dato ascoltare per mezzo di un supporto fonografico. In particolare se si ha l’accortezza di tenere il volume aperto con una certa generosità.

Attenzione però a non strafare, dato che l’energia di cui la registrazione è particolarmente ricca può mettere alla frusta la tenuta dell’ìmpianto.

Con “Tin can alley” ci troviamo di fronte al caso tipico del brano di apertura che vale l’acquisto dell’intero disco.

Non per questo però quanto gli fa seguito è di qualità artistica e creativa scadente o comunque di minor significato, tuttaltro.

Il brano successivo “Pastel rhapsody” è più riflessivo. Si tratta di una ballad della lunghezza che sfiora il quarto d’ora e vede DeJohnette all’opera su quello che è stato il primo strumento musicale con cui si è cimentato: il pianoforte.

Alla batteria infatti si è dedicato solo in un secondo momento. A me sembra che le sue attitudini percussive risentano in maniera evidente delle esperienze così accumulate. Personalmente ne apprezzo la leggerezza e l’espressività, poste tuttavia in evidenza mantenendo ben solido il senso del ritmo, secondo due elementi difficilmente conciliabili ma ai quali DeJohnette riesce ad attribuire un equilibrio e una calibratezza non solo complessi da ottenere, ma che caratterizzano in maniera irripetibile il suo stile.

DeJohnette infatti non ha mai abbandonato gli strumenti a tastiera e ne fa ampio uso nei dischi a suo nome.

La seconda facciata del disco è un pochino meno comunicativa, risentendo maggiormente di influssi free, un altro tra gli elementi ispirativi della sua musica e non a caso. Ai suoi esordi ha fatto parte dell’AACM, Association for the Advancement of Creative Musicians che ha dato vita agli Art Ensemble of Chicago, forse il più noto tra i gruppi che si sono dedicati al free jazz.

Nondimeno i motivi d’interesse sono altrettanto numerosi. Innanzitutto per l’impiego del clarino basso, strumento dalla sonorità possente e affascinante nello stesso tempo, nella fattispecie affidato a Chico Freeman.

Ascoltarlo per mezzo delle modalità di registrazione che caratterizzano l’album di cui ci stiamo occupando è un’esperienza a mio avviso parecchio significativa, non solo per la timbrica dello strumento in sé, ma anche in funzione dell’ampliamento dei propri orizzonti musicali, spesso fossilizzati sugli strumenti d’impiego più consueto.

Certo, il brano è difficile, ma non del tutto impossibile: ancora una volta emergono le doti di fine alchimista di DeJohnette, capace d’infondere al brano la sua connotazione solidamente free, ma nello stesso tempo di renderlo ben più fruibile rispetto alla tipicità della musica legata a questa tendenza.

Nel successivo “The gri-gri man” DeJohnette è in totale solitudine, ma si tratta di ben altro del solito assolo di batteria. Il brano si apre con le percussioni adoperate dallo stesso batterista, segnalandosi ancora una volta per la grande ricchezza timbrica che caratterizza la registrazione dell’album, cui si aggiungono poi batteria e organo a formare un insieme amelodico e per questo tendente alla componente d’atmosfera dell’esecuzione, tra etereo e spazialità, secondo modalità espressive non molto comuni nell’ambito jazzistico. Ulteriore testimonianza per la capacità di DeJohnette nell’esprimersi nell’ambito di un panorama lessicale particolarmente ampio.

Qui la produzione della sonorità e poi la sua fruizione sono l’elemento d’interesse dominante, che per il tramite di un impianto dalle qualità adeguate dà luogo a sensazioni tanto disarmanti quanto memorabili.

Il conclusivo “I know” torna alla fruibilità del brano d’apertura e forse anche di più, trattandosi della registrazione dal vivo di un blues parecchio comunicativo. Malgrado ciò non vengono meno le prerogative soniche evidenziate dagli altri brani dell’album.

A tale riguardo molto dipende dal manico di chi siede di fronte ai cursori, e forse ancor più dal suo approccio, che in questo caso è volto a restituire con il minor numero di compromessi possibile la vitalità e la timbrica reale degli strumenti utilizzati, almeno in apparenza senza porsi i problemi con cui ci si confronta di solito nella produzione discografica. Ne derivano doti di realismo talmente spiccate e per molti versi sconcertanti, che fanno di “Tin can alley” non solo l’esordio migliore per una rubrica intitolata Gli LP che spaccano, ma se vogliamo la quintessenza di questo concetto.

