Ho cambiato amplificatore e sono scontento. Ora che faccio?

Andrea di Vicenza mi ha inviato il messaggio che segue;

Buongiorno Claudio.
Innanzitutto un grazie per l’ospitalità e per il riscontro al mio commento sul tuo bellissimo articolo “Dieci piccoli inglesi”, quindi un grazie per l’aiuto qui offerto per l’eventuale miglioramento al suono del mio impianto.

Come detto, dal ‘94 ho avuto un amplificatore NAD 302 per lungo tempo abbinato ad una coppia di B&W DM600i a sospensione pneumatica, posizionata in una libreria. Con questo impianto seppur modesto ho ottenuto sonorità gradevoli senza bisogno di sostituzioni fino allo scollamento delle sospensioni in gomma.

Mi è capitata l’occasione di due bellissime Sonus Faber Concertino Home con piedistalli dedicati ma al piacere della vista, purtroppo, non è corrisposto un pari piacere all’ascolto. Le ho rivendute non prima di averle provate in un negozio con altri amplificatori, temendo fosse il NAD la causa dell’insuccesso.

Sembra strano, data anche la classe degli altri apparecchi utilizzati (Hegel, Primare), ma il suono che preferivo usciva ancora dal mio NAD. Così decisi di tenerlo come punto fermo della catena, lasciai le S.F. in quel negozio e, dopo qualche comparativa con altri diffusori, presi delle B&W CM5 S2 su stand che tenni per quasi un anno.

Ma il suono tipico della cassa chiusa mancava e così le sostituii con le attuali Harbeth P3ESR, tornando al riposizionamento in libreria e liberando anche la stanza dagli scomodi ingombri. Ero pienamente soddisfatto!

Però poi mi sono chiesto: ma se con questo piccolo e vecchio amplificatore le voci delle dolcissime Eva Cassidy e Cesaria Evora paiono veramente rivivere nella mia stanza, gli originali vinili di Frank Zappa rivelano finalmente quel che è stato il suo genio, il rock dei Deep, il blues di Jimi, il jazz di Coltrane o le atmosfere di Claudio Rocchi, o ancora la batteria di Blakey, il reggae o la classica, se tutto risulta sempre così reale, cosa mai potranno offrire queste magiche scatolette se collegate ad un amplificatore maggiormente all’altezza?

A giugno 2020 acquisto un Rega Brio, dopo aver letto solo entusiastici commenti e recensioni specialmente nell’abbinamento proprio con le Harbeth P3; insomma, questo inglese, anche in rapporto al suo prezzo effettivamente ancora umano pur trattandosi di 900 euro, sembra realmente un buon prodotto e pare promettere ottime aspettative. Mi decido e lo ordino.

Intanto faccio l’errore di non attendere il suo arrivo prima di mettere in vendita, seppur a malincuore, il vecchio amplificatore, che solo dopo qualche minuto di esposizione su un famoso sito si rivela una preda golosa. Lo spedisco lo stesso giorno malgrado una sempre maggiore convinzione di fare una fesseria.

Arriva il Brio e lo collego. Il suono è oltremodo dilatato, c’è troppa spazialità e non si coglie il brano nel suo insieme, le voci non “escono” come prima anzi sono più arretrate e quasi nasali, non emoziona più nulla e manca di calore. Forse è solo questione di rodaggio penso, in ogni caso rimango molto amareggiato. Deluso proprio.

Nel frattempo leggo altre informazioni in rete, scopro anche il tuo bel sito, l’importanza dei cavi (ma caspita, ho usato gli stessi cavi da supermercato per quasi 30 anni e con loro il NAD ha sempre suonato ottimamente! possibile?) ed insomma, un po’ alla volta, cerco comunque di migliorare quello che ho. Procedo con:

1) Nuovo cavo di alimentazione generale di generosa sezione e nuova ciabatta elettrica con verifica delle polarità fase/neutro sin dalla presa a muro;

2) sostituzione del cavo di alimentazione del Brio con un Wireworld Stratus 7;

3) trattamento interno antirombo nel dac Creek Evolution 50cd (collegato ad un Imac tramite fibra ottica), sostituzione dei cavi di segnale con dei Wireworld Luna 8;

4) migliorie al fedele Thorens td 160 (con onestissima Sumiko Oyster) con eliminazione della  massa in origine condivisa con uno dei negativi di segnale e connessione ad un morsetto dedicato su una vaschetta ricavata per le nuove prese RCA sul retro, cavi di segnale Van Den Hul D-502 con relativi connettori, vaschetta IEC protetta da interruttore e nuovo cavo di alimentazione. A finire anche per lui un trattamento interno con materiale antirombo;

mantengo i vecchi cavi G&BL per il collegamento dei diffusori, che provo anche a posizionare su stand a quindi a minore altezza rispetto al loro posto in libreria, pure avvicinandoli per ridurre il senso di spazialità che trovo eccessivo ma i risultati non convincono, anzi peggiorano, così li ripristino al loro posto.

Ascolto la musica in questa configurazione ormai stabile da quasi un anno: che dire? di sicuro il suono è meno freddo e distaccato rispetto al primo impatto, più godibile, la differenza si percepisce e il miglioramento c’è stato; forse il rodaggio del Brio può ritenersi concluso o forse il tempo ed il continuo utilizzo possono ulteriormente affinare tali caratteristiche.

