Accuphase E 203

Per la seconda puntata della serie “I Quattro dell’Apocalisse”, eccoci alle prese con uno degli amplificatori integrati più noti della storia della riproduzione sonora amatoriale.

E anche dei più desiderati. A questo proposito ricordo come a cavallo tra la fine degli anni settanta e i primi anni 80, tra i sogni miei e di altri appassionati che frequentavo all’epoca, ci fosse proprio lui, l’E 203. Ce n’era un esemplare nel negozio in cui ci recavamo spesso in pellegrinaggio, e talvolta si riusciva persino a comperare qualcosa, ma non passava volta che non lo ascoltassimo almeno per una buona mezzora, sempre più convinti che fosse esattamente l’oggetto cui ambire più di ogni altro.

In particolare per il suono, raffinato e sostanzialmente privo dei difetti non così insignificanti da cui era gravata molta dell’offerta di quel periodo, in particolare ma non solo nell’ambito delle amplificazioni. Piaceva però anche l’estetica, in particolare per la livrea dorata di tonalità calda, decisamente più di quella dei Marantz coevi, e per le linee del frontale, semplici e nello stesso tempo adeguate all’alto di gamma del quale era espressione.

Il suo problema, o meglio il nostro, era il prezzo di quell’integrato: due milioni e mezzo circa se non ricordo male, che era davvero troppo. forse non in assoluto ma di sicuro per le mie possibilità personali, sempre alquanto scarse e  dalla tendenza inesorabile allo zero assoluto.

Quindi è con un certo piacere che mi sono apprestato al restauro, inerente la componentistica, di un esemplare piuttosto vissuto, come testimoniano anche le foto pubblicate.

Non lo era solo a livello estetico ma anche di funzionamento. Un po’ perché spompato, e anche parecchio, segno di una componentistica interna peggio che esausta, ma anche e soprattutto per via della tendenza di un canale a gracchiare, peraltro in maniera subdola, dato che a un ascolto non particolarmente attento la cosa poteva passare inosservata. Tuttavia, prestando maggiore attenzione, il difetto era lì, pronto a ripresentarsi quando meno lo si aspettava, in occasione di determinati passaggi.

Per il resto le condizioni in cui si trovava erano quelle tipiche di tante apparecchiature della sua epoca, probabilmente reduci da un abbandono durato chissà quanto. Probabilmente decenni, condizione testimoniata dallo stato dei connettori sul pannello posteriore, ricoperti da uno strato di ossido di spessore consistente.

Per ridare loro condizioni almeno decenti ci vuole parecchio olio di gomito, operazione che per essere portata a termine porta via quantità di tempo non proprio trascurabili.

E’ comunque un’operazione necessaria, già a livello estetico: connettori ridotti in condizioni simili non si possono guardare. Ma soprattutto causano un impedimento significativo al passaggio del segnale, già quando le loro condizioni sono assai meno compromesse rispetto a quelle in cui si trovavano le prese d’ingresso e di uscita dell’esemplare di E 203 qui analizzato.

Malgrado le tendenze attuali della scienza, che sempre più sembra vogliano abbracciare i canoni della creatività, l’ossido non figura ancora nell’elenco dei materiali conduttori di efficacia maggiore.

Se possibile, i connettori di un qualsiasi componente dell’impianto andrebbero puliti con regolarità. Tantopiù nelle condizioni tipiche di umidità nel nostro Paese, tali da causare in breve il prodursi di una patina di ossido che di sicuro non è  un elemento migliorativo per le loro capacità di conduzione.

Questo avviene per tutti i connettori, che siano dorati o meno, o altrimenti placcati con altri materiali. L’argomento è già stato affrontato a suo tempo, ma di tanto in tanto è bene rinfrescare la memoria.

Se i connettori si presentano in buone condizioni già a livello visivo, si prende uno di quei dischetti in cotone usati di solito dalle gentili signore a fini cosmetici, ci si versa sopra un po’ di bicarbonato e si strofina con una certa energia il connettore. Anche se sembrava in ottime condizioni, si vede comunque che la sua superficie recupera brillantezza, mentre il dischetto di cotone ha su di sé un’ombra di grigio. Ripetendo l’operazione sui diversi connettori attraverso i quali il segnale deve passare, e se possibile anche su quelli dei cavi, una volta rimontato l’impianto, se questo è di qualità almeno decente, si nota che la sua sonorità è divenuta più limpida e dettagliata.

