1991-2021, a trent’anni da Miles

“You are not a musician? That’s okay.
Some of the best musicians I know ain’t musicians”.

(Conversazione con Susan Rogers, ingegnere del suono di molti dischi di Prince degli anni 80)

Trent’anni sono una vita. Anche se sembra incredibile, tanti ne sono passati da quando Miles Davis se n’è andato, il 28 settembre 1991, lasciando un vuoto enorme. A livello di personalità individuale in pari misura a quello musicale.

Mancato lui, il jazz ha avuto una battuta d’arresto, un’assenza di prospettive e un blocco dell’evoluzione che lo ha reso marginale nel panorama musicale odierno. Per uno accusato di aver smesso di suonare “vero” jazz alla fine degli anni 1960 non è niente male.

D’altronde oggi la musica è unica, proprio come il pensiero. Il suo compito è quello di accontentare tutti, nessuno escluso. Deviazioni non sono ammesse, pena l’invisibilità materiale, e neppure l’indulgere in maniera troppo marcata su uno stile specifico.

 

Anni allo specchio

Proprio la possibilità di vivere in diretta l’ultima fase della sua carriera, e vi assicuro che l’ho vissuta come meglio non si potrebbe, non mancando ad alcuno dei suoi concerti tenutisi a Roma o nelle vicinanze tranne l’ultimo, nel 1991, è una di quelle cose che permette di vivere con maggiore serenità un’età in cui non è insolito il desiderio di avere qualche anno di meno.

Il solo rimpianto è di non aver assistito a una sua esibizione prima del ritiro temporaneo dalle scene, avvenuto nel 1975. Ero troppo giovane, per quanto già allora frequentassi concerti abitualmente da qualche anno e avessi dimestichezza col jazz. In particolare quello moderno.

Per comprendere meglio il significato della distanza che ci separa da una certa data, mi piace fare una specie di gioco dello specchio: sottraggo ad essa il numero di anni trascorsi fin qui. Nel caso del 1991, trent’anni prima vale a dire 1961, appena due dopo l’uscita di “Kind of blue”. Ne mancavano tre all’esordio del quintetto stellare, quello composto da Wayne Shorter, Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams, e sette-otto dall’inizio della sperimentazione con gli strumenti elettrificati.

Non ha senso rivangare le polemiche interminabili suscitate da quella scelta, accolta dagli ambienti più tradizionalisti con una reazione riguardo alla quale si è parlato di fascismo jazz. Non del tutto a torto dal mio punto di vista, anche se forse la definizione di corporativismo musicale potrebbe essere meglio appropriata. Al di là dei risvolti che ha avuto sull’evoluzione della storia della musica contemporanea, basta solo fare riferimento al fatto che tutti e dico tutti i collaboratori di Davis in quel periodo sono diventati dei capiscuola indiscussi.

A iniziare proprio dai membri del quintetto, forse il punto più alto raggiunto dal jazz nella sua forma tradizionale basata su strumenti acustici, passati tutti all’elettrificazione di cui a vario titolo sono stati gli eroi. Oltre a essere emblematico, non penso sia avvenuto per caso. Dopo di loro possiamo ricordare gente del calibro di Jo Zawinul, Billy Cobham, John McLaughlin, Chick Corea, Tony Williams, Keith Jarrett, Dave Holland, Airto Moreira, Dave Liebman solo per menzionare i più celebri.

Nondimeno, all’epoca ci fu chi si sentì in dovere di muovere a Davis l’accusa di comportarsi da magnaccia nei confronti della musica nello stesso modo in cui lo faceva con le donne.

Inverosimile, o meglio surreale. Del resto la categoria dei critici, in particolar modo quelli musicali, con a ruota quelli operanti in ambito hi-fi, è nota in primo luogo per l’incapacità di comprendere il livello galattico delle castronerie e delle fandonie che diffonde a mezzo stampa.

Quel poveretto era convinto di parlare della musica di Miles, senza rendersi conto che invece stava illustrando nel modo più accurato la sua incompetenza e la boria fondata sulla sua intolleranza, per non dire altro.

Sempre per mezzo di quel gioco dello specchio si possono mettere in prospettiva le epoche nei confronti delle quali eseguiamo una suddivisione arbitraria: se dal 1961 al 1991 il progresso compiuto dal laboratorio stilistico e dalla sintesi di nuove modalità espressive della musica jazz e dei suoi derivati è stato travolgente, dal 1991 al 2021 si è di fatto annullato, essendo stati questi ultimi trent’anni segnati da una sostanziale regressione. Della quale peraltro non si scorgono possibilità d’inversione di tendenza.

Per come la vedo io, proprio la mancanza di una figura guida come quella di Davis ha avuto al riguardo importanza fondamentale.

 

Jazz, non jazz?

Molti dicono che la sua musica non fosse jazz ma rock, pop o addirittura muzak (musica per supermercati e ascensori) e al limite, sotto certi punti di vista, potrebbero anche non avere tutti i torti. Ma chiunque sia stato a un concerto di Miles Davis dal 1984 in poi ha potuto ascoltare “Human nature”, brano originariamente interpretato da Michael Jackson nell’LP “Thriller”: la versione di Davis forse non ne ha fatto un brano jazz canonico, ma ha trasformato una canzonetta per ragazzini scimuniti, tra i quali c’ero anch’io malgrado fossi già cresciutello, avendo comprato quell’LP, in una ballad piena di sentimento e di bellezza sfolgorante.

Credo sia proprio questa l’essenza del jazz, prendere una cosa e trasformarla in qualcos’altro, che neppure si sarebbe potuto immaginare ascoltandola nella sua versione originale. Oltretutto mantenendone intatta la riconoscibilità.

Lo stesso si può di dire di “Time after time” di Cindy Lauper, che all’origine era poco più di una filastrocca, sia pure di successo enorme: con la sua interpretazione fatta di note appena accennate e piene di malinconia, Davis le ha attribuito la dignità di un brano di quelli che rimangono nella storia.

Forse era questa la sua vera e più grande capacità: andare fino al nocciolo, all’essenza primigenia del brano, qualunque fosse, per poi rileggerlo con la sua sensibilità e farne un qualcosa di sublime. O di oltremodo trascinante, a seconda dei casi.

