Voxson H 302: agli albori dell’hi-fi italiana

A parte il fatto che ora ho alle spalle un numero rilevante di anni in più, la differenza più significativa che passa tra il momento attuale e quello in cui ho iniziato ad avvicinarmi alla riproduzione sonora di qualità, all’inizio del decennio 1970, è che allora il prodotto hi-fi italiano non esisteva.

Di li a poco sarebbe arrivato il Galactron Mk 16 a fare scalpore, forse il primo italiano salito alla ribalta, quantomeno nazionale, di un settore altrimenti monopolizzato dal prodotto estero.

Galactron peraltro era attivo già da anni, sia pure in una modalità alquanto sotterranea, per così dire, e con il suo primo oggetto di successo ha anche stabilito le coordinate entro le quali l’hi-fi italiana avrebbe trovato il suo terreno d’elezione: quello della produzione d’élite, fatta di piccoli numeri ma caratterizzata da doti estetiche e tecniche sempre alquanto esclusive.

Un’eccezione è stata ESB, il primo e forse l’unico marchio italiano dedicato esclusivamente alla riproduzione sonora a puntare alla produzione non dico di massa ma comunque dalle capacità di diffusione considerevoli, finché ha retto.

A questo riguardo si potrebbe menzionare anche RCF, ma le sue origini e la sua vocazione primaria erano legate al professionale, come indica peraltro il significato della sua sigla: Radio-Cine Forniture. L’ingresso nel settore dell’hi-fi è stato una sorta di collaterale, probabilmente causato dal divenire della riproduzione sonora amatoriale un fenomeno di proporzioni tali da non poter essere trascurato.

Il preamplificatore Galactron mk16

Voxson invece era un marchio indirizzato a una produzione più generalista: apparecchi radio, poi TV e soprattutto autoradio. Il palazzo in cui aveva sede, sito in Via di Tor Cervara a Roma, nell’estrema periferia est, è stato a lungo un esempio di architettura “futuribile”, vero e proprio emblema di quella che è stata definita la più grande industria della Capitale e con ogni probabilità lo è stata veramente.

Venne inaugurato nel 1962, su progetto di Leonardo Del Bufalo.

Oggi quella costruzione mantiene ancora un record, ospita gli studi televisivi più grandi d’Europa, distribuiti su una superficie di 20 mila metri quadri.

Nata nel 1952 come FART, poi FARET, da una costola di Autovox, a sua volta attiva fin dal 1933 come Industria Radiotecnica Italiana, assieme alla progenitrice ha costituito la punta di diamante e nello stesso tempo l’asse di sfondamento sui mercati esteri dell’elettronica italiana destinata al prodotto di massa.

Già dal 1967 infatti i due marchi producevano televisori a colori, da esportare in tutta Europa e non solo. A questo riguardo, purtroppo non poterono contare sul mercato nazionale, stante l’opposizione politica, con uno schieramento trasversale capeggiato dal PCI che anche col pretesto dell’indecisione tra gli standard PAL e SECAM trascinato oltre i limiti del grottesco, ha negato fino alla fine del 1976 il permesso di trasmettere a colori all’ente radiotelevisivo di Stato. Ossia fino al momento in cui le sorti dell’industria elettronica nazionale erano segnate.

Con ogni probabilità i due marchi non avrebbero potuto reggere ancora per molto la concorrenza asiatica, ma con altrettanta sicurezza la possibilità di vendere TV a colori anche sul mercato interno lungo l’arco di una quindicina d’anni almeno sarebbe stata una fonte d’ossigeno di grande utilità. Soprattutto avrebbe mantenuto più a lungo il posto di lavoro a tanti capifamiglia, risparmiando alle casse dello Stato miliardi e miliardi di cassa integrazione.

 

A questo proposito è quasi inutile rilevare che coloro i quali si sono di fatto adoperati per causare l’accrescimento esponenziale del cosiddetto debito pubblico sono gli stessi che poi si sono pubblicamente strappati i capelli, e a tutti noi hanno frantumato gli attributi e rovinato la vita per decenni con ogni mezzo possibile e immaginabile, causa l’ammontare cui era arrivato in maniera tanto repentina.

Imponendo infine, con tale motivazione, la svendita ai privati dell’industria controllata dallo Stato, primo e indispensabile tassello dello smantellamento dell’intero comparto produttivo nazionale, ottenendo naturalmente solo di moltiplicarlo ancor più, quel debito.

In realtà quello inerente la spesa a deficit dello Stato, tale è la definizione corretta del cosiddetto debito pubblico, è un falso problema. Da un certo momento storico in poi si è iniziato a usare tale definizione per via del significato colpevolizzante che porta con sé. E’ di grande efficacia nel momento in cui si decide d’imporre alla popolazione una regressione degli standard di vita, ottenuti con secoli di lotte e sacrifici, e se ne vogliono cancellare le conquiste come in effetti è stato fatto, pervenendo un pezzo alla volta all’abolizione completa dello stato sociale. Appunto col pretesto dei suoi costi.

