Equilibrio, virtù inderogabile

Le regole propriamente dettate dalla tecnica e quelle di buon senso che è opportuno tenere in considerazione, nell’allestimento e poi nell’impiego di un impianto audio, sono tali e tante da renderne difficile già la mera elencazione. Figuriamoci poi osservarne correttamente l’enunciato.

Molte di esse oltretutto non trovano accoglienza univoca, ma sono considerate in funzione delle scelte e delle convinzioni di ciascun appassionato, anche in base alla sua esperienza. Esempio tipico quello dei cavi e più in genere di tutto quanto ecceda gli ambiti tradizionali inerenti l’elettronica e in qualche misura l’acustica. Il tutto secondo un abito mentale dalla selettività a dir poco ferrea. In quanto tale, fermamente deciso a considerare soltanto quel che fa comodo o piacere, quindi osservante con grande cura della legge non scritta che impone il non toccare assetti ben consolidati, per quanto tutti da dimostrare.

Nel suo insieme la questione va a influenzare profondamente il discorso riguardante la riproduzione sonora di qualità elevata, già dalle basi. Il suo principio di fondo sta nella massima specializzazione delle funzioni di ciascun componente dell’impianto. Maggiore è la specializzazione, più è elevata la qualità sonora che si può ottenere, ferme restando le altre scelte di ordine tecnico e installativo. Al contrario, più si va a integrare funzioni diverse e più ci si deve rassegnare a compromessi, innanzitutto a livello di realizzazione delle apparecchiature stesse, con quel che ne deriva in termini di risultati.

Il rovescio della medaglia sta nell’aumento del numero di scelte da fare, una per ogni componente dell’impianto. Se il loro numero aumenta., di pari passo vanno le incognite insite nella loro selezione e gli eventuali errori in cui si può incorrere.

Le due cose purtroppo sono inscindibili, ma non si può pensare di evitare i rischi limitando il numero delle scelte. Un esempio potrebbe essere quello degli stadi fono presenti in qualsiasi amplificatore integrato commercializzato nel corso dell’era dell’analogico.

Per motivi di contenimento dei costi e di spazio disponibile erano quasi sempre povera cosa, motivo per cui se si passa a un pre fono esterno il vantaggio è indubbio. In particolare se si prende atto che i costi di produzione attuali e quelli di commercializzazione sono tali da far si che spendere meno di tanto non sia possibile. Quantomeno se si desidera un oggetto realmente efficace, e come tale in grado di andare oltre i limiti degli stadi fono di un tempo.

Viceversa, se si opta per una di quelle che personalmente definisco scatole di fiammiferi, è evidente che più di tanto non si possa pretendere. Nei casi peggiori ci si ritroverà in condizioni non così dissimili da quelle tipiche di uno stadio fono presente all’interno di un qualsiasi amplificatore integrato. L’unica, vera differenza, allora, sarà quella di essersi alleggeriti le tasche di qualche centinaio di euro.

Andando avanti con la sperimentazione, in genere finalizzata all’ottenimento di risultati migliori rispetto a quelli che la disponibilità del portafogli tenderebbe a concedere, e affrontandola con l’apertura mentale sufficiente a comprendere che esistono al mondo pochi settori o forse nessuno in cui meno si possono dare le cose per scontate, si ricavano due insegnamenti che reputo fondamentali.

Il primo è che la disponibilità di denaro, se in una certa misura fa sempre comodo, finisce quasi sempre col rivelare il suo lato meno vantaggioso. Spinge infatti a credere di poter risolvere ogni problema per il suo tramite. Non solo è sbagliato, in quanto porta a ritenere che tutto si possa comprare, con gli atteggiamenti opinabili che ne derivano e innescando oltretutto una spirale consumistica dalla quale si finisce a volte con l’essere travolti senza neppure accorgersene, ma ha un difetto ancora più grave, stante nel produrre risultati spesso e volentieri peggiorativi rispetto alla condizione precedente.

Oltretutto lo sono due volte: in primo luogo per il principio secondo cui a impianti piccoli corrispondono problemi piccoli, mentre gl’impianti grandi ne portano con sé di dimensioni almeno proporzionali, ma più spesso o meglio quasi sempre tendenti a un andamento esponenziale. Tanto è vero che tra gl’impianti caratterizzati dal suonare male, a toccare le vette più alte della discutibile specialità sono regolarmente quelli dal costo più elevato in assoluto

Insomma, è necessario spendere quantità di denaro sempre più vicine alla soglia dell’inverosimile per uno di quegli impianti, ma almeno il loro suonare male è sospinto a livelli d’eccellenza.

Tutto il contrario insomma di quel che viene ripetuto a oltranza da siti e riviste allineati, e poi da quanti insistono a uniformarsi alla loro litania monocorde, quella del tutto va ben, madama la marchesa, e se più costa meglio va.

Pertanto, secondo quelle fonti, non solo più si spende e meglio è l’impianto che si va ad allestire, ma il ricorso al portafogli è la strada maestra o meglio ancora l’unica per la soluzione di ogni problema. Ossia, e come sempre, tutto il contrario di quel che avviene nel mondo reale, che ha il suo difetto fondamentale nel contraddire con sistematicità esemplare ogni assunto che si trovi sulla carta stampata di una certa risma e sul suo corrispondente virtuale.

La colpa ovviamente non è del mondo e neppure della carta, poveretta, ma di chi vi stampa sopra certa roba.

Proprio nel momento in cui si passa dalla carta alla realtà concreta si ha la dimostrazione che quello centrato sul portafogli è il modo migliore di perpetuarli, i problemi, quali che siano. Per il semplice motivo che tutto quanto è possibile acquistare nel comparto merceologico di nostro interesse e origini da logiche industrial-capitaliste non può che doversi misurare sempre con gli stessi problemi.

Il secondo insegnamento è che la riproduzione sonora sonora non risponde solo alle leggi dell’elettronica e dell’acustica ma è una specialità squisitamente interdisciplinare. Come tale i risultati che si possono ottenere per il suo tramite sono influenzati da una lunga serie di fattori, dei quali sono convinto si abbia contezza, quindi non dico che li si sia esplorati in maniera sufficientemente esaustiva, forse per il 10%. Di conseguenza il mero accrescimento del costo dei componenti dell’impianto è un elemento in sostanza privo di significato, efficace soprattutto a rendere più roboanti i numeri ingannevoli elencati nelle tabelle delle caratteristiche tecniche e nelle misure di lavoratorio.

Ne sappiamo talmente poco riguardo agli elementi che influenzano la qualità della riproduzione sonora, che ancora non abbiamo capito neppure se certi suoi aspetti li si debba catalogare tra i pregi o tra i difetti. Questo non solo nell’ambito della riproduzione del suono, ma già a livello della sua produzione.

L’esempio che trovo più indicato è quello dell’organo Hammond, strumento principe di alcuni tra i generi musicali più in voga tra quelli nati nel secolo scorso, la cui sonorità sembra quasi un miracolo per quanto è ricca, avvincente e soprattutto trascinante. E’ generata per mezzo delle cosiddette “ruote foniche”, le tone wheels, elementi elettromeccanici caratterizzati da una lunga serie di problemi inerenti l’essere in primo luogo oggetti di questo mondo. Come tali danno luogo a una serie di irregolarità, a livello di intonazione, poi di tenuta del tono stesso e persino del timbro che vi si attribuisce, sempre mutevole secondo un’ampia serie di parametri.