“Jean Pierre” ad esempio, altro non era che una nenia francese per neonati: ne ha fatto una dei brani-bandiera della terza fase della sua carriera, quella che è andata dal suo rientro fino al definitivo commiato, avvenuto un paio di settimane dopo il suo ultimo concerto, e dell’intero jazz moderno. Molto spesso è stato utilizzato come bis, in particolare nei suoi primi tour dopo il ritorno, quelli del 1982. In ogni caso è stato un elemento fisso della scaletta fino al 1988, per poi essere ripreso più volte.

Il titolo del brano deriva dal nome del figlio di Cicely Tyson, se non sbaglio la sua terza moglie. A divorzio già avvenuto si prese cura di Davis in particolare per la sua salute, riuscendo a ripulirlo quasi completamente, e per il lato economico della sua attività. Da lei prende il nome anche “Star on, Cicely”, che figura nell’album “Star people”.

A parte questo, dove sta scritto che un musicista debba suonare sempre e solo jazz?

E poi, cos’è il jazz? Cosa non lo è?

Ma soprattutto chi lo decide? E a che titolo?

Personalmente ritengo che la questione non riguardi tanto il repertorio di Davis in una qualsiasi tra le fasi che hanno caratterizzato la sua traiettoria artistica, quanto l’atteggiamento di alcuni tra quelli che sono convinti di amare la musica. Credo che in realtà amino l’idea che si sono fatti di essa e soprattutto l’immagine personale che sono convinti di ricavarne mostrandosi cultori delle sue forme più legate all’ortodossia. Allo scopo dunque si desidera che resti fissa e inamovibile.

Senza comprendere che si finirebbe prima o poi con l’odiarla per la sua ripetitività.

Del resto c’è chi vive soprattutto delle proprie sicurezze e non reggerebbe a vedersele togliere.

Vagli a spiegare che il musicista non è il suo juke box personale, che gli metti le 100 Lire in bocca e lui esegue il brano che desideri, preciso nella maniera in cui lo vuoi, senza una variazione o una sbavatura e solo con gli strumenti ufficialmente approvati.

Miles ha dato tantissimo alla musica, non solo a livello stilistico e di evoluzione, al cui riguardo ha dettato le coordinate dalla fine degli anni 1940 a tutti gli 80, per poi indicare quelle che sarebbero state le linee guida del decennio successivo con l’album postumo Doo-Bop. Purtroppo non ha fatto a tempo a finirlo ed è uscito incompleto.

John Scofield, chitarrista che ha suonato a lungo nel suo gruppo succedendo a Mike Stern, racconta che al termine di un concerto, cui lui aveva assistito dal retropalco, Davis dovette essere sorretto da due persone, dato che scendendo la scaletta che riportava a livello del suolo si ripiegò letteralmente in due, privo di ogni energia. Sul palco aveva dato tutto quello che aveva, senza risparmiare nulla.

La sua salute del resto era sempre stata altalenante, in conseguenza dell’incidente che ebbe nel 1975 e lo costrinse a lasciare le scene. Gli dovettero innestare una protesi all’anca, allora erano parecchio rudimentali, che lo fece sempre soffrire e fu la causa primaria del suo ricorso alla chimica, nel tentativo di alleviare un dolore altrimenti insopportabile.

Era comunque uno tosto, tanto è vero che onorò gl’impegni relativi alla sua prima tournèe europea dopo il rientro, malgrado qualche mese prima fosse stato colpito da una semi paralisi alla mano destra. Per questo suonò usando un ausilio che gli permetteva di premere le valvole della sua tromba.

A quei tempi seguivo Davis da alcuni anni. Una persona con cui condividevo diversi dei miei ascolti soleva dire che l’avvicinarsi alla sua musica si rendeva obbligatorio, in quanto dopo un disco dei Weather Report, dei primi Return To Forever e simili non era più possibile ascoltare altro. Sottintendendo che tutto il resto, al paragone, suonava inadeguato. L’unica, quindi era rivolgersi a Miles, preferibilmente, o a qualcuno dei suoi epigoni come lo erano del resto gli stessi Weather Report e il fondatore degli RTF, Chick Corea.

Potevo quindi dire di conoscere piuttosto bene la sua musica e le sue diramazioni, dalla svolta elettrica in poi, ma anche la sua produzione antecedente. Per una serie di motivi, inoltre, avevo avuto modo d’indagare a fondo il suo nuovo LP, il primo pubblicato dopo anni di silenzio: “The man with the horn”.

Non solo mi era piaciuto parecchio, ma lo reputo tra i meglio riusciti della parte finale della sua carriera, insieme a “You’re under arrest”. Guardacaso, i due meno apprezzati dalla critica.

Insomma, tutto si poteva dire tranne che la sua musica fosse nuova per me. Di polemica a quel tempo se ne fece tanta, e in gran parte fuori luogo, riguardo alla sua capacità di suonare dopo tanti anni di fermo, allo stile della sua musica e alle scelte del nuovo disco.

In esso figurava persino – sacrilegio! – un brano cantato, peraltro molto bello e ispirato. Malgrado ciò, in quel concerto dell’aprile 1982, tenutosi sotto un tendone secondo la tendenza dell’epoca, a sottolineare la cronica inadeguatezza delle strutture destinate all’ascolto della musica e alla cultura in generale, bastò la prima raffica che emise, appena accostate le labbra allo strumento, per sdraiare il pubblico presente, gran parte del quale non poté trattenersi dall’urlare. Azione che moltiplicata per le svariate centinaia di persone divenne un boato capace di coprire per diversi secondi quel che arrivava dal palco, malgrado l’amplificazione sostanziosa.

Se questo era uno divenuto incapace di suonare, allora figuriamoci cos’erano gli altri.

Critici: tranne eccezioni più uniche che rare, livorosi scarsi di comprendonio, affetti da una forma irreversibile di sordità autoindotta e singolarmente privi di qualunque sensibilità nei confronti della forma d’arte di cui vanno a discettare con pretese ed esiti a tal punto fuori luogo.

In ogni caso, tutti gli appunti mossi a Miles Davis erano di ordine tecnico, che riguardassero la qualità della sua imboccatura o la scelta dei brani e delle modalità stilistiche con cui decideva di esprimersi.

Per me è del tutto inutile perdere tempo con certe cose: proprio nel brano che dà il titolo all’album, e insieme all’ultimo della prima facciata dello stesso disco è stato il più criticato, Davis si produce in un solo alla tromba con wah-wah d’ispirazione e sensibilità superbe ma anche dal grandissimo senso della misura.

Quindi ai critici e a tutti quanti hanno alzato il sopracciglio nei confronti di quel brano, si può suggerire che fin quando non saranno riusciti a mettere nero su bianco un solo che possa anche lontanamente raffrontarsi a cose del genere, forse la cosa migliore è ascoltare e, se possibile, cercare d’imparare qualcosa.

Curiosamente, quelle stesse persone, si sono ben guardate dall’esprimere una qualsiasi critica per brani e interi album assai più banali e commerciali, troppi dei quali in maniera smaccata, da cui il sottobosco jazzistico è letteralmente costellato. Ma siccome sono mainstream, eseguiti con strumenti acustici, idoneo manierismo e soprattutto senza neppure immaginare di mettere in discussione o peggio sovvertire i canoni sacri e intoccabili del genere musicale superiore moralmente, non hanno avuto nulla da dire e sovente vi hanno indirizzato lodi sperticate.

 

Scherzi al telefono

Uomo di poche parole, Miles Davis quando parlava emetteva poco più di un rauco sussurro. Caratteristico ma replicabile senza troppe difficoltà, con un minimo di applicazione.

Ci fu così chi pensò d’imitarlo. Tra quelli che riuscivano meglio nella specialità c’era Herbie Hancock, pressochè indistinguibile dall’originale, oltre a molti altri.

Dato che Davis era sempre in cerca di nuovi componenti per la formazione che lo accompagnava, e nello stesso tempo l’invito a suonare con lui era il traguardo più ambito da ogni musicista, iniziò a diffondersi tra loro l’usanza di chiamarsi, preferibilmente nel cuore della notte, imitando la voce di Davis per dire: Ciao, sono MIles, vuoi venire a suonare nel mio gruppo?

Dopo un po’ ovviamente non ci credette più nessuno. Il problema però era che Miles di solito contattava di persona quelli che voleva suonassero con lui. Sono in tanti allora a raccontare di avergli risposto “Si si, ok, per poi  riagganciare. Al che Davis doveva richiamare dopo un po’, non di rado più volte, dicendo “Hey motherfucker, I AM MILES! Vieni da me domani pomeriggio”, fin quando il prescelto di turno si convinceva, profondendosi in scuse.

Tra i motivi della necessità di un ricambio tanto serrato c’era da un lato il suo perfezionismo, tipico in genere di chi dà tutto sé stesso in quello che fa, e poi anche perchè detestava la ripetitività e le cose studiate a tavolino. Quindi era capace di cacciare via chi rieseguisse le stesse cose due serate di seguito o anche chi avesse sorpreso a provare l’assolo, come si racconta riguardo al sassofonista George Coleman, beccato sul fatto proprio mentre studiava il modo di rendere più gradevoli le sue parti soliste.

Aveva anche l’abitudine di riascoltare le registrazioni di ogni concerto immediatamente dopo la sua conclusione, non appena rientrato in albergo. Nella prassi coinvolgeva anche il collaboratore cui aveva attribuito i galloni di direttore musicale. A questo proposito Robert Irving III, tastierista che rimase nel suo gruppo per circa cinque anni, racconta che si sedevano a mangiare, Davis non toccava cibo prima del concerto e raccomandava ai suoi di fare lo stesso, riascoltando i brani appena eseguiti fino a notte tarda. A volte partecipavano anche gli altri membri del suo gruppo. Lui valutava le esecuzioni e in particolar modo i nuovi arrangiamenti che venivano provati. Irving spiega che quel processo non è stato solo essenziale allo sviluppo della musica, che in quel modo evolveva in maniera significativa dall’inizio del tour fino alla fine, ma gli ha dato anche un insegnamento che non avrebbe potuto avere altrimenti.

 

Cinque sterline in tasca

Davis, dunque, era sempre alla ricerca di nuovi musicisti da inserire nella sua band. Un po’ per sostituire quelli che abbandonavano, dati i rigori della vita in tournée o per sfruttare il surplus di considerazione ottenuto proprio militando nel suo gruppo. C’erano poi quelli che dopo qualche concerto, in genere quattro, non reputava adeguati alle sue necessità. Tale ricambio era anche rivolto al fine di far evolvere il suo gruppo e la musica eseguita.

A questo proposito il sassofonista Branford Marsalis ricorda che Miles non era il tipo tutto concentrato sulla qualità del suo assolo o sul suono del suo strumento e quello di altri, come avviene in genere, ma gl’interessava in particolare la direzione da attribuire alla sua musica, per via delle sue scelte ma anche dei musicisti che prendeva a suonare con lui.

Riguardo al suo primo approccio coi nuovi arrivati si dicono cose turche, ma il racconto di Richard Patterson, il bassista della sua ultima formazione, sembrerebbe testimoniare il contrario. In vista del suo esordio sul palco gli erano state date delle cassette, dato che non c’era assolutamente nulla di scritto. In alcune figuravano gli stessi brani, registrati dal vivo, solo che ogni volta erano eseguiti in maniera diversa. In più ebbe modo di fare soltanto due giorni di prove, alle quali come di solito Davis non prese parte. Riuscì a incontrarlo solo cinque minuti prima di salire sul palco, nel camerino del trombettista. Si salutarono e Davis gli chiese come si sentisse. Un po’ nervoso, fu la risposta. Davis allora gli mise una mano sulla spalla e disse che sarebbe andato tutto bene.  Nel pezzo di apertura lo spinse avanti e poi insieme eseguirono una serie di chiamate e risposte. Lo aveva messo subito al centro del fuoco, in modo che da quel momento in poi le cose sarebbero state più semplici.

Va detto che Patterson era perfettamente in grado di reggere il colpo, essendo un bassista particolarmente dotato. Cosa scontata del resto, altrimenti nel gruppo di Miles Davis non ci entri.