Così facendo si vuol far credere che non si tratti di una scelta di politica economica legata a una determinata ideologia, operata al fine di perseguire finalità ben precise che nella fattispecie riguardano l’impoverimento di massa e la messa in discussione delle stesse possibilità di sopravvivenza, ma di un qualcosa di naturale, insito nell’ordine stesso delle cose, cui non esisterebbe alternativa. Causa, l’aver vissuto al di sopra delle proprie possibilità, formula che ci siamo sentiti ripetere chissà quante volte da un certo momento in poi. Con essa s’intende definire lo stato sociale nell’insieme dei suoi costi, dei benefici, delle possibilità che offre a livello di qualità della vita, delle prospettive di crescita armonica ed equamente distribuita, di sviluppo che porta con sé. Cosa ovviamente detestata da chi vuol trarre tutta la ricchezza per sé, oggi in mano allo 0,00001% della popolazione mondiale, al fine di ottenere il potere che da essa deriva per poi esercitarlo per i suoi fini.

Proprio allo scopo ritiene essenziale non farsi vedere, nascondendosi appunto dietro una cortina ideologica approntata per mezzo del sistema d’informazione del quale detiene già da tempo il controllo, essendosene appropriato coi metodi che abbiamo appena visto.

E’ pertanto essenziale, ai fini della comprensione di determinati meccanismi, e in ultima istanza anche per le proprie possibilità di sopravvivenza, la difesa del lessico. Si esegue rivendicando il diritto sacrosanto, di cui va fatto baluardo, a chiamare le cose con il loro nome. Nella fattispecie spesa a deficit dello Stato, che è la sua funzione primaria, dato che solo per quel tramite può prestare i servizi che sono nello stesso tempo la ragione della sua esistenza e la stessa opportunità che gli permetta di restare in vita, invece che debito pubblico.

Cambiando una definizione, il suo significato e la realtà che per il suo tramite si prospetta e costruisce, dunque, per poi eseguire le azioni conseguenti, è possibile non soltanto sovvertire l’ordinamento di uno Stato, ma alla lunga persino abbatterlo.

Non si deve mai lasciare che qualcuno c’imponga o induca un modo diverso di chiamare le cose da quello che è sempre stato: primo perchè se s’impegna in tal senso, sobbarcandosi i costi insiti in operazioni del genere, non può che farlo per le sue finalità. Ma soprattutto perché per quel tramite vuole portarci a ragionare secondo i suoi meccanismi e quindi a favore dei suoi interessi, dipingendo appunto per mezzo dei lemmi della “neolingua” che ha appositamente coniato una realtà inesistente. Utilizzabile poi per gli scopi più impensabili, di abiezione inconcepibile per l’uomo della strada, come l’esempio descritto fin qui spiega nel modo migliore, che quindi è portato istintivamente a ritenerli inverosimili.

Proprio allo scopo gli è stata servita su un piatto d’argento la parola complottismo, insegnandogli a ripeterla a pappagallo ogniqualvolta si rilevi l’esistenza di azioni contrarie al bene comune. Tranne poi ritrovarsi tempo dopo in condizioni persino peggiori di quelle che si ritenevano essere frutto delle famigerate teorie del complotto. Solo che a quel punto è troppo tardi, da un lato, e dall’altro sembra invece che non sia mai abbastanza per imparare una buona volta la lezione.

L’amplificatore integrato di cui tra un po’ ci occuperemo è a tale riguardo una testimonianza preziosa e insieme un reperto “archeologico” importante ai fini del percorso che ci ha portato dove ci troviamo oggi, per comprendere le sue cause e soprattutto l’insegnamento che Storia ci impartisce, da maestra di vita impareggiabile qual è.

Vediamo allora che nei riguardi dell’industria elettronica nazionale, l’obiettivo era proprio quello cui si è pervenuti, sia pure dopo un numero rilevante di giri viziosi, scopo dei quali era appunto ingarbugliarne le vicende affinché risultassero incomprensibili ai più. Almeno sul momento. In seguito il tempo trascorso e i suoi accadimenti avrebbero magari permesso di metterle nella loro prospettiva, ma a quel punto e come sempre sarebbe stato l’oblio a prevalere, facendo in modo che le si dimenticasse.

In previsione dei suoi sviluppi futuri, che sono appunto quelli che vediamo, l’elettronica era ed è tuttora un comparto troppo strategico per lasciare che ci si possa occupare liberamente di esso. Soprattutto da parte di chi mostrava non solo un’indubbia inclinazione nei suoi confronti, ma addirittura di saper pervenire a risultati da primato e come tale avrebbe potuto interferire con la tabella di marcia che era stata prefissata.

A questo proposito la storia diun altro marchio storico italiano, Olivetti, è fondamentale. Soprattutto non fa caso a sé, più unico che raro come si fa credere, ma è stata avanguardia e insieme paradigma di quel che sarebbe accaduto alla nostra industria, qualunque fosse il settore della sua attività e per conseguenza all’intero Paese.

Nel momento in cui stava passando dal predominio tra le le macchine da ufficio elettromeccaniche a quello della nascente industria informatica, con prodotti avanti anni-luce alla concorrenza più blasonata e meglio munita di capitali, prima il suo ispiratore fondamentale a livello tecnico, l’italo-cinese Mario Tchang è incorso in uno strano incidente stradale in cui ha perso la vita, del quale non si sono mai chiarite a fondo le cause ed è stato frettolosamente archiviato dalle autorità. Poi intervenne la politica a dare il suo altolà, deviando la fabbrica sul binario morto dell’elettromeccanica, che di lì a circa due decenni sarebbe stata del tutto soppiantata dalla stessa informatica. Specialità che oggi domina a qualsiasi livello e sulla quale soprattutto si fonda l’esercizio del potere effettivo, quindi non è e non era tollerabile interferenza esterna alcuna nel suo ambito.