Spingendo infine a domandarsi per quale motivo, se si possono realizzare LP che suonano in questa maniera, nella quasi totalità dei casi s’indulga invece in modalità di registrazione e missaggio dalle caratteristiche opposte, dalle quali derivano un appiattimento della sonorità generale e una castrazione per le doti di vitalità dei singoli strumenti tali da rendere persino frustrante la consapevolezza di trovarsi di fronte a una riproduzione.

Come ripeto, queste sensazioni sono ricavate dall’ascolto dell’album su LP, supporto su cui è stato pubblicato in origine. Che sia per colpa del formato o del tramite ad esso necessario, nell’ascolto su CD si stenta un pochino a ritrovare le medesime sensazioni.

Si, la pulizia c’è tutta, anche di più, e se vogliamo la sensazione di vitalità resta sostanzialmente immutata. Quella che manca però è la forza, la prepotenza persino, con cui l’emissione degli strumenti esce dai diffusori e invade letteralmente lo spazio d’ascolto. Per poi schiacciare l’ascoltatore sulla sua poltrona, proprio a causa del realismo estrinsecato in primo luogo sotto l’aspetto energetico e della distribuzione spettrale della sonorità, che in tanti anni non sono più riuscito a ritrovarne di uguali.

In questo si riassume, se vogliamo, la differenza di fondo tra analogico e digitale, con il primo che sia pure con distorsioni maggiori sfrutta spazi di dinamica completamente preclusi all’altro, mortificato dall’impossibilità materiale di andare oltre lo 0 dB. Pertanto, la sua dinamica teorica, che sarebbe enormemente superiore ma solo in termini numerici, a sostanziare ancora una volta la loro ingannevolezza, e la loro attitudine congenita a prospettare realtà inesistenti, può esprimersi soltanto laddove non serve. Ossia a livelli di segnale talmente bassi da risultare insignificanti. E peggio, inutilizzabili ai fini pratici.

Non a caso si è finiti nella realtà della loudness war, la compressione esasperata del segnale verso lo 0 dB, negazione stessa e vero proprio azzeramento della dinamica enorme che dovrebbe essere l’elemento primario di superiorità del digitale.

Ovvio che se te lo perdi per strada ti ritrovi a malpartito nel confronto con quello che sulla carta sembra inferiore ma ha la capacità di affermare e soprattutto rendere utilizzabili là dove serve i suoi punti migliori. Alla loudness war segue poi la cosiddetta normalizzazione, ossia il ricampionamento del segnale, con aggiunta della conseguente distorsione, in modo tale che i picchi più elevati in assoluto approssiminio il più possibile lo 0 dB ma senza mai oltrepassarlo, riposizionando tutto il resto in proporzione. Proprio nel tentativo di attribuire al digitale quelle doti di solidità di cui si è rivelato manchevole o per meglio dire deficitario.

Come sempre la medicina è peggiore del male, stavolta in maniera parecchio vistosa, proprio perché la dinamica del digitale ha il difetto di trovarsi là dove non serve. Per conseguenza, dei suoi 100 e passa dB, difficilmente si arriva a usarne 20.

Di essa poi ne va sprecata una parte consistente, in particolare quando si evita saggiamente di usare le pratiche  appena descritte, proprio per tenersi a distanza di sicurezza dalle colonne d’Ercole dello 0 dB, applicando la regola canonica dei -12 dB di livello medio. Va osservata appunto se non si vuole comprimere fin troppo la dinamica, ma soprattutto attribuire alla registrazione una qualità sonora all’altezza e ancor più la possibilità di suonare bene con gl’impianti di questo mondo.

Tutto ciò si rivela necessario proprio al fine di non incorrere nei troncamenti che si verificano oltrepassando la soglia dello 0 dB, a loro volta causa di distorsioni brutali, dall’effetto esiziale sulla qualità del suono.

