Nella scorsa puntata abbiamo preso in esame le origini del cosiddetto medioevo: il diffondersi dello stato solido e lo spingere in maniera esasperata sulla controreazione, allo scopo di rendere meno evidenti le limitazioni soniche del transistor. Così facendo si è andati a ridurre in maniera sensibile la distorsione armonica, aprendo un nuovo fronte della battaglia tra i marchi più noti nella categoria delle amplificazioni, che in breve sarebbe diventato quello principale su cui disputarsi la supremazia del settore.
Aumentando la controreazione, il che non di rado è stato fatto a dismisura, si limano effettivamente le asprezze più evidenti a livello timbrico, ma si perde ancor più in vitalità e realismo della riproduzione, dando luogo alla sonorità allora tipica dell’alto di gamma che vi si ritrova sovente ancor oggi. Senza contare le maggiori difficoltà nel confrontarsi con qualsiasi carico non sia una resistenza pura.
La corsa all’aumento della potenza di uscita, terza gamba del processo che ha causato l’insorgere del cosiddetto medioevo, ha comportato un’ulteriore scadimento sui parametri appena menzionati, dato l’aumentare in progressione geometrica della difficoltà di realizzare amplificazioni dal suono accettabile, man mano che cresce il numero dei watt erogati.
Un combinato disposto, quello riassunto qui, capace di tagliare le gambe anche alle intenzioni migliori. Cosa che in effetti è stata, anche per via di un ulteriore elemento di degrado, peraltro efficacissimo, tipico delle amplificazioni e della mentalità di quell’epoca.
La mania del controllo
Le amplificazioni del medioevo erano gravate da una serie ulteriore di palle al piede, costituite dalla dotazione tipica dell’epoca, che si riteneva irrinunciabile. Era su di essa, oltreché sulla potenza di uscita, che si articolava la gerarchia delle elettroniche presenti nel listino di un qualsiasi costruttore.
Controlli di tono, spesso a punto d’intervento selezionabile, doppie barre di segnale, così da permettere l’ascolto di una sorgente mentre se ne registrava un’altra – per ottenere cosa, poi, non è dato sapere, visto che il monitoraggio costante è il primo della serie di elementi necessari all’ottenimento di una registrazione ben eseguita – loudness, equalizzatori, grafici, parametrici e lineari, filtri subsonici, antirombo e antifruscio, esaltatori per precisi intervalli di frequenza, selettori per l’ascolto in mono, stereo, stereo a canali invertiti, solo canale sinistro o solo destro, unità di ritardo, decorrelatori, espansori, compressori e chi più ne avesse più ne metteva.
In sostanza si trattava per buona parte di quei dispositivi che di fatto andavano a costituire un compendio esplicito dei difetti delle apparecchiature dell’epoca, ai quali cercavano di porre rimedio. per quanto allora non lo si capisse, e spesso neppure oggi.
Ne derivava una corsa all’imbottitura col più grande numero di accessori e dispositivi più o meno speciali, molti dei quali decisamente improbabili.
Insomma, la crescita del prodotto in funzione del suo prezzo d’acquisto, avveniva su criteri esclusivamente quantitativi: più potenza, più controlli, meno distorsione. Ma da che mondo è mondo, la qualità non è mai andata di pari passo alla quantità. Sebbene quest’ultima fosse lo strumento più pratico e sbrigativo per concretizzare la differenza necessaria, soprattutto sulla carta, tra apparecchiature di prezzo diverso.
Con l’aumentare di funzioni e comandi andava per forza di cose a moltiplicarsi il numero di selettori, manopole, levette, lucine e interruttori, a suggerire l’idea riguardante possibilità di controllo illimitate. Non solo nei confronti delle caratteristiche del suono e di flessibilità d’impiego delle apparecchiature, ma sul funzionamento stesso delle elettroniche, cui di fatto si attribuiva l’importanza di gran lunga maggiore. O meglio, oltre a potenza e distorsione era il solo parametro che si riuscisse a concepire nella valutazione delle prerogative di un amplificatore.
Tanta ricchezza di dotazioni dava luogo a frontali effettivamente in grado di colpire l’immaginazione dell’osservatore, attribuendo una connotazione fortemente tecnologizzata all’oggetto di cui facevano parte. Nulla di meglio per compiacere l’occhio dell’acquirente potenziale e soprattutto la sua fantasia, lusingata dalla possibilità di spaziare su orizzonti di dominio pressoché illimitati riguardo alle possibilità di conformazione e caratterizzazione delle sonorità.
Tuttavia, a dispetto di quel tripudio d’inutilità pseudo-tecnologica, la timbrica di quelle apparecchiature restava inspiegabilmente povera. Soprattutto degli elementi che le potessero attribuire una qualche rassomiglianza con l’evento reale.
Si, di bassi sbrodolati e pompati all’inverosimile, di acuti sibilanti come saette da supereroe dei cartoni giapponesi, di medi dalla fluidità pari a quella di una motosega scarburata, e sempre doverosamente attenuati ai fini dell’esasperazione degli estremi banda che si riteneva irrinunciabile, ce n’erano finché se ne voleva. Un’apoteosi dell’effetto speciale che era ed è tuttora l’argomento preferito per chiunque non riesca a fare e a concepire di meglio.
Il motivo di tutto questo non è difficile da immaginare, anche se allora era al di là delle capacità di comprensione: maggiore è il numero di ostacoli che si oppongono al segnale, nel percorso che dalla sorgente porta ai diffusori, e più da essi viene per forza di cose degradato. Visto l’elenco di dispositivi di cui erano dotate le amplificazioni dell’epoca, si costringeva il segnale in quello che non era più un percorso, ma un calvario.
Contatti, saldature, cablaggi a piene mani, reti di componentistica passiva che non fanno mai solo quello per cui le si è ideate ma hanno per forza di cose una serie di conseguenze accessorie, spesso impreviste e in buona parte imprevedibili, vanno di fatto a penalizzare il segnale al punto di snaturarlo completamente, con le ovvie conseguenze all’ascolto.