Nei casi in cui l’ossido è ben visibile, e possibilmente più difficoltoso da rimuovere, personalmente mi trovo bene con un prodotto atto a rimuovere i graffi dalla carrozzeria dell’auto. Si tratta di un polish non eccessivamente aggressivo, che però va bene solo sui connettori nichelati. Da quelli dorati porterebbe via la placcatura.

Se dal punto di vista estetico la cosa dà fastidio, per quello funzionale le cose migliorano e non di poco, anche se a quel punto essendo rimossa la sua protezione superficiale, il connettore necessita in genere di una manutenzione più frequente.

 

Età di transizione

Torniamo per un istante all’aspetto per così dire storico del mio rapporto personale con l’E 203, che immagino non sia stato dissimile da quello di tanti appassionati che hanno più o meno la mia stessa età, per parlare di quello che accade con una certa frequenza per i sogni a occhi aperti che costellano la vita di ognuno di noi, in particolar modo nell’età giovanile.

Spesso avviene, purtroppo, che arrivati al momento in cui potrebbero tradursi in realtà si è già passati a pensare ad altro. Così l’oggetto dei nostri sogni è destinato a restare tale, non per la nostra impossibilità a entrarne in possesso, ma perché nel frattempo si è stati distratti da nuove, più ammalianti sirene.

In quel periodo infatti stava avvenendo la transizione dall’età eroica se vogliamo della riproduzione sonora, a quella moderna, dagli elementi di contatto tangibili con il modo in cui la s’intende attualmente. Fino ad allora, una parte assai significativa della scala gerarchica che ordinava le amplificazioni era articolata sulla loro dotazione, più ancora che sulla potenza di uscita. Si riteneva infatti che le possibilità d’intervento sul segnale dovessero essere parte integrante dell’esperienza d’impiego e, soprattutto, costituissero un elemento essenziale ai fini dell’esperienza d’ascolto, per come la s’intendeva in quel momento.

Il frontale dell’E203, in particolare per la sua dotazione, descrive l’argomento in maniera direi esplicita, pur non essendo in posizione così esasperata al riguardo: ci sono amplificazioni della stessa epoca e ancor più di quella precedente, caratterizzate da una dotazione ancora più ricca di comandi, controlli, bottoncini, levette e lucine.

Più ce n’erano, in sostanza, e più l’elettronica era ritenuta di rango: si trattava in effetti di elementi visivi che allo scopo avevano un’efficacia impareggiabile. Proprio perché consentivano di stabilire la levatura dell’oggetto fin dal primo sguardo.

Non lo erano altrettanto però per il destino del segnale costretto a transitare attraverso quella sequela d’interruttori, che di fatto costituivano altrettanti ostacoli disseminati lungo il suo percorso, ciascuno dei quali tratteneva per forza di cose parte del suo bagaglio più prezioso. Ossia gli elementi più sottili, che per forza di cose sono i più vulnerabili, ma anche i più significativi, e di gran lunga, per la connotazione qualitativa della riproduzione,

Di fatto ci si trovava in un paradosso evidente, quello per cui più l’apparecchiatura era di classe elevata e più il suo corredo di elementi atti a penalizzarne la sonorità andava a moltiplicarsi, dando luogo in concreto a un risultato del tutto contrario rispetto al desiderabile.

Tanta di quella mercanzia oltretutto era destinata a restare inutilizzata per il 90-95% del tempo e oltretutto grava sui costi realizzativi in maniera sostanziale. Al di là del costo dei componenti necessari e della maggiore complessità del cablaggio necessario a renderli funzionali, la lavorazione del frontale, e non di rado anche del retro, era resa ben più costosa proprio per la necessità di ricavare gli alloggiamenti per tutto l’equipaggiamento, con le conseguenze facilmente immaginabili.

Di fatto insomma, non solo quanto più si spendeva e tanto più si penalizzava il comportamento sul campo dell’amplificatore o più in generale dell’elettronica realizzata secondo quei principi, che andavano a influenzare anche l’ambito dei diffusori. In realtà si otteneva anche di sottrarre risorse dal nucleo funzionale del prodotto stesso, a meno di non voler moltiplicare i suoi costi di produzione, che per forza di cose avrebbero contribuito a portare alle stelle il prezzo di vendita.