In condizioni del genere, se si vuole tenere su il segnale a sufficienza, così che risulti gradito all’orecchio dell’ascoltatore, il quale tende fisiologicamente ad attribuire doti di piacevolezza maggiore a quello che suona più forte, a patto che non sia tutto appiattito sui livelli massimi ma conservi il necessario alternarsi di informazioni di livello diverso, occorre sottoporlo proprio a compressione. Si tratta di una scelta necessaria, per quanto paradossale, dato che è la negazione stessa della dinamica. Pertanto penalizza grandemente quella del formato che in teoria ne avrebbe da vendere, ma in realtà non dà modo di utilizzarla.

Proprio la mancata comprensione, o più probabilmente il rifiuto di prendere atto della cosa, è stato quello che ha portato i luminari della scienza applicata alla riproduzione sonora a sbattere la testa contro il muro inespugnabile costituito dall’insussistenza delle loro teorie. Riguardanti appunto la pretesa superiorità del digitale e peggio la sua altrettanto immaginaria, o meglio ancora illusoria, perfezione.

Sulla carta sembrano indiscutibili, appunto per l’estrema capacità dei numeri nel tratteggiare realtà inesistenti, o meglio per la spiccata attitudine umana a guardarli solo dal lato che fà più comodo, ma una volta messe di fronte a quel che avviene nel mondo reale, non hanno potuto far altro che evidenziare in maniera plateale le limitazioni di quel sistema.

L’aspetto più inverosimile di tutta la faccenda non sta tanto nella cosa in sé, comunque foriera di profonde riflessioni riguardo alle possibilità, per certuni, di comprendere come funzioni davvero la riproduzione sonora, ma nel fatto che a oltre quarant’anni di distanza dai loro proclami, ancora non siano riusciti a capacitarsi del perché le loro previsioni di trionfo assoluto e irreversibile, si sono tradotte nel fiasco colossale e senza precedenti che sappiamo.

Si, il digitale ha avuto la meglio sotto il profilo commerciale nel ventennio, e non è un caso sia stato tale, in cui la sua dittatura non ha avuto alternative. Anche e soprattutto perché si è provveduto ad affossare l’analogico con ogni mezzo, spingendosi persino a far sparire dalle rivendite il supporto vinilico, per mezzo di una capillare campagna di ritiro, organizzata dalle stesse case discografiche.

In realtà l’affermazione del digitale si deve ancor più alle doti innegabili di praticità e versatilità, a livello di produzione ed elaborazione del segnale che lo caratterizzano, mentre il diffondersi e il perfezionarsi delle apparecchiature informatiche ha abbattuto i loro costi, comportando inoltre l’aumento esponenziale delle capacità di calcolo e di memoria. Nello stesso tempo invece quelli dell’analogico, tanto a livello professionale quanto a livello amatoriale, andavano alle stelle.

Al giorno d’oggi non la costruzione, ma la semplice manutenzione di routine di un multipiste analogico secondo i criteri dovuti, ha costi molto rilevanti. ferma restando la sua minore versatilità e le difficoltà assai maggiori in cui s’incorre volendo eseguire funzioni che sul digitale non solo sono all’ordine del giorno ma si eseguono con due colpi di mouse o di tastiera.

Sotto il profilo della qualità sonora, tuttavia, e in particolare per naturalezza, realismo e capacità di proiettare l’esecuzione direttamente in ambiente, il digitale non è mai riuscito ad avvicinare l’analogico. Proprio per i motivi che abbiamo appena descritto e malgrado il numero incalcolabile di miglioramenti, revisioni, cambi ed estensioni di formato cui lo si è sottoposto. Dimostrazione concreta di quanto fossero verosimili i proclami tesi ad imporne l’assoluta perfezione già ai suoi esordi.

Ora, se i tecnocrati che ne sono stati artefici e i suoi cantori hanno detto così tante baggianate, oltretutto di tale enormità, alfine di spianargli la strada, e quel che è peggio non hanno mai ammesso che al contrario fosse gravato da limitazioni che sono ancora oggi evidenti, costruendo una cortina di ferro di menzogne, pretesti, cancellazioni, censure e insulti, nel tentativo di nascondere una realtà per loro inaccettabile, per quale motivo dovrebbero dire il vero ed essere più credibili su un qualsiasi altro argomento?