Resta il fatto che le vecchie “buone vibrazioni” che regalava quel NAD (e che purtroppo ricordo ancora bene) sono andate perse e a volte mi capita di cercarne uno sui mercatini dell’usato, magari solo per togliermi la curiosità di una verifica con le migliorie apportate al resto.

Un cordiale saluto e ancora grazie per la disponibilità.

Per cominciare un ringraziamento ad Andrea per la sua bella lettera, con cui descrive una successione di eventi che con ogni probabilità ciascun appassionato ha sperimentato almeno una volta nella vita. Seguito dai complimenti per il suo coraggio: non tutti infatti sono disposti ad ammettere che dopo aver speso una bella sommetta per acquistare un prodotto all’ultimo grido della tecnologia e della modernità, si perviene alla conclusione che era meglio quello di prima, anche se in teoria non dovrebbe esistere proprio la possibilità di un confronto.

Detto questo, i problemi sollevati dal suo racconto sono tali e tanti che ci vorrebbe non uno ma dieci articoli dei miei, quindi belli lunghi, per affrontare con il minimo di esaustività ognuno di essi.

Allora partiamo da quelli spiccioli, per poi affrontare i più complessi. Ormai da tempo le sospensioni degli altoparlanti si sostituiscono se rovinate o si rincollano se distaccate. Non c’è bisogno di cambiare diffusore, a meno che ovviamente non lo si desideri e per questo si coglie l’occasione.

Come ho spesso occasione di rilevare, se comprendere l’esistenza di un difetto può non essere difficile, anche se molti scambiano i pregi per difetti e viceversa, individuare esattamente la sua origine è tutto un altro paio di maniche.

Lo stesso vale per i fenomeni che hanno luogo nell’ambito della riproduzione sonora: allo scopo un retroterra culturale di un certo rilievo può essere d’aiuto. Fare affidamento ai luoghi comuni, invece, è la garanzia migliore per continuare a brancolare nel buio.

La differenza realmente significativa tra i diffusori che hanno sostituito i DM 600 non è data dal sistema di caricamento che utilizzano, il quale semmai mostra i suoi effetti soltanto in una porzione limitata dello spettro udibile, bensì dalle differenze profonde già nell’approccio alla progettazione di ciascuno di essi.

L’Harbeth è un esponente, autorevole, della scuola inglese: come tale tende a riproporre il rigore timbrico che ne è l’elemento più spiccato e caratterizzante. L’altro invece è realizzato da un marchio che volenti o nolenti ha cercato di compiacere il pubblico in molti modi, a iniziare dalla componente visiva, cui ha attribuito sempre la più grande importanza. Un criterio simile, almeno in linea di principio, dà l’idea di essere stato adottato per la sonorità di molti suoi modelli, destinati innanzitutto a compiacere l’ascoltatore, scelta con i suoi pro ma anche i suoi contro, che in situazioni specifiche possono prendere il sopravvento.

Quanto all’amplificatore, il Nad 302 è erede del leggendario 3020, amplificatore che a suo tempo si disse il più venduto nella storia della riproduzione sonora amatoriale. Nella linea di successione è stato preceduto dal 3220, l’integrato che avrebbe dovuto ripeterne le gesta e invece si è rivelato un tonfo senza pari, a causa della circuitazione Power Envelope che avrebbe dovuto rendere meno pesanti le limitazioni energetiche del modello precedente, cosa che avvenne in qualche misura, ma a prezzo delle doti sonore che ne avevano decretato il grande successo.

Il 3220 venne sostituito a sua volta dal 302 che personalmente non ho mai avuto modo di ascoltare, ma stando a quel che ci racconta Andrea sembrerebbe aver recuperato alcune tra le doti più interessanti del 3020.

Di quest’ultimo ho un ricordo piuttosto vivido, in quanto utilizzato in casa di un mio conoscente, proprio in abbinamento a una coppia di DM 600, o comunque ad essi molto simili e realizzati dallo stesso marchio: piccoli due vie da piedistallo anch’essi caratterizzati da una sonorità parecchio gradevole, pur nelle loro limitazioni.

Di fatto, quel sistema suonava in maniera più convincente rispetto a uno basato sugli stessi diffusori pilotati da un due telai Yamaha C6-M2 e completati da un subwoofer per estenderne la risposta alle ottave inferiori.

Certo, il due telai poteva suonare più forte e il sub attivo estendeva grandemente la risposta e l’impatto verso il basso. Tutto però finiva li: la grazia e la piacevolezza della coppia 3020 – DM 600 era un lontano ricordo.

Ennesima dimostrazione che è più facile far suonare bene un amplificatore piccolo rispetto a uno di potenza molto maggiore e che gl’impianti piccoli  e quelli grandi non possono far altro che essere gravati da problemi direttamente proporzionali alle loro dimensioni. E poi anche che un abbinamento indovinato, pur nei suoi limiti magari particolarmente evidenti, può dare soddisfazioni maggiori rispetto a qualcosa con cui un paragone non sarebbe neppure ritenuto possibile.

Tutto questo naturalmente vale solo e soltanto per il momento in cui quell’esperienza è stata fatta. Fermo restando che la poderosa amplificazione è stata surclassata dal nanetto, se non per potenza di sicuro per gradevolezza d’ascolto, è evidente che le valutazioni espresse in quel momento, in termini assoluti, non potevano che essere figlie dell’esperienza maturata fino a quel momento e dei parametri che allora si possedevano.

Oggi un amplificatore dalla veste così dimessa, scelta che all’epoca si sosteneva fosse stata fatta proprio per favorire le caratteristiche di quanto era celato alla vista ma influiva maggiormente sulla qualità sonora, sarebbe semplicemente improponibile e con ogni probabilità verrebbe rifiutato dal pubblico.

Lo stesso vale per la sua potenza di uscita, pari a 20 watt per canale: dato che già allora appariva modesto ma che oggi apparirebbe risibile e comunque non all’altezza di ogni impianto dal minimo di velleità relative alla qualità sonora.

Probabilmente nemmeno si realizzano più diffusori in grado di esprimere le loro doti ai livelli di erogazione propri degli amplificatori di quella generazione.

Qui prende forma il primo elemento di contraddizione nel susseguirsi degli eventi raccontati da Andrea. Non nel senso che possa aver raccontato una bugia ovviamente, ma perché ogni prodotto, nel bene e nel male, è figlio della propria epoca. Pertanto, al di là delle valutazioni personali esprimibili su uno qualsiasi di essi, sono molte le probabilità che una volta cambiati diffusori con altri nati in un’epoca differente e in cui i parametri tecnici sono diventati completamente altri, in particolar modo quelli relativi alla potenza media degli amplificatori, ci si ritrovi con un abbinamento che malgrado in teoria possa sembrare migliorativo, all’atto pratico non funziona.

O meglio: per funzionare funziona, dato che comunque dagli altoparlanti qualcosa esce. Però non ha più le prerogative che tanto si erano apprezzate, in via del tutto soggettiva non dimentichiamolo, all’interno di una combinazione di maggiore omogeneità, proprio in quanto basata su componenti figli della stessa epoca e delle medesime concezioni. Quindi dalle maggiori probabilità di abbinarsi correttamente l’uno con l’altro.

Per forza di cose a questo punto dobbiamo tirare in ballo il cambia-cambia, hobby preferito da tanti appassionati, che sembrano esserlo più della dimensione ludica e consumistica legata a un continuo susseguirsi di apparecchiature diverse, e alle relative modalità di compravendita, che non delle sensazioni ricavabili da un ascolto di musica davvero soddisfacente.

Insieme ad esso va chiamata in causa la logica che presiede alla sua induzione, quella tipica della pubblicistica di settore quale strumento di propaganda degli attori che operano nell’ambito merceologico di nostro interesse, intendendo come tale l’insieme di riviste, forum e siti allineati, il compito dei quali resta sempre lo stesso, quello di fare pubblicità e persuasione a favore del prodotto, tanto più efficaci nella loro presa sul pubblico quanto sono dissimulate.

Secondo il verbo che diffondono, qualsiasi cosa sia venuta dopo o altrimenti più grande, potente e costosa deve essere per forza di cose migliore di quella precedente o che lo è di meno. Sempre in base a una logica legata ai numeri, i quali lo abbiamo detto più volte non sono inutili come sostengono molte fonti ma dannosi, in quanto ingannevoli.

Un amplificatore più potente non dev’essere per forza di cose migliore di quello che lo è di meno. Spesso anzi è vero l’esatto contrario, in virtù di una realtà che un tempo era ben nota a un qualsiasi appassionato. Poi però si è fatto in modo di cancellarla, o meglio celarla alla vista dei più: per una lunga serie di motivi, costruire un amplificatore di grossa taglia che suoni bene è enormemente più difficile e costoso rispetto a uno di potenza ridotta.

Lo stesso vale in larga parte anche per il prezzo di listino: il prodotto più costoso non è detto sia migliore, in funzione della politica commerciale di fabbricante e distributore, nonché della suddivisione dei costi di produzione tra le sue diverse componenti.

Un amplificatore col frontale tempestato di diamanti e provvisto di vu meter grandi come TV a grande schermo, proprio quelli che vanno tanto di moda ora, ha ottime probabilità di essere peggiore di uno dalla veste più dimessa, ma per il quale gran parte dei costi di produzione non sia stata devoluta a fini di orpello ma alle parti più critiche per il comportamento sul campo e le doti sonore.

Batti oggi, batti domani, e ormai il bombardamento a tappeto va avanti da decenni, le persone si convincono che senza i vu meter blu dipinti di blu non si possa vivere e ascoltare sia sacrilego. Si muovono così nella direzione verso cui si è fatto di tutto per spingerle, credendo di trovare chissà cosa, per poi fare i conti con l’amara realtà e con un portafogli per forza di cose più vuoto.

La cosa peggiore, in tutto questo, è che a volte neppure ci si rende conto della povertà sonica delle apparecchiature costruite in primo luogo per apparire. Ci si convince anzi che dev’essere quello il modo giusto di suonare, proprio in quanto esibito da apparecchiature tanto costose e osannate.

A quel punto le possibilità di recupero si riducono al lumicino.