Anni prima ebbi modo di assistere a un concerto del gruppo con cui suonava allora, Insight. Si esibiva al The Bull’s, un locale di Chicago. All’epoca non era praticamente nessuno, ma ciò che mise in evidenza quella sera sarebbe passato inosservato solo a un sordo. Il gruppo apprezzò il mio supporto, peraltro esplicito, e così tra gli LP della mia raccolta di LP c’è anche quello degli Insight, “Just in time”. Si tratta di una stampa privata, avuta in regalo dagli stessi componenti del gruppo.

Una delle ultime esibizioni di Davis fu il concerto che si tenne alla Villette di Parigi, pubblicizzato semplicemente come “Miles and friends”, in cui suonarono numerosi tra i musicisti che aveva avuto nel passato: da Jackie McLean a Dave Holland e poi Chick Corea, Wayne Shorter, Herbie Hancock, Joe Zawinul, John McLaughlin, John Scofield, Steve Grossman, Bill Evans, Darryl Jones e Al Foster.

Al termine del concerto la pianista classica Katia Labeque, compagna di John McLaughlin, fu invitata nel suo camerino. Commosso e felice per il concerto, Miles le disse: “Hai sentito? Quella una volta era la mia band e loro erano quelli con cui suonavo. E sai una cosa? Quelle persone potevano suonare di tutto e possono farlo tuttora. Oggi i musicisti giovani possono fare una cosa davvero grande, ma una soltanto”.

Non era una critica, solo la constatazione che con i suoi musicisti più vecchi poteva esplorare un po’ in tutte le direzioni e suonare cose diverse. Poi disse: “La forza del musicista gli viene data da quelli con cui divide il palco”.

Proprio John Mc Laughlin del resto, al momento del suo arrivo a New York aveva solo cinque sterline in tasca. Il giorno dopo però era in studio a provare con Miles e il suo gruppo, lanciato verso una carriera che lo ha visto imporsi tra i più grandi chitarristi del nostro tempo, lungo direttrici assai diversificate.

 

Un accordo “sbagliato”

Stoccolma, metà anni Sessanta, sul palco con il Miles Davis Quintet. Siamo in tour, lo show è incandescente, la band affiatata: tutti sintonizzati, tutti sulla stessa lunghezza d’onda. La musica fluisce, c’è contatto con il pubblico, è una magia, un incantesimo. Tony Williams, il batterista prodigio che ha cominciato a suonare con Miles da ragazzino, è un vulcano. Le dita di Ron Carter volano su e giù per il manico del contrabbasso, il sax di Wayne Shorter urla come un indemoniato. Noi cinque siamo diventati un’entità sola, seguiamo la corrente della musica.

Stiamo suonando «So What», un classico di Miles, e raggiungiamo l’apice quando ci lanciamo verso il suo assolo: l’intero pubblico è stregato.

Miles attacca, apre la strada all’assolo, e un attimo prima di scatenarsi fa un respiro. Proprio in quel momento, io suono un accordo completamente sbagliato. Non ho idea di come mi sia venuto, so soltanto che è l’accordo sbagliato nel momento sbagliato, e ora eccolo lì che penzola in bella vista come un frutto marcio.

Oh, merda, penso. È come se avessimo costruito una meravigliosa casa sonora e io le avessi appena dato fuoco. Miles si ferma per una frazione di secondo, quindi suona delle note che non so come, per miracolo, fanno sembrare giusto il mio accordo. In quell’attimo, credo proprio di essere rimasto letteralmente a bocca aperta. Che razza di stregoneria era? Da lì Miles spiccò il volo, sfoderando un assolo che portò il brano in una direzione nuova. Il pubblico era in delirio.

Avevo poco più di vent’anni e suonavo con Miles già da un paio, ma lui riusciva sempre a sorprendermi. Di sicuro lo fece quella sera, rendendo giusto il mio accordo sbagliato. Nel camerino, dopo il concerto, gli chiesi come aveva fatto. Ero un po’ imbarazzato, ma lui si limitò a farmi l’occhiolino con un accenno di sorriso sul volto cesellato. Non disse nulla. Non ce n’era bisogno. Miles non amava parlare delle cose che poteva farci vedere.

Mi ci vollero anni per capire cos’era successo sul palco in quel momento. Non appena suonato l’accordo, l’avevo giudicato: nella mia mente era l’accordo «sbagliato». Miles invece non l’aveva giudicato, gli era capitato di sentire quel suono e immediatamente l’aveva raccolto come una sfida: “Come posso inquadrare quell’accordo in ciò che stiamo facendo?” E siccome non l’aveva giudicato, era riuscito ad assecondarlo, a trasformarlo in qualcosa di incredibile. Miles si fidava della band e di se stesso, e ci incoraggiava sempre a fare altrettanto. È una delle tante lezioni che ho imparato da lui.

(Herbie Hancock – Possibilities)

 

Altre critiche, speciose

Tra i più intolleranti nei confronti di Davis e della sua musica il giornalista Stanley Crouch e i fratelli Marsalis, in particolare il trombettista Wynton, seguito da Branford, sassofonista. Sono stati idolatrati all’epoca da certa stampa, proprio in quanto hanno sfruttato le tendenze funk-elettriche degli anni 70-80 per far vedere che loro erano fedeli alla linea di quanti consideravano il jazz una sorta di espressione musicale mummificata, immutabile nel tempo.

Dove sono oggi la loro musica, i loro dischi e la considerazione di chi ama davvero la musica e non le sue costrizioni codificate perchè vuole sentirsi al sicuro dentro il loro recinto? Nel dimenticatoio.

Miles invece è alla vetta dell’empireo che a loro è rimasto precluso, anche nelle posizioni di rincalzo.

Uno dei due è arrivato persino a sostenere che il Davis degli anni 80 fosse un sideman, ossia un turnista, della sua musica e non innovasse più. Prima di avventurarsi in simili enormità, certe persone dovrebbero spiegare quale innovazione abbiano portato LORO, al jazz. Rispondo io, dato che di fronte a una domanda simile, peraltro doverosa, non potrebbero che fare scena muta o peggio svicolare: proprio nessuna.

Si sono adoperati anzi affinché il jazz regredisse agli anni ’50 e forse ancora più indietro. Per poi congelarlo, giusto quello che si fa coi cadaveri.

Solo che a fare la Restaurazione ci aveva già pensato qualcun altro, al Congresso di Vienna, Anno Domini 1815.

Anche in questo tuttavia c’è una differenza, sostanziale. La musica suonata da Davis ed altri nei ’50 era eccellente e memorabile, e lo è tuttora. Inoltre suona fresca e attuale ancora oggi.

La loro invece ha avuto qualche riscontro nel suo momento e solo in quanto in contrapposizione, enormemente pompata dalla stampa e oltretutto strumentale, alle scelte innovative di quelli che come Davis, non avevano paura di andare avanti.

Riascoltandola, poi, si comprende a qual punto sia datata, irrimediabilmente.

Diciamolo pure: certa gente potrà aprire bocca quando avrà realizzato dischi al livello di “Kind of blue”, “My funny Valentine”, “Miles Ahead”. “Birth of the cool” e “Ascenseur pour l’echafaud”. Ossia mai, come abbiamo detto qualche riga fa.

Wynton Marsalis ha detto che il jazz è tale in quanto si suppone che sia duro, difficile, impopolare. Frase senza dubbio esemplare, adatta in particolar modo per essere apposta sulla targa d’ingresso al museo delle cere della musica afroamericana.

A prescindere dalla supponenza e dal classismo che trasudano da quelle parole, è la riprova della mentalità bacata di chi le ha pronunciate, pronto ad arrampicarsi sulle spalle altrui, per mezzo del falso e del pretesto, al fine di recuperare un effimero scampolo di visibilità.

Del resto a certuni il popolo fa schifo e ancor più le sue espressioni. Per differenziarsene usano innanzitutto l’esteriorità: gli abiti e l’atteggiamento, improntato a una boria sovente smisurata.

Davis invece voleva musicisti provenienti “dalla strada” e capaci d’interpretare le tendenze che da essa nascevano e si sviluppavano.

E’ stato accusato di essere il magnaccia della sua musica, ma di fatto lo è stata certa gente nei suoi confronti, proprio in quanto è riuscita a procurarsi una popolarità momentanea e del tutto sproporzionata ai suoi meriti concreti solo per aver riesumato fuori tempo massimo canoni stilistici da decenni arrivati a consunzione, quelli del jazz di maniera di venti o trenta anni prima, per poi abusarlo e strumentalizzarlo, violentandolo ai fini di una presa di posizione artificiosamente contrapposta all’innovazione.

Nessuno avrebbe potuto sognarsi di fare cose del genere se non ci fossero state persone del calibro di Miles Davis. Ossia uno che ha inziato a ridefinire la musica nel corso degli anni 1940 e ha continuato a farlo nel corso del mezzo secolo successivo. E gli altri non hanno potuto far altro che andargli appresso.

Una volta che lui non c’è stato più, la festa è finita. Per tutti.

Senza innovazione, quella sua o di altri, che si chiamassero Armstrong, Gillespie, Parker o Evans, saremmo ancora a King Oliver, come ha rilevato giustamente Marcus Miller. Per poi aggiungere che la cosa che più lo ha impressionato di Miles è stato il suo continuare ad andare avanti non badando alle critiche, per quanto fossero numerose, salaci e lo abbiano fatto soffrire, senza che lo desse a vedere.

Tornando per un istante ancora alle guasconate di Marsalis, ha avuto persino il coraggio di dire che fosse un genio che ha deciso di andare nel rock e stare sul palco sostanzialmente come un pagliaccio.

La doppiezza insita in una frase del genere e nell’ordine con cui sono espresse le definizioni da cui è composta, già di per se è indicativa dei suoi moventi e contenuti, meglio del significato letterale delle parole che ne sono parte. Queste soprattutto danno la misura inconfondibile della statura morale e intellettiva di chi le pronuncia ed evidenziano il grave stato di disagio di chi dà l’idea di non aver capito che la forma musicale che si è scelto non è un dogma religioso, non ha le sue tavole di comandamenti, per fortuna, e neppure che i suoi interpreti non formano un clero d’illuminati, obbligato a rispettare rituali e canoni estetici immutabili riguardo all’abbigliamento o ad altro.

Insomma, nel jazz non c’è bisogno di vestirsi da porporati e benedire paternamente con le tre dita affinché gli astanti capiscano di trovarsi di fronte a un cardinale.

Se il jazzista sente il dovere di abbigliarsi in un certo modo per mostrare al mondo di essere tale, o forse di rassicurare soprattutto sé stesso riguardo alla sua appartenenza, è probabile abbia più di qualche problema. Con la musica che esegue e nel rapporto con la propria personalità.

Erano giovani, i Marsalis, ma si sono costruiti con le loro mani il destino peggiore per l’immaturo: quello di essere tale e decrepito nello stesso tempo.

Le polemiche da essi innescate per poi prestarsi alle consuete speculazioni della stampa più o meno specializzata sono state il punto più basso toccato dal jazz, non solo negli ultimi decenni. L’accaduto merita ancora una riflessione: quando si verificano cose del genere, c’è sempre chi ad esse dà la stura e chi vi viene tirato dentro per i capelli, suo malgrado, per essere messo alla stregua del provocatore da parte di chi osserva l’accaduto con la superficialità che già allora era parecchio diffusa.

Va detto che Branford ha assunto posizioni meno estremiste al riguardo. Tuttavia non si è mai dissociato nella misura che sarebbe stata opportuna dalle insulse spacconate del fratello. Per poi finire a suonare nel gruppo di Sting.

Quella si che fu una vera pagliacciata, per mezzo della quale il cantante rock più in voga, grossolanamente sopravvalutato, ritenne di poter far credere al mondo di essere quel che non era e non sarebbe diventato mai. Appunto suonando musica che si volle far passare per jazz ma ne aveva a malapena l’odore, con il retrogusto tipico dell’abuso di aromi artificiali. Aiutato in questo da musicisti lautamente ricompensati, ognuno dei quali aveva alle spalle una carriera di grande rilievo, che toccò in quella fase il punto più basso.

