I dischi di dicembre 2022

Si avvicinano le feste e almeno questa volta c’è materiale in abbondanza per renderle memorabili, musicalmente parlando. E’ in uscita una serie di riedizioni davvero imperdibili, alla faccia dei servizi adibiti alla liquidazione della musica, oltretutto a pagamento.

Fosse per loro, roba simile non avrebbe mai visto la luce, data la miseria oltraggiosa con cui retribuiscono le opere di cui permettono graziosamente l’ascolto, dietro congruo abbonamento mensile.

Tale che, se non continui a pagare vita natural durante, non ascolti più nulla.

Se non si arriva a milioni e milioni di riascolti, quel compenso non basta manco a comprare le corde della chitarra usata per accompagnarsi nei demo di un ipotetico album, da registrare chissà quando e chissà come. Ovviamente insieme a musicisti pronti a suonare unicamente per la gloria.

Dei costi di tecnici, studi, apparecchiature di ripresa eccetera manco a parlarne, ricetta notoriamente efficacissima per ottenere livelli d’eccellenza in termini di qualità sonora.

Per arrivare al numero di ascolti che, alle condizioni date, costituisce il punto di soglia tra la sopravvivenza e il morire di fame, occorre che il brano sia confezionato in un certo modo, tale da facilitarne la presa sui possibili fruitori. A loro volta spinti da quello stesso sistema a passare oltre subitaneamente, basta un click, se quel che ascoltano non ha presa su di loro entro pochi, pochissimi secondi se non proprio all’istante.

Dimodoché quel sistema, sperimentazione di ciò che si sta tentando di far accadere non solo a livello di ascolto musicale ma a 360 gradi, e quindi è stato messo nero su bianco più volte sui siti con cui i decisori globali non eletti da nessuno lasciano graziosamente che quanto hanno stabilito, e a volte persino quanto hanno commesso, venga a conoscenza della plebe, che da parte sua fa di tutto per non sapere, la musica l’ammazza più e più volte.

Prima facendo in modo che il musicista muoia d’inedia e poi obbligandolo, se vuole salvarsi, a degradare e corrompere la sua arte affinché possa trovare la strada della presa più ampia e subitanea su un pubbico che quello stesso sistema rende impenetrabile a qualunque stimolo non sia a livello terra-terra. Infine obbligando a realizzare un prodotto così raffazzonato, dato che fare le cose a dovere costa soldi, da renderlo inascoltabile per chiunque abbia la più remota inclinazione nei confronti del bel suono e della vera arte.

Si tratta senza dubbio di un sistema di comodità e convenienza inarrivabili. A fini distruttivi lo è di sicuro, altroché.

Infatti non si deve far niente, basta lasciarlo agire.

La prima menzione è per Frank Zappa: il prossimo 16 dicembre sarà disponibile la riedizione su LP da 180 grammi di “The grand wazoo”, uno dei dischi migliori dell’intera sua carriera e della sua produzione discografica fin quasi sterminata.

“The grand wazoo è stato il secondo disco da lui realizzato insieme alla big band elettrica con cui ha posto fine alla prima evoluzione, per alcuni versi interlocutoria, conosciuta dalla formazione originale del suo gruppo, le “Mothers of invention”, che lo accompagnava fin dagli esordi del 1966.

Di quell’evoluzione gli elementi più in vista erano due ex Turtles, quelli di “Happy together”: Mark Volman e Howard Kaylan, per l’occasione ribattezzati “The Phlorescent Leech & Eddie”. Il motivo per cui ne parliamo lo vedremo più avanti.

Oltre a essere uno tra gli album più significativi e interessanti della discografia zappiana, “The grand wazoo” è una tra le testimonianze migliori che si possano desiderare riguardo alla fase in cui la parte più “colta” della musica rock non si poneva limiti di sorta, spaziando senza soluzione di continuità attraverso i generi più diversi e spesso imprevedibili.

Al punto che la sua stessa definizione, rock appunto, diveniva qualcosa di parecchio limitativo.

Come Zappa ha spiegato, le copertine dei suoi dischi più che fare da richiamo per il possibile compratore erano una sfida. Del tipo “vediamo se hai il coraggio di ascoltare un disco che si presenta con un’immagine del genere”. Quella di “The grand wazoo” raffigura lo scontro ambientato in un’epoca immaginaria a metà tra l’egizia e la romana, descritto nel racconto presente all’interno, denso di spunti di grande ilarità e scritto dallo stesso Zappa.