Ecco uno dei motivi per cui le apparecchiature più grosse, che di quell’armamentario sono in genere provviste nella misura più generosa, erano in molti casi quelle che suonavano, e suonano tuttora, nel modo peggiore.
Oltretutto quell’equipaggiamento restava quasi sempre inutilizzato, condizione in cui il necessario per realizzarlo rimaneva comunque a degradare il segnale.
Prestazioni peggiori e prezzi in salita
Tutta quella roba, oltretutto, ha un costo, che si rispecchia moltiplicato almeno per dieci sul prezzo di vendita, determinando l’ennesimo paradosso, stante nel dover pagare di più qualcosa che è penalizzato già in origine in misura maggiore di quel che costa meno.
Tuttavia si è inculcato negli appassionati che di tutto ciò non sia possibile fare a meno, o meglio ancora sia pericoloso il solo immaginarlo, dato che si dovrebbe rinunciare alle possibilità d’intervento sulle caratteristiche del segnale.
Ma se non ne ha bisogno, possedendo già in partenza tutto il necessario per dar vita a una riproduzione soddisfacente, che motivo c’è di rompergli le scatole, con la possibilità concreta di fare danno in proporzione al numero di dispositivi atti allo scopo su cui è possibile smanettare?
Misteri della fede. E quella di alcune frange di appassionati, e soprattutto di quanti si adoperano per produrre e poi diffondere i dogmi di fronte ai quali si genuflettono a oltranza è profonda e insondabile, nonché refrattaria a qualsiasi barlume di ragionevolezza.
Quel che derivava da quanto descritto fin qui era in effetti di una pochezza disarmante, a livello musicale. Si, di frontali maestosi e iperdotati ce n’era in abbondanza, di lustrini e cromature anche di più, ma di attinenza alla realtà dell’evento originario non solo non ce n’era, non ci si poneva neppure il problema.
Di conseguenza, nella cerchia di appassionati meno inclini al luogo comune, e per forza di cose nell’ambito di determinate scuole di pensiero, si andò affermando l’idea che le dotazioni più ampie non fossero sinonimo di superiorità come la scala prezzi del listino dei costruttori più affermati e la propaganda di settore tendevano a suggerire, ma la dimostrazione palese che le apparecchiature che ne erano equipaggiate fossero le peggiori, essendo indispensabili affinché potessero esprimere una timbrica almeno decente, cosa non possibile senza tale apporto.
In realtà non era sempre così, anche se il più delle volte quell’idea trovava conferma sul campo. A volte anche elettroniche dalla sonorità non disprezzabile, e quindi in grado di comportarsi in maniera decente senza bisogno di spinte ulteriori, venivano penalizzate in quel modo. Proprio perché quella era la realtà del momento e non se ne poteva fare a meno.
Naturalezza, questa sconosciuta
Dunque la consuetudine di quel periodo disgraziato era data da sonorità profondamente e irrecuperabilmente innaturali, oltreché tendenti al cadaverico. Lo divenivano tanto di più quanto cresceva la dotazione, quindi la classe di appartenenza e di conseguenza il prezzo delle apparecchiature. Realtà penosa ma palpabile, in merito alla quale non si va molto lontani dal vero se si ritiene che abbia avuto il suo peso nello spingere i più noti personaggi della stampa di settore a sostenere e ripetere a oltranza che l’alta fedeltà, se intesa nel senso letterale del termine, fosse null’altro che una pia illusione.
Anche loro del resto non potevano che essere influenzati dalla realtà cui si trovavano di fronte e alla cui edificazione si erano dedicati in maniera tanto indefessa e scriteriata: se col salire del prezzo delle apparecchiature non si riusciva a muovere un passo verso una maggiore somiglianza delle sonorità all’originale, non poteva voler dire altro che fosse impossibile fare di meglio.
In questo si scorge l’incapacità di prospettarsi una visione alternativa per quale che fosse, meno influenzata dalla vulgata dominante, sia pure in minima parte. Eppure sarebbe bastato poco per rendersi conto della realtà, in particolare lavorando con dedizione maggiore sul lato pratico della questione.
Sarebbe risultato così evidente che più un impianto lo si rende complicato e peggio tende a suonare. In particolare se naturalezza, coerenza, vitalità e realismo sono i parametri cui si attribuisce l’importanza maggiore. Ammesso ovviamente che si riesca a concepirli, cosa da non dare assolutamente per scontata.
Se così stanno le cose, ed è innegabile proprio in base al suggerimento dato dall’esperienza sul campo, quella che si mette insieme quando la spinta maggiore è data dalla passione e non dalla volontà di costruirsi un’immagine per quale che sia, ci sono buone probabilità che la stessa cosa avvenga anche all’interno della singola apparecchiatura.
Fine di un’era
Malgrado nel pieno della fase storica definita come medioevo fosse difficile scorgere la possibilità di un’alternativa a quella realtà deprimente, in particolare da parte del comune appassionato, avido lettore di riviste specializzate, qualcosa si stava muovendo, sia pure a livello sotterraneo.
Riguardava soprattutto l’osservare l’insieme della riproduzione sonora secondo una visuale diversa, finalmente centrata sull’essenza stessa della sonorità e non più sulla sovrastruttura che ne era sembrata fino ad allora un corollario indispensabile.
Se la riproduzione avviene a partire da un segnale sano e sulla base di apparecchiature finalmente in grado di non penalizzarlo oltremodo, che motivo c’è di trascinarsi appresso tutto quell’armamentario, oltretutto punitivo per la qualità stessa del segnale?
Domanda persino ovvia, dal punto di vista attuale, ma che allora era oltre i limiti del concepibile, tranne che per un ristretto gruppo di persone.
Fu così che iniziarono ad affacciarsi timidamente le prime apparecchiature che rinunciavano all’ingombrante corredo di dispositivi atti a intervenire sul segnale in maniera tanto pesante, che da un lato stava diventando pletorico, stante la necessità di dare sempre un qualcosa in più che potesse attrarre il cliente potenziale, e dall’altro costituiva un impedimento sostanziale a qualunque ipotesi migliorativa.
Le apparecchiature realizzate secondo le nuove modalità spiazzarono per forza di cose il pubblico degli appassionati, che dava per scontata la possibilità d’intervento sulle caratteristiche del segnale nella maniera più ampia ed era abituato sia alla sicurezza che ne derivava, sia ad associare la presenza del numero maggiore di controlli alla qualità stessa del prodotto. Malgrado fosse una concezione sostanzialmente falsa, non vi era la possibilità di una controprova che potesse chiarire le idee al proposito.
Ancor più spiazzarono la stampa specializzata, essendo i suoi componenti del tutto impreparati al cambiamento, assuefatti com’erano alla realtà che loro stessi avevano contribuito grandemente a edificare.
Per questo le prime apparecchiature cosiddette essenziali ebbero vita difficile: agli occhi dell’appassionato medio non sembrava proprio possibile imbarcarsi in un’impresa come la riproduzione sonora di qualità, privi dell’arsenale su cui si era abituati a fare affidamento.
Quegli oggetti subivano oltretutto una pessima stampa, proprio per via dell’incapacità delle redazioni dell’epoca di accettare e prima ancora di comprendere, qualsiasi cosa differisse da quello che erano abituate da troppo tempo a glorificare.
“Esoterico“
Del resto i grandi marchi tiravano dritto sulla loro strada, come sempre avviene in casi del genere, dando così l’impressione che l’esigua minoranza di quelle apparecchiature così diverse dal solito fosse una specie di ballon d’essai, o forse una provocazione.
In realtà c’erano dei segnali che con l’esperienza che si sarebbe maturata nel corso degli anni successivi, cosa ovviamente impossibile da intravvedere in quel momento, avrebbero portato a capire come quel tentativo di cambiamento, per quanto timido, forse anche velleitario e comunque poco verosimile almeno dal punto di vista proprio di quell’epoca, stiamo parlando della fine degli anni 1970, in realtà fosse temuto.
Non a caso gli scribacchini di settore iniziarono a usare un termine piovuto dall’alto e fortemente delegittimatorio, non si sa fino a che punto rendendosene conto, per definire il filone delle apparecchiature finalmente dedicate a trarre il meglio dal segnale audio invece che a massacrarlo nei modi più impensati, pretendendo oltretutto di rendergli chissà quale servigio.
Quel termine era “esoterico“, dal significato assolutamente privo di senso nel contesto della riproduzione sonora, che purtuttavia si diffuse in breve a macchia d’olio, cosa abituale nei casi più deteriori come quello in questione.
Essendo sinonimo di arcano, iniziatico, ultraterreno, di fatto rafforzava la legge non scritta che un’apparecchiatura hi-fi dovesse essere realizzata esattamente nel modo con cui lo si era fatto fino ad allora. A meno di ricorrere per l’appunto a tecniche e soluzioni stregonesche, come tali fuori da questo mondo e più che mai dall’ambito della pretesa scientificità con cui si è voluto ammantare il nostro settore.
In sostanza, senza che ce ne rendessimo conto, il termine esoterico era stato coniato e poi utilizzato con criteri e finalità del tutto simili a quelle per cui oggi si fa uso e soprattutto si abusa di parole come complottista, no-vax, sovranista eccetera. Peraltro senza comprendere che di fatto sanciscono in primo luogo l’attitudine assolutista e reazionaria di che ne fa uso, la determinazione a soffocare ogni voce di dissenso, a negare la realtà e a servirsi della delegittimazione e del pretesto per zittire chiunque osi dubitare del pensiero unico, nonché una desolante mancanza di argomenti. Dato che altrimenti li userebbe, invece di ricorrere a certi pretesti.
Insomma, la cosiddetta hi-fi “esoterica” la si è voluta far passare per roba da magia nera, dalla quale pertanto era raccomandabile e persino doveroso tenersi alla larga, per chiunque considerasse sé stesso come persona ragionevole, dai piedi minimamente piantati per terra.
Ulteriore dimostrazione che, come abbiamo visto in precedenza, al di là del progresso inarrestabile con cui ci si riempie la bocca, è proprio nell’ambito tecnologico che si usano sempre gli stessi trucchi, vecchi di decenni se non di secoli. Proprio come la caccia alle streghe.
Il seme tuttavia era stato gettato, e il cosiddetto “esoterico” che in realtà non era altro da un prodotto concepito coi mezzi a disposizione di chiunque, ma finalmente in funzione della migliore qualità del segnale, e quindi dell’ascolto invece che per la lusinga delle smanie finto-tecnologiche di un pubblico allevato e coccolato allo scopo, andava fatalmente ricavandosi i suoi spazi, sempre più ampi.
Anche perché già all’epoca era tuttaltro che marginale la fascia di appassionati rimasti delusi dal prodotto che andava per la maggiore, ovvero dalla sua incapacità a rispondere alle esigenze di crescita da parte di chi avesse maturato l’esperienza e la sensibilità necessarie.
Tali esigenze per forza di cose non potevano trovare accoglienza in un prodotto che al crescere dei costi andava sempre più spesso a peggiorare le sue prerogative soniche anziché migliorarle, proprio in funzione della necessità di ampliarne l’equipaggiamento e la flessibilità d’impiego, elementi che più tardi avremmo finalmente compreso che con essa fanno a pugni.
Dieci piccoli inglesi
Se l’esoterico aveva un difetto era nei suoi costi, quasi sempre molto distanti da quelli del prodotto diciamo così di massa. Destino inevitabile per il prodotto semi-artigianale rispetto a quello realizzato a milioni di esemplari per volta.
A questo proposito, sembra inconcepibile che la stampa di settore non abbia mai rilevato che la differenza tra il prodotto massificato all’estremo e quello realizzato in piccola o piccolissima serie non è dissimile da quella che passa tra l’abito da grande magazzino e quello di taglio sartoriale. Del resto quando l’assegno ha il giusto numero di zeri non trova rivali nel chiudere occhi, orecchi e bocca di chiunque.
Tranne qualche povero idealista: rigorosamente censurato, messo ai margini e fatto passare per matto.
Ai suoi esordi, insomma, il prodotto controcorrente era sempre parecchio costoso. Oltretutto a fronte del suo apparire povero un po’ di tutto: di controlli, d’imponenza, di lucine, cromature e non di rado anche di watt.
Del resto nell’ambito di nostro interesse il poco ma buono e il meno è di più rappresentavano concetti che avrebbero dovuto attendere diversi anni ancora prima non dico di affermarsi ma almeno di diffondersi un minimo.
A questo proposito, come accade sovente è stata la scuola inglese a trovare il giusto compromesso. Concettualmente originata dal tipico pragmatismo anglosassone, si sostanzia in una regola di fondo: meglio cercare di migliorare quanto possibile quel che si ha, che quindi si conosce a fondo nei suoi diversi aspetti, invece d’imbarcarsi in qualcosa di totalmente nuovo, con i costi e le incognite del caso.
Forte di una simile filosofia, e conscia di non poter sostenere il confronto con i colossi orientali sul terreno che per questi ultimi si era dimostrato più congeniale, l’industria inglese composta da attori di dimensioni piccole e medie, andò in pratica a trasformare in un punto di forza quello che era il suo limite maggiore.
Vi riuscì anche in funzione della povertà sonica degli antagonisti e ancor più delle prerogative storiche della sua scuola progettistica, improntata a rigore e rispetto nei confronti delle caratteristiche originarie del suono, per la quale l’ente radiotevelevisivo di Stato, la BBC, operò da nave scuola e fucina di talenti di grande efficacia. Ebbe così luogo un connubio ideale con i metodi e le finalità del cosiddetto esoterico.
Si trattava però di adeguarlo alla produzione su una scala sufficientemente ampia da renderlo remunerativo in base alle dimensioni dell’industria inglese.
Fu così che dall’esoterico si presero l’essenzialità, e le scelte di fondo volte alla preservazione delle caratteristiche del segnale, abbinandolo alla tipica essenzialità britannica. In particolare per la presentazione estetica e la dotazione delle apparecchiature, mentre per quanto riguarda la loro realizzazione concreta si capovolsero le percentuali di spesa rispettivamente dedicate alle finiture e alla componentistica. In particolare si curò quella più influente sulla sonorità, alimentazione e stadi finali, mentre nella sezione pre si seguiva saggiamente la strada dell’eliminazione di tutto il superfluo, che in quanto tale è spesso dannoso.
Ne derivarono oggetti che se sul piano delle prestazioni pure erano inevitabilmente lontani dagli esempi più brillanti delle capacità del nuovo filone, riuscivano comunque a esprimere doti sonore sufficienti perché dal confronto la produzione tradizionale uscisse malconcia. Proprio in quanto si rivelarono ben più godibili sonicamente rispetto alla produzione dei marchi orientali.
Anche di quella nei cui confronti il paragone sarebbe sembrato improponibile.
A questo proposito mi piace ricordare l’esempio eclatante dell’impianto di un appassionato di mia conoscenza, che sull’onda dell’esperienza fatta presso la saletta di un comune amico, possessore di una catena che allora era di classe molto alta, basata su un due telai Yamaha C4-M4, ritenne di fare ancor meglio andando sul finale di vertice del costruttore giapponese, il modello M2.
Era caratterizzato da una potenza d’uscita particolarmente sostanziosa, tantopiù per quei tempi, eppure all’ascolto si rivelò del tutto insoddisfacente. Sintesi concreta della difficoltà via via maggiore di fare qualcosa di buono al crescere della potenza d’uscita.
Al punto che persino un NAD 3020, che sembrava un giocattolo in un paragone del tutto fuori luogo per costo d’acquisto e modalità realizzative, pur nei suoi corposi limiti finiva con l’essere più gradevole all’ascolto.
Sulla linea d’azione comune dei piccoli inglesi era inevitabile rinunciare agli elementi più indicati per attrarre l’occhio, come i frontali in alluminio spazzolato e le pesanti manopole metalliche, sostituiti da lamiere verniciate, spesso in tonalità “tristi” puntualmente stigmatizzate dalla stampa, e da controlli e pulsantiere in pura plastica. Tipico a questo proposito il verde scuro NAD, che si sarebbe comunque affermato fin quasi come un’icona di quell’epoca, giustamente passata alla storia come Rinascimento.
Venne definita in quel modo proprio perché rinacquero da un lato le attitudini delle apparecchiature a una sonorità realistica, e quindi godibile, sia pure a dispetto dei loro limiti evidenti e forse persino in virtù di essi, almeno in una certa misura.
Dall’altro si risvegliò l’attenzione degli appassionati, che compresero presto la possibilità finalmente offerta loro di poter acquistare a prezzo accessibile apparecchiature che seppure rinunciatarie per l’estetica, avevano doti sonore capaci di dare soddisfazioni impensabili nell’impiego del prodotto tradizionale.
Le elettroniche del Rinascimento erano finalizzate in sostanza alla musica e non più alla sovrastruttura o peggio a compiacere le velleità al gigantismo sapientemente instillate negli appassionati in anni e anni di martellamento mediatico.
Da tutto questo derivò l’ultima era felice della riproduzione sonora, il vero e proprio boom che si è avuto nel corso degli anni 1980 e si è prolungato anche per buona parte del decennio successivo.
Soprattutto, ha posto le basi per quella che è a tutti gli effetti la concezione moderna della riproduzione sonora.
Caposcuola indiscusso di quel movimento è stato il già menzionato Nad 3020, a suo tempo definito come l’amplificatore più venduto della storia, cosa probabilmente vera anche al giorno d’oggi.
In particolare riscuoteva interesse nella versione 3020i dalla dotazione essenziale, priva di controlli di tono e se non ricordo male anche dell’uscita cuffia.
Suo concorente diretto fu il Rotel 820, anch’esso disponibile in versione essenziale e in serie successive via via migliorate. Vennero poi gli amplificatori realizzati sulla falsariga di diversi altri costruttori, ognuno con le proprie peculiarità: Creek, Sugden, Arcam, Mission/Cyrus, Musical Fidelity, Onix, Aura, Rega.
E così arriviamo a dieci. Dieci piccoli inglesi, più qualcun altro che ora non mi sovviene, che hanno cambiato il modo stesso d’intendere la riproduzione sonora ad alta fedeltà. Appunto secondo i criteri della semplicità, della cura per le cose che contano effettivamente e della rinuncia a tutto quel che non è necessario, che spesso si rivela dannoso.