Non a caso, proprio perchè come è noto la natura tende sempre a riprodurre gli stessi meccanismi, variandone opportunamente dimensioni e campo di applicazione, la stessa identica cosa sta avvenendo da due anni a questa parte sul fronte dittatorial-istituzional-sanitario. Proprio a cura di tecnocrati-sceriffo, nel frattempo perfezionatisi ancor più nelle loro capacità di negazione della realtà, spinta oltre il limite della dissociazione. E poi in quelle di menzogna, censura, cancellazione delle realtà scomode alla narrazione che intendono imporre e soprattutto criminalizzazione e patologizzazione psichiatrica del dissenso. Allo scopo, proprio come allora, sono pronti e capacissimi a usare qualsiasi mezzo, e oggi ne hanno a disposizione tanti di più. E’ questo d’altronde l’esito primario e di gran lunga predominante dei loro percorsi accademici finalizzati al condizionamento. Al confronto, il fanatismo digitalista di certi arnesi degli anni 80 e 90 sembra roba da dilettanti, persino un po’ patetici.

Quindi, se si ha un sistema di riproduzione analogico che sia all’altezza, mille volte meglio accaparrarsi un LP usato invece dell’edizione in CD.

 

Jack DeJohnette’s Special Edition, “Tin Can Alley” ECM 1189

Registrato dal vivo al Tonstudio Bauer, Ludwigsburg, Settembre 1980.

 

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4 thoughts on “Gli LP che spaccano – Jack DeJohnette “Tin can alley”

  1. Buongiorno Claudio,
    Chissà perché, avevo in mente di scrivere le stesse considerazioni di Andrea, anche io posseggo una copia di quell’album… ho dato un primo ascolto a “Tin can alley”, personalmente l’ho trovato un po’ troppo “free” come stile, almeno per i miei gusti personali, ma dovrò concedergli più di un ascolto per trarne un giudizio. Del resto, Ecm è una garanzia sia di qualità artistica che di incisione.
    Infine, accolgo con enorme piacere questa nuova rubrica, mi auguro, anzi ne sono certo, di vedere altri articoli del genere.
    Grazie per le tue osservazioni, buon Natale e buone feste.

    1. Ciao Alberto,
      mi fa piacere il tuo apprezzamento per la nuova rubrica, che ha già una scaletta piuttosto nutrita.
      “80/81” è stato forse l’album pubblicato dalla ECM che ha venduto di più in assoluto.
      Quanto a “Tin can alley”, senz’altro non è un disco di facile ascolto. Tutto sommato però non è neppure così ostico, si tratta soprattutto di prendergli le misure.
      Tra l’altro di realmente free ha solo una speziatura del primo brano della seconda facciata, “Riff raff”, caratterizzato peraltro da sonorità molto interessanti, come quella del clarino basso, che penso ne aiutino in qualche modo la “digestione”.
      La sonorità dirompente dell’album, in particolar modo nella sua edizione vinilica, era del resto la più indicata per l’esordio di una rubrica denominata “Gli LP che spaccano”, e infatti proprio dal suo ascolto è nata l’idea.
      Il prossimo disco che verrà presentato in questo spazio sarà più fruibile, per quanto legato anch’esso fortemente al jazz.

  2. Buongiorno Claudio, leggendo le belle considerazioni su questo album (che non conoscevo) e delle sua ottima qualità di registrazione, oltreché di composizione musicale, ho ripescato dalla mia raccolta un vecchio doppio live di Pat Metheny intitolato “80/81” dove, tra gli altri, figura anche il batterista in trattazione.
    Un buon merito sarà dovuto pure alla medesima etichetta ECM ma credo si possano ritrovare anche in quest’album le ottime caratteristiche e performances come da te descritte.
    L’occasione per i miei auguri di buone feste.
    Andrea

    1. Ciao Andrea, grazie dell’attenzione.
      Si, l’album di cui parli ha una registrazione e una stampa ottime, anche in relazione agli standard ECM, peraltro ben noti. Dal punto di vista artistico poi è un album che ha fatto storia.
      “Tin can alley” però va oltre, forse anche a causa delle caratteristiche del materiale registrato. Tra l’altro presso le sedi usuali per la compravendita dell’usato si trova a prezzi modici, quindi penso sia un’aggiunta raccomandabile per ogni collezione un po’ sotto tutti i punti di vista.

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