Oggi questa filosofia sta tornando di moda, secondo una tendenza preoccupante. Del resto la tentazione di attribuire una connotazione qualitativa alle apparecchiature coi metodi fin qui descritti resta sempre in agguato. Dato che una volta instillato un certo concetto nella clientela potenziale, riesce poi facile sfruttarlo per mezzo di elementi prettamente visivi, che a questo riguardo hanno un’efficacia pressoché imbattibile: è consequenziale per chiunque, e in particolare per l’inesperto, pensare che laddove si vede di più c’è sostanza in proporzione e quindi il prezzo richiesto, per quale che sia, ha una sua giustificazione. Oltremodo difficile, in quell’abito mentale, è giustificare invece un oggetto potenzialmente ancora più costoso, ma dall’aspetto di povertà disarmante.

Giusto quel paio di manopole, che sono di fatto irrinunciabili, e nientaltro.

Molto infatti, soprattutto quando la scelta avviene sulla carta, si gioca su elementi poco o nulla legati alla qualità sonora in sé e per sé. Poi, una volta che l’acquisto è stato perfezionato, come si suol dire cosa fatta capo ha. E anche se la qualità del suono non è particolarmente spiccata, quanti hanno effettivamente le capacità per accorgersene, oltretutto nel’assenza di una pietra di paragone valida nel medesimo ambiente?

A quel punto inoltre subentra un meccanismo di auto-convinzione nel destinatario di certe lusinghe, essendo per lui necessario giustificare il proprio acquisto e dotarlo di argomentazioni solide, almeno in prima istanza, in primo luogo con sé stesso.

 

Il punto

Elemento qualificante del periodo di transizione che stiamo analizzando è stato appunto il comprendere che tutta quella sovrastruttura non era soltanto inutile ma proprio dannosa, denominatore comune del resto di tutto quanto possa essere catalogato come tale.

In breve pertanto si passò all’idea opposta: quella che il segnale lo si dovesse lasciare in pace il più possibile, fornendogli anzi un percorso il più esente da ostacoli o difficoltà di qualsovoglia natura, proprio ai fini della preservazione delle sue caratteristiche originarie. Concetto di fondo alla base della concezione moderna della riproduzione sonora e quindi di tutto quanto ad essa attinente non vada considerato come anacronistico.

Con un approccio del genere si risparmia oltretutto un bel po’ di soldi, che può essere destinato a componentistica di qualità maggiore, a scelte tecniche più raffinate e perché no, a una più attenta valutazione delle caratteristiche dell’apparecchiatura in funzione delle sensazioni d’ascolto che se ne ricavano, in modo tale da migliorarla ulteriormente sotto questo aspetto.

In breve pertanto si affermò una serie di marchi operanti secondo il nuovo verbo, dando luogo non solo a quello che venne definito “rinascimento”, ma alla fase più florida conosciuta dalla riproduzione sonora amatoriale lungo tutto il corso della sua storia.

Per un periodo a dominare furono apparecchiature dalla povertà visiva fin quasi francescana, ma dalla sonorità finalmente dotata di qualche congruenza con le effettive proprietà del segnale che erano chiamate a riprodurre.

Ce n’erano alcune che a fronte di costi non dico bassissimi ma comunque alla portata di molti, si rivelavano in grado di dare parecchio, sotto il profilo della musicalità pura. Non tanto in termini assoluti, quanto di piacevolezza soggettiva dell’ascolto, elemento primario affinché chi ne trae beneficio sia incentivato a proseguirlo, ad aumentare il tempo che vi dedica e in definitiva a migliorare quanto in suo possesso, proprio perché se ne comprende il senso. Ciò avveniva in particolare quando quelle apparecchiature finivano tra le mani di utilizzatori capaci di metterle nelle condizioni operative più congeniali alle loro caratteristiche, cosa da non dare mai per scontata.

Si ebbe insomma una fase in cui predominava la mentalità rivolta al risultato concreto, in particolare nella destinazione d’uso primaria dell’oggetto. Che in quanto adibito alla riproduzione sonora non poteva che essere inerente la qualità d’ascolto.

Il suo postulato di fondo era che tutto quanto si distogliesse dallo stretto necessario per ottenere la sonorità migliore non potesse che andare a detrimento delle qualità musicali dell’apparecchiatura. Esempio di mentalità finalizzata espressamente all’obiettivo primario che dal punto di vista tecnico e utilizzativo, nonché da quello dell’ascoltatore cosciente, è inappuntabile.