Detta così sembra una cosa banale, ma non lo era allora e men che meno lo è oggi. Resta comunque la direzione più efficace per ottenere determinati risultati.
Vorrei soffermarmi ancora una istante su Rotel, in quanto fu l’esempio del costruttore orientale che riprende i canoni tipici del prodotto innovativo realizzato dalla concorrenza “illuminata”, riuscendo così a misurarsi con esso e in alcuni casi persino a sopravanzarlo.
A questo proposito ricordo alcuni modelli affidatimi in prova che si comportarono in effetti piuttosto bene. E addirittura molto, in considerazione del prezzo abbordabile.
Grazie ai dieci piccoli inglesi, l’amplificazione essenziale non fu più un oggetto da osservare con sospetto, e dal quale tenersi alla larga nel timore di non ottenenere la sonorità desiderabile, ma pian piano gli appassionati impararono non solo che di certe cose non vi era alcun bisogno e quindi vi si poteva rinunciare senza timore, ma anche che così facendo si migliora, e di parecchio, senza necessità di spendere denaro in più.
Ognuno dei costruttori menzionati diede un’interpretazione personale della nuova via: Musical Fidelity e Sugden con integrati in Classe A, Creek con una raffinatezza che trovava riscontro evidente nelle doti sonore, Mission/Cyrus con telai compatti e pressofusi, insieme alla possibilità di espandere la sezione di alimentazione migliorando sensibilmente prestazioni e sonorità, Onix e Aura con una presentazione più raffinata, al pari della realizzazione interna che li posizionò in un segmento superiore. Rega, infine, non facendo altro che replicare nelle amplificazioni la filosofia utilizzata nei suoi giradischi di grande successo, che a loro volta erano l’emblama stesso della nuova corrente di pensiero, volta finalmente a privilegiare il suono invece del cromo.
In sostanza, dal loro esordio fin quasi in sordina, i piccoli inglesi sono arrivati non solo a dominare il mercato, ma a mettere fuorigioco le amplificazioni realizzate in maniera tradizionale, come quelle provenienti dall’oriente. Con ogni probabilità hanno avuto anche il loro ruolo nello spingere alcuni marchi storici ad abbracciare prima il multicanali per poter trovare un qualche sbocco di mercato e poi ad abbandonare più o meno provvisoriamente il settore.
L’incapacità di ripetere l’exploit
Un tratto che si propone con una certa frequenza nell’ambito della riproduzione sonora riguarda la difficoltà di ripetere l’exploit. Esempio tipico proprio il NAD 3020, che quando infine fu sostituito dai modelli 3220 e 3240 mostrò che le sue doti soniche non erano replicabili facilmente.
Anche per via delle scelte cervellotiche adottate per i nuovi modelli, basati sul cosiddetto Power Envelope, come sempre accolto con tripudio dalla stampa di settore, ma che probabilmente era il responsabile primario dell’incapacità di posizionarsi sui livelli di qualità sonora del predecessore.
La stessa cosa l’abbiamo incontrata già con i B&W CDM1, i cui successori, i 703, erano al confronto pietosi, malgrado il prezzo sensibilmente superiore, e con il Copland 266 dal cui exploit il seguente 822 non poté che restare lontano.
Si supporrebbe che una volta imbroccata la ricetta vincente, il progettista non abbia difficoltà a ripetersi in risultati di un certo rilievo, ma così evidentemente non è.
Segno da un lato della casualità con cui si arriva a determinati traguardi e dall’altro della non completa padronanza della materia, rispetto alla quale esistono per forza di cose lacune non indifferenti. A dispetto dei proclami in cui periodicamente si lancia l’industria di settore, ripresi e amplificati con puntualità dalla pubblicistica specializzata, nel modo acefalo ma pretenzioso e saccente che le è abituale.
In parte tale stato di cose si deve anche alle premesse. Quelle inerenti il Nad 3020 riguardano la grande economicità del suo progetto, contesto nel quale non è facile ottenere risultati di rilievo nel momento in cui si vuole andare oltre, senza però rinunciare alla caratteristica di fondo: ci si trova costretti a cercare scorciatoie che finiscono spesso col risultare penalizzanti.
Pertanto, malgrado il battage da cui sono stati accompagnati, il Nad 3220 e il 3240 non sono riusciti a ripetere i risultati, in termini sonori e di vendita, del predecessore.
In questo Rotel ha avuto maggior successo, riuscendo a espandere la sua gamma di amplificatori, e le potenze disponibili, fino addirittura a realizzare dei due telai ancora economici ma dalle caratteristiche soniche di buon rilievo. Probabilmente lo si deve ancora una volta al progetto iniziale, che si prestava meglio a espansioni future, sostanziatesi con l’840 e la serie 900.
Anche Rotel però, nel momento in cui è voluto andare ancora oltre, realizzando amplificazioni di potenza più elevata, dunque a partire da un progetto realizzato ex novo, è incappato in uno smacco ancora più cocente, realizzando apparecchiature, in particolare finali, dalla sonorità parecchio deludente, come ho avuto modo a suo tempo, ormai fin troppi anni fa, di rilevare.
Come sempre, ciò ha segnato la fine del mio rapporto redazionale coi prodotti di quel marchio. A ulteriore dimostrazione che quando non parli benissimo di un prodotto, per quale che sia e non importa se a torto o a ragione, gli oggetti di quel marchio non ti verranno mai più riassegnati. Facendoti capire sotto metafora, che se hai intenzione di fare il tuo dovere, presto o tardi finirai con il non poter più lavorare.
Il 3020, i CDM 1 e il 266 simboleggiano ulteriormente la casualità di certi exploit. L’altra facciata della questione, ossia l’andare a tentoni in quella che potrebbe essere vista come una sorta di coazione a ripetere, ha visto l’esempio di un successivo integrato Nad, basato sull’impiego di coppie di transistor finali assemblate in maniera stravagante. I risultati così ottenuti, che ho avuto la fortuna di poter verificare di persona, mi hanno permesso di rendermi conto dell’importanza di una selezione accurata, sono stati ancor più dimenticabili.
Quell’integrato di cui non ricordo più la sigla, fu anche il primo che mi capitò tra le mani a riportare la scritta Made in China, capostipite di una tendenza che di li a qualche anno sarebbe divenuta endemica. Con tutto quel che ne è conseguito e che per ora tralasciamo.
Questo nulla toglie ai meriti e all’importanza di quella fase storica e delle apparecchiature che l’hanno caratterizzata, tali da segnare non solo un’epoca ma anche la storia successiva della riproduzione sonora nel suo insieme. Dal mio punto di vista contribuendo in maniera ben più fattiva rispetto a eventi maggiormente celebrati ma che in termini di qualità sonora, che è e resterà sempre la prerogativa numero 1 quando si parla di musica riprodotta, non sono stati altrettanto significativi.
Grazie ai dieci piccoli inglesi si ebbe così un’hi-fi finalmente liberata dal suo orpello consumista e pretenzioso. Magari non del tutto ma di sicuro in proporzioni assolutamente impensabili rispetto a un’epoca e a una linea di pensiero in cui predominava. In seguito è tornata a predominare, fino ai giorni nostri, con le modalità tipiche della restaurazione e il suo portato inevitabilmente regressivo, l’apparecchiatura-totem. Non più o solo casualmente destinata alla riproduzione sonora, ma soprattutto alla celebrazione di sé stessa e più che mai a quella delle facoltà economiche del suo possessore, metro di misura del suo successo personale.
Entrando in possesso di tali oggetti, si è convinti oltretutto di salire nella scala gerarchica in cui si ritiene siano suddivisi gli appassionati, proprio in funzione del costo dell’impianto, reso erroneamente sinonimo dell’esperienza e della conoscenza possedute. Cosa ovviamente priva di qualsiasi addentellato con la realtà.
Anzi, per quanto detto fin qui è vero l’esatto contrario, proprio in base alle caratteristiche più comuni delle apparecchiature di prezzo elevato a livello sonico. Se poi si aggiunge a tutto ciò la supponenza che deriva dal possesso di determinati oggetti, che è uno tra gli elementi più efficaci alla mortificazione delle capacità percettive dell’essere umano, il risultato cui si perviene è l’opposto di quel che si potrebbe credere. In particolare al giorno d’oggi in cui tutta l’importanza è attribuita all’immagine, mentre la sostanza è relegata tra le varie e eventuali.
Messi l’uno vicino all’altro, poi, quei totem vanno a formare l’altare di una sorta di cattedrale atea, almeno nel senso tradizionale del termine, presso la quale ci si raccoglie in adorazione del feticcio tecnologico, e di conseguenza dell’oligarchia che ne amministra il culto, di cui quelle apparecchiature sono costruite a immagine e somiglianza.
Ne deriva che l’appassionato che ritiene di essere più avvertito, e quindi in posizione di preminenza rispetto agli altri, è quello che inoltre conosce a menadito non solo tutte le apparecchiature e le loro caratteristiche, senza riuscire però ad associarle a un qualche risvolto pratico, ma anche le figure mitologiche del settore: dal nome di battesimo alle opere e poi ai marchi quasi sempre dalla vita effimera dei quali sono stati i fondatori oppure hanno operato. Fenomeno tipico dell’innalzamento a neo-religione idolatrica del meccanismo consumista legato alla riproduzione sonora, che di fatto ne diviene il tratto dominante.
Ovvio che a questo punto l’arte musicale e la ricostruzione il più possibile vicina alla realtà dell’evento mediante il quale si concretizza in origine, che a suo modo è anch’essa un’arte, non abbiano più importanza alcuna. Tuttalpiù possono far parte ancora una volta delle varie ed eventuali, tra le quali vengono di fatto relegate.
Restaurazione appunto, meccanismo regressivo inevitabile nella fase storica che stiamo vivendo, che dispiega i suoi effetti non soltanto nell’ambito della riproduzione sonora ma anche in quello musicale. Per non parlare della società civile, nella quale si può osservare agevolmente come per mezzo di una falsa scienza e della rappresentazione teatrale eseguita da un drappello di buffoni di corte, che da essa trae il pretesto, si agisca sulle capacità intellettive di ciascun individuo, che riportate a livello di massa vanno a cancellare d’un colpo i risultati di percorsi evolutivi dalla durata plurisecolare.
Il tutto, come sempre, per mezzo del pretesto, col quale s’impone un simbolo, dalla valenza ideologica e comunicativa fortissima. Del resto è per mezzo di un simbolo che la chiesa ha imposto e amministrato il suo potere per duemila anni.
Dopo il rinascimento
Dopo ogni rivoluzione che si rispetti arriva la restaurazione, ossia la fase di ripiego come quella che stiamo vivendo in questo momento. Personalmente non riesco a comprendere come si faccia a perdere la consapevolezza acquisita negli anni in cui ci si è evoluti, oltretutto a prezzo di sforzi e di fatiche non indifferenti. Eppure questo è, non a caso sancito dalla teoria dei corsi e ricorsi storici.
Spesso è una questione di convenienze o quantomeno di quelle che si ritengono tali, non so fino a che punto a torto o a ragione. Così il fabbricante che ha edificato la sua fama e la sua fortuna sul prodotto essenziale, volto a preservare il più possibile le prerogative del segnale d’origine, si sveglia un bel giorno con l’idea di realizzare un oggetto di nuovo votato alla massima flessibilità d’impiego, con tutto quel che ne consegue per la qualità del segnale. A dargli manforte, o quantomeno a suggerirgli la plausibilità di tale scelta, ci pensa il revival, anch’esso incline a presentarsi in forma diversificata e non di rado subdolamente ingannevole.
A iniziare dalla maniera con cui si definisce tutto quanto ne fa parte. Oggi lo si chiama vintage, termine pretestuoso volto ad attribuire un’aura di fascino a quello che in realtà il più delle volte è solo un ferrovecchio.
Il vocabolo influenza notoriamente il pensiero, che proprio su di esso si costruisce e si articola. Mutandolo o meglio ancora sovvertendolo s’influenza il processo mentale non solo del singolo individuo ma d’intere comunità, coi risultati che non è difficile immaginare.
Di esempi oggi ne abbiamo in abbondanza, non a caso George Orwell ha parlato a suo tempo di neolingua, strumento d’eccellenza volto a prendere il controllo di masse umane sempre più rilevanti, piegandone scelte e azioni ai propri voleri.
Di pari passo procedono la cancellazione della storia e la sua riscrittura, necessarie al fine di spossessare ogni individuo della sua cultura, appunto basata sull’esperienza e la tradizione, e quindi della sua personalità, atto indispensabile per ridurlo a un’entità priva di consapevolezza, come tale meglio controllabile a distanza.
Dunque la storia e la sua padronanza sono indispensabili, strumento primario per la comprensione del presente e della direzione che chi ne è in grado tenta d’imporre al futuro. Ecco perché anche nel settore di nostro interesse, come rilevato più volte in questa sede, la pubblicistica di settore cerca di calare il pubblico nell’eterno presente costruito sull’acefala heavy rotation simil-radiofonica di prodotti sempre più indistinguibili gli uni dagli altri, se non per la perenne tendenza al regresso che si cerca in ogni modo di mascherare da progresso. Resa necessaria dal dover sempre più aumentare i margini conseguibili su ogni singolo esemplare, in funzione della caduta del saggio di profitto, palla al piede dell’ordinamento capital-consumista oggi dominante e portato alle sue conseguenze più estreme.
Nel settore di nostro interesse, il passaggio da valvolare a stato solido, in seguito quello da analogico a digitale e infine l’esplosione dei prezzi di questi anni, cui non corrisponde se non marginalmente un miglioramento qualitativo, con il contemporaneo svuotamento tecnico del prodotto più abbordabile, cui sarà dedicato presto un articolo, sono emblematici.
Da un lato esemplificano come meglio non si potrebbe la traiettoria evolutiva tipica di un qualsiasi settore merceologico caratterizzato da un contenuto tecnico mediamente rilevante. Dall’altro mostrano come un’adeguata conoscenza della storia, doverosamente sfrondata da ogni suggestione e pretestuosità tipica dell’ideologia capitalista e della propaganda che le fa da grancassa, sia il solo strumento che renda possibile la comprensione degli avvenimenti che si svolgono di fronte ai nostri occhi e della direzione verso cui si rivolgono nella costruzione della realtà futura.
In particolare il percorso che ha caratterizzato lo stato solido e il digitale, che chi si prefiggesse l’ottenimento di determinati risultati qualitativi ha dovuto giocoforza abbandonare o quantomeno integrare con tecnologie pretesamente inferiori, superate e come tali date per spacciate, sono la dimostrazione più limpida ed efficace del reale significato del progresso tecnico come lo s’intende nella fase attuale. E più che mai dell’intento mistificatorio di cui lo si fa strumento, rivestendo di un’immagine ingannevole e pretestuosa quello che in realtà è un mero intento di profitto e accumulazione.
La vicenda svoltasi nel corso delle fasi storiche cui nel nostro settore sono stati attribuiti gli appellativi di medioevo e rinascimento di tutto questo è simbolo.
E poi non ne rimase più nessuno
Oggi purtroppo il rinascimento è solo un ricordo. in particolare per le concezioni da cui si parte alla realizzazione dell’apparecchiatura dedicata alla riproduzione sonora, quale che sia la categoria cui appartiene. Almeno per quanto riguarda il prodotto commerciale. Rispetto ad allora d’altronde sono mutate a fondo le stesse premesse e, con ogni probabilità, il margine intrinseco di uno qualsiasi dei dieci piccoli inglesi non sarebbe più sufficiente a permettere che un’azienda riesca a tenersi in piedi.
In buona parte questo si deve all’evoluzione conosciuta dal settore della riproduzione sonora amatoriale, andato sempre più nella direzione volta a soddisfare l’élite degli appassionati, senza curarsi minimamente delle necessità propedeutiche che una qualsiasi specialità deve curare se vuol sperare di sopravvivere ai suoi cultori del momento.
Pertanto ci si è indirizzati sempre più verso l’alto di gamma, quello che d’altronde offre i margini maggiori, ritenendo che dedicarsi al prodotto dalla remuneratività specifica minore, parametro da recuperare poi per mezzo del numero di pezzi venduti, non ne valesse più la pena. In base a un’ottica miope che non vale neppure la pena commentare.
E’ anche vero d’altronde che una produzione su larga scala presuppone un investimento iniziale di ben altra portata.
Va detto poi che è cambiato anche il mondo degli affari e dato che il casinò della finanza globale promette guadagni ben superiori a quelli tipici dalla produzione dei beni materiali, è evidente che quest’ultima debba in qualche modo reggere il passo. Il che determina appunto il privilegiare il prodotto più remunerativo, con tutto quel che ne consegue.
Nell’ambito del cosiddetto vintage non è che le cose vadano meglio, tuttaltro. eppure i dieci piccoli inglesi e i loro epigoni avrebbero tutte le carte in regola per primeggiare. Iniziando dalle loro doti sonore e passando poi per i costi minori di restauro dovuti alla componentistica più essenziale.
In tutta evidenza però le lusinghe di cui va in cerca il pubblico che si dedica alla specialità sono altre, legate più all’occhio e alla rievocazione dei tempi che furono, cosa in cui sembra che il prodotto incline all’essenzialità non sia abbastanza versato.
Quindi a parte il Rega Brio, che mi sembra sia in listino tuttora, o comunque lo è stato fino a pochi anni fa, dei dieci piccoli inglesi rimane ben poco, al di là del ricordo e della consapevolezza del ruolo di grande importanza che hanno rivestito nella storia della riproduzione sonora. Per forza di cose limitato a chi può averne contezza per questioni prima di tutto anagrafiche.
Può darsi che a questo proposito vi siano anche altre motivazioni. Tra le prime che mi vengono in mente il non aver maturato l’età necessaria, infatti le apparecchiature che vanno per la maggiore nel vintage sono quelle degli anni ’70, e magari il fatto che il decennio successivo, visto con gli occhi di oggi, non ha né l’epica né il fascino dei settanta ruggenti.
Bello! La seguo da qualche tempo e mi ritrovo in molte delle Sue considerazioni, al di là che siano fatte da persona da cui realmente si percepisce una concreta cognizione sulle questioni trattate.
Nel 1994 ho acquistato nuovo un NAD 302, sempre usato quotidianamente e senza mai un problema fino a qualche tempo fa. Abbinato con un dac Creek con meccanica cd e diffusori Harbeth p3esr dava veramente una grande soddisfazione di ascolto.
Purtroppo un paio di anni fa ho fatto l’errore di (s)venderlo, pensando di migliorare il sistema. Dico che il nuovo sostituto, pur figurando tra quei dieci da Lei sopra elencati, non produce le stesse sensazioni nell’ ascolto, che a mio avviso appare troppo freddo e “chirurgico”, inesorabilmente poco coinvolgente. Prima i miei vinili (ma anche i cd devo dire) non li avrei mai tolti dal piatto, ora a malapena finiscono il loro lato A. Ho seguito i Suoi articoli sull’importanza dei cavi e dell’ambiente di ascolto e ho speso altri soldi. Le sensazioni di prima non sono tornate purtroppo…
Un cordiale saluto e sinceri complimenti.
Andrea da Vicenza
Ciao Andrea,
grazie per l’attenzione e l’apprezzamento.
Complimenti anche per il tuo impianto, che al di là delle questioni di amplificazione è imperniato su apparecchiature rivolte innanzitutto all’ottenimento di ottime doti sonore.
La selettività delle apparecchiature, intesa come capacità di dar conto nel modo migliore delle caratteristiche del segnale che giunge al loro ingresso, o che è presente sul supporto fonografico, come abbiamo detto molte volte è un’arma a doppio taglio. Se da un lato permette l’indagine migliore sulle caratteristiche del segnale, dall’altro rende più evidenti eventuali limiti di ciò che si trova a monte o anche in una posizione successiva.
Questo non riguarda soltanto le caratteristiche delle apparecchiature ma anche le condizioni di contorno, ossia quelle in cui opera l’impianto.
A partire da certi livelli qualitativi esse divengono più importanti degli stessi componenti dell’impianto.
Quindi è importante curarle e nello stesso tempo capire che se due apparecchiature sono effettivamente diverse non potranno che suonare in maniera altrettanto diversa. Ciascuna ovviamente porrà in evidenza le sue caratteristiche soniche, nel bene come nel male.
Un secondo elemento riguarda la necessità di messa a punto delle apparecchiature che fanno parte dell’impianto. Questo significa che cambiando amplificatore, diffusori o altro non basta limitarsi a metterli li, ma occorre fare in modo di metterli nelle condizioni di esprimersi al meglio. Altrimenti si finisce come nel caso tuo, che con l’acquisto di un’apparecchiatura sulla carta superiore, e magari anche nei fatti, si è convinti di fare un passo in avanti ma poi si resta insoddisfatti.
Quindi, se credi, t’invito a mandarmi un messaggio in privato, per mezzo del modulo contatti, in cui mi spieghi innanzitutto con cosa hai sotituito il tuo vecchio amplificatore e poi mi descrivi nel dettaglio i motivi della tua insoddisfazione.
A presto
Articolo bellissimo, complimenti davvero!
Mi trovi completamente d’accordo. Gli unici rimasugli che trovo ancora utili, in certi casi, sono i controlli di tono, che spero non facciano troppi danni alla purezza del suono.
Ti leggo sempre molto volentieri,
Gianni
Grazie dell’apprezzamento, Gianni.
In realtà anche i controlli di tono fanno i loro bravi danni, purtroppo. Il loro intervento determina rotazioni di fase distruttive, mentre la circuitazione da cui sono costituiti è un ulteriore ostacolo sul percorso del segnale, che produce i suoi effetti. Aggiungiamo poi potenziometri, saldature e cablaggi, o peggio piste di stampato e ottieniamo un’altra palla al piede di consistenza apprezzabile.
Su una certa tipologia d’impianti, a volte possono attenuare qualche problemuccio, attinenti l’aspetto più elementare su cui si basa la riproduzione sonora, quelli inerenti la timbrica, e mai risolverli, dato che la modalità d’intervento dei controlli di tono è troppo grossolana e spesso costringe ad accettare problemi ulteriori di segno opposto rispetto a quelli che si volevano risolvere con il loro impiego. Soprattutto, quant’è l’incidenza di occasioni simili sul totale dell’ascolto?
Un 10, 15%? Facciamo 20. Ciò significa che per almeno tre quarti del tempo rimanente, durante il quale non se ne avrebbe bisogno, siamo comunque costretti a subire le penalizzazioni causate dalla loro stessa presenza. Rispetto alla quale possono ben poco i pulsanti di “defeat”, i quali anzi aggiungono altro danno.
Ne vale la pena? Non so, ma lascio a ognuno il compito di darsi una risposta.
Se invece l’incidenza del problema è maggiore, è quindi è congenita nello stesso impianto, è evidente che questo soffre di problemi radicali in uno o più dei suoi componenti, la cui eventuale risoluzione necessita di ben altro.
Forzarsi a rinunciarvi ha poi un’ulteriore valenza, che è quella di spingere l’utilizzatore a risolvere gli eventuali problemi in maniera assai meno sbrigativa, andando alla fonte delle loro cause, cosa che a sua volta si rivela molto più formativa per la consapevolezza e l’esperienza di un qualsiasi appassionato, rispetto al limitarsi a girare una manopola in maniera più o meno propria.
Spesso comunque è solo una questione di qualità del prodotto: quello che va, va già bene per conto suo, senza bisogno di spinte ulteriori. E proprio la rinuncia a determinati accessori aumenta in maniera considerevole le probabilità a tale riguardo, per qualsiasi apparecchiatura sia progettata e costruita con il minimo del buon senso. I piccoli inglesi lo hanno dimostrato ormai troppi anni fa e tanti non se lo ricordano più o peggio non lo hanno mai saputo, per questioni anagrafiche.