Di conseguenza, c’è stato chi a suo tempo si è apprestato a costruire uno strumento più perfezionato, che pur funzionando secondo determinati criteri, andasse finalmente oltre quelli che si riterrebbero i limiti primari del predecessore. Ci si è messi così all’opera, impiegando allo scopo tempo, denaro, risorse fisiche e mentali, per accorgersi, una volta arrivati alla meta, che lo strumento così realizzato aveva perso irrimediabilmente tutti i motivi d’interesse caratteristici dell’originale, nessuno escluso, in particolare quelli che ne rendono la sonorità così affascinante e sempre nuova.

E’ tale, pertanto, proprio per via delle sue irregolarità, quindi in ultima analisi dei suoi errori, e ancor più delle modalità del tutto casuali, dunque imprevedibili, con cui si presentano. Vallo a spiegare allo scienziato di turno, convinto che tutto quanto esista a questo mondo possa e anzi debba essere ridotto a un modello matematico il cui risultato può essere uno e uno soltanto, perchè altrimenti il calcolo è sbagliato.

Addirittura, la sonorità “definitiva” dell’Hammond la si è avuta nel momento in cui lo si è abbinato al Leslie, così chiamato dal nome del suo inventore, Don Leslie. Si tratta di quella sorta di armadio provvisto di feritoie nella parte superiore, che tutti quanti abbiano frequentato concerti di musica moderna nella loro epoca migliore erano abituati a notarlo, messo bene in alto nei pressi della postazione del tastierista.

Quando la luce batteva nel modo giusto, attraverso le feritoie del Leslie si poteva intravvedere qualcosa che girava al suo interno. All’atto pratico il Leslie è un diffusore che all’emissione dei toni gravi e di quelli acuti aggiunge ulteriori irregolarità a quelle proprie dello strumento cui si abbina. Le si ottiene facendo girare attorno al loro asse gli altoparlanti per la gamma alta, dotati di trombe appositamente conformate, mentre per le frequenze inferiori a girare sono invece gli elementi riflettenti utilizzati per attribuire colorazione al suono emesso dagli altoparlanti ad esse dedicati.

Per aggiungere irregolarità a irregolarità si adottano velocità di rotazione diverse per gli elementi menzionati, per mezzo di dispositivi di trasmissione del moto tali da rendere il tutto ancora più incerto. e volendo anche òla rotazione in senso contrario l’uno rispetto all’altro.

Si ottiene così, sfruttando anche gli ulteriori elementi d’incertezza insiti nella funzionalità stessa di tutto il marchingegno, quello che viene riconosciuto pressochè all’unanimità come il suono più affascinante, e oltretutto privo di qualsiasi possibilità di confronto, fra tutti gli strumenti inventati negli ultimi 200 anni e possibilmente anche per svariati fra quelli che hanno visto la luce nelle epoche precedenti.

Però qualcuno pretende di venirci a raccontare che il suono dev’essere in un certo modo invece che in un qualsiasi altro. Su quali basi? E soprattutto chi glielo ha detto?

Da solo se lo è detto, per poi fare di quella congettura, frutto del connubio tra ignoranza, ambizione, supponenza e sordità di fondo, a livello etico ancora prima che acustico, una legge divina. Imponendo e amministrando la quale, con gli strumenti di propaganda e quindi di pressione che ha messo in piedi allo scopo, si è attribuito la capacità di influenzare le potenzialità di vendita di un qualsiasi dispositivo atto alla riproduzione del suono. Facendo di fatto il bello e il cattivo tempo, dimodochè il suo creatore o distributore non possa che piegarsi al ricatto materializzato in tal modo.

Poi, come in ogni sindrome di Stoccolma che si rispetti, la vittima trova il modo di mettersi d’accordo con chi può agire in maniera così vessatoria essendosi installato in un nodo nevralgico del sistema produttivo-commerciale, al fine di sfruttare insieme a lui la situazione nel modo migliore.

In ultimo, persino chi in prima battuta sembrerebbe destinato soltanto a pagare i costi di quel meccanismo, l’utilizzatore finale, vi trova il suo tornaconto, in particolare quello che si dedica maggiormente alla compravendita.

Tutti in sostanza sono contenti, a patto che considerino il suono delle apparecchiature, quello che secondo qualche illuso residuale dovrebbe essere il motivo stesso della loro esistenza, un elemento secondario da rubricare  tra le varie e eventuali.

Sotto un altro punto di vista, quel sistema lo si potrebbe vedere come il modo più rapido ed efficace per il miglioramento di una qualsiasi apparecchiatura. All’origine non può che essere un’emerita ciofeca, in quanto non degno di menzione da parte delle Sacre Scritture di settore, ma basta comperare la paginetta pubblicitaria e, come per miracolo, diventa all’improvviso il meglio che si possa desiderare.

Prodigi della tecnica moderna!

Il qualcuno menzionato prima si è trovato un bel momento di fronte all’assurdità dei suoi postulati e al loro essere gravati dall’assenza totale e definitiva di qualsiasi legame con quel che avviene nel mondo reale, ma contrariamente a quello che potrebbe pensare chiunque sia dotato del minimo di ragionevolezza, non si è mosso di un millimetro.

Si è semplicemente rifiutato di ascoltare, azione alquanto stravagante o meglio contraddittoria, per chi si arroga la capacità di stabilire come debba o non debba essere fatto un suono, per poi tirare dritto sulla sua strada. Come un carro armato.

Cosa gli vuoi dire a un carro armato? Pensi che ti ascolti? Al massimo le tue parole possono riflettersi sul metallo della sua corazza impenetrabile.

Tirare dritto d’altronde è proprio ciò che un politico dello scorso secolo, quello con la capoccia grossa e pelata, ripeteva sempre. Talmente convinto della giustezza di quella scelta da coniare su di essa persino uno slogan, poi pitturato a caratteri cubitali sui muri di tutto il Paese.

Solo che il carro armato, a furia di non considerare deviazione alcuna dalla sua traiettoria, e di travolgere immancabilmente tutto quanto incontra, è destinato presto o tardi a trovare un ostacolo talmente robusto e imponente da produrre un impatto tanto più fragoroso e distruttivo, quanto è grande la pervicacia con cui procede verso di esso.

D’altro canto a certuni non interessa un bel nulla se è la natura stessa a contraddire le assurdità che si sono inventati e delle quali hanno poi fatto legge divina. Loro non si spostano di un millimetro: che sia la natura, nel caso, a cambiare i suoi fenomeni per poter combaciare con le loro teorie.

Così facendo, e forzando l’imposizione di leggi formulate a proprio esclusivo favore, che a lungo termine non potevano che indurre il disamorarsi di ogni appassionato dotato di qualche ragionevolezza e di un senso dell’udito appena funzionante, o magari solo di quello che nel sentirsi preso in giro mantiene una qualche soglia di sopportazione, si è devastato un settore tecnico e commerciale un tempo florido. Come tale sarebbe stato capace di produrre frutti, e quindi benessere condiviso, per chissà quanto tempo ancora. Invece lo si è  portato alle condizioni date dalla crisi irreversibile causata nel modo descritto. Riducendolo al lumicino, a un pallido simulacro di quello che è stato e ancor più di quel che poteva essere. A causa della smania verticistica ed elitaria, espressione della sociopatia che di certi personaggi è il tratto primario, è stato trasformato in una nicchia della sottonicchia, da fenomeno di massa che era in precedenza.

Motivo per cui, la prima legge di un settore tecnico-commerciale basato sull’equilibrio, è quella che spiega che non lo si dovrebbe mai mettere nelle mani di chi non ne ha.