Lo è molto meno però sotto l’aspetto commerciale. Questo non solo ha le sue necessità, ma spesso finisce col renderle prevalenti rispetto agli elementi più legati ai motivi stessi che giustificano l’esistenza di un oggetto. Per quello destinato alla riproduzione sonora riguardano appunto la sua capacità di approssimare il più possibile da vicino l’evento che si cerca di replicare all’interno delle mura domestiche.

Questo sottolinea ancora una volta l’attitudine puramente distruttiva del capitalismo, del quale l’elemento commerciale rappresenta lo strumento primario di concretizzazione. In funzione di esso e delle sue necessità, l’oggetto più specificamente mirato al suo impiego, e quindi più efficace e funzionale, si rivela controproducente. Proprio in quanto di per sè stesso carente sotto l’aspetto della vendibilità, in particolare nella sua dotazione degli elementi finalizzati a stimolare i due elementi cardine a tale riguardo: seduzione e istinto di possesso.

Frontali tirati a lucido, telai imponenti, controlli e levette atti a simboleggiare la competenza dell’utilizzatore, per il fatto stesso di esserne riuscito a comprenderne modalità d’impiego, effetti e finalità, tanto più quanto sono inesistenti o peggio controproducenti, insieme a tutto il resto degli strumenti atti a evocare tutto ciò che la loro stessa presenza va di fatto ad annientare: primi fra tutti i vu meter blu, del più bel blu dipinto di blu.

Per il semplice motivo che qualsiasi altra tonalità è di per sé inadeguata.

Ecco ciò di cui hanno bisogno i professionisti del marketing. Lo reclamano in maniera incessante, coartati come sono a ottenere i risultati ai quali sono stati programmati fin dalla tenera età, minacciando catastrofi, sfracelli e carestie qualora non si obbedisca loro all’istante, in tutto e per tutto. Persino per le pretese più assurde e prive di motivazione pratica.

Proprio in quel modo gl’ideali più belli li si manda in malora. Sempre un pò alla volta, per carità: si comincia da un’inezia, dopo un po’ se ne affianca una seconda e così via. fino al punto in cui quell’ideale non solo non è più riconoscibile, ma risulta di fatto capovolto. Anche se ovviamente chi ha agito in tal senso pretende che tutti credano alla sua assoluta e incorruttibile fedeltà ai principi di un tempo

La traiettoria metamorfica percorsa negli ultimi decenni dalle sinistre reali, passate insieme a tutto il loro apparato sindacale e di propaganda dalla difesa, almeno in apparenza, delle classi più deboli all’imposizione sfrontata e al dilagare dei privilegi propri delle oligarchie, è a questo proposito non significativa ma paradigmatica.

Abbiamo conosciuto tuttavia fenomeni ancora più repentini, nel loro tramutarsi, tipico di tutto quanto abbia origine eterodossa. Impossibile non ricordare quelli che volevano aprire la scatoletta di tonno. In effetti ci sono riusciti, ma solo per dimostrare che volevano mangiarne non solo in contenuto, ma anche tutto quello dello scaffale su cui la scatoletta stava in bella vista, e se possibile dell’intero grande magazzino.

Risultato, di tutti i marchi che per mezzo di quell’approccio hanno permesso l’avanzamento della specialità di nostro interesse fino a renderla congrua con le sue finalità, non ce n’è più traccia alcuna. Quei pochi che si sono salvati ci sono riusciti solo perché vistisi costretti presto o tardi a tornare sui propri passi, hanno abbracciato una filosofia più opportunistica, quella dell’un colpo al cerchio e uno alla botte. Mentre i campioni del paradosso, viceversa, tra i quali appunto i quattro dell’apocalisse, sono ancora lì. Non solo vivi e vegeti, ma di gran lunga i più profittevoli a livello economico e speculativo.

A ennesima dimostrazione che perseguire scopi concreti con rigore e coerenza non rende. Molto meglio specializzarsi in fondali di cartapesta e richiami per allodole.

E’ stato così che nel momento in cui l’acquisto di un integrato come l’E 203 divenne per gli appassionati della mia generazione non più del tutto impossibile, personalmente ho preferito dirottare l’interesse verso prodotti caratterizzati dall’approccio più moderno alla riproduzione sonora. Oltretutto andando direttamente su un’amplificazione a due telai. In apparenza poteva essere più impegnativa ancora, ma in realtà permetteva di suddividere la spesa, acquistando prima il finale e qualche tempo dopo il preamplificatore o viceversa. L’integrato invece lo dovevi acquistare in una volta sola, e pagarlo tutto subito.