Narra appunto della “battaglia combattuta da Cleetus Awreetus Awrightus, l’imperatore funky, insieme al suo esercito di musicisti disoccupati, contro “Mediocrates of Pedestrium”, l’arci-furfante che ha anche lui un esercito fantastico”.

Questi due eserciti combattono ogni settimana, di lunedì. Il punteggio della battaglia settimanale viene segnato su tabelloni (Billboards nell’originale, dalla nota testata che si occupa di musica e classifiche n.d.A.) volantini su pali di telefono, acquedotti spruzzati a bomboletta e tavolette di pietra chiamate LE CLASSIFICHE.

Ogni imperatore, funky o no, ha problemi da risolvere e Cletus non fa eccezione. Al di là della guerra trascinatasi a lungo, c’è un problema di malcontento civile. Un culto grottesco di asceti fanatici e masochisti che non apprezzano la musica è sorto nelle catacombe, proprio sotto la sauna dell’imperatore. Queste persone sono chiamate DOMANDE.

Cletus si occupa di loro con benevolenza nell’auditorio civico. Dopo che sono stati catturati e tenuti in sospeso per un po’, vengono fatti annunci al resto del pubblico in generale, proclamando un FESTIVAL.

Le domande sono marchiate a fuoco nella solita arena ovale col pavimento in terra battuta. E’ a questo punto che Cleetus entra im pompa magna e parla loro per mezzo di un primitivo ma efficace e gigantesco megafono, conosciuto come IL GRANDE WAZOO. Inizia dicendo “Ciao gatti e micette” e il pubblico risponde: “AWREETUS, AWRIGHTUS, AWREETUS, CLETUS!” Al che l’imperatore chiede: “Nessuno di voi, gente, canta, balla o suona uno strumento musicale?

In qualche rara occasione una domanda o due si fanno avanti tra i fanatici e alzano la mano, significando qualche talento represso o interesse di natura musicale. A queste domande ravvedute è permesso di lasciare l’arena (qui la similitudine con quello che sarebbe avvenuto poco più di un anno dopo in Cile con il golpe di Pinochet, dove i potenziali dissidenti furono rinchiusi nello stadio di Santiago) e unirsi all’esercito di Cleetus (che in realtà e una big band).

Invece che in un campo di addestramento sono mandati a lavorare in uno dei molti night club in cui si beve birra e esibiscono ragazze completamente nude (topless/bottomless nell’originale) sotto l’attenta istruzione di un PADRONE DI CLUB sensibile e scrupoloso, che li prepara per il lavoro grosso.

Alle domande che non rispondono al primo appello è data una seconda possibilità, quando una fanciulla poco vestita si precipita tra loro con una scatola di cartone dipinta allegramente contenente CUCCHIAI, e, se mostrano qualche cenno di ritmo naturale nel loro impiego sono rilasciati e inviati a Nashville”.

(…) “Le forze combinate dell’esercito di Awreetus si avvalgono di 5000 suonatori di ottoni, che costituiscono la forza aerea, 5000 batteristi assortiti che sono l’artiglieria, 5000 suonatori di strumenti elettrici (assortiti) che sono la sezione della guerra chimico/biologica/psicologica (altro aggancio significativo con l’utilizzo concreto che è stato fatto di certa musica, proprio quella che ci piace tanto per quanto dolga ammetterlo) e 5000 tipi con tavole di masonite legate al petto, ciascuno di loro afferra saldamente mezza noce di cocco in ogni mano con cui batte ritmicamente sulla tavola… questa è la cavalleria. Cleetus li guida in battaglia col suo scintillante Corno Misterioso (molti ritengono che questo strumento non sia altro che un Sassofono Melody in do, imprestato da Jackie Kelso).”

Da solo il racconto, da cui l’estratto qui sopra, vale il prezzo del biglietto ed è la dimostrazione di quale fosse il livello dell’inventiva da cui traevano ispirazione le opere musicali di quell’epoca irripetibile, improntata a grande libertà concettuale e capacità di astrazione. Cose oggi pressoché debellate.

Il confronto con la produzione dei decenni successivi e peggio ancora dell’epoca attuale è talmente impietoso da far chiedere anche a chi ha vissuto in prima persona l’intera transizione come sia stato possibile un regresso tanto marcato, che allora si sarebbe ritenuto inverosimile.

Insieme a “The grand wazoo” escono anche “Waka/Jawaka”, primo capitolo della sperimentazione elettro-big bandistica di Zappa, dai contenuti musicali e dall’unicità dell’immagine di copertina di valore almeno pari, e “Waka/Wazoo”. Quest’ultimo è un compendio su CD quadruplo, con abbinato un disco Blu Ray, che raccoglie le tracce alternative eseguite nella produzione dei due album menzionati, oltre a una serie di demo inediti di George Duke, tastierista che tempo prima aveva fatto il suo esordio nella formazione utilizzata da Zappa per alcune esibizioni. Compare infatti su “Chunga’s revenge”, in un brano registrato dal vivo, “The Nancy & Mary music”, in cui tra l’altro esegue con la voce l’imitazione di un solo di batteria, cosa allora del tutto inedita ma che sarebbe divenuta parecchio di moda circa una trentina di anni dopo. Duke ricompare poi nella formazione di “The Grand Wazoo”, dando un contributo essenziale e inconfondibile alla musica di Zappa, nella fase della sua traiettoria artistica valutata da molti come la più interessante in assoluto. In particolare per il livello raggiunto nella coniugazione tra qualità dei contenuti, ricerca di nuovi territori espressivi e fruibilità.

“Waka/Wazoo” contiene inoltre la registrazione dell’esibizione del 15 dicembre 1972 al Winterland di San Francisco, con una formazione ridotta a 10 membri che in seguito sarebbe stata definita Petite Wazoo, in cui hanno militato tra gli altri il violinista Jean Luc Ponty, Ian Underwood, redivivo dalla fomazione delle Mothers ormai dismessa e i fratelli Fowler.

Con quella formazione, ulteriormente ridotta nell’organico, sia pure in maniera marginale e con i musicisti menzionati ancora presenti,  Zappa si è presentato nella tournee europea dell’anno successivo, che per la prima volta ha toccato anche l’Italia, nell’estate del 1973. Uno dei concerti si tenne al Palasport di Roma, in cui ho avuto la fortuna di essere presente. Il biglietto costava come sempre 1500 Lire, quando un LP stava invece sulle 3300-3500.

Il disco Blu Ray incluso nella raccolta include i brani dei due album, in doppia versione: ad alta definizione e a 5.1 canali.

Il trittico zappiano è una tra le occasioni migliori per chiunque abbia intenzione di accostarsi all’attività multiforme del grande compositore e chitarrista e anche di avvicinarsi alla sua musica o approfondirne la conoscenza.

Il suo motivo d’interesse non sta soltanto nel rinnovamento costituito dall’avvio della sperimentazione di Zappa in territori più marcatamente jazzistici, almeno in termini di sonorità, ma anche nell’aver segnato la transizione dallo Zappa della prima era verso una nuova fase, in cui ha pubblicato una serie ininterrotta di album memorabili: il doppio dal vivo “Roxy & elsewhere”, “Over-nite sensation”, “Apostrophe”, “One size fits all” e “Bongo fury”, anche questo dal vivo con Captain Beefheart.

 

La pubblicazione del trittico è l’occasione migliore per porre rimedio a una mancanza imperdonabile, rigurdante l’aver trascurato la pubblicazione nei mesi scorsi di “The mothers, 1971”, raccolta di 8 CD che include le registrazioni, integrali, dei concerti da cui a suo tempo è stato tratto uno degli album più incredibili dell’intera discografia zappiana, il “Live at Fillmore East, June 1971” che vedeva all’opera proprio il gruppo di transizione in cui figuravano The Phlorescent Leech & Eddie, dopo il quale Zappa avrebbe iniziato la sua sperimentazione para-jazzistica.

Per chi come me ha apprezzato quell’album così controverso, in particolare per i testi dei brani, davvero da rotolarsi sul pavimento, e lo ascolta ancora oggi con grande piacere, nulla di meglio di questa raccolta per esplorare a fondo il contesto dal quale ha preso forma “Fillmore East”.

Della raccolta fanno parte anche il concerto serale del 6 giugno 1971, quello in cui John Lennon e Yoko Ono salirono sul palco per esibirsi insieme a Zappa e al suo gruppo, e quello del 19 dicembre 1971 al Rainbow Theater di Londra, altrettanto memorabile se non di più.

All’ascolto le registrazioni denotano innanzitutto il lavoro di ritocco e aggiustamento che è stato eseguito su di esse all’epoca, ai fini dell’inclusione sull’LP: piccole cose ma che lasciano capire molto riguardo alla differenza di quel che è avvenuto effettivamente sul palco, anche a livello d’incertezze, piccoli errori di esecuzione e così via, e quello che è stato possibile trovare nel disco.

La versione d’origine, da condensare nei 40-45 minuti di un LP singolo ha finito oltretutto col dare un’immagine non del tutto veritiera riguardo alle esibizioni di quella particolare versione dei The mothers, fortemente sbilanciata sui brani parlati, che predominano largamente nell’album sia pure per un buon motivo, data la particolarità dei loro testi, dialoghi soprattutto. Ne derivava un’opera di fruizione alquanto difficoltosa, in particolare se non si riusciva ad afferrare il loro significato, cosa per nulla improbabile per i non madrelingua. Solo con l’avvento di internet, e la possibilità di trovare in rete versioni trascritte in maniera abbastanza fedele di quei dialoghi, si è potuta comprendere fino in fondo la loro vena caustica e irridente nei confronti dei fenomeni tipici dell’America giovane di quegli anni e delle idiosincrasie del pubblico della musica rock.

La raccolta di cui stiamo parlando permette di cogliere finalmente l’effettiva realtà di quei concerti, ben più bilanciati a favore della parte musicale, nella quale figurano anche inediti parecchio gustosi. A questo riguardo si rimane sconcertati nell’osservare come a distanza di tanti anni dalla morte di Zappa, ormai più di trenta, i suoi archivi riescano ancora a mettere fuori roba di tanto interesse e sostanza. Testimone di un’attività inesauribile, che ha dato vita a una quantità di tesori di portata simile anche a livello quantitativo. Joe Travers, il Vaultmeister incaricato da Zappa in persona di mettere ordine nel suo archivio, dopo tutto questo tempo prosegue ancora la sua attività: chissà se e quando riuscirà ad arrivare in fondo.

Un ulteriore motivo d’interesse riguarda l’osservare come le esecuzioni variassero da una sera all’altra e ancor più come certi brani di cui abbiamo imparato l’esistenza molti anni dopo fossero fatti e finiti già allora. Un esempio per tutti, Sofa, che ha trovato posto in “One size fits all” del 1975 e ancora di più “Wonderful wino”, pubblicato su “Zoot allures” nel 1976 dopo un numero di cambi di formazione e variazioni di stile per composizioni ed esecuzioni rilevante. Ricordo come all’epoca la stampa riportasse con grande rilievo le dichiarazioni di Zappa, riguardanti il suo possesso di materiale sufficiente per pubblicare almeno una decina di LP. Allora si riteneva fossero dei ballon d’essai  studiati apposta per costruire e rafforzare ancora di più la sua immagine che si voleva votata all’istrionismo, invece era assolutamente vero.

Un ultimo aspetto riguarda la quantità di materiale valido che si era costretti a mettere da parte nell’ordinare le scalette degli album dati alle stampe: anche questa doveva essere una cosa tutt’altro che facile.

Da rilevare infine la qualità sonora del materiale, inopinabile per chiunque conosca l’album pubblicato in origine. Dal mio punto di vista è apprezabile anche l’aver lasciato tali e quali i problemi in cui s’incorre di frequente in una registrazione dal vivo, in particolare quando eseguita più per finalità archivistiche che per quelle inerenti un’eventuale produzione discografica. Sono innanzitutto più interessanti perché portano alla luce la realtà effettiva del gruppo di cui riprendono l’esecuzione e soprattutto danno la sensazione molto più vivida dell’evento reale proprio per via dei loro difetti, come ad esempio la saturazione piena, con la conseguente distorsione evidente, quando i cantanti danno fondo alla potenza della loro voce.

Finalmente delle registrazioni dal vivo che si lasciano riconoscere come tali, invece di sembrare roba di studio cui sono stati aggiunti degli applausi.

 

Altra pietra miliare è la riedizione del cinquantennale di “Earthbound” dei King Crimson, forse il disco più controverso della parte iniziale della loro carriera artistica, di gran lunga la più significativa almeno per quanto mi riguarda.

Registrato dal vivo, per mezzo di una macchina a cassette(!) collegata direttamente al mixer di sala, documentava le esibizioni in terra americana di una formazione del gruppo, quella di “Islands” con Mel Collins al sassofono, Boz a basso e voce e Ian Wallace alla batteria, allora già passata alla storia.

Al momento della prima uscita dell’LP Fripp aveva ormai inziato a sperimentare con la versione del gruppo completamente rinnovata mediante l’innesto dell’ex Yes Bill Bruford alla batteria, dell’ex Family John Wetton  a basso e voce, di David Cross a violino e mellotron e del “percussionista folle” Jamie Muir che in breve avrebbe abbandonato il gruppo. Allora si disse per farsi monaco, anche se in seguito l’indiscrezione sembra sia stata smentita.

Si era d’altronde all’apice dell’era dei cosidetti supergruppi, definiti così in quanto formati dall’unione dei musicisti di punta fuoriusciti dai gruppi messisi nell’evidenza maggiore nella fase immediatamente precedente, per la qualità della loro musica. Questa formazione dei King Crimson, del tutto in linea con tale tendenza rispetto alla quale ha toccato anzi uno degli apici indiscussi, avrebbe avuto il suo esordio discografico l’anno successivo con un disco dirompente e sostanzialmente unico nell’intera storia del rock come “Lark’s tongues in aspic”.

Stiamo parlando ancora una volta di cose semplicemente inimmaginabili ai giorni nostri e che ancora oggi restano d’avanguardia, in termini di ricerca musicale, sia pure a mezzo secolo di distanza. Eppure sembravano fin quasi scontate per chi ha avuto la fortuna di vivere “in diretta” quell’epoca irripetibile.

“Earthbound” ha immortalato un lato particolare dei King Crimson, votato all’esecuzione di una musica di durezza estrema, in particolare per i canoni dell’epoca e ancor più per quelli del gruppo. Lo spiega con chiarezza direi estrema l’esecuzione di “21th century schizoid man” compresa nell’album. Era ancor più inattesa e sorprendente. data la contrapposizione praticamente totale nei confronti delle sonorità del solo album di studio dato alle stampe con quell’organico, il più acustico e sognante della loro discografia succedutasi fino a quel punto. Appunto il già menzionato “Islands”, quello di “Formentera lady” e del lungo brano eseguito da una nutrita formazione che occupava la metà conclusiva della seconda facciata dell’album. Vedeva all’opera alcuni tra i più acclamati jazzisti della scena inglese, tra cui Mark Charig, Harry Miller, Robin Miller e Keith Tippett.

Con un prologo simile, nulla di strano che pubblico e critica, nonché addirittura la stessa industria discografica si trovassero impreparati al contenuto di “Earthbound”, che mostrava invece la reale cifra stilistica del gruppo in quella fase particolare. Indirizzata ancora una volta verso un’evoluzione tanto rapida quanto instancabile, secondo la realtà concreta di quel rock che in seguito sarebbe stato definito progressivo: laboratorio stilistico in divenire continuo, febbrile e allergico a qualsiasi forma di costrizione o di limiti per le fonti della sua ispirazione.

Con presupposti del genere e data la sostanziale rottura col resto della produzione discografica dei King Crimson, “Earthbound” è stato un disco a lungo lasciato andare nel dimenticatoio, dove è rimasto per un intero trentennio. E’ stato persino tralasciato nelle storiche riedizioni del quarantennale, quelle curate nel remastering da Steven Wilson dei Porcupine Tree. In esse hanno figurato tutti gli altri dischi della prima era del gruppo incluso anche USA, l’altro disco del gruppo registrato dal vivo in forma diciamo così ufficiale, anch’esso postumo e pubblicato nel 1975. In realtà anche “Starless and bible black” aveva nella sua scaletta diversi brani dal vivo, dai quali però era stata eliminata ogni traccia di riconoscibilità per la loro origine.

Ora la lacuna è stata colmata e così vede finalmente la luce la prima riedizione di “Earthbound” su supporto analogico, da 200 grammi, primo album dal vivo in assoluto registrato dai King Crimson. E’ tratta però dal remaster eseguito in occasione dell’edizione su CD/DVD del 2017. Ne consegue pertanto che l’edizione originaria di “Earthbound”, quella pubblicata nell’estate 1972, mantenga tuttora la sua unicità.

In piena continuità concettuale con il colore della sua copertina, “Earthbound” è da sempre la pecora nera della discografia dei King Crimson. Persino la Atlantic, etichetta dei King Crimson per la distribuzione negli Stati Uniti, a suo tempo non ha ritenuto fosse il caso di pubblicarlo. Eppure conteneva le registrazioni dal vivo sul suolo americano, tra l’altro contenenti diversi inediti, di uno dei gruppi più in vista del prog inglese, parecchio apprezzato oltreoceano, forse ancora più che in patria. La riedizione di “Earthbound” è disponibile dal 2 dicembre scorso.

Dopo una serie di dischi di quelli che ti mettono la dinamite sotto al sedere passiamo a un’altra pietra miliare, ma di genere più riflessivo. Si tratta di “Harvest”, quarto disco solo di Neil Young e forse il più apprezzato in assoluto dell’intera sua discografia, giunto anch’esso all’edizione del cinquantennale.

Così si è ridotta l’industria discografica, con il suo cieco perseguire unicamente il profitto, obbedendo del resto alla sola legge riconosciuta dalla società capitalista, dalla quale peraltro le è stato affidato il ruolo di anticipare nuovi modelli comportamentali, stili di vita e rapporti sociali cui s’intende giungere, preparando e plasmando allo scopo le menti dei suoi fruitori. E quel che accade in genere a tutta l’industria dello spettacolo.

Per l’anniversario le cose sono state fatte in grande: il cofanetto comprende tre LP o tre CD, a seconda dell’edizione, nei quali sono raccolti ovviamente i brani comparsi sull’album di origine, insieme a una serie di tracce alternative e alla registrazione del concerto per la BBC mai pubblicato in precedenza.

La riedizione, distribuita a partire dal 2 dicembre, comprende inoltre due dischi DVD che permettono di osservare “Harvest” secondo una nuova prospettiva. Il primo è “Harvest time”, un film inedito di due ore le cui riprese sono state eseguite durante la produzione del disco, con reperti dalle sessioni “Harvest Barn” che ebbero luogo  nel nord della California, a Nashville e a Londra. Il secondo è il film del concerto solo per la BBC registrato il 23 febbraio del 1971.

Immancabile ovviamente il libretto in cui vi sono foto mai viste prima, un testo curato dal fotografo Joel Bernstein e persino un poster. Il cofanetto analogico comprende inoltre una stampa litografica.

Festività che si rispettino non possono trascorrere senza che sia data alle stampe un’ulteriore testimonianza dell’attività artistica di Jimi Hendrix: stavolta tocca al concerto tenutosi al Los Angeles Forum il 25 aprile del 1969. Ad affiancare il chitarrista mezzosangue nero-pellerossa era il suo Experience, ossia Noel Redding al basso e Mitch Mitchell alla batteria. Si tratta della registrazione dell’intero concerto, inedita in quella forma, Solo alcuni estratti sono stati pubblicati agli inizi degli anni 90 nel cofanetto “Westwood one” e come tali erano irreperibili da circa un trentennio.

La scaletta comprende i cavalli di battaglia della musica hendrixiana, eseguiti in una forma davvero smagliante. In quella fase il suo gruppo aveva raggiunto ormai l’intesa migliore e non mancava molto al suo avvicendamento da parte della “Band of Gypsys” e poi dell’ibrido costituito dal bassista Billy Cox, che faceva parte di quest’ultima formazione, insieme a Mitchell rientrato a sostituire Buddy Miles. Il brano forse più interessante dell’album riguarda il medley tra Voodoo Child (Slight return) e “Sunshine of your love” dei Cream.

Ultima segnalazione per questa volta è “Soul on top” di James Brown, accompagnato per l’occasione da una big band capitanata dal batterista Louis Bellson con arrangiamenti di Oliver Nelson, il compositore di “Stolen Moments”.

Nella formazione spiccano i nomi di Buddy Collette al sassofono, Ray Brown al contrabbasso, Ernie Watts sempre al sassofono, che insieme al trombonista Ken Shroyer avrebbe fatto parte dell’organico di “The grand wazoo” di cui ci siamo occupati in apertura. Immancabile ovviamente Maceo Parker, braccio destro di Brown., in cul la comunicatività del padrino del soul è coniugata una grande raffinatezza stilistica, con risultati davvero meritevoli di essere ascoltati.

Anche per questa volta è tutto.

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