Al suo interno, pertanto, resistono ormai solo pochi irriducibili, sempre gli stessi, come sempre le stesse sono le facce che si vedono alle mostre di settore, rispetto alle qualli resta fisso il dubbio se si tratti di visitatori, resisi schiavi dei loro sensi e della compulsione onanistico-consumista che ne è l’espressione più diretta, o degli operatori di settore che girano freneticamente lungo i corridoi per dare una parvenza di riuscita all’iniziativa cui hanno deciso di prendere parte.

Per fortuna ora è arrivato in soccorso l’obbligo di andare in giro imbavagliati, non per inesistenti questioni sanitarie ma di ordine politico. Senza poter chiamare aiuto, infatti, la rapina che si è costretti a subire va più facilmente a buon fine. Se le facce sono irriconoscibili, risulta più difficile capire chi è cosa.

Da tutto lo sfacelo prodotto, ovviamente i suoi artefici hanno ricavato benefici economici rilevanti, a ulteriore dimostrazione che, nella realtà di oggi, a saper prendere le cose per il loro verso, spesso è più conveniente distruggere che costruire.

Questo è il motivo per cui nelle loro testate non si troverà mai il benché minimo accenno alla questione dell’equilibrio. Pur essendo l’aspetto fondamentale ai fini del rendimento di un impianto, è controproducente ai volumi di vendita, che in realtà chi dirige e opera in tale ambito si adopera da decenni e in ogni modo per ridurli al lumicino, ma a propria insaputa. Più controproducente ancora la loro azione lo è nei confronti dei fatturati, dato che la spesa pubblicitaria, ovvero l’ossigeno che tiene in piedi tutto il sistema di disinformazione e perculazione, è una percentuale del loro totale, che quindi può aumentare solo in funzione della loro crescita.

In questa sorta di tela di Penelope tecnologizzata, in cui chi per la sua sopravvivenza necessita dei fatturati maggiori si adopera incessantemente per abbatterli, dare sempre più spazio al prodotto costoso, e possibilmente che sia tale oltre i limiti dell’assurdo, diventa essenziale. Pertanto quello più alla portata, l’unico su cui si possano costruire le premesso per un futuro florido e duraturo, in quanto basato sulla condivisione più ampia, è diventato un riempitivo per gli spazi che proprio non si riesce a utilizzare altrimenti. L’obiettivo allora è quello di spingere e se possibile coartare alla spesa maggiore possibile, da cui crescita dei fatturati, immagnaria data l’attitudine squisitamente distruttiva di questo modo di procedere, e quindi delle percentuali dirette alla pubblicità palese.

Ad essa sono a loro volta legati i contenuti delle diverse testate: tante pagine di pubblicità comperi, tante altre ne hai di “articoli” dedicati al tuo prodotto, che in quanto tali sono altra pubblicità, però camuffata e come tale molto meno credibile di quella che non ha difficoltà a mostrarsi per ciò che è.

In tutta evidenza la questione dell’equilibrio è controproducente a quel meccanismo, per cui non se ne parla. E in un ordinamento come quello attuale, in cui il sistema che un tempo era d’informazione ed è ormai diventato di comunicazione ha un potere enorme, se di qualcosa non si parla di fatto non esiste.

 

Perché l’equilibrio è un fattore tanto critico?

La questione in teoria è semplice e non dovrebbe avere bisogno di spiegazioni, ma all’atto pratico comprenderla è fin quasi impossibile, mancando la volontà di farlo. Proprio in funzione di quel che viene inculcato dai mezzi di disinformazione, che ritengono di avere l’interesse primario nell’indurre la compulsione all’acquisto dell’oggetto più costoso che sia possibile. Meglio anzi che sia impossibile, in relazione alle capacità di spesa di ognuno, dato che i salti mortali che si faranno per entrarne finalmente in possesso andranno inevitabilmente a loro beneficio, per la quota parte relativa.

Questo nel breve termine, stante anche il richiamo maggiore dell’alto di gamma, anch’esso frutto di un fenomeno di pompaggio portato al parossismo e protratto per decenni. Nel lungo invece altro non è che un gioco al massacro, le conseguenze del quale sono da tempo sotto gli occhi di ciascun appassionato.

Essendo l’impianto costituito da componenti che si succedono l’un l’altro, per forza di cose le caratteristiche dell’uno vanno a influenzare quelle di tutti gli altri. Penalizzandole se non è all’altezza oppure, osservando le cose da un altro punto di vista, ponendo in un’enfasi fin troppo cruda i problemi degli altri qualora si tratti di un oggetto dalle caratteristiche troppo raffinate per il contesto di cui entra a far parte. Il che è anche peggio.

Il rendimento migliore dell’impianto lo si ha quando i suoi componenti sono ben amalgamati gli uni con gli altri e soprattutto ciascuno di essi ha un comportamento tale, a livello di sonorità, da favorire l’evidenziazione migliore per le prerogative degli altri.

In condizioni simili la qualità espressa dall’insieme può arrivare a eccedere la somma delle prerogative di ciascun componente, cosa magari facile a dirsi ma ben più complessa nel suo verificarsi. In pratica, purtroppo, accade quasi sempre il contrario: invece di cooperare, le caratteristiche dei componenti dell’impianto tendono a scontrarsi, con risultati che restano lontani da quelli sperati, ai fini dei quali tanto ci si è impegnati a livello economico e di coinvolgimento personale.

Sotto questo aspetto, spesso e volentieri l’appassionato ci mette del suo per fare in modo che le cose non funzionino. L’esempio più tipico lo s’incontra nell’ambito dell’analogico: sono alquanto numerosi gli appassionati, specie quelli di vecchia data, che volendo restituire nuova linfa alle loro collezioni discografiche hanno acquistato giradischi di gran classe, dotandoli di bracci e testine altrettanto prestigiosi. Per poi affidare il segnale che ne fuoriesce a dei preamplificatori fono assolutamente ridicoli, misere scatolette che già dal loro aspetto denunciano a gran voce l’inadeguatezza a un contesto di tale rilievo.

Eppure proprio il pre fono è l’elemento più critico dell’intera sorgente analogica. Il problema è che nessuno glielo spiega, a quegli appassionati, che dev’essere almeno all’altezza di quanto lo precede. Del resto la stessa pubblicistica di settore, impegnatasi come ha fatto per circa un quarto di secolo a spingere il digitale, trascurando ogni altro tipo di sorgente, non può che essere la prima vittima per gli effetti delle proprie azioni, ossia l’analfabetismo di ritorno che è la conseguenza inevitabile di un abbandono tanto prolungato quanto inderogabile.

La dimostrazione sta proprio nell’aver affidato, una volta preso atto che era inevitabile tornare a parlare dell’analogico, quel compito a degli incompetenti totali, e proprio per questo provvisti soprattutto di boria a livello assoluto, che al danno già fatto non hanno potuto che aggiungere ulteriore devastazione. In quantità industriali, peraltro.

A questo riguardo allora, tanto sarebbe valso continuare a osservare la consegna del silenzio. O forse è stata una scelta ben ponderata?

Se s’insiste tanto a lungo a non parlare di una cosa, la si rende effettivamente invisibile ma almeno non si fa disinformazione al suo riguardo. Ancor peggio quindi, e di gran lunga, è tornare a parlarne nel modo con cui lo si è fatto, ossia assumendo quale elemento fondante la qualunque.

Non una qualunque qualsiasi, sarebbe stato troppo bello, ma propro la più grossolana, spintasi fatalmente oltre la soglia del connubio tra il surreale e il grottesco, mantenendo in maniera sistematica un’assurdità di argomentazioni cui non è assolutamente facile pervenire.

Ennesima dimostrazione che la realtà è capacissima di spingersi oltre l’immaginazione più fervida. Basta darle il tempo necessario.

