Pressori fonografici, come e perché

Tra le rare misure che almeno a livello teorico potrebbero avere qualche significato nell’ambito della riproduzione sonora, ci sono quelle riguardanti i giradischi, in merito alla velocità di rotazione e alle fluttuazioni della stessa.

Spiegano con quale precisione un giradischi sia in grado di approssimare il numero di giri prestabilito, di solito 33 e 1/3 al minuto oppure 45, e poi di mantenerlo il più possibile fisso, senza rallentamenti od oscillazioni attorno al valore nominale.

In realtà per i giradischi dotati di motore sincrono la velocità di rotazione è stabilita dalla frequenza di rete, che nel continente europeo è di 50 Hz ed il cui  valore può essere variato solo a prezzo di difficoltà estreme. Quindi possiamo sostenere che il motore sincrono, anche detto in alternata, si avvalga di una regolazione intrinseca per la velocità della sua rotazione. I motori asincroni invece, ossia quelli in continua, hanno la velocità di rotazione che dipende dalla tensione con cui li si alimenta. In genere li si sceglie quando si vuol dotare il giradischi di velocità regolabile finemente, per mezzo di un controllo che agisce su quel valore.

Quanto detto riguarda appunto il motore, poi trasferire al piatto la precisione e l’invarianza di quella velocità è un altro paio di maniche. Dipende essenzialmente dalla precisione con cui è calcolato e realizzato il sistema di trasmissione, a cinghia o puleggia che sia, oltre alle eventuali resistenze alla rotazione che possono verificarsi all’interno dell’alloggiamento del perno e sul suo cuscinetto reggispinta.

I trazione diretta non soffrono di problemi del genere. Ne hanno tuttavia di peggiori, motivo per cui quando la cultura dell’analogico non era stata ancora spazzata via dal digitale, causa a sua volta dell’analfabetismo di ritorno oggi così diffuso, ogni appassionato provvisto di qualche consapevolezza i trazione diretta non li voleva vedere neppure in cartolina.

In seguito si è affermata l’idea che se un giradischi va bene per un cambiatore di dischi, i cosiddetti disc jockey, che chiamandoli così la faccenda assume tutto un altro aspetto, non possa che essere l’ideale anche nell’ambito della riproduzione sonora domestica. A questo punto tanto vale alzare le braccia: se non si riesce a vedere la differenza, prima ancora di ascoltarla, e spesso non si ha alcuna intenzione di eseguire il confronto necessario o di prendere atto dei risultati che ne scaturiscono, stare a discutere diventa inutile.

D’altronde oggi del non considerare in maniera deliberata elementi fondamentali di una qualsiasi questione si fa persino vanto.

A questo riguardo mi torna alla mente il Grande Esperto Di Giradischi, il quale ha sostenuto che se un esemplare a puleggia di progettazione attuale, realizzato in base a criteri volti a perseguire almeno idealmente il meglio delle prestazioni ottenibili da quel sistema, si è comportato in maniera onorevole, allora tutti i giradischi a puleggia della storia non possono che condividere con esso la medesima perfezione ed esserne intimamente permeati.

Persino quelli la cui idea progettuale risale di fatto all’anteguerra e, come tali, non possono che essere l’auto degli Antenati messa di fronte a un vettore spaziale di ultima generazione,

Come spesso accade in questi casi, non ci si fa mancare nulla: inevitabile pertanto l’aggiunta che chiunque si azzardi a negare l’identità totale tra quegli oggetti così lontani è un incompetente o quantomeno è incorso in una contraddizione talmente grave da essere additato al pubblico ludibrio.

A quel punto non tarda a manifestarsi un coro unanime di approvazione, come sempre accade del resto quando si ricorre non alla qualunque, che sarebbe già qualcosa, ma proprio alla castroneria più plateale. Del resto, curiosamente, l’approvazione generale la si ottiene con tanta più facilità quanto maggiori e più inverosimili sono le fesserie che si vanno a diffondere.

Potenza del meccanismo di autoinganno, abbinato all’abdicazione volontaria alla comprensione, sia pure superficiale, del significato concreto di un qualsiasi discorso. Al riguardo resta il dubbio se certi meccanismi siano attuati in maniera deliberata oppure a propria insaputa, magari in seguito a ipnosi eseguita nei confronti di sè stessi.

Resta da chiedersi solo quale stato di disagio, nel vissuto individuale di certe persone, sia tale da portarle ad appoggiare qualsasi asserzione così evidentemente priva di fondamento , soprattutto quando si rivela utile a fare da pretesto per denigrare e delegittimare un loro simile.

Attività ai fini della quale ci si mobilità regolarmente in massa, per andare all’attacco del singolo, colpevole di opinione divergente, secondo la prassi tipica dello squadrismo. Eseguita naturalmente vantando l’osservanza indefettibile al più alto e puro spirito democratico.

Ennesimo indizio che le dinamiche tanto frequenti a verificarsi nei luoghi del virtuale non possano altro che ricalcare quelle della realtà concreta e, più che uno studio a livello sociologico, per essere analizzate come meritano avrebbero bisogno dell’aiuto di una corposa manualistica inerente gli argomenti della psichiatria.

 

Dal motore al piatto

Nell’efficacia di trasferimento dell’energia meccanica dal motore al piatto hanno importanza la precisione delle lavorazioni inerenti le parti coinvolte e poi la loro lubrificazione, elemento questo fisiologicamente trascurato da numerosi utilizzatori, che spesso utilizzano anche il tipo sbagliato di olio.

Quello per i motori di automobile, per quanto costoso e raffinato, non va bene. L’ideale sarebbe utilizzare l’olio previsto dal costruttore del giradischi. In mancanza si può ricorrere a quello per macchine per cucire, tipo il Singer che si trova un po’ dappertutto, per pochi euro. Ci sono poi quelli speciali realizzati da alcuni marchi, generalmente costosi, il ricorso al quale è a scelta dell’utilizzatore.

Fino a che il problema lo si osserva a livello del piatto, ossia l’elemento su cui si eseguono le misure summenzionate, possiamo ritenere che tutto vada bene. Un altro conto però è quel che accade al disco, per una serie di motivi provvisti della loro importanza oltreché di un evidenza marchiana.