Una mera operazione commerciale, oltretutto spudorata. Confesso che andai anch’io al concerto, si teneva al Palasport dell’Eur. D’altronde come facevi a non andarci se la fomazione annoverava nomi come quelli di Kenny Kirkland e Omar Hakim, insieme ai menzionati Branford Marsalis e Darryl Jones?

Andò a finire come si poteva immaginare. Non riuscì il Quartetto Dei Giganti a redimere Sting dalla sua banalità poliziottesca, ma lui ce la fece benissimo a trascinare in essa tutti loro, senza nemmeno un briciolo di fatica. Per cui a metà concerto me ne andai, non riuscendo proprio a sopportare oltre.

Muzak? Quello ne è stato davvero un esempio mirabile. Il vituperato Miles tanto in basso non sarebbe stato proprio capace, di arrivarci. Eppure la critica fu unanime, a livello mondiale, nel coprire di gloria e lodi sperticate quel gruppo, frutto del calcolo economico più smaccato che è meglio dimenticare.

Better suck a little harder or the shekels won’t flow” (Frank Zappa, Joe’s Garage Act II & III)

Se potessi, chiederei a Marsalis, Wynton, il trombettista, una cosa ancora, ossia di menzionare solo uno tra i suoi collaboratori che in seguito abbia avuto una carriera vagamente paragonabile a quella dei musicisti che hanno suonato nel gruppo di Davis subito prima, durante e dopo la “svolta elettrica”.

Non è possibile, dato che non ce n’è manco uno? Dunque il senso della misura, prima ancora che il pudore, avrebbe dovuto consigliare un atteggiamento più rispettoso.

Ma d’altronde come fa il giovane divorato dall’ambizione e dalla smania di apparire e sentirsi arrivato a ritagliarsi il suo spazio? Sfida con fare borioso, petulante e sfrontato chi si trova a un livello per lui irraggiungibile, per poi credere di aver fatto chissà cosa solo perché non ha esitato ad abbassarsi ad azioni riprovevoli, coinvolgendo in esse quanti ha preso di mira nella sua azione, già di per sé prova irrefutabile di impotenza.

Se si fosse in grado di fare qualcosa, e lo si ritenesse adeguato alla situazione, non si sentirebbe certo la necessità d’inventarsi cose del genere, per poi trascinarvi e sporcare con esse chi si è costruito la posizione che ha, per quale che sia, con le proprie forze.

Tuttavia a suo modo anche Marsalis è stato un precursore: caposcuola delle orde di bimbiminkia che imperversano nei social, facendo vanto della loro incompetenza e dell’assenza totale di scrupoli e di raziocinio, sia pure residuale, mescolate alla boria più grottesca.

Così oggi, a trent’anni da quando ci ha lasciato, Miles è più vivo che mai con la sua musica e le direzioni che le ha attribuito, tali da permeare, di fatto, tutto quanto meriti di essere ascoltato al giorno d’oggi. Altri invece sono morti e sepolti, benché tuttora in vita.

Per non parlare dei loro dischi, che non se li ricorda più nessuno. Del resto già all’epoca era tuttaltro che infondato il dubbio che si vendessero soprattutto in conseguenza di certe prese di posizione, del polverone che alzavano e per i pretesti da cui muovevano, permettendo così di comprenderne gli scopi.

D’altro canto, il punto più elevato della carriera di Marsalis è stato il doppio LP che gli diede la prima notorietà, quasi a metà degli anni ottanta, in cui fu chiamato dai titolari Herbie Hancock, Ron Carter e Tony Williams all’ennesima riedizione, stavolta priva di sassofono, del quintetto stellare che Davis aveva messo in piedi venti anni prima.

Motivo in più per tacere e, nel caso, cercare ancora una volta d’imparare qualcosa. Anche perchè non è mai più stato capace di ripeterne le gesta.

“Jazz is not dead but it smells funny” ha detto a suo tempo Frank Zappa, ancora lui, che proprio dal jazz ha preso spunto per molta della sua musica migliore. Atteggiamenti come quelli descritti, se hanno avuto un significato è nel dimostrare che aveva ragione.

I Marsalis sono arrivati persino a definire il suo, un cattivo gruppo di musica rock, come se esistesse una qualche legge che prescrive di suonare una certa musica invece di un’altra, e con tutte le inflessioni giuste, da cui la conseguente scala di valori, evidentemente fittizia. Nuova dimostrazione del livore dettato dalla smania di apparire e di accaparrarsi il ruolo di primedonne nei confronti di chi si sa essere inarrivabile. In particolare se si è capaci soltanto di proporre la rimasticatura forzosamente calligrafica di un canovaccio portato a consunzione definitiva già alcuni decenni prima.

Per forza poi che certa roba la si ricorda solo per l’odore di formalina che emana.

Ora non è che tutto quello che ha fatto Davis nella parte finale della sua attività sia oro zecchino: pensiamo a Tutu, osannato dalla critica ma che già allora e ancor più oggi, malgrado la bellezza indiscutibile di alcuni dei suoi temi, suona artificioso, meccanico, prefabbricato. Proprio in conseguenza delle scelte operate in fase di produzione dalla sua casa discografica, la Warner, con cui improvvidamente si era accasato da poco, quando con ogni probabilità avrebbe avuto destino migliore restando in Columbia.

Del resto la spinta alla continua innovazione porta con sè la maggiore possibilità d’incappare in errori. Lo stesso destino è stato condiviso anche da “Amandla”, sia pure in misura forse minore, altro disco parecchio apprezzato dalla critica insieme a “Decoy”, che personalmente trovo tetro e poco ispirato. O meglio, i concetti che gli hanno dato vita sarebbero stati sviluppati in maniera più efficace, comunicativa e trascinante nel successivo “You’re under arrest”.

Forse è proprio quello il problema: se c’è comunicativa, come si fa a marcare la differenza nei confronti dei generi “inferiori” e di chi li apprezza?

Soprattutto, come si fa poi a rivestirsi del paternalismo classista del duca conte Barambani, quando rivolgendosi ai lavoratori dell’ufficio da lui diretto lo fa con l’immortale “Miei cari inferiori”?