In questo meccanismo sono stati cooptati anche gli stessi destinatari del prodotto e della propaganda ad esso associata, mantenendoli nella loro funzione di vittime, ma portandoli anche a essere persecutori. Secondo la medesima logica dei kapò nei campi di concentramento. Chiamati a un compito per forza di cose oltre le loro possibilità, proprio in quanto manchevoli dell’esperienza e del minimo di cognizioni tecniche necessarie allo scopo, si rivelano però i persuasori più efficaci, proprio perché ritenuti dall’appassionato al loro stesso livello e quindi in grado di esprimere una valutazione più sincera e meno legata alle logiche tipiche del sistema d’informazione.

Il meccanismo è la stesso con il quale si sono creati i 5 Stelle, gente che doveva aprire la scatoletta di tonno, ma se lo ha fatto è stato unicamente per divorarlo fino all’ultima briciola.

In realtà in merito ai recensori della domenica, o del dopolavoro se si preferisce, le cose stanno esattamente all’opposto. Primo per la mancanza del retroterra necessario in termini tecnici, culturali, critici e di sensibilità. Secondo perchè l’interesse che c’è dietro al giudizio espresso da costoro può essere persino più pressante di quello di un addetto ai lavori.

Dato che in genere si descrive l’oggetto che si possiede, non ha nessun senso esprimere un giudizio negativo, potenzialmente pregiudizievole alla sua rivendita. Inoltre è difficile ammettere con sé stessi di aver commesso un errore e di aver gettato denaro dalla finestra. Quindi ci si sforza di trovare qualche punto positivo nell’oggetto per il quale si sono spese magari somme di una certa rilevanza, il più delle volte ininfluente o del tutto inesistente. Infine, e qui arriviamo al peggio, su tutto prevale lo spirito di emulazione che trasuda in maniera plateale dal tenore e dalla terminologia di quei giudizi, per forza di cose originato dal parlare bene di tutto e della corsa conseguente a chi la spara più grossa. Di qui un’ulteriore forzatura di quella tendenza, stante la volontà di far vedere di essere all’altezza e quindi le si spara ancor meglio, che porta a risultati grotteschi.

Paradosso nel paradosso, quanti in tale andazzo riescono a mettersi più in vista, con metodi che non possono essere altro che un’esasperazione di quelli che abbiamo appena elencato, vengono cooptati dalle stesse fonti d’informazione più o meno ufficiali, coi risultati che è facile immaginare.

Primo tra i quali l’induzione di un circolo vizioso di efficacia straordinaria, causato dall’instaurazione di uno spirito di emulazione volto al peggio, i cui risultati sono l’abbrutimento del pubblico e la cancellazione di qualsiasi residuo di credibilità per quelle fonti.

D’altronde chiunque abbia il minimo di serietà e amor proprio non può durare a lungo in quei begli ambientini. Per quanto mi riguarda a un certo punto, circa una ventina di anni fa, ho sentito sempre più forte il sentimento di vera e propria vergogna per il fatto che il mio nome figurasse fianco a fianco con quelli di gente tanto incompetente e priva di scrupoli, nonché dedita consciamente a una diffusione di fandonie priva di remore, nell’ambito di una testata decaduta al punto di fare della rincorsa alla qualunque e alla corbelleria più grossolana e inverosimile non un marchio di fabbrica ma il credo fondamentale del suo stesso motivo di essere.

La moneta cattiva scaccia quella buona dice una massima ben nota in ambito economico. Come vediamo è valida anche in tanti altri settori.

 

Il lato economico

Una volta inquadrata la prospettiva storica e ambientale all’interno della quale avvengono i fenomeni di nostro interesse, dobbiamo anche tenere conto dei metodi necessari a eseguire un paragone corretto. Non avrebbe senso mettere a confronto oggetti tra i quali vi sia un marcato squilibrio in termini tecnici e di costo.

Se questo è facile da fare per oggetti più o meno della stessa epoca, quando a separarli c’è qualche decennio le cose si fanno più complesse.

Allora andiamo a vedere il dato economico. Allo scopo prendiamo i dati dell’Istat, il noto ISTituto delle STAtistiche Taroccate, pagate coi soldi dei contribuenti affinché questi ultimi, dati alla mano, siano convinti di una realtà inesistente.

Infatti quell’istituto media notoriamente i suoi calcoli in funzione delle necessità politiche del momento, per mezzo dei sotterfugi noti a chiunque abbia un minimo rudimento di statistica. Pertanto, riguardo all’aspetto che c’interessa, non tiene in considerazione almeno un elemento, quello ben noto a chiunque abbia oggi più di 35 anni. Nell’anno 2002 si ebbe un raddoppio istantaneo dei prezzi al pubblico, dovuto al fatto che se il tasso di cambio ufficiale tra la Lira e l’euro appena entrato in vigore era di circa 2000 a 1, duemila Lire per un euro, quello reale divenne subito 1000 a 1.

A inaugurare la tendenza furono le stesse istituzioni dello Stato, che approfittarono del passaggio per apportare un sostanzioso ritocco a tariffe e servizi.