In questo caso rilevare la contraddizione stante nell’affidare le sorti di un ambito in cui l’equilibrio è fondamentale a chi ne è sostanzialmente privo appare fin quasi riduttivo, ma tant’è. Del resto il fanatismo digitalista di certi ambienti è noto in pratica da sempre.

Conoscendo piuttosto bene alcuni tra quanti maggiormente ne erano pervasi al punto di negare ogni evidenza, non si può escludere che quella scelta sia stata un voler spargere altro sale sulle ferite che già si erano inferte all’analogico, oltretutto in gran numero. Sorta di vendetta nei confronti di una realtà che dopo essere stata così beffarda nei loro confronti da renderli incapaci di cogliere aspetti concreti tanto evidenti come quelli riguardanti la superiore naturalezza dell’analogico, base fondante della sua ineguagliabilità, si è ancor più dimostrata tale quando li ha posti di fronte al crollo del castello di carte costruito sulle loro teorie.

D’altro canto in quel periodo d’interregno, in cui l’analogico stava tornando alla ribalta in maniera prepotente ma ancora sembrava impossibile che il digitale venisse scalzato dalle sue posizioni di dominio, che allora appariva pressoché assoluto, non era da escludere l’esigenza, per chi aveva costruito tutta la sua carriera proprio sul digitale, di assicurarsi i servigi di chi si dimostrasse pronto ad affrontarlo coi paraocchi più spessi. Quelli necessari a non considerare nella doverosa prospettiva storica le vicissitudini dell’analogico, il che non avrebbe potuto far altro che dimostrare l’infondatezza, la pretestuosità e le finalità di accumulazione delle posizioni assunte dalla fazione digitalista.

Favorite come sempre da chi mentre giurava di avversare il capitale, si riempiva le tasche a più non posso.

Gli esponenti più oltranzisti di quella fazione, del resto, controllavano ancora i principali organi di disinformazione del settore e come tali non potevano tollerare che i loro errori, tragici, nell’accezione fantozziana del termine, potessero trovare evidenza, sia pure in forma incidentale o comunque indiretta.

Ne sarebbe andato della loro autorevolezza, così evidente da rendere necessario rimarcarne ogni volta l’esistenza sulla copertina del loro organo di propaganda.

Così ritennero più opportuno, o meglio indispensabile, far finta di non capire che il riprendere a parlare di analogico come se niente fosse, dopo tanti anni di silenzio assoluto, era già di per sé la conferma più esplicita per la realtà dei fatti.

Dunque costoro ritennnero necessario ricominciare l’usuale litania di osanna anche nei confronti dell’analogico, ma come se il ventennio fascisticamente trascorso fino ad allora non fosse mai esistito. Per conseguenza tenendosi pronti a sparare colpi di bazooka contro chiunque osasse tenere presente quel che era accaduto fino al giorno prima, o peggio a trarne le dovute conclusioni, come in effetti è stato.

Prassi tipica della cancellazione del passato di Orwelliana memoria, che oggi nella cosiddetta cultura della cancellazione trova nuova enfasi.

Se si è tanto determinati a eseguire una censura ferrea già nei confronti di sé stessi, spinta al punto di obbligarsi a fingere che gli accadimenti di un intero ventennio non siano mai accaduti, malgrado si sia contribuito in prima persona al loro verificarsi, non è difficile immaginare di quali dimensioni possa essere quella esercitata nei confronti altrui.

Si perviene alla condizione mentale necessaria allo scopo applicando come di solito il meccanismo dell’auto-inganno che consiste nella capacità di sostenere una tesi e nello stesso tempo quella del tutto opposta, ritenendo che entrambe siano corrette e plausibili. In modo tale da poter compiere un’azione, per quale che sia, negandd a sè stessi di averla fatta un istante dopo, nella più totale e sincera convinzione.

Così è stato fatto e ancora una volta tutto questo denota l’importanza dell’equilibrio. Se lo si fosse mantenuto  almeno un minimo nel momento in cui ci si è lanciati nell’offensiva a favore del digitale, e invece di procedere secondo la logica del non fare prigionieri ci si fosse tenuti su posizioni appena meno estremiste nei confronti dell’analogico e della possibilità di convivenza dei due sistemi, di tutto ciò non vi sarebbe stato bisogno.

Ad impossibilia nemo tenetur dicevano i nostri antenati, nella loro grande saggezza, tanto che a questa massima si è informato l’ordinamento giuridico attuale, almeno fino a quando si è deciso di smantellarlo, un paio di anni fa.

E’ altrettanto vero però che chi ha messo i denari per tutta l’operazione legata al digitale, che non va mai dimenticato è stato il mattone iniziale per la costruzione delle condizioni distopiche che stiamo vivendo attualmente, in quanto prima applicazione della codifica binaria alla realtà di massa, ossia quella estranea al mondo dell’informatica, non avrebbe visto di buon occhio un approccio di simile prudenza. Con ogni probabilità sarebbe tornato a tirare i cordoni della borsa.

Dunque non avevano scelta, quei personaggi, dovevano recitare la loro parte fino in fondo. A onor del vero va riconosciuto che lo hanno fatto in maniera egregia, forse perché convinti che fosse davvero quella, la realtà.

Inevitabile chiedersi se avessero presenti, in quel momento e sia pure in maniera vaga, le conseguenze ultime delle loro azioni. In tutta sincerità una risposta non so darla.

 

Le fonti dell’equilibrio 

Come abbiamo visto, è proprio all’origine della conoscenza riguardante il settore di nostro interesse, basato primariamente sull’equilibrio, ossia il sistema d’informazione, che di esso vi è stata la carenza più grave e perniciosa.

Pertanto, se non ci viene fornito dall’esterno, quell’equilibrio dobbiamo trovarlo in noi stessi. Quantomeno se con la riproduzione sonora intendiamo continuare ad avere un rapporto che valga la pena di essere intrattenuto e come tale non sia centrato esclusivamente sul compra-compra.

In che modo possiamo farlo? In primo luogo cercandone gli elementi fondanti nella nostra esperienza. Che possibilmente non dovrebbe basarsi sul racconto altrui, quale che sia la sua origine, ma sull’attività svolta in prima persona.

Per quelli della mia età le cose sono state forse più facili: ai tempi non c’era difficoltà nel trovare negozi pronti a far ascoltare ogni sorta di apparecchiature, delle quali oltretutto erano sempre ben forniti. Oggi invece sono quasi del tutto scomparsi, malgrado la logica della vendita a distanza sia quanto di più nefasto si possa concepire per il prodotto dedicato alla riproduzione sonora.

Con ogni probabilità, buona parte del ritorno d’interesse nei confronti del vintage lo si deve al fatto che anche se vecchio, almeno è possibile ascoltarlo prima di comperarlo, sia pure a casa del venditore. I prodotti a scatola chiusa vanno bene laddove le differenze tra l’uno e l’altro sono insignificanti. Se invece hanno ancora la loro importanza, i meccanismi del commercio oggi più in voga sono del tutto inadeguati.

E’ anche vero però che per una somma di motivi la realtà dei negozi era in genere piuttosto lontana da quella tipica degli ambienti domestici. Un po’ per loro conformazione fisica, ma a volte anche per atteggiamenti alquanto disinvolti, come dal fatterello raccontatomi poco tempo fa da un appassionato.

Stando a quel che asserisce, sembrerebbe che a Genova vi fosse un negozio, piuttosto noto, in cui si adottavano speciali modalità “ricostituenti” per far si che determinati prodotti trovassero nel loro ascolto un apprezzamento maggiore di quello che in realtà erano in grado di indurre.

Si tratta di cose delle quali si parla fin dalla notte dei tempi e che personalmente mi sono sempre rifiutato di credere. Eppure questo appassionato mi è sembrato sicuro del fatto suo, e soprattutto mi ha assicurato di aver verificato di persona e nei fatti l’utilizzo di certe pratiche.

Quindi, come vediamo, ci sono buone probabilità che anche in quel caso non fosse tutto oro quel che luccicava. In ogni caso gli appassionati hanno a disposizione i loro simili, che oggi è possibile avvicinare con molta maggiore facilità rispetto al passato. Dunque, si possono mettere insieme e a confronto le apparecchiature e le convinzioni di ognuno, si possono fare verifiche e confronti sui responsi che ne scaturiscono e così ci si costruirà un’esperienza, a seguito della quale verrà istintivo capire come applicare le regole dell’equilibrio e prima ancora dove reperirle.

Il nostro amico ligure mi ha chiesto un comsiglio riguardo al quale emerge di nuovo la grande importanza propria dell’equilibrio. Lui ha un finale digitale, che lo lascia insoddisfatto per la durezza che riscontra in gamma alta.

A tale riguardo mi ha sottoposto la sua idea, riguardante l’allestimento di una biamplificazione, affiancando al finale digitale un valvolare monotriodo per la gamma alta.

In un’eventualità del genere la cosa più manchevole è probabile che sia proprio l’equilibrio. Certo, almeno in prima istanza si potrebbe ritenere che il problema di fondo sia risolto, ma che ne sarebbe della coerenza di emissione che rappresenta comunque un elemento fondamentale? E come sarebbe risolta la transizione dall’una all’altra di tali elettroniche? Che ne sarebbe dell’intervallo di frequenze più o meno ampio in cui essa avviene e in quale rapporto si troverebbero quelle in cui essa ha trovato il suo compimento?

Non è dato sapere allora quale sarebbe l’ascoltabilità complessiva di una combinazione del genere. Stanti gl’interrogativi appena elencati, potrebbe rivelarsi ancora peggiore di quella d’origine, con la differenza che per arrivare a quel risultato si sarebbe spesa una somma tuttaltro che indifferente.

Credo si tratti di un esempio significativo, in particolare per comprendere come la necessità di equilibrio non si limiti soltanto agli esempi più banali, come quelli inerenti l’abbinamento di sorgenti, amplificazioni e diffusori dalle prerogative tecniche e qualitative compatibili ma vada oltre, a riguardare l’approccio stesso con cui ci si pone nei confronti della riproduzione sonora e delle modalità con cui la si concepisce.

 

Ancora una volta dalla riproduzione alla produzione

Un altro esempio per la necessità dell’equilibrio e le conseguenze della sua mancanza che nell’ambito di nostro interesse producono inascoltabilità, viene di nuovo dal settore della produzione del suono. E’ quello che riguarda le batterie elettroniche

Una volta che la tecnologia ne ha reso possibile la realizzazione e conveniente la produzione in serie, hanno conosciuto una diffusione travolgente, malgrado i loro difetti apparissero marchiani fin dal primo istante. Erano dati dal loro funzionamento vistosamente meccanicistico, conseguenza stessa della precisione immutabile con cui facevano susseguire l’uno all’altro gli eventi sonori, i colpi di tamburo, piatti o grancassa che erano adibite a riprodurre.

Se per qualche breve istante anche quel difetto poteva costituire una novità e quindi una variante in grado di richiamare l’interesse dell’ascoltatore, in breve non poté che venire a noia. Malgrado ciò ha influenzato a lungo, rovinandola irrimediabilmente, l’intera produzione musicale della sua epoca. Stiamo parlando degli anni 80, non a caso noti come quelli dell’impazzimento di massa, prova generale e anticipazione all’acqua di rose della fase che viviamo attualmente.

Come se non fosse già abbastanza, alle batterie elettroniche fecero da contraltare i sequencer, che come dice il nome erano adibiti a riprodurre sequenze di note pre-programmate e ancora una volta lo facevano per forza di cose con una meccanicità riconoscibile immediatamente, al punto da renderle, insieme alla “musica” che con essi si andava a produrre, sostanzialmente inascoltabili. Ancor più a distanza di tempo, dato che certi aspetti diventano ancora più riconoscibili.

Peggio ancora fu il MIDI, sistema di comunicazione per mezzo del quale un esecutore poteva controllare un secondo strumento, ovviamente elettronico, o una serie di essi. Lì per lì sembrò una rivoluzione epocale, ma presto ci si accorse che non potendo riprodurre le variazioni del tocco e quelle sul tema di uno strumentista in carne e ossa, ne derivavano ancora una volta sonorità dalla evidente connotazione meccanica.

Quel sistema, o meglio l’infatuazione nei suoi confronti, hanno decretato la fine della traiettoria creativa di uno tra i gruppi di quell’epoca più meritevoli di essere ricordati. Ne parleremo forse, una volta o l’altra.

Malgrado tutto si proseguì a lungo nell’impiego di quegli strumenti e dispositivi, a dimostrazione della tendenza innata dell’uomo ad adorare narcisisticamente gli obbrobri tecnologici che lui stesso produce, e così a farsene schiavo distruggendo le proprie capacità innate, talvolta rilevantissime, piuttosto che utilizzarli a suo vantaggio.

Si tratta di una conseguenza che al suo ripetersi invariata in una lunga serie di campi ed eventualità diversi, obbliga a prenderne in considerazione la sostanziale inevitabilità. Elemento su cui sarebbe necessario operare una riflessione quantomai profonda, proprio per le prospettive che un branco di tecnocrati senza scrupoli, ma ben dotati quanto a (sotto)potere, hanno deciso di imporre a tutta l’umanità, in nome e per conto degl’interessi dell’élite che a costoro dà causa e li ha insediati in maniera irremovibile in ogni ganglio della società civile e delle istituzioni che la regolano.

In che modo? Col potere del denaro ovviamente, quello che permette loro di pervenire al controllo della tecnologia che adoperano a fini di controllo e sottomissione dei loro simili.

Dimostrazione ennesima di quanto sia necessario che il progresso tecnologico e quello sociale vadano di pari passo, dato che se ciò non avviene la prima conseguenza è quella che abbiamo sotto i nostri occhi: la dittatura tecnocratica, stante il potere senza controllo che acquisice chi controlla la tecnologia, i cui effetti non possono che causare frizioni che presto o tardi troveranno soluzione, molto probabilmente cruenta.

Prima di passare al tema successivo, va rilevato un altro aspetto fondamentale della questione, riguardante quella che si potrebbe definre inevitabilità di applicazione del ritrovato tecnologico.

La possibilità tecnica di eseguire una determinata funzione, per quale che sia, nella concezione attuale sembra sia già di per sè giustificazione e persino obbligo a metterla in pratica, senza considerazione alcuna per i suoi presupposti e le sue conseguenze.

Si tratta del resto dell’effetto primario derivante dall’issare scienza e tecnica al livello di nuova religione, unica e obbligatoria.

Un tempo sarebbe stato persino pleonastico rilevare che così non è, per il semplice motivo che pur avendo la possibilità “tecnica” di buttarsi a fiume o gettarsi dal picco di una montagna per schiantarsi al suolo non ci si sentiva per forza di cose obbligati a farlo. Anzi ci si guardava bene dal compiere azioni siffatte.

Oggi non è più così: l’esistenza di una possibilità tecnica è essa stessa obbligo non solo a metterla in pratica ma a portarla alle estreme conseguenze, dimostrazione che l’esasperazione tecnologica, ancor più nell’estremizzazione forsennata con cui la s’intende al giorno d’oggi, porta difilato all’incapacità d’intendere e di volere.