Credo infine che ci sia una cosa in grado di chiudere definitivamente la questione: quanti sono i trombettisti che dopo la scomparsa di Miles Davis ne hanno ripreso la sonorità, in particolare quella basata sull’impiego della sordina? Innumerevoli.

A nessuno invece passa per la testa di riprendere il suono di Marsalis. Tecnicamente ineccepibile, certo, ma di freddezza glaciale e soprattutto immobilizzato nella camicia di forza del suo formalismo esasperato, privo di vitalità e personalità come tutto quanto vada a ricalcare in maniera tanto pedissequa i dogmi di una qualsiasi espressione artistica.

 

“I don’t play trumpet”

Oltreché in una puntata della serie Miami Vice, in cui interpretava il ruolo di uno spacciatore, Davis ha recitato anche in un film dedicato proprio alla sua figura e alle sue gesta musicali. Viste attraverso gli occhi di un bambino che per combinazione si trova a una sua esibizione, estemporanea. Ne viene talmente influenzato che, crescendo, decide di suonare la tromba e formare un suo gruppo, col quale però non riscuote grande successo e quindi resta appeso a metà tra il professionistico e il dilettantesco, malgrado le sue qualità.

Un giorno decide di partire dall’Australia per andare a trovare Billy Cross, questo il nome attribuito a Davis nella finzione filmica. Lo incontra, viene invitato a casa sua, dove gli dice le frasi di prammatica: “sei la ragione per cui ho iniziato a suonare”, “ho ogni disco che hai fatto”. Nel mentre Cross è intento a giocherellare con una tastiera. E’ del tipo a campionamento, nella quale immette il suono della sua tromba e poi lo riesegue, previo il rumore del floppy disk da cui i dati passano ai banchi di memoria dello strumento.

A quel punto John Anderson, così si chiamava il giovane trombettista, chiede a Cross -“Don’t you play trumpet?” Cross risponde: “I ain’t play trumpet”. Interdetto, Anderson riformula la domanda: “I mean, don’t you play trumpet? E Cross replica, duro: “I-don’t-play-trumpet!”

La sera Cross invita il suo ospite sul palco, a suonare insieme con lui e la sua band, compimento del sogno di una vita.

Al ritorno in patria Anderson è accolto con grande calore, ora che anche lui è una star, essendosi esibito in pubblico con il grande Billy Cross..

Il titolo del film è “Dingo” e per quanto ne so purtroppo non ha avuto la distribuzione che avrebbe meritato. A cercarlo però, si trova, con i dialoghi in lingua inglese.

La colonna sonora, composta da Michel Legrand, è stata pubblicata su un CD che ha avuto fortuna alquanto migliore.

 

“If it sounds right, it is right”

Come hanno sostenuto in molti, l’essenza più vera del Miles Davis degli anni 80 è stata l’attività dal vivo piuttosto che quella discografica. Anche in questo ha dimostrato di essere un vero jazzista, come tale capace di essere molto meglio sul palco che in studio. Nella maggior parte dei casi invece, quando non sono in playback le esecuzioni in pubblico costituiscono un pallido simulacro di quel che si trova sugli album. Questi del resto sono il frutto di ciò che in concreto è una finzione, materializzata grazie non solo alla disponibilità dei mezzi atti allo scopo ma di tutta una tecnologia dedicata espressamente al suo perfezionamento.

Curiosamente, proprio dal vivo hanno trovato lo spazio maggiore diversi brani che sono rimasti esclusi dai dischi di Davis. Primi fra tutti quelli inclusi nel cosiddetto album fantasma, dato alle stampe solo lo scorso anno, “Rubberband”. All’epoca rimasto incompleto, è stato quindi rimaneggiato proprio in funzione delle necessità discografiche inerenti la pubblicazione, con esiti che trovo pesantemente fuori contesto e ne hanno falsato le intenzioni originarie. Troppo tempo d’altronde è passato dal momento della sua registrazione e troppo pesanti sono stati gl’interventi sugli elementi portanti di quella serie di brani incompiuti, ma solo su nastro.

La ritmica dal forte accento acid del brano d’apertura, “Rubberband of life”, benché gradevole ne è l’esempio plateale, in quanto forma stilistica inesistente quando Davis era in vita.

Proprio perché sono stati eseguiti dal vivo e hanno costituito a lungo l’ossatura delle esibizioni di Davis, sarebbe bastato prenderne molto più semplicemente le versioni meglio riuscite e metterle su disco così com’erano: si sarebbe speso molto meno, ottenendo un disco dal valore storico inestimabile invece di sporcare a tal punto la memoria di un musicista che assolutamente non meritava un trattamento del genere.

Allo scopo sarebbe servito giusto un po’ di buon senso, oltre naturalmente al minimo d’inclinazione nei confronti della specialità. Si è voluta privilegiare invece l’operazione commerciale, con risultati che oltre alla bolla gonfiata dal battage pubblicitario eseguito in fase di lancio hanno prodotto qualcosa che non solo ha un’irrimediabile tendenza al brutto, dovuta essenzialmente ai rimaneggiamenti di gusto discutibile che si sono voluti apportare ai brani inclusi nell’album, ma di fatto è totalmente fuori contesto da quel che Davis suonava nel periodo.

Si dirà: ma così il “prodotto” è più adatto ai tempi attuali. Allora vuol dire che i tempi attuali sono una vera schifezza. Non solo musicalmente.

Tuttaltra cosa invece è stata l’esecuzione dal vivo di quei brani, dove hanno assunto la forma che Davis intese conferirvi. Stiamo parlando tra gli altri di “Wrinkle”, “Carnival time” e soprattutto “Maze”, che nella versione eseguita durante il concerto più elettrizzante di Miles Davis cui ho assistito, quello del luglio 1986 alla scalinata del Palazzo della Civiltà del Lavoro, a pari merito con quello del rientro nell’aprile 1982, ha visto il bassista Felton Crews esibirsi in una serie di ostinato di durata impressionante, eseguiti con la tecnica slap, davvero labirintici. Una cosa mai vista prima e per quanto ne so mai più ripetuta dopo, a dimostrazione delle capacità tecniche e anche del coraggio, perchè ce ne vuole, per fare cose del genere dal vivo, oltretutto con quella nonchalance.

Un conto è dare una strappata alle corde e via, per il visibilio del pubblico, altro è eseguire quella tecnica con la continuità, la precisione e soprattutto il tiro di quella memorabile serata romana.

Lo stesso Darryl Jones, che non è l’ultimo degli sprovveduti, l’anno prima ne aveva dato un’esecuzione molto meno avventurosa e arrembante, suonandolo “normalmente”, in punta di dita.

Proprio quella dell’estate 1986 è la formazione che ho preferito, tra le tante assunte dal gruppo di Davis, con il nipote Vincent Wilburn alla batteria, Robben Ford alla chitarra e Bob Berg al sassofono.

In quel concerto si potè assistere all’esecuzione di un repertorio quasi del tutto sconosciuto al pubblico. Infatti dopo la partenza di una “You’re under arrest” eseguita a passo di carica, si dipanò per la sua parte più significativa lungo i brani di “Rubberband” nella sua prima parte, e poi di “Tutu”, che sarebbe stato pubblicato solo alcuni mesi dopo. Questi ultimi furono eseguiti oltretutto in una forma più umana e intimista, per quanto possa sembrare paradossale, rispetto alle versioni ascoltabili su disco, tale da rendere loro la giustizia che indubbiamente meritavano.

In quel modo i brani di “Tutu” non ho più avuto la possibilità di sentirli suonare. Anche nella raccolte che racchiudono rispettivamente i DVD e i CD tratti dalle sue esibizioni al festival jazz di Montreux, quelli relativi al concerto eseguito pochi giorni dopo, purtroppo non sono la stessa cosa.

Di questo ho la certezza, dato che in quell’occasione registrai il concerto, con un Walkman Professional e un microfono stereo. Ne uscì una cassetta strabiliante, di gran lunga la più bella che abbia mai potuto realizzare, e interessante anche come sonorità, dato che ero piazzato centralmente rispetto al palco, alla stessa altezza degli esecutori e a poca distanza da essi.

Quella formazione ebbe purtroppo vita breve. Alla fine dell’agosto 1986 Ford ne sarebbe uscito. Del resto già nelle registrazioni di Montreux dello stesso anno ha uno spazio decisamente minore rispetto a quello che si ritagliò in quella serata indimenticabile.

L’anno dopo Davis si presentò a Perugia con un gruppo del tutto diverso, quello con Foley al “basso solista”, un piccolo accordato un’ottava più in alto del normale e adoperato come una chitarra, sia pure a sole quattro corde, Kenny Garrett al sassofono, Benny Rietveld al basso, Kei Akagi alle tastiere e Ricky Wellman alla batteria.

Mi sarebbe piaciuto molto poter riascoltare dal vivo almeno parte delle esecuzioni romane dell’anno prima e un po’ ci speravo, pur sapendo della continua evoluzione del repertorio davisiano. La scelta dei brani invece era parecchio cambiata e anche il suono del gruppo non era più lo stesso, per quanto l’imprimatur del trombettista dominasse comunque.

Durante quel concerto, malgrado l’atmosfera dispersiva tipica degli stadi, avvenne qualcosa che mi è accaduto di provare solo pochissime altre volte. Quella formazione, nelle sue escuzioni, emanava un’energia, una sensazione di padronanza assoluta del repertorio e soprattutto di coesione estrema spinte al punto e con forza tale da dar vita a una sorta di fluido, intangibile ma pure percepibile senza difficoltà. Se è complicato esprimere a parole quella sensazione, le rarissime volte che mi è capitato di provarla, riconoscerla non è mai stato un problema.

Definisce il livello di un gruppo quando suona a livello stellare.

Purtroppo, per questo non c’è modo di avere un riscontro: le raccolte appena menzionate passano dal 1986 direttamente al 1988, dando l’idea che nel 1987 Davis non abbia suonato a Montreux, malgrado in quelle date si trovasse a una distanza relativamente breve dalla città svizzera. Certe cose oltretutto tendono a perdersi nel corso del procedimento atto a fissare su supporto fonografico quel che era nell’aria di fronte al palco. E’ anche vero tuttavia che da una serata all’altra il livello dell’esecuzione di un gruppo può variare in maniera evidente, pur se formato da professionisti superbi come quello di Miles Davis.

Quella formazione ho avuto modo di vederla all’opera alcune altre volte, ma non è più riuscita a diffondere la stessa magia. Che d’altra parte non è roba che si produce in serie.

Ecco, la mia modesta rievocazione del Miles Davis che ho avuto la fortuna o meglio il privilegio, sia pure meramente anagrafico, di poter seguire “dal vivo” termina qui. Non c’è motivo di andare oltre, anche se di cose da dire ce ne sarebbero ancora tantissime. E forse non avrebbe neppure senso: una volta che un musicista insieme al suo gruppo riesce a farti provare certe sensazioni, continuare a parlare non serve a molto.

Proprio perché come diceva Miles “La musica parla per sé stessa“.

Miles potrà non esserci più fisicamente, ma vive ancora: in me, in Ron, in Wayne e in tutte le persone che hanno suonato con lui. In qualche modo l’arte di Miles si riflette in tutto ciò che facciamo, nella nostra musica e nella nostra vita, e finché ci saranno musicisti impegnati a sondare i propri limiti e sperimentare idee nuove, Miles continuerà a vivere.

(Herbie Hancock – Possibilities)

Vive anche, possibilmente in maniera ancora più intensa, in tutte le persone che hanno apprezzato la sua musica, qualunque essa fosse, che continuano ad ascoltarla con la stessa partecipazione del primo giorno e ne hanno compreso l’assoluta genialità del precursore. Non lo è stato solo una volta nel corso della sua vita, come avviene in genere per questa specialissima categoria d’individui, ma per l’intero mezzo secolo durante il quale ha calcato le scene.

Ogni volta circondato dalle critiche dei benpensanti che non avevano ricevuto il dono di un senso della musica e della capacità necessaria a comprendere la sua perenne fuga in avanti.

 

“Miles, non so cosa suonare!”

“Allora non suonare nulla.”

 

 

 

 

 

 

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