Questa realtà, sempre negata da politici, economisti e qualsiasi altra figura a libro paga di banche, partiti politici e istituzioni varie, è invece perfettamente nota all’uomo della strada, che ricorda perfettamente come all’improvviso si è trovato, con uno stipendio calcolato in Lire e convertito in euro al tasso ufficiale, a dover fronteggiare prezzi di merci e derrate espressi al cambio di un mercato nero legalizzato e perfettamente alla luce del sole, che di fatto erano raddoppiati.

Dunque con il denaro che aveva a disposizione poteva comprare si e no la metà di quel che avrebbe potuto fino al giorno prima.

E’ stato così che la moneta che doveva fermare l’inflazione una volta e per tutte, strumento di un’Unione che si è posta come primario proprio quel fine, sia pure con un costo sociale altissimo, scaricato senza tanti complimenti sulla collettività e in particolare sulla parte più debole di essa, in realtà ne ha prodotta una mille volte più marcata e distruttiva.

Allo scopo naturalmente si era provveduto a cancellare qualsiasi meccanismo di salvaguardia, proprio con la scusa che creava inflazione, quando invece ne era la mera conseguenza.

Infatti, una volta venuta meno la cosiddetta scala mobile, l’aumento dei prezzi al dettaglio ha continuato a fare il suo lavoro, abbattendo il potere d’acquisto dei salari, quindi svalutandone il valore effettivo.

Così, invece di essere calcolata in percentuali che nel caso peggiore erano arrivate fino ad allora massimo al 20% annuale, dato di fronte al quale ci si strappavano i capelli e le Cassandre televisive e della carta stampata urlavano al disastro, la moneta unica ne ha prodotta una del 100%, da un giorno all’altro. Ma senza che nessuno abbia fatto una piega.

Anzi abbiamo avuto fior di economisti e docenti universitari che da una TV già allora a reti unficate spiegavano che quella dell’uomo della strada era solo una “percezione”. Di conseguenza errata.

Scatenando la rabbia degli ospiti presenti in studio presi dal popolo, che a quel punto si capì che è meglio non mettere più di fronte alle telecamere se si vuol far credere alle cose più inverosimili, cosa che in effetti è stata.

Ne è conseguito che una tra le principali monete occidentali, i cui ideatori avevano persino la velleità di farle sostiture il dollaro come valuta di scambio primaria, si è posta alla stessa stregua di quelle del terzo mondo o dell’est europeo di una volta, in cui nei fatti vigeva il doppio cambio. Quello ufficiale, con cui venivano calcolati stipendi e retribuzioni, e quello reale, del mercato nero, per l’acquisto del necessario a sostentarsi.

Naturalmente i dotti e i soloni summenzionati finsero di non accorgersi del fenomeno, applicando quella che è la loro vera e sola specialità, la visuale selettiva, in funzione della mano che riempie la loro ciotola.

Fino all’istante prima il doppio cambio era stato deriso nel mondo capitalista, nonché menzionato ogniqualvolta occorreva dare una nuova dimostrazione della superiorità occidentale, tranne poi fare pure di peggio. Perché un conto erano le valute dell’est europeo e quelle sudamericane ai tempi della contrapposizione con i cosiddetti paesi avanzati, ben altro è la realtà attuale dell’Unione Europea, che vorrebbe ergersi a faro di civiltà e insieme ai suoi destini magnifici e progressivi è decantata da ogni pennivendolo di regime degno di questo nome.

Per quanto le statistiche ufficiali si ostinino tuttora a fingere che questa realtà non sia mai esistita, con il ricorso a tutto l’arsenale di espedienti, molti dei quali puerili, messo a disposizione dalle scienze di calcolo, ce n’è una che lo suggerisce sia pure in maniera indiretta. E’ quella che riguarda la caduta del risparmio delle famiglie italiane, storicamente secondo solo a quello dei giapponesi.

Ora siamo tra gli ultimi anche sotto questo profilo. Possibile mai che con l’entrata in vigore della moneta unica gli italiani si siano trasformati all’istante da grandi risparmiatori a spendaccioni incalliti?

Come ogni statistica, anche quella del titolo qui sopra ha la stessa valenza di quella di Trilussa: se per ogni due persone si consumano due polli, ce n’è una che li mangia entrambi mentre l’altra resta a bocca asciutta.

Più importante ancora è osservare le scuse fanciullesche accampate da quei servi pur di non parlare delle vere cause del fenomeno. Ossia la volontà dei ceti dominanti di abbattere il valore reale delle retribuzioni, loro lo chiamano “aumento della produttività”, e disciplinare il mondo del lavoro, quindi le classi subalterne. Così da fluidificare lo spostamento di ricchezza dal basso verso l’alto.

Per questo e non altro è stata architettata la moneta unica.

Il testo leggibile nell’immagine è a dir poco emblematico.

Ormai siamo al punto che addirittura il 60% delle famiglie italiane non riesce ad arrivare a fine mese. Eppure nessun Ministro dello Sviluppo Economico ha mai avuto il buon gusto di rassegnare le dimissioni.

Stante la realtà in cui il nostro Paese è immerso ormai da un ventennio, e senza che se ne veda la fine, c’è da chiedersi perché non si abolisca quel Ministero, o almeno lo si sostituisca con il Ministero dell’Impoverimento Dilagante.

Dite che sarebbe brutto e politicamente inopportuno? Forse. Quantomeno perderebbe il suo connotato genuinamente orwelliano e recuperebbe a politica e istituzioni il minimo addentellato con la realtà che esse stesse hanno prodotto. Obbedendo a tutti tranne a quelli che pagano i loro costi e gli stipendi dei loro funzionari, e secondo la Legge Fondamentale dello Stato sarebbero i titolari della sovranità. Forse è per questo che ci si ostina a non volerla vedere, quella realtà.

Dunque tutto il monte-risparmi lo si deve al 40% della popolazione maggiormente privilegiato. Polarizzazione sociale che è un altro tra i portati salvifici dell’UE e della sua moneta falsa fin dai presupposti, in quanto espressione della volontà di rapina e di stravolgimento sociale di un’élite finanziaria e non certo dell’economia reale di uno Stato o gruppo di essi.

Naturalmente l’eurotomane incallito, divenuto giocoforza sordocieco a furia di perseverare nel suo vizio, gongolerà orgoglioso di fronte a questi dati: “lo vedete che gl’italiani sono un branco di spendaccioni e lazzaroni? Lo sono a tal punto che non sono più capaci di arrivare manco a fine mese…”

In realtà attribuire a un qualsiasi importo il potere d’acquisto effettivo che ha avuto in passato è compito praticamente impossibile. Dato che in tale operazione non è soltanto il tasso di svalutazione ufficiale della moneta ad avere la sua importanza, calcolato oltretutto in funzione delle opportunità del momento, ma anche una serie di altri fattori come l’ammontare delle retribuzioni medie, il loro rapporto coi costi di merci e derrate, la pressione fiscale, l’ammontare delle tariffe, il tasso reale di disoccupazione e le condizioni concrete del mercato del lavoro, la velocità di circolazione della moneta e così via, che determinano di fatto la percezione riguardante la rilevanza più o meno grande di una certa somma.

Lo diviene ancora di più quando si instaura il doppio corso per una qualsiasi moneta. Quello secondocui qualsiasi cifra l’uomo della strada debba spendere è comunque irrilevante, mentre invece se deve riceverne anche una di molto inferiore, essa diventa a un tratto ingentissima.

C’è da dire poi che il rapporto coi prezzi delle derrate è spesso ingannevole, in quanto se il loro nome rimane lo stesso, la loro composizione cambia o addirittura viene stravolta. Facciamo l’esempio della pasta alimentare, elemento principe a livello nazionale di ogni paniere utilizzato per il calcolo dell’inflazione: quella oggi in commercio non ha più nulla a che vedere con quella di allora, quindi non può che contribuire a falsare i risultati di un’indagine che usi quale parametro i suoi prezzi. E’ divenuta talmente insalubre da aver casuato il diffondersi di malattie prima ignote ai più, come la celiachia. Viene prodotta addirittura con ingredienti che si fanno passare per farina ma in realtà sono rifiuti tossici, come quella proveniente dal Canada, tale è la quantità di residui di erbicidi e altri veleni in essa contenuti. Laggiù è vietata persino per l’alimentazione animale e andrebbe smaltita con costi rilevanti. Qui da noi invece la si è resa legale addirittura per l’alimentazione degli esseri umani, grazie ancora una volta all’unione europea, il minuscolo è d’obbligo. E in particolare alla pressante azione di lobby di cui si è fatta volenterosa ricevente, inclusi i giri di sostanziose mazzette che ne sono l’elemento funzionale primario, ai quali i decisori e funzionari di quella centrale di corruttela sono per antonomasia particolarmente sensibili.

L’UE quindi non si limita a ridurci sul lastrico ma fa di tutto per avvelenarci, secondo la prassi di uno sterminio di massa, autorizzando materie prime adibite agli alimenti di più largo consumo che in realtà sono rifiuti tossici, come spiega la stessa Coldiretti.

Preso atto di tutto questo, che per molti potrà sembrare fin troppo prolisso, sempre secondo le esigenze della sintesi che di fatto ne fanno la forma più subdola di censura, ma è necessario per eseguire un confronto che abbia una minima probabilità di essere corretto, nel 1982, anno della sua presentazione, il Nad 3020 costava 290 mila Lire. Proviamo allora a fare un raffronto con il dicembre 2020, ultimo mese per cui vi sono dati disponibili ai fini del calcolo che c’interessa.

Secondo le fonti dell’Istituto specializzato nella statistica taroccata, di meglio d’altronde non ce n’è, il necessario per acquistare il Nad 3020 equivale a 1015,95 euro, per un aumento pari al 725,95%.

Che la statistica sia taroccata e non abbia addentellato alcuno con la realtà di allora e men che meno con quella attuale è evidente per chiunque sia vecchio abbastanza: nel 1982 anche lo stipendio più magro era ben superiore a 290 mila lire mensili. Oggi tanti giovani lavorano a tempo pieno per molto meno di 1015 euro.

Facciamo finta di nulla e vediamo che 11 anni dopo, nel 1993, il Nad 302 costava 483 mila lire. Secondo quell’istituto equivarrebbero ai 795,61 euro di oggi, con un incremento pari al 312,61%.