 

Inascoltabili

Perché dunque le batterie elettroniche, i sequencer e tutta la musica che con essi è stata realizzata sono caratterizzati negativamente a tal punto? Lo sono in quanto privi dei limiti, dei difetti propri dell’essere umano, in termini di precisione e sincronismo, che a ogni battuta e a ogni colpo che dà al tamburo e ai piatti, o a ogni tocco di plettro o alla tastiera, lo porta ad attribuire una sottile e quasi impercettibile irregolarità che finisce col rendere ognuno di essi diverso dagli altri. Unica possibilità affinché non vengano a noia nel tempo più breve e, se si continua a prestare loro attenzione, del tutto inascoltabili.

Quei difetti, dunque, se messi in una certa prospettiva, diventano pregi, irripetibili.

Lo stesso del resto avviene nel confronti della musica, anche se eseguita da esseri umani, caratterizzata da una scansione ritmica troppo precisa e ripetitiva. Viceversa il rock progressivo, quello vero, e tutte le altre forme musicali che nello stesso periodo ne ripresero i canoni, aveva tra le sue prerogative proprio l’attitudine coloristica, di percussionisti e batteristi, diversamente da quel che avviene con il cosiddetto neo-prog che già nella mancanza di tale particolarità mostra tutta la sua inadeguatezza.

Anche tale aspetto può essere visto come il rispecchiarsi delle attitudini, prima di tutto concettuali, delle diverse epoche. Allora la ricerca di libertà portava appunto a forme musicali ritmicamente molto libere e aperte, che col passare del tempo hanno via via ceduto il passo a modalità esecutive di costrizione sempre maggiore, con un quattro battuto in maniera persino implacabile. Malgrado sia stato anch’esso veicolo per il manifestarsi di un virtuosismo meritevole di riconoscimento, ha implicito in sè il significato di recinto invalicabile, innanzitutto a livello immaginativo e ancor più di azione.

Preso atto dei limiti di quelle macchine, dettati da un livello di precisione e dunque qualitativo, in senso lato, troppo elevato e per conseguenza inadatto al settore cui s’intendeva applicarlo, si è provato a correre ai ripari. Lo si è fatto dotandole del cosiddetto human feel, ossia degradando la loro precisione in base a criteri che secondo gl’ideatori di quel rimedio doveva approssimare quelli umani. Realizzando come sempre una medicina che è peggiore del male che vorrebbe curare, accadimento usuale quando si cerca di intervenire su qualcosa che origina da presupposti errati, o altrimenti si cerca di raddrizzare quel che è storto per sua natura.

Quegli strumenti e la musica prodotta per il loro tramite, in sostanza, sarebbero ascoltabili solo da macchine, tali e quali a quelle con cui si sono realizzate le scansioni ritmiche, le sequenze e infine le esecuzioni prodotte per il loro tramite. Esattamente come soltanto per delle macchine sarebbero accettabili e percorribili realtà e condizioni di vita i cui canoni siano stati dominati e regolati da altre macchine.

Riportando tutto questo al livello dell’ambito di nostro interesse, ricaviamo il comprendere che la precisione totale e definitiva, l’uniformità irreversibile che vorrebbero quanti si sono arrogati su basi ignote il diritto di stabilire come debba o non debba essere un suono riprodotto, non contribuiscono alla sua perfezione, bensì al suo degrado, irreversibile e spinto a un punto tale da suscitare non solo il rifiuto di ascoltarlo da parte di chi abbia il minimo di educazione, appunto all’ascolto, ma di produrre non-musica, destinata a non-umani.

Secondo la stessa logica, i metodi e i parametri di verifica della qualità sonora che sono stati stabiliti a tale proposito, in maniera identicamente autocratica ed autoreferenziale, sono non soltanto inutili ma dannosi, in quanto ingannevoli poiché vanno a dipingere una realtà di fatto inesistente. E seppure esistesse sarebbe la negazione stessa del piacere dell’ascolto. Così come il finto organo Hammond, nato da un preteso perfezionamento destinato a togliergli i suoi difetti, e la batteria elettronica, inventata per sbarazzarsi delle difficoltà dell’essere umano a tenere il tempo e a eseguire variazioni su di esso con la massima precisione, si rivelano di fatto inascoltabili.

Chiaro il concetto?

Si potrebbe fare un altro esempio, quello relativo alle chitarre-synt ovvero lo strumento dal suono più insopportabile mai realizzato,, che non a caso ha imperversato per un breve periodo, sempre negli anni 80, e poi è stato abbandonato persino dai più oltranzisti dei suoi assertori e utilizzatori, tra i quali nelle posizioni di maggiore rilievo c’era un certo signore che risponde al nome di Pat Metheny.

Il noto chitarrista può essere preso a esempio di quale sia l’incertezza e addirittura la contraddizione di fondo che pervade il processo creativo nell’ambito artistico e quanto possano essere in agguato i passi falsi nel percorso in cui ci s’inoltra ai fini della sua evoluzione. Che spesso finisce con l’essere tutto il contrario.

Metheny è stato inventore di una formula molto fortunata, fin quasi magica, quella che a suo tempo gli ha dato la notorietà planetaria e il seguito tuttora riconosciuto. Al jazz ha mescolato gli elementi onirici della cosiddetta new age e ritmiche dal sapore brasiliano, pervenendo a una singolare ma riuscita sintesi di sonorità elettriche e acustiche dalla quale non è estraneo il suo compagno di avventure Lyle Mays, uno fra i tastieristi in credito maggiore di riconoscimenti. A un certo punto ha ripudiato quasi del tutto quello che gli ha permesso di arrivare dove si trovava. Per abbracciare una nuova formula, della quale la chitarra-synt era appunto elemento centrale, a livello di sonorità e di esecuzione.

I suoni che ne ricavava, oltretutto per mezzo di note tenute fino allo spasimo e sempre di altezza tale da produrre effetti lancinanti anche per l’orecchio dell’ascoltatore più insensibile, per quanto ben disposto, erano qualcosa di non sopportabile per più di qualche istante. Ma lui nulla, preso dal fervore dello strumentista nel culmine dell’estasi creativa, insisteva con essi in assoli interminabili, lungo brani che probabilmente sarebbero stati anche belli e memorabili, ma che invece fanno da monito per il modo con cui sono stati deturpati con l’impiego di quello strumento disgraziato.

Lo s’inventò perché si volle dare al chitarrista la possibilità di variazioni del timbro proprie del tastierista alle prese con i suoi sintetizzatori, alfine di conferire a lui e alla sua produzione artistica l’arricchimento conseguente alla possibilità di ricorrere a un arsenale di sonorità diverse, e possibilmente nuove, quantomai ampio.

Dimostrazione ennesima che delle intenzioni migliori è lastricata la via dell’inferno.

Non a caso la chitarra-synt è ricordata come uno tra gli strumenti più monocordi che esistano, centrato oltretutto sulla capacità concreta di emettere esclusivamente sonorità di bruttezza esemplare, che definire inascoltabili è ancora inadeguato. Ovviamente hanno avuto la sorte di un Re Mida al contrario, devastando tutta la musica nella cui esecuzione un qualsiasi chitarrista abbia avuto l’idea malaugurata di usarla.

Molti comunque caddero nel tranello, indotto ancora una volta dall’abbaglio tecnologico e del nuovo ritrovato che fa moda e all’istante dovrebbe cancellare tutto quanto lo ha preceduto.