Fondamentale, a questo riguardo, è far propria l’idea che a determinati livelli l’orizzonte temporale che ci si attribuisce. e soprattutto su cui si ragiona e si fanno programmi, non è quello dell’uomo della strada che chiamiamo in causa ancora una volta, di pochi mesi o addirittura settimane, affaccendato com’è a risolvere i problemi di sopravvivenza spicciola. Proprio allo scopo si fa in modo che ne sia sempre più soverchiato.

Ai piani alti si ragiona, e soprattutto si è ragionato, sui decenni e persino sui secoli a venire. Come sia possibile porsi obiettivi temporali così a lungo termine, da parte di individui che almeno in teoria dovrebbero avere il discrimine fondamentale legato alla durata ragionevomente ipotizzabile della loro vita terrena, è una domanda alla quale ciascuno deve dare una risposta per conto proprio, se ne è in grado.

Lo scopo dunque era di affossare l’industria elettronica italiana, colpevole di essere troppo efficace, innovativa e soprattutto di avere origine in un Paese per il quale era già deciso il ruolo di dominato, non quello di dominatore, sia pure potenziale.

Il sistema per arrivarci è sempre lo stesso, ossia quello che abbiamo già visto sopra: lo schema problema-reazione-soluzione.

S’inizia col causare il problema, poi si attende la reazione, che si fa in modo di pilotare sulle linee prestabilite, e infine si offre la soluzione, studiata apposta alfine di pervenire alle condizioni volute fin dal principio.

Andrebbe sempre tenuto a mente, quindi, che se in un dato momento ci si trova in una certa situazione, in termini di istituzioni, di mercato, di realtà politica, economica o congiunturale, è perché proprio li si era deciso di arrivare.

Lo smantellamento del meccanismo produttivo atto a garantire al Paese la sua sussistenza, del quale oggi stiamo vivendo gli atti finali con l’invio al fallimento  dell’industria turistica e della ristorazione, l’ultima che resta in piedi ma ancora per poco, non lo si è fatto in maniera diretta ma vi si è giunti per vie traverse e molteplici. Proprio perché la massa, il popolino, che in sostanza è il derubato, non deve capire neppure dove si trova, figuriamoci verso ciò cui lo si sta dirigendo.

Dare uno sbocco anche a livello nazionale alle potenzialità tecniche e produttive della nostra industria elettronica, oltretutto in un ambito di tale capillarità di diffusione, non era opportuno. Lasciare che si potesse trasmettere a colori avrebbe significato l’acquisto dei televisori da parte di decine di milioni di persone, oltretutto in una fase in cui l’industria nazionale primeggiava.

Se ne sarebbe pertanto favorito lo sviluppo e quindi la probabilità che potesse raggiugere nuovi traguardi, cosa in cui si era dimostrata già piuttosto versata e che invece andava evitata. Ne avrebbe tratto vantaggio anche la circolazione del denaro, elemento che ancor più della massa stessa del circolante va a formare l’insieme della ricchezza disponibile, quindi utilizzabile, condivisibile e più ancora favorevole per le prospettive di crescita. Di quella stessa industria e del Paese in cui opera, migliorando inoltre la bilancia dei pagamenti e contenendo il debito estero. Avrebbe permesso infine di mantenere uno scenario meno conflittuale in ambito politico, sociale e in termini di relazioni industriali, ovvero dei rapporti intercorrenti tra i datori di lavoro e salariati.

Il punto è che tutto ciò sarebbe andato contro le scelte fatte colà dove si puote per un Paese che doveva restare tra i dominati e soprattutto dimostrava giorno per giorno quanto fosse urgente affossarlo, proprio per la vitalità del suo popolo e della sua industria, che lo stavano  portando a bruciare le tappe dello sviluppo e a scalare le posizioni di alta classifica dell’economia mondiale.

 

In direzione ostinata e contraria… Al bene del Paese e del suo Popolo

Proprio quello della spesa insostenibile cui si sarebbe andati incontro permettendo le trasmissioni a colori, mentre invece sarebbero state un veicolo di accrescimento della ricchezza generale, stante il principio del moltiplicatore keynesiano, fu uno tra gli argomenti più comuni, e insieme più pretestuosi che i distruttori del loro stesso Paese vollero utilizzare. La Storia dimostra che lo hanno fatto in nome e per conto di quello che hanno sempre proclamato fosse il loro avversario, il grande capitale sovranazionale, agendo di fatto a danno in primo luogo della loro base sociale e di consenso.

L’allora segretario del partito alla testa dello schieramento che ha affossato l’industria elettronica nazionale, il PCI, è stato del resto promulgatore e sostenitore instancabile dell’austerità degli anni ’70, con la quale venne dato il primo, fortissimo, colpo di maglio all’espansione economica e sociale del nostro Paese, dal quale non si è più ripreso.

Si sono così rafforzate ancor più le conseguenze della crisi energetica che da oltreoceano si vollero materializzare negli stessi anni, secondo l’esempio di azione pro-ciclica che è l’esatto contrario di quel che occorrerebbe fare in casi del genere. Proprio in conseguenza il nostro Paese ha imboccato la china di cui vediamo oggi gli effetti, pressoché definitivi. A sostegno del suo fanatismo austeritario, Berlinguer ha firmato persino un paio di libri.