Per quanto fosse tra i meno sostanziosi in assoluto, il mio stipendio del 1993 era più del doppio di quella somma, mentre gli 800 euro di oggi equivalgono appunto al salario medio di tanta gente, che deve anche ritenersi fortunata perché ha ancora un lavoro e per questo viene chiamata a prestazioni straordinarie in forma gratuita. Il che di fatto equivale a un’ulteriore diminuzione del valore reale della retribuzione.

Dunque oggi il costo del Rega Brio menzionato da Andrea o di un amplificatore equivalente, secondo le statistiche è all’incirca il doppio di un 3020 o di un 302, ma in realtà è ancora maggiore.

Il mercato per forza di cose si è ristretto, quindi i ricavi necessari a tenere in piedi una qualsiasi attività vanno ripartiti su un numero di pezzi venduti parecchio inferiore. Inoltre, come dicevamo prima, oggi amplificatori come quelli degli anni 80 e 90 non sarebbero accettati dal mercato. Innanzitutto per la loro veste estetica e poi per le loro caratteristiche tecniche.

Ci sono anche altri elementi da considerare. Al primo posto metterei l’abitudinarietà. Ci si assuefa a una particolare tipologia di suono, che può avere i suoi pregi e i suoi difetti, e senz’altro questi ultimi li ha, dato che altrimenti non verrebbe mai in mente di cambiare. Fermo restando che è sempre più difficile resistere al canto delle sirene rappresentato dalla parole alate con cui la pubblicistica di settore indora l’apparenza di qualsiasi prodotto le venga sottoposto.

Quando ci si abitua a un tipo di suono e si va avanti con quello molto a lungo, l’impatto con quel che viene prodotto da apparecchiature di trenta o più anni dopo può essere traumatico. Proprio secondo i termini descritti da Andrea. Sotto questo aspetto c’è anche un altro elemento che va considerato. Si tratta del progressivo calo delle prestazioni, non solo sotto il profilo energetico, che si ha con l’invecchiarsi dell’apparecchiatura utilizzata. Risulta difficile accorgersene, dato che avviene secondo un processo di estrema gradualità.

Quindi in un impiego dell’apparecchiatura giorno per giorno si va avanti tranquillamente, ma se per caso la si mette da parte per un lasso di tempo sufficientemente lungo, in favore di qualcosa di più fresco, nel momento che la si va a riprendere in mano è alquanto più facile avere quell’impressione inerente una mancanza di verve generalizzata.

Una riprova potrebbe essere quella di un confronto con lo stesso amplificatore appena uscito dalla linea di montaggio, cosa purtroppo impossibile.

Dunque, ora Andrea vorrebbe tornare al suono che aveva prima. L’esperienza suggerisce però che non si ritroverebbe più neppure con quello, dato che ciò che definisce “troppo”, in termini di separazione, dettaglio, dinamica eccetera, ha comunque influenzato il suo modo di ascoltare, che per forza di cose non è più quello di prima.

Ora, quindi, riuscirebbe a cogliere con molta più facilità i limiti di ciò che aveva prima, inquadrandone l’effettiva valenza. Poi ovviamente nulla toglie che anche nella loro presenza si possa avere una riproduzione in qualche modo gradevole, soprattutto secondo canoni personali, sia pure sorpassati. Blanditi da una gamma media effettivamente piacevole, e solo se non si eccedono livelli di pressione sonora ancora una volta limitativi, insieme a ben poco d’altro.

Anzi, è proprio la sostanziale assenza di quell’ “altro” a dare maggiore risalto alle medie, in effetti riprodotte in maniera gradevole, ne va dato atto, cosa che del resto è stata la fortuna di quella serie di elettroniche.

Quanto detto fin qui suggerisce che in alcuni casi possano essere proprio i limiti di determinate apparecchiature a renderne più gradevole l’ascolto. Questo era il caso del 3020 e in qualche misura dei suoi successori, ed è ciò che ha prodotto in concreto la sua tipicità. Che ha bisogno delle condizioni di contorno necessarie affinché possa estrinsecarsi e non a caso viene meno non appena si cambia un ingrediente della ricetta, come appunto è accaduto quando si sono sostituiti i diffusori.

Personalmente ho avuto modo di ascoltare in maniera piuttosto apporfondita il Rega Brio e devo dire di averlo apprezzato parecchio. In primo luogo perché pur nelle sue inevitabili limitazioni si è rivelato in grado di esprimere una sonorità capace di dissimulare con ottima efficacia la sua realtà di amplificatore di piccola taglia.

Per quanto mi riguarda, allora, un paragone con gli amplificatori rimpianti da Andrea, caratterizzati oltretutto da una componentistica interna ormai esausta e dalla conseguente perdita di dinamica, energia ed estensione di risposta, sarebbe del tutto improponibile. La sua preferenza con ogni probabilità riguarda una sfera del tutto soggettiva ma non per questo meno significativa: un amplificatore e l’impianto di cui fa parte devono soddisfare innanzitutto il loro possessore. Poi gli si può spiegare, restando saldamente ancorati alla verità, che tecnicamente e per qualità sonora il nuovo è mille volte migliore, ma se a lui non piace c’è ben poco da fare.