Invece si rivela solo per quel che è: un prodotto sostanzialmente e irrimediabilmente inadeguato ai fini per i quali è stato realizzato. In tutta evidenza da menti particolarmente versate nei confronti di un ambito specifico, dato che per fare certe cose ci vuole notevole capacità, tutta concentrata però verso una realtà in cui l’essere umano, la sua percezione e le sue leggi hanno importanza poca o nulla.

Persino Allan Holdsworth cadde nel tranello e anche luì penalizzò la sua musica per un buon numero di anni con l’impiego di quello strumento. Al punto da far chiedere al modesto e incolto fruitore cosa diamine ascoltino, i musicisti e con quali criteri, quando valutano la propria opera e decidono quali prospettive di evoluzione attribuirle.

 

La tecnologia e i suoi ibridi sono spesso una sorta di Frankenstein, libro che immagino sia stato scritto non per caso da qualcuno in grado di leggere nel futuro, mentre noi non riusciamo più a comprenderne la realtà neppure nel momento in cui da futuro diviene presente.

Lo stesso vale  per lo Steinerphone, dal nome del suo ideatore, Nyle Steiner, e più tardi EWI, acronimo di Electronic Wind Instrument. E’ stato l’equivalente della chitarra synt applicato al sassofono, del quale fu utilizzatore affezionato un altro grandissimo, Mike Brecker, producendone esecuzioni finanche prodigiose per il tasso elevatissimo di virtuosismo che riusciva a infondere in esse. Anche in questo caso tuttavia, oltre alla sorpresa destata dalle capacità sorprendenti di estensione di quello strumento, che Brecker sfruttava con capacità di esecutore consumato, più in là di tanto non si andava e la sua timbrica, nata ancora una volta per essere quantomai duttile, si rivelava invece sostanzialmente monotona.

Ne ricordo comunque l’impiego al concerto del quartetto di Brecker, con in fomazione un Joey De Francesco allora giovanissmo, in cui il grande sassofonista eseguì un assolo con quello strumento, che è stato appunto memorabile proprio in virtù del suo virtuosismo a tratti portentoso. Abbinato alle caratteristiche sorprendenti dello strumento, allora nuovo, colpì in effetti l’uditorio presente, sia pure se grazie in gran parte a dosi di effettismo direi fin troppo pronunciate.

Questo si ebbe quando Brecker aveva approfondito al meglio il suo rapporto con lo strumento. Prima di allora vi fu una fase in cui si dedicò all’esplorazione delle sue potenzialità, secondo un impiego non così dissimile da quello di un qualsiasi sintetizzatore della sua epoca. Ne è testimonianza il video che ritrae una delle ultime tournée del gruppo di cui faceva parte, ormai già semi-sommerso nella fase tecnologica che ne ha guastato irrimediabilmente i contenuti ragguardevoli della parte iniziale della traiettoria artistica e lo hanno condotto prima al rivoluzionamento dell’organico e poi dopo alcuni tonfi memorabili, dovuti proprio alla difficilltà di controllare dosi di tecnologia sospinte a una tale esasperazione, e poi allo scioglimento definitivo.

Proprio nella parabola compiuta dagli Steps Ahead si osserva il potenziale grandemente distruttivo della tecnologia, in particolare quando la si applica lasciandosi prendere dal velleitarismo che è la risultante delle prospettive grandiose che sembra poter far toccare con mano, ma che si risolvono in disillusioni particolarmente cocenti.

La cosa grave è che l’esperienza l’abbiamo già fatta e il settore musicale ha dimostrato quali siano i risultati ottenibili seguendo le ricette degli apprendisti stregoni. Ma niente: l’attitudine più spiccata dell’uomo sembra essere volta a dimenticare le esperienze fatte nel passato, tantopiù quando come in questo caso sono colme d’insegnamento.

Nel video summenzionato si osserva Brecker impegnarsi nella mimica atta a far comprendere al pubblico che fosse lui l’esecutore di quei fenomeni sonori inusitati per uno strumento a fiato e non il tastierista, che se non ricordo male in quella fase il gruppo non annoverava più nel suo organico.

Più carino invece, seppure ancora più sintetico, era il suono del suo successore l’EVI, Electronic Valve Instument, applicazione dei medesimi principi alla tromba. Ne fu utilizzatore Michael “Patches” Stewart, gradevole da ascoltare ma anch’esso effimero, con ogni probabilità per lo stesso motivo: la singolarità del timbro che era possibile ricavarne, si rivelava interessante fin quando persisteva l’effetto-sorpresa o a livello di curiosità, ma poi si mostrava incapace di dire alcunché a livello concreto.

Morale della favola, i sintetizzatori stanno bene dove hanno trovato la prima e non a caso più efficace applicazione, dietro una tastiera. E possibilmente che siano monofonici.

Per il resto sono stati un dispendio di lavoro, idee e danaro enorme, che ha prodotto soltanto il risultato di arrecare effettismo, orpello e bruttura laddove li si è utilizzati, in particolare quando si è insistito su di essi oltre a un impiego episodico.

Un ultimo esempio, per quello che reputo assolutamente paradigmatico in quegli anni che per me sono stati e restano dell’impazzimento di massa. Nel momento in cui ci si rese conto che le batterie elettroniche non avevano futuro, solo a qualche mese di distanza dal loro esordio e dopo un inflazionamento a tappeto della musica eseguita in quel periodo, malgrado il loro costo enorme o forse proprio per quello, si comprese che era necessario tornare indietro. Non lo si volle fare del tutto però, per cui si ridiede all’uomo il compito di eseguire materialmente la scansione ritmica, non sulla batteria tradizionale ma su pad elettronici tali da permettere di riprodurre in tutto il suo splendore l’artificialità e la sostanziale bruttezza del suono delle cosiddette drum machine.

Si diede così vita alla famigerata batteria Simmons, vero e proprio emblema dell’assoluta perdita della ragione verificatasi in quell’epoca, frutto dell’ubriacatura digitale applicata non al settore della riproduzione sonora ma a a quello della produzione.

A partire dagli anni 1985-86 non c’era possibilità di andare a un concerto senza vedere il batterista seduto dietro a un kit non più di tamburi e piatti, ma dei pad esagonali caratteristici di quello strumento, che di fatto rivelò la sua attitudine migliore nel far sembrare frutto della macchina qualcosa che aveva ancora il lampo e l’umanità del batterista in carne e ossa.

Puro distillato di follia all’ennesima potenza.

Difficilmente si poteva partorire un’idea più degenere, eppure lo si fece. Sempre per cercare di aggirare le limitazioni della macchina, che invece si vorrebbe perfetta per definizione. In effetti lo è, ma secondo prerogative del tutto inutili, anzi dannose, nella loro applicazione al genere umano.

Per cui in quegli anni non ci fu più un batterista, tra quelli operanti nei gruppi di serie A, e spesso anche di B e C, che osasse presentarsi in pubblico senza batteria Simmons. I suoi finti, grossolanamente, suoni da batteria elettronica, imperversarono ancora per un altro po’ di anni, per poi pian piano andare fortunatamente a morire.

Se inizialmente i batteristi portarono sul palco l’intero set, piatti finti compresi, proprio da questi ultimi iniziò il percorso di recupero. Si tornò innanzitutto a utilizzare quelli tradizionali e poi si tolse anche la pseudo grancassa, mantenendo solo qualche tom in aria e alla fine si rinunciò anche a quelli, degno epilogo di un’idea balzana che ebbe risultati distruttivi come poche altre cose nel mondo dell’esecuzione musicale.