Oggi come allora austerità significa appunto strozzare l’economia, l’industria e quindi il progresso sociale e le stesse condizioni di vita del Paese, per mezzo del blocco della circolazione del denaro e della crisi in cui cadono uno dopo l’altro, come birilli, i settori produttivi che ne vengono colpiti. E’ inoltre strumento di massima efficacia ai fini dello sviluppo e del diffondersi della corruzione.

Lo è in quanto trovandosi dinnanzi alla messa in discussione delle sue stesse possibilità di sopravvivenza, e al rarefarsi vieppiù evidente ed esasperato del denaro, il singolo è costretto a farvi fronte come può. Quindi ad accettare compromessi che in una condizione meno difficoltosa rifiuterebbe senza pensarci un istante.

Imboccata quella china, pervenire alle sue conseguenze estreme è questione di un attimo.

Casualmente la lotta contro la corruzione è stato un altro tra i cavalli di battaglia della comunicazione politica berlingueriana, mentre nello stesso tempo si adoperava concretamente affinché divenisse un fattore endemico e predominante, appunto favorendo le condizioni più indicate al suo scatenarsi. Lo avrà fatto a sua insaputa o nella coscienza delle proprie azioni?

Quale che sia la risposta, i costi in termini di impoverimento di massa, di arretramento materiale delle condizioni di vita e delle prospettive del Paese sono stati enormi. Data l’esistenza del già allora autorevole centro studi economici del suo partito, costui non poteva ignorare e neppure fingere di non sapere di quei costi, ma soprattutto chi li avrebbe dovuti pagare: in primo luogo lavoratori e ceti subalterni, sotto l’aspetto economico e ancor più nella messa in discussione del posto di lavoro costituzionalmente garantito, dell’abbattimento del potere d’acquisto dei salari, delle possibilità di emancipazione, della dignità individuale e delle stesse possibilità di sopravvivenza e prolificità.

Dunque sapeva perfettamente quel che stava facendo e quali ne sarebbero state le conseguenze: in sostanza è stato l’iniziatore dell’era dei politici che hanno operato contro il loro Paese, e dietro il giuramento di servirne gl’interessi si sono adoperati per affossarlo, avviandolo lungo la china irreversibile che ha portato al tracollo sociale, economico, industriale e politico dell’era attuale.

L’industria nazionale è ormai stata del tutto smantellata e quel poco che ne resta in piedi è in mani straniere, le quali impongono condizioni-capestro agli stessi governi e portano fuori dal paese la ricchezza generata, in un tipico esempio di colonialismo economico a favore del quale i partiti di sinistra si sono adoperati per decenni. Sotto la bandiera dell’internazionalismo ma in realtà in nome e per conto dei poteri che da sempre ne muovono i fili: quelli dell’ultracapitalismo mondialista che ha il suo stemma nel compasso e nel triangolo e fa della gestione degli opposti il suo modus operandi, peraltro efficacissimo.

Gestione degli opposti significa mettere al potere governi fantoccio che rispondono a chi li insedia e non chi conferisce loro legittimazione secondo i meccanismi di designazione popolare. Per poi mettervi di fronte opposizioni altrettanto fantoccio, ottenendo un’azione politica e istituzionale falsificata già dalle fondamenta. Ne deriva il disamoramento generale, appunto nei confronti di politica e istituzioni, che a sua volta produce il liberarsi del campo a ulteriore favore di chi intenda dirigerlo per i propri scopi, rendendosi manifesta la consapevolezza che più nulla possa fare il popolo di quanto in suo potere per indirizzarne l’azione, tranne il sollevarsi. Cosa storicamente mai avvenuta, dato che tutte quelle che ci hanno insegnato a chiamare rivoluzioni, altro non sono stati che moti essenzialmente a carattere e direzione elitari, dunque golpisti, organizzati e finanziati da quelle stesse èlite.

Persino per la tanto glorificata rivoluzione russa la banca Warburg, la Kuhn & Loeb e i Rockefeller hanno fornito i denari necessari, non compiendosi certamente azioni siffatte a suon di chiacchiere, come certi falsari arruffapopolo vorrebbero far credere. Pensiamo che dopo averci messo i soldi rinunciassero a dirigerla dove conveniva loro?

Così, dopo aver tolto di mezzo i Romanov, rilevantissimo centro di potere di matrice cattolica che ha avuto lo stesso destino dello Stato della Chiesa, dei Borbone e degli Asburgo, hanno avuto nel loro controllo un babau, l’Unione Sovietica, che ha indotto tutti a rigar dritti per tre quarti di secolo. Tranne poi smantellarla quando hanno ritenuto avesse esaurito i suoi compiti, lanciandosi prima al saccheggio delle sue enormi risorse naturali e poi a indurne la carenza, con i conseguenti effetti destabilizzanti.

E’ di queste ore la notizia che i gasdotti che dalla Russia portano in Europa strabordano combustibile. Le loro bocche d’uscita però sono tenute chiuse per opera degli stessi europei, i quali si sono dati la priorità non di provvedere affinché l’industria possa lavorare, l’elettricità sia fornita con continuità e le persone possano scaldarsi durante l’inverno, ma fare in modo che tutto ciò non sia più possibile, causando un aumento insostenibile per i costi dell’energia e un attacco alle stesse condizioni di vita nel Continente, già in grave difficoltà per i motivi che sappiamo, secondo modalità terroristiche e con finalità eversive.

La gestione degli opposti ha toccato da vicino anche le vicende dell’industria elettronica nazionale, come vedremo tra poco. A tale riguardo Voxson e Autovox sono state tra gli esempi tipici della creatività italiana in ambito industriale, come testimoniano da un lato il successo anche sui mercati internazionali che ebbero fin quando fu loro permesso di lavorare, e dall’altro i prodotti che hanno realizzato.

Di Voxson possiamo ricordare l’autoradio Sonar, la prima in Europa munita di una meccanica per la riproduzione dei nastri Stereo 8, in un’epoca in cui la globalizzazione era inesistente o meglio ancora impensabile nella realtà del mercato di allora, e soprattutto il Tanga, radio dalle dimensioni miniaturizzate ideata per l’uso in auto ma utilizzabile anche in ambiente domestico. Allo scopo si avvalse di una sorta di docking station ante litteram, secondo un concetto che si sarebbe assai diffuso solo alcuni decenni dopo.

Tanga era disponibile in colori diversi, ognuno dei quali distingueva la banda di ricezione: verde per la FM, rosso per l’AM, giallo per le onde lunghe.

E’ stato inoltre l’esempio concreto per le capacità creative, ingegneristiche e di miniaturizzazione del marchio, peraltro evidenziatesi fin dal 1960 con l’autoradio Vanguard, integrata nello specchietto retrovisore.

Prima la politica ha fatto tutto quanto in suo potere per portare al tracollo l’industria elettronica nazionale. Poi, una volta giunta all’obiettivo ha messo in piedi un carrozzone, REL, volto al salvataggio, regolarmente andato a male, e come sempre a spese della collettività, dell’azienda e delle altre che operavano nel settore e si trovavano in cattive acque. Esempio tipico appunto della gestione degli opposti, coniugata in modalità diverse da quelle descritte, usuali nel confronto politico, ma dai medesimi meccanismi e finalità.

A volte la casualità, persino la più banale come quella dell’elemento d’interesse secondario inserito in una pagina pubblicitaria, solo a distanza di tanto tempo si dimostra per quello che è realmente: fattore che mette in parallelo, o ancor meglio nel medesimo filone della Storia vicende che invece, sul momento, poteva sembrare non avessero nulla a che fare l’una con l’altra. Se non per una mera funzione conseguenziale, come quella che vede l’autoradio destinata al montaggio  sul cruscotto di un’auto.

Così, nella foto piccola della pagina pubblicitaria qui sopra, l’autoradio Sonar è ritratta sulla plancia di un altro prodotto d’eccellenza dell’Italia di allora: l’Alfa Romeo 1750, vettura di punta di un’altra tra le nostre industrie-gioiello di proprietà pubblica, ossia di tutti, che si volle ad ogni costo smantellare perché i suoi bilanci erano in perdita.

La realtà invece era che ognuna delle auto uscite dalle sue linee di montaggio faceva una pubblicità e dava un lustro al nostro Paese, alle sue capacità tecniche e artistiche e alle doti uniche del suo popolo irrealizzabile altrimenti, che nessuna tecnica propagandistica sarebbe stata in grado di eguagliare e nessuna somma sarebbe mai stata in grado di comperare.

Proprio per questo la si è voluta affossare a ogni costo. E’ stata il bersaglio di un attacco concentrico e ininterrotto andato avanti per decenni, eseguito a mezzo stampa e di ogni altro strumento di opinione, portato infine a compimento da politica e istituzioni.

Le riviste nazionali di auto, generosamente sovvenzionate dai capitali privati, all’epoca furono implacabili nel delegittimare i suoi prodotti, la sua dirigenza e le maestranze che vi lavoravano. Come sempre facendo uso del pretesto più smaccato, secondo cui quei capolavori di ingegneria resi accessibili a molti sarebbero stati “rifiniti male”.

 

Ripetendo goebbelsianamente quella fesseria fino allo spasimo, da democratici convintissimi hanno persuaso milioni di persone dell’inesistente. Fornendo così un’ulteriore giustificazione, fasulla quanto i suoi ideatori e le testate per mezzo delle quali agivano, agli autori ed esecutori di quell’industricidio con annessa dilapidazione del bene pubblico, per un controvalore di dimensioni sostanzialmente incalcolabili. Nessuno di essi è mai stato chiamato a farsi carico delle proprie responsabilità.

A chi rispondeva chi ha eseguito tutto ciò, forse al popolo italiano?

Abbiamo poi visto com’è andata a finire: il caso di Alfa Romeo si è rivelato innanzitutto paradigmatico per sostanziare la credibilità dei luoghi comuni riguardanti lo Stato inefficiente e le virtù del privato, che ci si ostina a dipingere per il meglio che si possa concepire.

Come fosse stata di sua proprietà, Prodi l’ha regalata agli Agnelli, che l’hanno prima devastata, portandola a costruire i medesimi catorci che vendevano da sempre con il marchio di famiglia, appena diversificati esteticamente, e poi smantellata, facendole fare la fine che sappiamo.

In realtà la vicenda della casa del Portello è stata per l’ideologia legata al predominio del privato una sorta di trofeo di guerra. Ma nello stesso tempo la dimostrazione inoppugnabile della sua distruttività, irrecuperabile e definitiva.

Trofeo di guerra in quanto emblema stesso dell’inevitabilità del destino, se si dà credito all’ideologia che venera la pretesa perfezione dei mercati, appositamente deificati, secondo cui persino la realtà industriale di proprietà pubblica più prestigiosa non può che finire, in un modo o nell’altro, nelle mani dei privati. Tanto meglio se dopo le traversìe peggiori.

Distruttività inoppugnabile perché malgrado il valore immenso di quel trofeo, proprio a livello simbolico, il capitale privato, persino quello più evoluto, non sa concepire altro che gettarlo a forza nel suo tritacarne, attribuendovi e attribuendosi così un simbolismo ancor più crudo ed evidente: quello che riguarda l’unica e sola capacità dell’ideologia fondata sul danaro e la sua accumulazione, stante nel divorare tutto quanto gli capita a tiro. Persino l’emblema stesso del suo trionfo, prologo alla fase in cui arriva, inevitabilmente, a fagocitare anche sè stesso.

Lo stesso del resto è stato fatto con Lancia, altro marchio dalla tradizione impareggiabile.

Come sempre in questi casi, si è soltanto spremuto il limone, sporcando la reputazione di due tra i nomi più gloriosi di tutta la storia dell’automobile, costruita sulla pelle, gli sforzi, la creatività e i sacrifici di tante persone. Per poi trafugarne il succo residuo e buttare via la buccia ormai inservibile, scaricandone i costi, le responsabilità e le conseguenze sull’intera collettività.

Il metodo Alfa Romeo è stato utilizzato per tutta l’industria italiana di qualche rilevanza, della quale oggi restano solo macerie. Secondo un disegno che per essere portato a termine ha necessitato di complicità a tutti i livelli, in particolare laddove si è prestato giuramento di servire esclusivamente l’interesse pubblico e della Nazione.

L’autoradio Tanga, qui raffigurata nelle sue tre versioni, FM, AM, onde lunghe, insieme alla docking realizzata per consentirne l’impiego anche in casa. Le sue dimensioni erano miniaturizzate al punto da averla corredata di un astuccio per il trasporto che fungeva anche da pratico portachiavi.

Alfa Romeo, inoltre, ha fatto si che il design italiano primeggiasse nel mondo: pensiamo a Zagato, Bertone, Pininfarina, Scaglione, Giugiaro. Lo ha fatto oltretutto non in maniera idealizzata da libro di scuola o nell’asetticità del catalogo di una mostra. Ha portato invece le auto disegnate da quei grandi maestri a circolare sulle strade di tutto il mondo e ad essere sognate da chiunque apprezzasse il buon gusto e la creatività, inevitabilmente associate alle capacità di tutto un popolo, il nostro.

Alfa Romeo 33 Stradale

 

Che fine hanno fatto, oggi, quei marchi, quella creatività e la reputazione stessa del nostro popolo? Oggi siamo quelli che per sopravvivere devono pietire il prestito di denaro allo strozzinaggio globalizzato, dando in pegno il patrimonio inestimabile stante nella nostra Terra ricca come nessun’altra di bellezze senza pari, nei nostri beni artistici e culturali, i più grandi del mondo per numero e valore, il nostro modo di vivere e la nostra tradizione.

Tutto questo per mano di un branco di criminali della specie più efferata, vendutisi per pochi denari e qualche poltrona. Nei loro confronti è assai probabile che non vi sarà giustizia terrena e neppure potrebbe esservi, data l’inesistenza di una pena commisurata all’enormità dei delitti che hanno commesso. La Storia tuttavia ha già emesso il suo verdetto, irrevocabile.

 

Un integrato a due facce

Tutto quanto descritto fin qui trova sintesi ed emblema nel  Voxson H302, soprattutto nelle sue caratteristiche. Queste a loro volta sono la riprova del primato detenuto dall’industria elettronica nazionale, anche in un ambito in cui nel nostro paese non esisteva ancora un mercato in possesso di una sua connotazione precisa, come per quanto riguarda il settore hi-fi. Lo si comprende già nell’osservazione a colpo d’occhio dell’amplificatore.

La sua estetica infatti denota caratteri di razionalità e integrazione che nel prodotto estero si sarebbero visti solo molti anni dopo.

Gli amplificatori coevi del nostro infatti erano spesso un esempio tipico di disordine visivo e di incoerenza, a sua volta specchio fedele dell’organizzazione interna della componentistica e delle modalità di progettazione da cui discendevano.

Nessuno di essi, in ogni caso, poteva vantare la pulizia delle linee e il rigore formale del 302, frutto di una scuola di design allora all’avanguardia, altro primato italiano che è stato volontariamente gettato alle ortiche. Inimmaginabile, per qualsiasi altro prodotto dell’epoca, anche del marchio più affermato o prestigioso, poi l’impiego di manopole e levette tutte della stessa taglia e perfettamente allineate, secondo concezioni e un progetto che erano di molto avanti al loro tempo.

Il Tanga NS del 1978, disegnato da Rodolfo Bonetto.

 

Quello dell’H302 è il tipico esempio di un’estetica studiata con grande cura ma in maniera sensata e con finalità concrete di raffinatezza concettuale, prima ancora che visiva, e di utilizzabilità, la cui contrapposizione col modello attuale centrato sulla pacchianeria acchiappa-arricchiti è quantomai stridente e significativo.

L’H302 vide la luce nel 1972, e fu totalmente trascurato dalla stampa nazionale, già allora al servizio degli interessi dominanti del settore, quelli dei distributori più solidi, abituati da sempre a fare il bello e il cattivo tempo in un mercato che consideravano, e considerano tuttora, alla stregua di un feudo personale.

A guardarlo oggi sembra un prodotto della metà del decennio successivo. Una vera e propria era geologica, se si considera che, soprattutto nel nostro paese, l’hi-fi era un settore nascente, di parto settimino, mentre nel 1985 il digitale si era già affermato quasi completamente e l’analogico, inteso come sorgenti e come supporto fonografico stava cedendo sotto i suoi colpi d’ariete. Sostanziando così le direttrici proprie dell’era attuale della riproduzione sonora amatoriale

Il retro dell’integrato denota invece in maniera esplicita l’epoca in cui è stato pensato e realizzato. La presenza delle prese di segnale DIN, affiancate alle più consuete per noi RCA, le uscite di potenza in formato punto-linea, anch’esse affiancate alla morsettiera per il collegamento tramite cavo spellato, non permettono dubbi.

In un certo senso lo fa ancor più la presenza del cambiatensione, tipica da un lato di un’epoca in cui l’unificazione della rete elettrica a 220 Volt non era ancora giunta a compimento, e dall’altro delle ambizioni, ben fondate, di penetrazione sui mercati in cui la rete funzionava, e funziona tuttora, a 110 Volt.

Ultimo particolare, la presa Ticino Magic, per l’alimentazione di un’apparecchiatura esterna. Formato particolarmente in voga nelle abitazioni o comunque negli ambienti di lusso, la Magic era la linea allora al vertice del cataloghi Ticino, caratterizzata da costi inaccessibili per l’edilizia popolare e quella destinata al ceto medio di allora.

Anche  all’interno del Voxson H302 sono visibili i segni della sua originalità. In particolare per quel che riguarda l’assemblaggio della componentistica. Quella di segnale è montata su circuito stampato, mentre l’alimentazione si avvale di una realizzazione punto-punto forse più tipica delle elettroniche valvolari.

Non si tratta di una scelta peregrina, in quanto quel metodo è caratterizzato da un passaggio più efficace di energia, fattore determinante per qualsiasi alimentazione, e permette inoltre una migliore sonorità. E’ invece meno conveniente per quel che riguarda i costi di produzione, suggerendo ancora una volta i criteri coi quali era realizzato l’H302, del resto palesi già nell’osservazione delle superfici a vista.

A questo proposito, l’impiego di una copertura totalmente in alluminio era un ulteriore esempio della cura devoluta nella costruzione dell’oggetto, ai fini della quali erano utilizzate come in questo caso soluzioni più avanzate rispetto alla loro epoca. Lo stesso vale per la stondatura degli spigoli secondo un ulteriore elemento di raffinatezza allora inedito e rimasto anche in seguito inusuale.

Dell’H302 è stata realizzata anche una versione più potente, l’H305, da 50 watt per canale. Era caratterizzato da un’estetica e una dotazione comandi identiche a quelle del modello di cui ci stiamo occupando.

La copertura però era percorsa da forature per buona parte della sua superficie, al fine di favorire lo smaltimento della maggiori quantità di calore generate dalla sezione di uscita.

Uno tra i limiti dell’integrato che è stato possibile scoprire solo in epoca recente, riguarda la qualità dei cablaggi interni. I cavi con cui sono realizzati hanno un isolante che tende a sbriciolarsi, scoprendo il rame del conduttore interno e favorendone l’ossidazione. Si tratta anche in questo caso di uno specchio dei tempi, laddove vi erano difficoltà oggi inimmaginabili nello stesso procurarsi la materia prima della qualità necessaria. Un po’ per la scarsità della domanda, ma anche per le condizioni di ristrettezza, in primo luogo economica in cui l’industria era costretta a dibattersi.

La conseguenza, per gli esemplari sopravvissuti fin qui, riguarda appunto i malfunzionamenti che possono derivarne, sia pure in un contesto di affidabilità altrimenti impeccabile nel suo insieme. Una volta sostituita la cavetteria interna, operazione un tantino annosa, l’H302 riprende vita, oltretutto in maniera gagliarda.

Pur senza essere stato sottoposto a lavori di sostituzione della componentistica più esposta a esaurimento, ha sfoderato doti di potenza  e di qualità sonora interessanti. Sia pure nel pilotaggio di diffusori non proprio sensibilissimi, come gli AR 4X di cui ci siamo occupati tempo addietro.

In sostanza non aveva nulla da invidiare alle amplificazioni di pari potenza più blasonate del suo periodo e forse poteva prevalere nei loro confronti anche sotto questo aspetto.

La sonorità infatti è solida e caratterizzata da doti di equilibrio e di dettaglio assolutamente non disprezzabili, sia pure in un ascolto basato sui parametri attuali. Si tratta di un discrimine fin troppo stringente per un’apparecchiatura di allora. Tantopiù se si è consapevoli di quali fossero le condizioni tipiche dell’ascolto a quei tempi, sia pure a partire da apparecchiature ben caratterizzate quanto a fama e blasone. Tuttavia l’H302 si è rivelato ben all’altezza di un compito che probabilmente all’epoca della sua realizzazione non si sarebbe neppure immaginato, a ulteriore dimostrazione delle doti realizzative sue e di chi lo ha pensato e costruito.