Andrea rileva inoltre che anche usando dei cavi, quando prima usava il rosso e nero, il risultato non è cambiato in direzione deri suoi desideri. Come avrebbe potuto, essendo variate in ogni caso le condizioni di fondo? Nel caso daranno ancora maggiore risalto alle differenze invece di riportare alle condizioni desiderate, frutto come abbiamo visto di prerogative conseguenti a delle limitazioni di fondo, piuttosto che a qualità particolarmente spiccate.

Va detto inoltre che c’è cavo e cavo, e purtroppo quelli commerciali cui si rivolgono nella maggioranza dei casi gli utilizzatori di apparecchiature di quella classe hanno il più delle volte limitazioni marchiane. Dovute alle loro origini, alle modalità di fabbricazione e a una serie di altri elementi che abbiamo affrontato nello specifico con gli articoli ad essi dedicati.

Più di tutto andrebbe considerato che un cavo non può essere visto come una panacea in grado di risolvere ogni problema, qualunque sia la direzione da prendere a tal fine. Al limite quersto potrebbe essere possibile, ma solo con uno pensato e realizzato appositamente. Soprattutto va ricordato che il cavo è un elemento passivo. Come tale può solo far passare nella maggiore quantità possibile le informazioni presenti al suo comnnettore a monte, senza apportarvi degrado o contenendolo ai minimi termini.

C’è poi un altro aspetto di cui tenere conto: più un’apparecchiatura è raffinata, quindi veritiera nel suo modo di suonare, più ha facilità nel porre in evidenza i limiti degli altri componenti dell’impianto. Come rileviamo spesso, infatti, non è ancora nata l’apparecchiatura capace di riconoscere quel che piace al suo utilizzatore e di lasciar passare solo quello nascondendo il resto, e si può dubitare che vedrà mai la luce.

Pertanto, se al cambio di un componente ci si ritrova in condizioni apparentemente peggiorate, la prima domanda da farsi è se la colpa sia davvero della nuova apparecchiatura o invece il problema derivi da tutto quanto la circonda, la cui inadeguatezza proprio da essa viene messa in una nuova luce.

Alla luce di quanto detto fin qui, le incertezze di Andrea sono il risultato di tutto quello che dalla pubblicistica di settore viene sottaciuto. Essendo la propaganda il suo unico scopo di vita, non avrebbe senso andare a toccare argomenti che potrebbero penalizzarne l’efficacia. E’ poi affare dell’appassionato non risolvere i problemi che si materializzano regolarmente quando se ne seguono le esortazioni, ma almeno trovare il bandolo della matassa, che loro si guardano bene non dall’aiutare a rintracciare ma persino ad ammettere che ne esista una.

Compra e sarai felice, è il loro motto e la linea guida della loro azione. Compra di più e più lo sarai, più spendi e più ascolterai meglio, riducendo il tutto a una mera questione di portafogli.

Dato che riuscire a mettere le mani al suo interno è il loro unico ed esclusivo interesse.

Quindi Andrea in sostanza cosa avrebbe dovuto fare, rassegnarsi a tenere inalterato a vita il suo impianto, oltre ogni possibilità di sopravvivenza, rinunciando a qualsiasi ipotesi di miglioramento?

Oltretutto ciò che prende come termine di paragone è probabilmente un comportamento già degradato, stanti le limitazioni intervenute a causa dell’invecchiamento delle apparecchiature e in particolare della loro componentistica.

Inoltre, come già detto in precedenza, nel momento stesso in cui si valuta l’ipotesi di un miglioramento è implicito il riconoscere l’esistenza di un fattore limitativo. Cosa del resto nell’ordine delle cose, dato che la perfezione non è di questo mondo, e tantopiù nel caso specifico, per via degli aspetti appena menzionati.

C’è però una nota massima, che dice “squadra che vince non si cambia”. Invece di stravolgere la composizione dell’impianto, seguendo appunto i suggerimenti interessati di stampa e siti allineati, forse sarebbe stato più opportuno intervenire sui suoi elementi di base per migliorarne le caratteristiche. La cosa è possibile, soprattutto con apparecchiature di una certa anzianità la cui componentistica interna ha già fatto da tempo il suo dovere, quindi merita di essere sostituita. Utilizzandone di qualità adeguata, si otterebbe di restituire al tutto nuovo vigore, mantenendone sostanzialmente inalterata la caratterizzazione sonica di base, ottenendo in ultima analisi i risultati più in linea coi desideri del nostro amico.

A quel punto, utilizzando cavi realmente adeguati, l’intera catena ne avrebbe ricevuto un’ulteriore spinta in avanti, andando probabilmente a concretizzare sonorità tali da rappresentare il concretizzarsi delle ambizioni di chi utilizza quell’impianto.

Un’ultima considerazione: come accade quasi sempre, Andrea ha scritto quando ormai la frittata era fatta. A quel punto è difficile rimettere le uova nel guscio, fermo restando che con gli accorgimenti opportuni il suo impianto attuale non vedrebbe manco in cartolina quello rimpianto a tal punto. Allora facciamo una cosa, invece di chiedere lumi quando il danno è già fatto, facciamolo prima di causarlo: si risparmieranno soldi e con ogni probabilità si avranno soddisfazioni maggiori dal punto di vista soggettivo.

 

 

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