Tuttavia il misuratore che della sua attività fa comandamento divino, autoeleggendosi pertanto ad amministratore del relativo culto con tutti i crismi d’infallibilità che ne conseguono, di ciò non dà segno di avvedersi.

Ancora una volta, pertanto, le misure finiscono con il mostrare il loro elemento imprescindibile: l’ingannevolezza che le rende efficaci soprattutto per far credere a realtà che non esistono. Ovviamente sempre in nome della $cienza e per conto di chi spacciandola nei modi più impensabili si riempie le tasche e il conto in banca.

Il disco infatti non ha un vincolo che lo costringa a girare alla stessa velocità del piatto. Si, forse il tappetino ha qualche proprietà favorevole almeno a una parvenza di tale azione, ma in misura ancora maggiore quando è in feltro, il disco resta libero di fare sostanzialmente quello che vuole.

Il suo scivolare, sia pure in maniera impercettibile, è pressoché garantito, anche in funzione del trascinamento della testina, il cui equipaggio mobile esercita una resistenza variabile a seconda di quanto è impervio l’andamento del solco, in funzione del livello del segnale in esso presente.

Più si riesce a fare in modo che il disco faccia corpo unico con il piatto e più la testina, per forza di cose, potrà eseguire il suo lavoro in maniera accurata. Poiché si basa sul movimento della superficie su cui va a poggiarsi, va da sé che ogni disturbo che lo influenzi ha conseguenze negative sulla qualità del processo di lettura e quindi sul segnale elettrico che ne deriva.

La dimostrazione di questo la si ha nel momento in cui si perviene all’impiego di un dispositivo di accoppiamento tra piatto e disco dall’efficacia superiore al consueto. Uno di essi è il “Groove Isolator”, che un tempo equipaggiava i giradischi Oracle.

Era realizzato per mezzo di una gomma dalla mescola particolarmente morbida, tale da appiccicare letteralmente disco e piatto tra loro, in particolare se lo si aiutava con un pressore. Il suo abbinamento risultava particolarmente efficace con quello a vite che equipaggiava i giradischi Ariston Audio: il disco finiva con l’essere letteralmente incollato alla sua superficie d’appoggio, dando luogo a una lettura di precisione direi estrema.

Il problema di quel tappetino è che la sua grande morbidezza determina caratteristiche di risonanza che a loro volta producono un rinforzo del medio basso piuttosto evidente, compensabile in diversi modi. Risulta inoltre piuttosto sensibile a graffi e scalfitture, data appunto la morbidezza del materiale da cui è composto. Infine, qualora utilizzato insieme a un pressore di buona efficacia, la sua capacità adesiva è tale che quando si va a togliere il disco dal piatto, il più delle volte il tappetino vi rimane appiccicato.

Si è così obbligati a staccarlo e rimetterlo al suo posto quando si cambia facciata o si passa a un altro disco, proprio a dimostrazione delle sue prerogative.

Questo avviene anche per via di una delle particolarità dei giradischi Ariston Audio, caratterizzati da un piatto dalla superficie d’appoggio per il disco lievemente concava. In abbinamento al pressore a vite causa una maggiore aderenza dell’intera superficie vinilica al supporto sottostante, tale appunto da esaltare le proprietà di aderenza del Groove Isolator e in ogni caso la capacità di rendere meno critiche le ondulazioni eventualmente presenti sul disco.

 

I suoi aspetti particolari passavano tuttavia in secondo piano, una volta preso atto delle sue potenzialità. E’ da ritenere allora che il suo problema di fondo fosse quello del costo di realizzazione, senz’altro non indifferente, che infine ha portato al suo abbandono anche da parte di chi lo ha ideato.

Il suo impiego comunque è illuminante: innanzitutto per il significato che assume un accoppiamento di grande efficacia tra disco e piatto, e poi anche perché pone nell’evidenza migliore l’influsso dei materiali con cui è composto il tappetino, e delle loro modalità di risonanza, sul comportamento del sistema, in particolare per quanto riguarda l’aspetto timbrico.

Lo spessore considerevole ne rende raccomandabile l’impiego solo su giradischi dotati di braccio con altezza regolabile.

L’esempio di quel tappetino, e in particolare quel si ottiene per il suo tramite in termini di qualità sonora, serve appunto a comprendere quanta importanza abbia l’accoppiamento migliore tra piatto e disco.

 

A cosa serve davvero il clamp?

Tutto questo discorso illustra le vere motivazioni riguardanti il ricorso a un pressore fonografico. Di per sé non serve a spianare i dischi come spesso si sente dire, malgrado l’esempio degli Ariston Audio fatto sopra, ai fini del quale la concavità della superficie del piatto è componente imprescindibile, che tuttavia ha altre controindicazioni. Talvolta anzi, sempre in funzione della conformazione del piatto, è addirittura possibile che il suo impiego esalti eventuali ondulazioni.

Pertanto vi si ricorre affinché il disco faccia il più possibile corpo unico con il piatto e quindi sia costretto a seguirne il movimento nel modo più fedele. Elemento a sua volta fondamentale per trarre le prestazioni migliori da un qualsiasi giradischi.

Nell’assenza di tale vincolo vengono meno i criteri alla base di una lettura efficace del supporto. Sappiamo infatti che le dimensioni dello stilo e quelle delle ondulazioni da cui è formata l’incisione analogica hanno dimensioni assai ridotte. In quanto tali, basta uno spostamento tra il supporto e il dispositivo adibito alla sua lettura pari a una percentuale di esse, ossia qualcosa di davvero infinitesimale, per causare uno scadimento significativo delle capacità di estrazione delle informazioni contenute nel disco.

Certamente non lo possiamo inchiodare sul piatto, tuttavia fare in modo che i due elementi formino un insieme quanto più possibile saldo dal punto di vista meccanico porta i suoi frutti, proprio in termini di qualità di lettura e quindi di riproduzione.

Tutto ciò è interessante anche sotto un altro punto di vista. A volte si sente dire che l’impiego del pressore conduca a un peggioramento della sonorità, in quanto l’immagine stereofonica si abbassa e si verifica una certa perdita di chiarezza a livello timbrico.

Questo suggerisce come la percezione e l’attribuzione soggettiva di valore alle diverse caratteristiche della riproduzione sonora possano essere intrinsecamente ingannevoli.

Quel relativo innalzamento dell’immagine, abbinato a una perdita sostanziale per la sua focalizzazione, e la timbica maggiormente tendente alla chiarezza, che possono essere ritenute positive quando ci si trova all’ascolto di catene manchevoli per tali aspetti, sono appunto conseguenti all’assenza del necessario vincolo meccanico tra piatto e disco. Soprattutto, non hanno nulla a che fare con quel che è in effetti presente nell’incisione.

Se al disco si permette di fare come gli pare, o meglio di reagire con la maggiore libertà alle sollecitazioni meccaniche che si producono durante la sua riproduzione, non può essere tracciato con la precisione necessaria da parte dell’equipaggio mobile della testina. Processo influenzato appunto dai micromovimenti subiti dal disco stesso in assenza di un ancoraggio di qualche efficacia al dispositivo che ha l’incarico di farlo girare, appunto il piatto ad esso sottostante.

Quando invece il disco è bloccato al piatto in maniera sufficientemente stabile non si ha più quell’immagine, apparentemente più ampia ma sostanzialmente informe e priva di focalizzazione: i suoi contorni e quelli degli esecutori vengono delineati con ben altra precisione, insieme alle dimensioni del palco stesso, mentre il recupero delle informazioni assume prerogative di efficacia ed accuratezza di ben altro rilievo.

Non se ne avvantaggia solo il dettaglio, ossia la resa delle informazioni di entità minore, ma anche la stessa timbrica degli strumenti dominanti, che viene riprodotta con una precisione compatibile al significato stesso della definizione “alta fedeltà”.

Di essa sarebbe bene tenere sempre a mente che non è solo un marchio di fabbrica o un appellativo di fantasia destinato a fare da contenitore ai prodotti dei marchi più in vista del settore, come a seguito di un bombardamento mediatico ininterotto durato decenni siamo stati portati a dare automaticamente per scontato.

Viceversa è una definizione ai cui fini è necessario sia soddisfatta una lunga serie di criteri di fondo.

In caso contrario non è alta e men che meno fedeltà, ma solo un guazzabuglio di fenomeni sonori resi in maniera più o meno disordinata, privi di relazione reciproca e dai criteri di analogia con l’evento a suo tempo immortalato sul supporto fonografico quantomeno opinabili.

 

Piccola cronistoria

Una volta stabilite le coordinate necessarie almeno a comprendere di fronte a cosa ci troviamo e quali sono il suo utilizzo ed i suoi scopi, rileviamo che l’impiego dei pressori fonografici ha iniziato a diffondersi a cavallo tra la fine degli anni settanta e i primi ottanta. Ossia nel momento in cui maggiore è stata la spinta alla ricerca di un livello prestazionale finalmente in grado di attribuire una finalità concreta alla riproduzione sonora amatoriale. Ossia l’andare oltre il semplice rimirare le apparecchiature da cui era composto l’impianto e il compiacersi delle loro caratteristiche teoriche, che in quanto tali incontravano difficoltà enormi nel momento in cui si ambiva a tradurle in pratica.

Se proprio in quella fase si può individuare il punto di transizione tra ciò che potremmo definire l’hi-fi vecchia maniera e la sua concezione moderna, è nella risposta alle esigenze allora venutesi a creare che ha incontrato i suoi problemi maggiori, coi quali si deve confrontare tuttora.

Oggi forse in misura maggiore che in passato, proprio perché la regressione conosciuta dal settore, nel momento in cui sono venuti al pettine i nodi prodotti dalla serie di errori fin quasi inverosimili che hanno costellato la sua evoluzione, lo ha portato fatalmente a dover fare i conti con il restringersi della platea ad esso interessata.

In realtà si dovrebbe parlare di crollo, quello in effetti avvenuto in conseguenza dell’inversione che ha riportato la riproduzione sonora di qualità da fenomeno di massa ad attività di nicchia, la cui possibilità di accesso è ristretta ad un numero esiguo di conoscitori.

In condizioni simili la priorità fondamentale diventa quella di tenere in piedi la baracca, piuttosto che andare alla ricerca di incrementi prestazionali e di traguardi in termini di qualità sonora, che per forza di cose più si va avanti e più diventano difficili e costosi da ottenere. In misura tanto maggiore quanto ci s’incaponisce a trascurare la stragrande maggioranza degli elementi che ad essi concorrono, per considerare soltanto gli aspetti di base inerenti l’elettronica e le circuitazioni, pretendendo di lasciare al suo destino tutto il resto, a iniziare dalla stessa componentistica necessaria alla realizzazione delle apparecchiature.

Figuriamoci allora il prendere atto, finalmente, che la riproduzione sonora è una specialità squisitamente interdisciplinare, in cui entrano in gioco elementi dei quali ancora non si è riusciti a compilare un elenco di completezza accettabile, non dico a esplorarli almeno un minimo.

Proprio i pressori fonografici sono un buon esempio per quanto appena detto: serve a poco migliorare allo spasimo le prestazioni delle testine e dei preamplificatori adibiti a riceverne ed elevarne in tensione il segnale e poi del resto della catena, o altrimenti le caratteristiche meccaniche del giradischi, se prima non si fa in modo di avere condizioni di lettura tali da permettere l’estrazione ragionevolmente più efficace per il contenuto del supporto.

Se riesce difficile persino darsi una scala di priorità che tenga conto almeno degli aspetti più vistosi che influenzano il fenomeno su cui si vorrebbe intervenire, nulla di più facile che un intero sistema anche parecchio meno raffinato, ma posto in grado di eseguire e poi amplificare e diffondere una lettura più efficace ed accurata, risultato da ottenersi innanzitutto per via meccanica, possa rivelarsi migliore dell’altro.

Di tutto questo però s’insiste a non voler tenere conto, con ostinazione degna di miglior causa. D’altronde, se dal trascurare certe cose il totale delle vendite ricava un vantaggio, stante l’inevitabile scontento che per forza di cose ne deriva e spinge non a risolvere il problema in via specifica ma ad acquistare un nuovo giradischi che avrà gli stessi problemi del precedente, stanti le esortazioni del sistema di disinformazione a testate e siti unificati, tali perché ripetono a oltranza tutti la stessa cosa, per quale motivo impegnarsi affinché le cose cambino?

Questo almeno fin quando le persone non si stancano, cosa che prima o poi è destinata a verificarsi se il modo di agire è quello appena descritto.

Così arriva la crisi e a quel punto non si tratta più di perseguire il miglioramento, ma di fare in modo che il teatrino non crolli, portandosi appresso tutti i burattini.

Ai fini della mera sopravvivenza di un settore merceologico, come noto i metodi sono sempre gli stessi. Primi fra tutti quelli inerenti la necessaria remuneratività del prodotto, in assenza della quale prima o poi un bel mattino la saracinesca non la si potrà più alzare.

Fino a quando c’è risposta da parte di un pubblico sufficientemente folto  e ricettivo, i costi possono essere suddivisi su un buon numero di esemplari prodotti, quindi la cosa può essere quasi indolore. Ma nel momento in cui per effetto di una serie inverosimile di scelte suicide, anche se in apparenza paganti sotto l’aspetto economico, in particolare nel breve termine, hai finito col ridurre al lumicino la tua base di consenso, ossia la platea di pubblico potenzialmente interessato alla specialità, costruirne un’altra non è assolutamente facile.

In condizioni simili si deve trovare il modo di convincere il pubblico potenziale che investire somme per l’acquisto del prodotto possa essere non dico conveniente ma almeno avere un ritorno. Che sia a livello culturale, ludico, di autogratificazione oppure dell’attribuzione di prerogative personali atte a innalzare la concezione che si ha di sé stessi e l’interesse da parte degli altri, secondo la cosiddetta teoria dell’esistenza commerciale, non ha importanza alcuna.

Questo purtroppo lo si ottiene in primo luogo investendo in propaganda, anziché in un miglioramento prestazionale, essendo oltretutto pochissimi quelli in grado di valutarlo. Tantopiù in un ambito in cui la soggettività la fa da padrona e l’educazione all’ascolto, quindi la capacità di riconoscere nell’emissione dell’impianto una connotazione qualitativa attendibile e provvista di una qualche oggettività, è una pia illusione.

Del resto è proprio sulla mancanza di quell’educazione che si possono far passare le assurdità più inverosimili, arrivate ormai a oltrepassare i limiti del surreale, come sempre a cura del sistema di disinfomazione di massa. Il problema è che anche quello ha il suo costo, non indifferente, da scaricare per forza di cose sul prezzo del prodotto finito.

Finisce così che lo sforzo volto a tenere in piedi la baracca è in concreto il primo elemento che agisce ai fini della sua distruzione, proprio perché i costi del prodotto, già minati dalla caduta della capacità di assorbimento del mercato, una volta caricati anche dei costi di una propaganda a tal punto controproducente divengono non più relazionabili alle possibilità di spesa della stragrande maggioranza delle persone. E anche qualora si decida di accettarli, il livello delle rinunce cui si deve accondiscendere diventa insostenibile.

Se la strada non dico della sopravvivenza del settore ma di sicuro del miglioramento prestazionale del prodotto medio appare impervia e senza vie di uscita, come abbiamo accenato prima i motivi sono da ricondurre da un lato al non voler prendere atto dei metodi mediante i quali va perseguito, sempre per questioni di profittabilità, e dall’altro alla serie infinita di errori compiuti in passato, rispetto ai quali il ritorno d’interesse nei confronti dell’analogico è conseguenza inevitabile ed emblema nello stesso tempo.

Come dico spesso, il capitalismo, del quale la tirannide iperliberista che consiste nella dittatura dei mercati vigente da decenni e la sua attuale variante tecno-sanitaria sono la degenerazione estrema e terminale, può sopravvivere soltanto divorando tutto quanto gli capita a tiro. Continuando su questa strada non potrà far altro che divorare persino sé stesso. Prova ne è che il digitale, dopo aver divorato l’analogico sul quale si è sviluppata nel corso dei decenni, ha portato la riproduzione sonora amatoriale alla sua crisi irreversibile.

In quanto tali, si presupporrebbe che gli artefici della rivoluzione digitale in campo audio divenissero i dominatori incontrastati del settore fino alla fine dei tempi, tale e tanto era il divario con la concorrenza in termini di conoscenza e capacità di applicazione tecnologica nell’ambito specifico, in assenza della quale l’audio a codifica binaria non te lo puoi certo inventare.

Invece, vediamo un po’ che fine hanno fatto: Philips in pratica non esiste più, tranne che per televisori fabbricati chissà dove e chissà da chi, o lampadine a led da discount. Sony invece è emigrato nel settore della fotografia, in cui ha trovato il terreno più fertile per la sua politica commerciale centrata da sempre sul cosiddetto”premium price”. Ossia l’inversione della consequenzialità del prezzo in base alla qualità del prodotto, in seguito alla quale fissare un prezzo più elevato attribuisce al prodotto una percezione di superiore qualità da parte del pubblico.

Tutto questo dopo aver indotto nel settore dell’audio una  rivoluzione epocale che inevitabilmente lo avrebbe trasformato a fondo. Questo è in effetti avvenuto, ma appunto nella forma di una crisi irreversibile, la cui causa prima è stato proprio il digitale, insieme alle sue conseguenze. Rivelatesi tali, alla lunga, da costringerli a proseguire altrove la loro attività, dopo aver devastato anche il settore della produzione musicale, proprio a causa di quel che il digitale ha prodotto a livello della riproduzione.

Se, come abbiamo detto, il ritorno d’interesse nei confronti dell’analogico è insieme conseguenza ed emblema delle scelte suicide succedutesi nel corso degli ultimi cinque decenni, essendo la sperimentazione del digitale in campo audio per finalità commerciali iniziata nel corso degli anni 1970, il pressore fonografico può essere osservato come  una specie di simbolo: quello riguardante l’approccio volto a considerare finalmente la riproduzione sonora non soltanto sotto il suo aspetto consumistico, ovvero come conseguenza dell’abbinamento di apparecchiature prodotte da marchi più o meno noti e pubblicizzati, ma secondo la prospettiva volta a indagare e poi valutare con l’attenzione dovuta i fenomeni concreti che entrano in gioco nella sua esecuzione. In effetti hanno poco a che vedere coi vu meter del più bel blu dipinto di blu, i frontali tempestati di diamanti e i cabinet tirati a lucido come se non ci fosse un domani, se non in funzione del danno che tanto orpello produce materialmente. Pertanto quella prospettiva è la sola che permetta l’ottenimento di risultati tali da rendere la nostra specialità degna di essere praticata.

Lo diviene nel momento in cui, a fronte della spesa affrontata, non si ha un oggetto dall’aspetto talmente vistoso da risultare abbagliante, ma un risultato che per quale che sia possa essere perfezionato mano a mano, secondo una modalità di crescita praticabile e soprattutto riconoscibile nel suo evolvere, poiché capace di dare effetti tangibili nell’incremento della fedeltà.

A che cosa? All’evento originario naturalmente, laddove pertanto più è palpabile la sensazione di realismo, ovvero di trovarsi di fronte ad esso, più è valido il risultato ottenuto. Proprio quello insomma, che il sistema di (dis)informazione ufficiale s’ingegna da decenni a far credere sia impossibile da ottenere. Riuscendovi perfettamente, peraltro: diamo a Cesare quel che giustamente gli appartiene.

Proprio perché altrimenti dovrebbe riconoscere la pochezza del prodotto da esso propagandato come il meglio, quale che esso sia, e la totale e definitiva inefficacia dei sistemi di verifica che allo scopo si è dato. Il cui unico risultato ottenuto è il dipingere una realtà del tutto contraria a quella concreta, a uso e consumo delle limitazioni concettuali e percettive di chi ne ha stabilito i parametri e messo a punto le modalità di verifica.

Per conseguenza, la parola fedeltà da un certo momento in poi è stata proprio bandita dallo stesso vocabolario di quelle fonti di disinformazione venduta a caro prezzo, per essere sostituita da altre definizioni, come high-end, alto di gamma eccetera. Ancora una volta secondo i canoni della neolingua, laddove all’abolizione di una o più parole corrisponde la concreta impossibilità di costruire un pensiero o un ragionamento che di esse abbiano la necessità.

Ciò è avvenuto da un lato perché della dizione alta fedeltà, e della sua contrazione hi-fi, si era fatto un utilizzo scellerato, finendo con il dilapidarlo a favore di qualsiasi cosa emettesse un suono, quale che fosse, sempre per questioni di carattere commerciale. Nuova ed ennesima dimostrazione che il capitalismo non può che divorare tutto quanto incontri sulla sua strada. Dall’altro però, proprio perché insistere a parlare di fedeltà sarebbe stato controproducente, riguardo a qualcosa che di essa non solo non aveva più nulla, ma ai fini della sua evoluzione si era stabilito che se ne dovesse ancor più allontanare, per questioni ancora una volta e di convenienza economica e commerciale oltreché di libertà.

Si, di libertà, avete letto bene: quella di spingere soprattutto sulla presentazione visiva del prodotto, devolvendo ad essa la stragrande maggioranza delle risorse e poi dirigendovi l’attenzione degli appassionati in via esclusiva. Iniziando con le banalità del genere “anche l’occhio vuole la sua parte” e più avanti  con l’ausilio di concetti definiti appositamente e sempre più raffinati, primo fra tutti il WAF, come tali ingannevoli per definizione.

Pertanto, nel momento in cui si decide di rinunciare all’approccio centrato sul fenomeno in sè e sulle sue prerogative di verosimiglianza, per legarsi alla visione della riproduzione sonora centrata sul prodotto, il quale non può che rispondere alle leggi dell’attività commerciale e della produzione in serie, secondo cui il più degno di essere realizzato non è il prodotto musicalmente più valido ma quello che permette il margine più consistente, si esegue una scelta suicida. Non è dato sapere se in maniera consapevole o meno.

Quella scelta è tale proprio perché così facendo si decide di rivolgere tutta l’attenzione all’aspetto consumistico della faccenda, e di seguito a quello ludico ad esso legato, nelle sue diverse espressioni, delle quali è esempio tipico il cambia-cambia o sostituzione compulsiva dei componenti alla ricerca di quel che si sa già di non poter ottenere. Perdendo per forza di cose di vista le vere finalità della riproduzione sonora, appunto il ricreare nell’ambiente domestico la sensazione, o l’illusione se vogliamo, di trovarsi di fronte all’evento reale.

Figuriamoci che tra i fabbricanti  e distributori di opinioni attivi nel settore, c’è addirittura chi fa pubblico vanto della sua compulsione, ossia della coazione a ripetere di cui è vittima, che lo spinge a un processo di sostituzione continuo e a ritmo forsennato, o per meglio dire implacabile, delle apparecchiature che compongono il/i suo/i impianto/i.

Già, perchè ormai averne uno non basta più. Ce ne vogliono almeno due o tre. Che poi nessuno di essi assolva allo scopo per cui lo si è allestito, è cosa che interessa poco o nulla. L’essenziale è poter vantare in pubblico, ossia sui social o forum di settore, il costo elevatissimo delle apparecchiature che compongono il secondo e il terzo, suggerendo pertanto il livello stellare di quelle che fanno parte del primo, che a quel punto non c’è nemmeno più bisogno di menzionare.

Dimodoché tutti gli altri non potranno che inchinarsi a cotanto sfoggio, in un coro di Ooooohhh! e Aaaaaahhhhh! e il dichiarante il possesso di quell’armamentario possa sentirsi insignito dei galloni che lo pongono al di sopra dei comuni appassionati. E se possibile di tutti quanti sono, condizioni in cui le modalità di emissione di ognuno di quegli impianti saranno finalmente ricondotte al rilievo che meritano, ossia relegate agli ultimi posti delle varie e eventuali.

Al di là della spesa affrontata e del tempo dedicato allo scopo, che forse sarebbe stato più proficuo adibire almeno in parte a procurarsi gli strumenti atti a ottenere una maggiore consapevolezza, quando il passo di sostituzione va oltre un certo limite, e con due o tre impianti da accudire non può che diventare ravvicinatissimo, si finisce con il non avere materialmente il tempo di approfondire almeno il minimo le prerogative di ognuna delle apparecchiature che entrano in casa.

Cosa del resto che ancora una volta servirebbe a ben poco, dato che l’essenziale è appunto vantare il possesso dell’apparecchiatura più esclusiva, non l’averne compreso le potenzialità, che del resto non troverebbero spazio nella lunghezza tipica del commento da social, da contenersi entro le tre righe.

Quelle necessarie per esprimere il pensierino da prima elementare, oggi imposto come limite massimo innanzitutto a livello cognitivo, dato che andando oltre si entra direttamente nella categoria dei pipponi, cosa da evitare con ogni mezzo per non venirne accusati.

Essere o avere, si è domandato un bel giorno Erich Fromm. Per fortuna lo ha fatto un congruo numero di decenni fa: se avesse atteso fino a oggi, la sua domanda non avrebbe avuto più senso alcuno. Con ogni probabilità anzi sarebbero venute meno le condizioni prima di tutto cognitive necessarie a porsi quella domanda, sotterrate sotto il bombardamento senza requie eseguito dal consumismo, il cui scopo non è più neppure l’avere ma il sostituire. Braccio armato del capitale così potente da indurre una metamorfosi nei suoi destinatari, trasformati da esseri senzienti in suoi meri strumenti o meglio ostaggi. Dei quali l’attività cerebrale è ridotta al lumicino, finalizzata alla ripetizione a oltranza della sola azione che conservi una motivazione, l’estrazione della carta di credito per l’acquisto di carabattole sempre più inutili ma rese indispensabili, pena lo svilimento della concezione che ciascuno ha di sé stesso, intesa ancora una volta in termini meramente commerciali.

Qualora riuscisse a sfuggire a un condizionamento siffatto, ci pensano leggi e regolamenti stilati non a suo favore ma esclusivamente per quello dei suoi oppressori, che però vorrebbero passare per filantropi, a tenerlo sulla retta via. In primo luogo se vuol esercitare la libertà di spostarsi a piacimento da un punto all’altro, da farsi esclusivamente per mezzo di veicoli che una legge-farsa riconosce come sempre meno inquinanti. Secondo un’agenda il cui fine concreto non è il salvare il pianeta, ma l’imposizione del divieto di spostarsi, e quindi di procurarsi il necessario per sopravvivere.

Quei mezzi di traporto sono tali solo in funzione dell’inganno che si esegue a tal fine: oggi la Nuova 500, ossia la bicilindrica talmente piccola che ormai ai nostri occhi sembra un giocattolo ed ha una massa proporzionale, è un mezzo intollerabilmente inquinante, malgrado richieda per il suo movimento e prima ancora per la sua fabbricazione quantità di energia, e quindi di emissioni, sostanzialmente trascurabili. Sarebbe invece perfettamente adeguato all’ideologia dell’ambientalismo secondo la sua deviata accezione odierna, quello che al confronto è una sottospecie di Altare della Patria semovente, dal peso che sfiora le tre tonnellate e solo per essere costruito, e poi smaltito a fine vita, richiede una quantità di materie prime e risorse pari ad almeno dieci volte tanto.

Dopo aver abolito il criterio della fedeltà e il conseguente “a che cosa”, causa prima degli atteggiamenti sopra descritti, si è trascurato minuziosamente di valutarne gli effetti. Cosa che peraltro richiederebbe una statura mentale ed etica di cui chi si è arrogato il diritto di fare certe scelte non doveva essere particolarmente ben fornito, essendo il suo vero e solo ideale non il pentagramma e la qualità delle sensazioni che è in grado di trasmettere ma il registratore di cassa o al più il conto corrente bancario. In conseguenza, si è deciso di seguire ciecamente le scelte dei fabbricanti al ridimensionamento dei fini e persino d’ingegnarsi a trovare nuovi sistemi per aprire loro la strada. E’ inevitabile allora che gli effetti non possano essere diversi da quelli oggi visibili per chiunque. Se ha la volontà di farlo.

Già, perchè come ha detto qualcuno, a forza di inseguire senza mai fermarsi un istante, anche solo per valutare fino a che punto si è arrivati, si hanno ottime probabilità di finire con l’aver superato quel che si stava inseguendo, e senza rendersene conto. Pertanto, a forza di martellare il pubblico con il concetto che la fedeltà non esiste ma vi è solo la riproduzione, innalzandolo poi a comandamento come sempre avviene in casi del genere, dunque negando da un lato la stessa ragione d’essere della specialità di cui ci si occupa, per banalizzarla e mortificarla in funzione delle necessità di bilancio e delle personalissime velleità di espansione economica, dove si pensa di arrivare?

Al risultato in cui qualsiasi somma si faccia spendere all’appassionato non sarà mai abbastanza da ottenere un risultato accettabile. Per il semplice motivo che è stato rimosso dalla lista degli scopi che ci si prefiggono.

In primo luogo perché troppo oneroso da ottenere, in particolare in base alle modalità che ci si è dati, determinate a trascurare tutto quanto vada oltre l’analisi più superficiale del fenomeno che s’intende produrre, appunto l’emissione sonora, e delle leggi che la regolano.  E poi perché poco pagante sotto l’aspetto economico.

Tutto questo non può avere per conseguenza altro che l’allontanare l’appassionato, in quanto lo si dirige lungo un percorso senza uscita, essendo stabilito già in partenza che al risultato desiderato non perverrà mai. Di conseguenza, prima o poi si troverà costretto ad ammettere il proprio fallimento, e prima ancora quello dell’intero sistema cui ha dato credito nel momento in cui ha deciso di seguirlo, proprio perché a fronte della spesa di somme sempre più ingenti non si trova nemmeno punto e daccapo, che sarebbe già un risultato, ma si rende conto di aver ottenuto un concreto peggioramento.

Per il semplice motivo che se non si rimuovono i problemi di fondo, con l’impiego di apparecchiature sempre più raffinate non si otterrà altro che di metterli in un’evidenza vieppiù marchiana.

Solo un masochista allo stadio più avanzato del suo disturbo potrebbe accettare la realtà concernente il vedersi sfilare somme sempre più consistenti, che per forza di cose equivalgono a rinunce, per trovarsi in condizioni del genere.

Proprio quello è il risultato che si è prefissa la disinformazione di settore, andando incontro all’ennesimo fallimento. Dato che si può pensare di prendere in giro tutti per un po’ di tempo o solo un certo numero di persone per tutto il tempo. Non è possibile invece prendere in giro tutti e per sempre.

Ora, se è vero che sono pochissimi gli appassionati in grado di stabile una scala di valori corretta basata esclusivamente sull’ascolto e non sulla cosiddetta sovrastruttura, prodotta dal prezzo, dal marchio, dalla classe di appartenenza, dalla potenza di uscita, dal numero delle vie, dal tipo di componenti attivi eccetera, lo è altrettanto che c’è sempre una vocina in fondo al cuore di ciascuno di loro che gli chiede cosa diamine stia facendo e perché insista ancora su quella strada priva di senso, se non allo scopo di rifornire di danaro fresco chi gli propone oggetti sempre più controindicati ai fini del risultato primario insito nella riproduzione sonora.

Per forza allora il sistema di disinformazione deve spingere senza requie ai fini dell’edificazione di quella sovrastruttura. Talmente multiforme secondo canoni sottoposti a un’opera perenne di revisione e sostituzione, ma soprattutto chiassosa da sovrastare, poi ridurre al silenzio e se possibile infine calpestare ogni voce dettata dal dubbio e dalla consapevolezza, posto che ve ne sia una, e soprattutto dalla ragione.

Va da sè che di fronte a tutto questo il concetto di fedeltà all’evento originario non abbia più senso, o meglio non sia concepibile dalla stragrande maggioranza degli appassionati. Proprio perché il perseguirlo non paga abbastanza per quelli che sono i criteri economici del mondo di oggi.

Dunque certe scelte sono esclusivamente alla portata del piccolo, se non addirittura dell’infinitesimo, se paragonato alle realtà con cui si era soliti rapportarsi un tempo nel nostro settore.

 

Audio Mass

Un esempio è quello di Audio Mass, iniziativa messa in piedi da Mirco Massetti, appassionato definibile di lungo corso, che una volta arrivato al punto di comprendere che il mercato non era più in grado di offrirgli quanto desiderava, ha deciso di farselo da sé. Per poi renderlo disponibile a chi abbia desideri e prospettive simili ai suoi.

La sua realizzazione più recente sono questi due pressori fonografici, eseguita secondo una ricetta quantomeno atipica.

Di solito i clamp siamo abituati a vederli realizzare per stampaggio, in pressofusione o tuttalpiù al tornio. Questi invece hanno origine in una lavorazione di ben altra raffinatezza, per mezzo di macchine a controllo numerico operanti su 5 assi. Allo scopo è sufficiente osservare la loro forma per capire che si tratta di oggetti derivanti da una cura e una dedizione oggi insolite.

Questo già se li si guarda da sopra. Se poi li si capovolge, soprattutto il modello superiore, si comprende di avere a che fare con qualcosa di assolutamente fuori dagli schemi.

Va da sè che una produzione su numeri tanto piccoli e di tale raffinatezza abbia i suoi costi, che tuttavia si ripercuotono sui prezzi al pubblico in maniera forse inferiore rispetto a quanto ci si potrebbe aspettare, malgrado non si tratti ovviamente di prodotti di classe economica. Cosa che peraltro ritengo salti agli occhi fin dal primo approccio.

Ma andiamo per ordine e valutiamo innanzitutto il peso dei due oggetti, tenuto volutamente basso per questioni diciamo così filosofiche. Come sempre in ambiti del genere ognuno ha la propria visione. Personalmente apprezzo le scelte che hanno portato ai prodotti di cui ci stiamo interessando per due motivi su tutti. Il primo è relativo al modello inferiore, di leggerezza tale da poter essere utilizzato senza difficoltà anche su giradischi a sospensione senza gravare eccessivamente sul loro sistema di isolamento. Il suo peso infatti è di 260 grammi, comunque sufficienti per migliorare sensibilmente la coesione tra piatto e disco.

Il modello superiore pesa invece 360 grammi e ha dalla sua una serie di particolarità davvero insolite, osservabili appunto mettendolo sottosopra.

Il centraggio sul perno del giradischi avviene per mezzo di un inserto in teflon, che migliora lo scorrimento, quindi la silenziosità e lo smorzamento. Inoltre, a quanto ci dice Mirco, è caratterizzato anche dall’attitudine a ridurre le cariche elettrostatiche.

L’appoggio sul disco avviene per mezzo di una serie di piedini semi-morbidi, in materiale gommoso, tali da migliorare il disaccoppiamento rispetto al disco ponendolo meglio al riparo da eventuali modi di risonanza propagati dal pressore stesso.

Infine ci sono tre piedini in rame pieno, spinti a contatto del disco per mezzo di una molla ciascuno. Anche qui siamo di fronte a una soluzione inedita, intesa dal suo ideatore allo scopo di migliorare la brillantezza della riproduzione.

Il modello 360 pertanto è quanto di più lontano possibile dalla banalità tipica del pressore che siamo abituati a osservare, e prima ancora si trova nel nostro immaginario: giusto un peso provvisto di un buco al centro, realizzato in un materiale quale che sia, più che altro in funzione proprio della grammatura che gli s’intende attribuire.

In questo caso, per quanto non sia certo a basso costo, il modello 360 giustifica appieno il suo prezzo, forse anche più del modello inferiore rispetto al quale appare decisamente concorrenziale. Almeno dal mio punto di vista.

Detto questo, la realizzazione in alluminio del corpo principale del pressore sembra proprio andare contro la concezione più elementare del pressore, tendente soprattutto al raggiungimento di un certo peso. L’alluminio infatti è il materiale leggero per eccellenza.

Tecnica a parte, si tratta di due oggetti di grande raffinatezza, che fa piacere osservare e maneggiare proprio in virtù della loro realizzazione accurata e della finitura impeccabile. Cose che tuttavia sarebbero di poca o nulla importanza, in assenza di un influsso valido sulla sonorità della sorgente analogica.

Già l’impiego del modello più semplice e leggero vi attribuisce maggiore chiarezza, insieme a un ampliamento e a una proiezione dell’immagine tendente a renderla più presente e vivida in ambiente. Tutto questo ovviamente in abbinamento alle prerogative più tipiche dell’impiego dei pressori, quelle che riguardano l’accoppiamento migliorato tra disco e piatto, con ciò che ne consegue a livello di riproduzione, affrontato nel corso dell’articolo.

Di conseguenza il modello “260” permette l’ottenimento di qualità sonore al di là di quelle che si riterrebbero alla portata di un comune pressore fonografico. Non solo per l’ampiezza di emissione ma anche per la timbrica, che denota una serie di caratteristiche positive per la maggioranza delle sorgenti analogiche, in termini di chiarezza e introspezione.

Il modello 360 è caratterizzato da una personalità in larga parte simile a quella dell’esemplare di 100 grammi più leggero, resa però in maniera decisamente più esplicita. L’immagine stereofonica è proiettata in maniera ancora più incisiva, mentre le caratteristiche timbriche determinate dal suo impiego si manifestano in maniera più esplicita.

Pertanto, qualora il giradischi che ne deve essere equipaggiato lo permetta, ossia regge senza difficoltà il peso maggiore che in assoluto non è poi questo sproposito, personalmente non avrei dubbi. Andrei sul modello maggiore, il cui evidente incremento prestazionale  e a livello realizzativo dà l’idea di trovare un corrispettivo decisamente parziale nella differenza di prezzo che lo separa dal modello più piccolo.

Si tratta se non ricordo male di un centinaio di euro circa, somma che al giorno d’oggi va e viene, bastevole a malapena per una pizzata a tre, o a quattro nei casi più favorevoli. Viceversa, quei cento euro in più, in termini prestazionali dell’intera sorgente analogica li si ritrova e porta avanti nel corso degli anni, per un grado di soddisfazione ben più tangibile.

Anche perché, come accade spesso nel caso di diversi aspetti che concorrono alla messa a punto, ambito in cui rientrano anche i pressori fonografici, l’effetto che producono è tale, nelle sue caratteristiche, da non trovare una corrispondenza nel ricorso a un giradischi più raffinato e costoso. Quest’ultimo renderà evidente il miglioramento connesso al suo impiego su una serie di parametri possibilmente molto ampia, tuttavia qualora sprovvisto di pressore, o equipaggiato con uno non all’altezza, certe cose non le potrà dare. Proprio perché sono specifiche di quell’accessorio: se c’è le hai, altrimenti nisba. E anzi, proprio la maggiore capacità di porre in evidenza i diversi aspetti della riproduzione, tipica delle apparecchiature più raffinate, potrebbe rendere ancora più tangibile la differenza causata dall’impiego di un oggetto nei confronti della rinuncia ad esso.

Poi, certo, il mercato è pieno di pressori che costano molto meno dei due Audio Mass. difficilmente però possono vantare un livello realizzativo comparabile, ma soprattutto è all’ascolto che emerge la differenza. Una volta che li si è provati i dubbi spariscono e i motivi per cui li si continuerà a usare, magari anche a fronte della disponibilità di altri modelli, saranno ben chiari.

 

 

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4 thoughts on “Pressori fonografici, come e perché

  1. Ciao Claudio,
    complimenti per il tuo sito: fornisci informazioni e spunti interessanti.
    Per questioni anagrafiche e familiari sono cresciuto con l’analogico ma, forse per gli stessi motivi, non sono mai riuscito a sviluppare quelle conoscenze tecniche che oggi riconosco essere fondamentali.
    Motivo in più per ringraziarti del tuo sforzo divulgativo.
    Domanda: ha senso utilizzare un clamp su un giradischi flottante (posseggo sia un Thorens td125 mk2 che un Lenco L75s) e se si, a quali condizioni (es, peso del clamp)?
    Grazie ancora.
    Giovanni

    1. Ciao Giovanni,
      grazie per l’apprezzamento.
      Come scritto nell’articolo, il pressore fonografico è assolutamente necessario su qualsiasi giradischi degno di questo nome.
      A maggior ragione quindi su quelli della tipologia di tuo interesse.
      Il motivo è semplice: se il disco non viene accoppiato al piatto in maniera ragionevomente efficace, per forza di cose tende a fare quello che vuole, dato che il solo appoggio sul tappetino di gomma non è sufficiente allo scopo. Peggio ancora quelli di feltro.
      Sui giradischi a controtelaio il pressore non deve essere molto pesante, altrimenti il sistema di sospensione potrebbe risentirne. Uno da 250 grammi non dovrebbe creare problemi a questo riguardo.
      Per eventuali ulteriori ragguagli, usa pure il modulo di contatto.

  2. Ciao Claudio,
    complimenti per l’articolo, molto esaustivo come sempre. Secondo te, l’utilizzo di un clamp su un giradischi può risultare controproducente, magari per via di un motore non all’altezza? Potrebbe esserci il rischio che non riesca a mantenere la velocità corretta del piatto?
    Grazie per l’attenzione

    1. Ciao Alberto, sinceramente non penso, tranne nel caso che il giradischi valga meno del pressore.
      Quindi con qualsiasi macchina tra quelle indicate per un appassionato di buona esperienza, escludendo quindi plasticoni di provenienza dubbia, non ci dovrebbero essere problemi di sorta.
      Essenziale a questo proposito è che il pressore, in particolare per il suo peso, sia proporzionato alle caratteristiche del giradischi e che quest’ultimo abbia il sistema di trazione in condizioni di normale efficienza.

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