Tutto questo a dispetto o meglio ancora a evidenziare la stupidità insita nella sufficienza con cui l’italiano medio ha sempre guardato tutto quanto provenga dal proprio paese, secondo i sintomi di una tra le malattie peggiori del nostro popolo: l’esterofilia, precursore dell’autorazzismo tornato utile per arrivare con maggiore facilità alla situazione attuale. E’ stata sapientemente instillata nel corso dei secoli, alla quale non solo si abbandona voluttuosamente ma ne fa addirittura strumento di pretesa quanto inesistente superiorità nei confronti dei suoi simili. C’è da chiedersi quali risultati avrebbe potuto raggiungere il nostro Paese, in assenza di una simile tara concettuale. La consapevolezza dei propri mezzi è la prima chiave del successo, dato che se già in partenza si è gravati dalla convinzione di essere inferiori rispetto agli antagonisti, difficilmente si potrà pervenire a un risultato di qualche rilievo.

Osservate in una prospettiva di lungo termine, e non solo nella banalità episodica con cui spesso si tende a considerarle, determinate realtà contribuiscono anch’esse a spiegare le cause della condizione attuale propria del nostro Paese. Se vi si aggiungono i suoi limiti strutturali, stanti nell’orografia da cui è caratterizzato; nella posizione geografica distante dai crocevia del commercio internazionale, rispetto ai quali è separato anche da imponenti ostacoli natuali; nella carenza di materie prime, alla quale proprio l’imprenditoria pubblica ha tentato di supplire, peraltro validamente e proprio per questo la si è voluta smantellare; il divario a livello monetario nei confronti dei nostri concorrenti diretti, i quali hanno potuto tutti contare su politiche coloniali che al di là della loro valenza storica e sociale a suo tempo li hanno messi in condizioni ben più vantaggiose, si completa un quadro che descrive un divario in apparenza incolmabile. Per altri versi si spiega però come le prerogative genetiche del nostro popolo, o quantomeno della parte migliore di esso, siano state temute al punto da far ritenere indispensabile battere a oltranza su determinati tasti.

D’altronde se nel giro di poco più di trent’anni l’Italia è riuscita a passare da paese raso al suolo, a seguito di una guerra mondiale perduta, a quarta potenza economica mondiale, sia pure stretta nei margini in cui la resa senza condizioni l’ha relegata, quella che i media e i libri di scuola si ostinano tuttora a definire “armistizio”, determinate capacità, supportate dalle scelte opportune a livello economico e politico, sono da ritenersi indispensabili e nello stesso tempo innegabili.

Le condizioni cui siamo riusciti a pervenire, però, non erano esattamente le più apprezzate dagli arbitri degli equilibri internazionali. Quel che è venuto dopo ne è stato appunto la conseguenza, come sempre in casi del genere materializzata grazie a una classe dirigente complice e collusa, prima ancora che spergiura, insediata oltretutto per mezzo di un colpo di mano e che d’altra parte ha potuto contare su una manovalanza incistata in tutti i gangli della società civile, nessuno escluso.

I risultati sono quelli che abbiamo di fronte a noi: un Paese ridotto per la seconda volta in meno di ottant’anni in un cumulo di macerie.

Con la differenza che allora c’era una fortissima volontà di rimettersi in piedi, proprio quella che ha portato l’Italia dove appena detto. Oggi invece c’è una popolazione in larghissima maggioranza narcotizzata, lobotomizzata e in preda alla psicosi irreversibile prodotta da due anni di martellamento mediatico ininterrotto, volto all’induzione del terrore. Come tale riesce credere alle fandonie più inverosimili e imbottite di contraddizioni, al punto di andare oltre il surreale. E’ ormai incapace persino di realizzare in quale situazione si è lasciata condurre, alla stessa stregua degli ovini caricati sui camion che li portano al macello.

Buon anno dal Sito della Passione Audio.

 

 

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2 thoughts on “Voxson H 302: agli albori dell’hi-fi italiana

  1. Buongiorno Claudio,
    analisi interessante sulla storia recente, ma neanche tanto, di un Paese meraviglioso ed invidiato da tutto il mondo ma che spesso, come giustamente dici, per primi snobbiamo.
    Purtroppo riesce difficile sperare che la storia, esperienza reale cui dovrebbe essere facile attingere insegnamento, possa invece illuminare per un cambio di direzione.
    Restando in tema vorrei solamente ricordare un’altra realtà nell’ambito della stereofonia, la vicentina Perser, che in quegli anni mi fece assai sognare con il suo amplificatore SA 2050.
    Auguro un sereno 2022 a tutti con tanta buona Musica

    1. Ciao Andrea,
      tantissimi auguri anche a te e grazie dell’apprezzamento.
      Anche il Perser lo ricordo bene, pur avendolo visto solo in foto, su qualche rivista di allora.
      Se ne capita un esemplare, sarò felicissimo di dargli spazio.
      Personalmente sono convinto che se cambio di direzione ci sarà, dovrà venire da noi, dal nostro impegno in prima persona e non dico altro. Del resto non ce n’è bisogno: la situazione non potrebbe essere più chiara, avendo intenzione di osservarla.
      Ancora tanti auguri, a te e tutti quanti leggono queste righe. 🙂

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