Inutile dire che all’epoca i critici di ogni razza, estrazione e credo esaltarono come non mai l’impiego di quegli strumenti disgraziati, a dimostrazione che il Coro Degli Entusiasti A Prescindere tende in ogni campo a coprire con la potenza della sua emissione ogni altra voce. Soprattutto quella della ragionevolezza.

Ora che siamo entrati non dico in possesso, ma almeno abbiamo descritto ed esemplificato numerosi elementi atti a permetterci di costruire un nostro metro di valutazione, e forse abbiamo anche il minimo di cognizione per comprendere il modo con cui va usato, diventa fin quasi automatico il rendersi conto del mare di corbellerie, alcune delle quali davvero di proporzioni incredibili, hanno imperversato nell’ambito della riproduzione sonora ma anche in quello della produzione musicale, che ne è precursore e insieme elemento trainante.

Tutto questo ci spiega che se l’equilibrio è importante, e anzi fondamentale, per poterlo applicare lo devi avere innazitutto dentro di te, nella tua capoccia.

Ma se per caso sei un individuo plagiato dalla tecnologia e dalla falsa religione costruita su di essa al punto di adorarne il frutto come un nuovo vitello d’oro, tanto inconsapevole da non comprendere che non stai adorando una divinità, ovvero un’entità superiore, ma il frutto di un essere imperfetto e quindi per forza di cose più imperfetto ancora, poiché non può che esservi inferiore, quale equilibrio pensi di riuscire a infondere in quello che realizzi?

 

 

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2 thoughts on “Equilibrio, virtù inderogabile

  1. Ciao Claudio,
    Ho provato a vedere il video da te allegato, ma in tutta onestà non sono riuscito ad arrivare alla fine… dire che è aberrante è fargli un complimento! Certo, con il senno di poi è facile giudicare, probabilmente lo stesso Brecker, in cuor suo, se ne vergogna. Del resto è anche comprensibile che i grandi artisti vogliano sperimentare nuove strade, anche a costo di prendere sonore cantonate.

    1. Ciao Alberto,
      le condizioni e l’atmosfera tipica di un concerto producono una realtà oggettivamente difficile da comprendere, nel momento in cui si riascoltano e si guardano le cose a mente fredda, nel chiuso di una stanza.
      Tantopiù quando da un certo avvenimento sono passati decenni.
      La realtà, comunque, a patto di saperne recepire l’insegnamento è comunque nostra amica, in quanto contribuisce a migliorare e ad approfondire l’esperienza.
      Quanto a Brecker, che ormai da diversi anni non è più con noi e comunque la sua grandezza è stata inarrivabile, va detto che in quel momento si trovava ai primi approcci con lo strumento. In breve avrebbe messo a punto una tecnica e una scelta timbrica di maggiore personalità che nel periodo in cui si tenne il concerto sui faccio riferimento nell’articolo avrebbe prodotto ben altri risultati.
      In quegli anni d’altronde la pressione indotta dalle tecnologie digitali nell’ambito dell’ideazione e produzione di strumenti nuovi fu davvero forte. E’ la storia stessa a dire quanto sia stato difficile resisterle per quasi tutti, a livello musicale.
      Anch’essa però ha contribuito a costruire esperienza, ai fini della quale sono spesso più istruttive le botte che prendi tra capo e collo rispetto a quelle dove tutto va liscio. Essenziale appunto è comprenderne l’insegnamento e farne tesoro, in modo tale da non trovarsi a ripetere gli stessi errori del passato come fa sistematicamente chi non tiene conto della Storia e ne trova noiosa la rievocazione.
      A me personalmente ha sempre affascinato. Non tutta magari, ma credo che si veda dal modo con cui affronto i temi di cui mi occupo nei miei articoli.
      Del resto è l’evoluzione stessa che pone a rischio di errori, possibilmente marchiani. A volte va bene, come nel caso del rock progressivo, del jazz-rock, nelle forme jazzistiche legate alla formula progressiva. E poi anche nell’evoluzione tecnica legata all’elettrificazione degli strumenti, avvenuta in quell’epoca, che per conto mio ha avuto un’importanza fondamentale anche a livello di composizione, di esecuzione, di sonorità e comunque di idee legate all’espressione musicale, essendone il musicista comuqnue influenzato. Nello stesso identico modo, in cui il passaggio alla fase successiva quella della sintesi delle sonorità di nuovi strumenti, non più legata alle modalità naturali di produzione del suono sulla base dell’acustica ma a una sua creazione basata esclusivamente sull’elettronica ha prodotto suoni brutti o comunque banali e stucchevoli nel tempo più breve, che a loro volta hanno influenzato la produzione musicale mai sgradevole e dimenticabile come quella del periodo in questione.
      A tale riguardo abbiamo la contrapposizione con quella degli anni 70, ancora in larga parte godibile e persino capace di mantenere dopo tanto tempo pressoché intatta la sua carica di freschezza e innovazione. Quella del decennio successivo invece è stata la più brutta e dimenticabile in assoluto, tranne alcune eccezioni.
      Questo proprio in funzione dell’equilibrio, venuto meno nel momento in cui si è preteso, stanti le possibilità rese disponibili dalla tecnologia cui l’uomo tende sistematicamente a sottomettersi, in funzione della vera differenza e della sua separazione incomabile nei confronti della divinità, almeno nel senso in cui la s’intende comunemente, di creare sonorità dal nulla invece che da un elemento vibrante secondo le leggi della natura. Ovvero da una manciata di componenti elettronici, attraverso i quali si è voluto sintetizzare il fenomeno naturale, inteso con un semplicismo e per mezzo di una banalizzazione che sono congeniti nella mentalità stessa del tecnocrate. Nella sua presunzione crede di poter arrivare dove non è assolutamente in grado già a livello cognitivo e quindi produce tonfi clamorosi quanto memorabili.
      La lezione degli anni 80 avrebbe dovuto esserci maestra, proprio nel farci comprendere la nostra incapacità strutturale di procedere in maniera indipendente da quel che ci offre la natura, e invece stiamo compiendo gli stessi errori. Con la differenza che allora riguardavano un settore d’importanza relativa, come quello musicale, oggi invece riguardano gli ambiti sociali, istituzionali e ordinamentali, con le conseguenza che stiamo vedendo e si può ritenere siano solo un assaggio della catastrofe che verrà. Per opera di un branco di fanatici dissociati, allevati e istruiti proprio affinché giungessero a tale condizione, i quali purtroppo e malgrado tutto godono del supporto di una popolazione in buona parte anestetizzata e sotto ipnosi.
      In ogni caso l’evoluzione è necessaria, per quanto occorra guidarla lungo percorsi confacenti, dato che in caso contrario si resterebbe fermi, con risultati anche peggiori. L’esempio che mi piace fare è quello di Miles Davis e della bellezza smagliante di suoi brani come “All blues”.
      Per quanto siano tali, non è che si può star fermi a ripeterli all’infinito. Dopo un po’ anche il pubblico più affezionato non ne potrebbe più e finirebbe con l’urlare basta persino nel pieno della sua esecuzione pubblica. Lui lo comprese forse meglio di chiunque altro ed è per questo che nel corso della sua carriera artistica è andato sempre avanti. Non sempre con eccellenza di risultati, ne va dato atto, ma anche e proprio per questo è stato la figura di maggior rilievo del secolo scorso, non solo in ambito jazzistico.
      Guardando all’oggi, e peggio ancora al domani, riusciamo a scorgere una figura capace non dico di eguagliarlo ma almeno di assimilare in qualsiasi forma il valore delle sue gesta?
      A me sembra un metro affidabile per valutare la situazione in cui ci troviamo.

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