 

L’intervento

Una volta collegato all’impianto, l’esemplare di E 203 di cui ci stiamo interessando non ci ha messo molto per msotrare che era messo piuttosto maluccio. Consistenza della riproduzione pressochè assente, estremi banda non pervenuti, dettaglio a encefalogramma piatto. A parte quel gracchiare su un canale, tipico dell’esemplare in questione, è il comportamento più ovvio dell’elettronica arrivata allo stadio terminale delle disponibilità energetiche, dovuto a componentistica esausta.

Inevitabile quindi eseguire una sostituzione dei componenti particolarmente approfondita, in particolare dei condensatori elettrolitici, operazione che ha i suoi costi. Come avviene in tanti ambiti le cose si possono fare in molti modi diversi.

Per quanto mi riguarda, e in particolare su elettroniche dal numero rilevante di anni alle loro spalle, non ha senso alcuno intervenire in maniera parziale, dato che è pressoché inevitabile che in quel poco o tanto che non si è sostituito ci sarà fatalmente il componente che smetterà di funzionare a breve termine, rendendo sostanzialmente vano un intervento eseguito in quel modo.

Nello stesso tempo, dato che si sta parlando di oggetti di buona levatura, per il restauro dei quali si è deciso di investire una certa somma, ha ancora meno senso affidarsi alla componentistica oggi reperibile presso diverse  fonti, sulla cui provenienza, qualità e affidabilità non si ha la sicurezza di poter contare.

Certo, usandola il totale del preventivo si abbassa, e spesso di molto, rendendone più probabile l’accettazione da parte del committente. Per quanto mi riguarda, roba simile non la prendo proprio in considerazione. Per gl’interventi che eseguo personalmente mi affido soltanto ai prodotti di cui mi possa fidare ciecamente, quindi realizzati da marchi primari e di affidabilità inappuntabile, reperiti attraverso i canali presso cui è sicuro non imbattersi nelle contraffazioni, che nel settore dell’elettronica sono un problema endemico.

Non solo, ogniqualvolta sia possibile vado sul prodotto cosiddetto audiophile, per il semplice motivo che una volta finito il lavoro devo essere io il primo a trovarmi soddisfatto appieno per la qualità sonora dell’apparecchiatura su cui sono intervenuto.

Operando in questo modo i costi salgono enormemente o per meglio dire si moltiplicano. A me personalmente non interessa, dato che poi a parlare sono i risultati.

Questo in prima istanza. A medio-lungo termine, l’affidabilità della componentistica utilizzata non potrà che mostrarsi nel modo migliore, dimodochè l’utilizzatore dell’apparecchiatura non potrà che congratularsi con sé stesso per la scelta fatta. Avendo modo infine di comprendere che a fronte di alcune decine di euro in più investite nel restauro dell’oggetto, ha non solo una sonorità che ne rende ben più gratificante l’impiego ma anche la ragionevole sicurezza di poter andare avanti per anni e forse decenni senza problemi di sorta.

Poi, se come diceva Keynes nel lungo termine saremo tutti morti, beh, pazienza.

E’ probabile che quanti si dilettano soprattutto nel cambia-cambia andranno a preferire la classica romanella, atta a risolvere i problemi a breve e nel modo più indolore possibile, tanto poi la patata bollente passa nelle mani dello sventurato di turno. Ma sono costoro veri appassionati di musica e della sua riproduzione domestica o solo affezionati all’aspetto ludico-consumista della faccenda?

Nulla di male se si appartiene alla seconda delle categorie menzionate, per carità, ciascuno è libero delle proprie scelte, ma è evidente che con determinate prospettive certe esigenze vengano meno.

Tornando a parlare in termini di risultati sonici, inutile dire che sono piuttosto espliciti, persino superiori a quello che avrebbe potuto fare la stessa apparecchiatura da nuova. Proprio perchè le caratteristiche della componentistica attuale di qualità migliore eccedono largamente quella disponibile all’epoca e le conseguenze non possono che ripercuotersi con evidente beneficio sulle doti sonore.

Certo, si potrà obiettare che a quel punto il cosiddetto vintage non sia conveniente come in genere s’immagina. Motivo di più per convincersi dell’assoluta incongruenza delle quotazioni che si vedono in giro, oltretutto tendenti al rialzo grazie all’effetto di trascinamento operato da una richiesta sempre in crescita.

Così restaurato, l’E 203 ha ripreso innanzitutto vigore. Ora finalmente la rotazione della manopola del volume produce l’emissione concreta di energia alle uscite e se ne avvale la riproduzione, che finalmente ha recuperato le doti di dinamica peculiari di un’amplificazione non potentissima, ma comunque in grado di esibire credenziali non trascurabili anche sotto questo aspetto.

Inutile dire che un integrato del genere non serve a sonorizzare discoteche il cui compito primario è lo sfondamento dei timpanti dei loro visitatori, e neppure il pilotaggio di diffusori particolarmente ostici o che richiedano centinaia e centinaia di watt per qualcosa che non sia soltanto far loro il solletico. Tuttavia nelle condizioni che gli sono congeniali, nella fattispecie con l’impiego della coppia di Kef Cantor di cui abbiamo parlato mesi fa, o comunque di diffusori di buona efficienza, l’E 203 si dimostra capace diesprimere le sue doti migliori. In termini di potenza di uscita ma soprattutto della grazia con cui viene emessa.

Credo sia proprio questo l’elemento che all’epoca lo fece apprezzare maggiormente, l’assenza degli elementi tipici della sonorità grezza di molte tra le amplificazioni coeve. Magari più potenti e grintose, e forse anche dal prezzo minore, ma caratterizzate da timbriche che in particolare quando le loro doti energetiche venivano messe alla frusta, rivelavano sistematicamente l’assenza delle doti di raffinatezza a livello non dico pari a quelle dell’E 203, ma neppure paragonabili, sia pur lontanamente.

Questo si deve al suo stadio finale a mosfet, all’epoca una vera e propria rarità, che molto probabilmente aveva il suo influsso, e lo ha tuttora, ai fini di una sonorità effettivamente godibile e mai strillata. Almeno fin quando ci si mantiene entro rotazioni ragionevoli per la manopola del volume.

Per il resto si apprezza una timbrica chiara e ben provvista quanto a dettaglio, mentre in termini di equilibrio, coerenza e allineamento delle diverse gamme di frequenza siamo di fronte a un comportamento ineccepibile.

Quanta della produzione attuale può vantare tutto questo, anche se a un prezzo ben maggiore della somma totale spesa per l’acquisto e il restauro dell’integrato in questione?

Ecco, se presa per il verso giusto anche la moda del vintage può avere i suoi lati positivi, permettendo da un lato risparmi considerevoli e dall’altro sonorità finalmente sane, secondo logiche oggi dimenticate. Da un lato per l’esigenza di stupire a tutti i costi, o meglio far spalancare la bocca a un pubblico cui è stato insegnato solo il dover andare a tutti i costi alla ricerca dell’effetto speciale, per quanto inverosimile possa essere, e dall’altro per via delle continua necessità di contrarre i costi di produzione, andando ad aggravare ulteriormente una situazione già non poco compressa in partenza.

Insomma, se ripristinato come si deve, oltre a produrre ascolti decisamente gradevoli, l’E 203 dimostra che nel suo momento l’ora dell’apocalisse non era ancora scoccata.

 

 

Potrebbe interessarti anche

2 thoughts on “Accuphase E 203

  1. Complimenti per l’articolo, per l’oggetto di analisi e per il modo con cui è stato esposto. Di facile lettura.
    Unica cosa che non ho capito, ma a lei i vumeter a led blu, piacciono o proprio lì rinnega?
    Sempre per il fatto che più cose ci sono e meno qualità arriva all’orecchio!
    Grazie.
    Paolo

    1. Ciao Paolo,
      grazie per l’apprezzamento.
      Presi per quello che sono, i vu meter illuminati di blu possono anche essere piacevoli.
      Ma per quello che rappresentano, ossia l’arte di abbindolare persone spesso dotate di capacità di spesa superiori alla loro esperienza e capacità di discernimento, per mezzo di prodotti fatti pagare a peso d’oro ma che sonicamente sono largamente inadeguati, s’impongono come uno tra i simboli più espliciti e deprecabili della realtà che ormai da troppi decenni predomina nel settore di nostro interesse.
      Oltretutto sono tra gli elementi più efficaci ai fini dell’induzione di alcune usanze, come quella di ascoltare con gli occhi, con le targhette del marchio incastonate sui frontali, con i cartellini dei prezzi e con tutta una serie di cose che hanno poco a che fare con l’udito, ormai divenute prassi, e come tali difficili già da ammettere.
      La colpa ovviamente non è dei vu meter in sè, ma di chi ne ha fatto uno strumento abusato a tal punto per il proprio tornaconto.

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *