Il DM 16 è stato il diffusore alto di gamma del listino B&W nella fase di passaggio tra gli anni 1970 e 1980.
Si tratta di un tre vie dalle dimensioni e dalle prerogative non così dissimili da quelle dei modelli coevi e più noti di rango elevato, come ad esempio gli Yamaha NS 690 di cui ci siamo occupati qualche tempo fa.
Differenza sostanziale, nei loro confronti, è la presenza di un piedistallo, ben integrato nella struttura del diffusore, che fa dei DM 16 esemplari da pavimento, malgrado la similarità con i 690 che erano ritenuti invece da libreria, per quanto sui generis, all’epoca della loro commercializzazione.
Un altro aspetto interessante è la specularità del frontale, e di conseguenza della disposizione degli altoparlanti, tra i diffusori che formano la coppia. Si tratta di un fattore di aumento significativo per i costi di produzione, da non dare per scontato anche per gli esemplari destinati alla clientela più esigente.
Nell’osservazione del diffusore saltano agli occhi l’armonia e la razionalità delle linee. talmente indovinate da suggerirne all’istante l’appartenenza a un segmento di vertice. Nello stesso tempo sono di grande semplicità e soprattutto realizzano possibilità d’inserimento in ambiente assolutamente indolore, posto di avere a disposizione lo spazio sufficiente.
Poche, semplici linee orientate e distanziate secondo le scelte più appropriate suggeriscono tutto quel che c’è da suggerire e nel modo migliore, nulla di più e nulla di meno. Detta così, sembra una cosa da niente. Ma poi, guardando il resto della produzione, e soprattutto quel che è venuto dopo, anche da parte dello stesso costruttore, si comprende che non lo è, assolutamente.
A spiegarne il motivo basta qualche parola, oltretutto banale: per fare certe cose, bisogna essere capaci. Allo scopo occorre talento, dono sempre più raro e non per caso, essendo lo stesso ordinamento sociale in cui viviamo a distruggerlo in chi lo possiede, fin dalla più tenera età, in nome e per mezzo dell’omologazione.
Chi non la accetta viene emarginato, prezzo da pagare enorme, se si desidera mantenere la propria indipendenza, già in un’epoca in cui la concezioni erano ben più tolleranti rispetto a quelle di oggi, in cui vige la logica del pensiero unico ma lo stesso si pretende di essere arrivati al punto più alto della democrazia. Pertanto i meccanismi e le dinamiche che derivano da una contrapposizione a tal punto stridente, non possono che schiacciare e triturare tutto quanto vi entri in contatto.
D’altronde se il mercato deve essere dominato da un numero ristrettissimo di fornitori globali, si deve fare in modo che lo stesso prodotto vada bene per tutti, dalle Alpi alle Piramidi e dal Manzanarre al Reno. Allo scopo occorre distruggere innanzitutto gli elementi di diversificazione, e quindi di libertà di scelta: la piccola e media impresa, e ancor più l’iniziativa individuale.
Proprio quelle in cui il nostro Paese primeggia, motivo per cui da almeno tre decenni è bersaglio delle politiche più efferate e devastanti a livello economico. E di conseguenza culturale, dato che chi non ha di che riempire la pancia difficilmente può pensare al cibo per la mente. Proprio le politiche che sono state portate all’apoteosi dallo sportellista bancario non eletto da nessuno, al pari degli ultimi suoi cinque predecessori e già insignito a suo tempo, da fonti degne della massima fiducia, del titolo di vile affarista.
In piena continuità con quella definizione, pur di accaparrarsi un posto in cui possa ritenersi al sicuro da qualsiasi incriminazione per le malefatte che ha commesso, innumerevoli e di gravità inusitata, veri e propri crimini contro l’umanità, sta esponendo a rischi gravissimi lo stesso avvenire del Paese, del quale ha spergiurato di servire gl’interessi mentre è interessato solo ai propri. Come se non fosse più che abbastanza ne calpesta per l’ennesima volta la Costituzione, laddove recita che la Repubblica Italiana ripudia la guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali.
Questo è certamente vero, a livello di volontà popolare, così di essa approfitta per porre il dilemma pace o condizionatore, senza comprenderne, o comunque fingendo di non vederne la strumentalità, che oltrepassa i limiti del grottesco. Come è grottesco, nello stesso momento in cui impone al Paese di tenerli spenti, il dotarsi nei suoi uffici di 57 condizionatori nuovi di pacca. Controvalore, 40 mila euro. Neanche tanto, a ben guardare, anche se conta il principio.
Per certi addetti ai lavori con quella somma non ci scappa nemmeno una coppia di diffusori high end.

Pur nella loro lungimiranza, i Padri Costituenti non hanno immaginato che modalità squisitamente belliche si sarebbero potute usare non per le controversie tra Stati ma per la ridefinizione dei rapporti interni, sociali e di classe, come sta avvenendo per mano di una nomenclatura che per conseguenza stessa dell’imposizione del pensiero unico si è giocoforza unificata anch’essa e pertanto mai è stata così delinquenziale come oggi. Da collaborazionista qual è, vile almeno quanto l’affarista che si trova ai suoi vertici, non risponde al popolo che le ha conferito il mandato ma a entità esterne al Paese, nella sicurezza della più totale impunità.
Tutto questo mentre le percentuali della povertà esplodono a livelli mai visti nell’ultimo mezzo secolo di storia e oltre.
Neppure è stata provvista, la Costituzione, di un apparato penale tale da salvaguardarla in modo adeguato dagli assalti degli scagnozzi di un capitale che l’ha sempre avuta come un peso sullo stomaco e di fatto è riuscito a liberarsi di essa nella sua totalità, senza neppure passare attraverso i meccanismi e le pastoie che ne consentirebbero la modifica, riguardo alle parti per cui è stato previsto.
Così, trovato il pretesto giusto e organizzato il colpo di teatro ad esso conseguente, è stato uno scherzo scavalcarla e quindi neutralizzarla di fatto, pur se sulla carta sarebbe ancora vigente, e di sicuro la si farà valere per ciò a cui si troverà interesse, nell’inerzia più totale di ogni organismo di garanzia.
Tutto questo proprio in quanto fattivo, o meglio necessario, alla costruzione della realtà centrata sul singolo prodotto che va bene per tutti, appunto secondo la logica del “One Size Fits All”, di cui abbiamo già parlato, tempo addietro.
Non è possibile infatti ridurre all’omologazione un popolo, se si rispetta la dignità e l’integrità fisica, morale e intellettiva, quindi culturale, dei suoi componenti.
Frank Zappa ne ha fatto il titolo di uno dei suoi album migliori, già nel lontano 1975.
Aspetto fondamentale del meccanismo in questione è che a tale condizione si perviene agendo non sul prodotto, come si potrebbe ritenere in prima battuta, cosa di fatto impossibile, ma sul pubblico cui è destinato. Uniformandolo, a livello planetario per mezzo dell’omologazione che chi ne ha il potere, innanzitutto economico, impone attraverso i mezzi usuali. Primi fra tutti, quelli della propaganda, non a caso divenuta asfissiante, accorgimento necessario per rendere credibili realtà inesistenti, come ha spiegato a suo tempo un certo signor Goebbels, anche se in realtà non era farina del suo sacco, e con metodi volti a indurre innanzitutto terrore nei suoi destinatari.
Uno dei primi esempi della prassi in discussione è stata la moda del cosiddetto unisex, che tanto ha influenzato le persone appartenenti alla mia generazione, non solo nell’abbigliamento ma anche per gli usi, i costumi, le modalità percettive e gli aspetti cognitivi. Non vale soltanto come esempio atto a spiegare le modalità di evoluzione del mercato verso un prodotto unico, adatto per chiunque, ma anche a farci capire come, una volta imposto quel principio, non ci sia più neppure bisogno di spingerlo ulteriormente, dato che il suo dettato viene introiettato al punto di obbedirvi spontaneamente, come in conseguenza di una sorta d’impulso a distanza.
Guai a chi non lo fa: si segnala in automatico e in tutta evidenza, data la sua inadeguatezza già a partire dal vestiario, che gli vale in maniera altrettanto automatica l’essere posto all’indice, e quindi l’emarginazione, da parte della maggioranza schiacciante che obbedisce all’ordine proveniente da remoto, anche in senso temporale e non solo di distanza. In egual modo, le coniugazioni più estreme di quella che si fa passare per una moda ma in realtà è un’imposizione a carattere assolutistico, tanto inverosimili quanto degradanti per la dignità dell’individuo e del contesto sociale in cui vive, non solo sono accettate senza battere ciglio, ma vengono innalzate persino a modello cui inevitabilmente ci si andrà a uniformare in tempi relativamente brevi.
Proprio ai fini dell’omologazione il talento è stato reso inutile e, colà dove si puote, lo si ritiene persino dannoso, in quanto segno di un’attività cerebrale indipendente che va repressa a ogni costo.
A cosa servirebbe del resto se, facciamo un esempio a livello musicale, per produrre un fenomeno di successo planetario basta prendere un ragazzotto sufficientemente aitante e belloccio, lo si addobba con reggicalze, vestaglia trasparente e tacchi a spillo, gli si mette a fianco una sgallettata con le tette incerottate e per quel tramite, previo battage propagandistico a reti e testate unificate prolungato per il tempo necessario, lo s’impone all’attenzione generale del pubblico. Che risponde prontamente. col seguito entusiasta di grandi e piccini. E persino degli ultrasettantenni, come ho avuto personalmente modo di osservare pochi giorni fa.
Ovviamente nessuno dei seguaci di quel pietoso fenomeno da baraccone, spinto a un’apoteosi della volgarità così demenziale e squisitamente surreale, si rende conto di essere manipolato in maniera deliberata e a tal punto.
Anzi, per evitarlo sono già pronte le definizioni a emissione automatica per chiunque osi mantenere un qualche contatto con la realtà concreta: retrogrado, passatista, maschilista, sessista e per conseguenza inevitabile, fascista.
L’aspetto più interessante di quella roba è che il suo schema di fondo funziona in pratica a ogni livello. Anche dei pretesti mediante i quali si arriva a decidere i destini dell’intero pianeta.
Basta prendere un individuo ambizioso, privo di scrupoli e decerebrato abbastanza da obbedire a qualsiasi ordine, lo si veste ancora una volta con reggicalze e tacchi a spillo e gli si fa suonare così abbigliato, in regolamentare diretta TV, il pianoforte con l’organo riproduttivo. Previa sottoposizione a trattamento sovradimensionante, altrimenti non sarebbe vistoso a sufficienza per l’occhio della telecamera.
In seguito, grazie alla notorietà così acquisita e all’ulteriore supporto di uno sceneggiato a puntate con cui si fa credere anche il pubblico adulto, preventivamente idiotizzato, nell’esistenza di Babbo Natale, se ne fa un ariete. Atto a scardinare la finestra da cui far rientrare le forme peggiori e più turpi di quel nazismo che sembrava cacciato dalla porta e quindi debellato per sempre.
Per novant’anni filati lo si è additato come male assoluto e insuperabile, potendolo così utilizzare come paravento per malefatte mille volte peggiori, già per il fatto che ci si può avvalere di mezzi tecnologicamente più avanzati, e di gran lunga. Poi però, come del maiale non si butta via niente, mediante una serie di sotterfugi architettati con cura, lo si sdogana e gli si attribuisce un nuovo seguito globale. Organizzando il tutto, per meglio confondere le acque, affinché abbia i sostenitori più fanatici e oltranzisti nei chierici della sinistra e nel popolo che ne segue scelte e indicazioni in maniera del tutto acritica, quindi incapace di ogni dubbio.
Si dispiega così di fronte ai nostri occhi, e nella maniera più esplicita, quel che a suo tempo è stato profetizzato dal più grande poeta italiano del dopoguerra e forse dell’intero secolo in cui è vissuto. Che proprio a simboleggiare il valore attribuito al talento, e non da oggi, è stato trucidato nel modo più barbaro, il due novembre di quarantotto anni fa, nel luogo più malfamato della borgata simbolo per eccellenza del degrado sociale, culturale, urbanistico e umano.
All’idroscalo di Ostia, assurto così a notorietà nazionale, in nome e per conto delle élite di questo Paese scellerato. Talmente vili da incolpare di quel delitto un semi-squilibrato, con la connivenza più ignobile e smaccata delle istituzioni, ancora una volta a qualsiasi livello. E’ inverosimile del resto che un individuo così esile potesse eseguire azioni che richiedono una forza applicabile soltanto da più persone, o meglio energumeni, evidentemente già presenti nel luogo prestabilito. Peraltro nei confronti di una vittima nota anche per la sua piena efficienza fisica e il suo costante allenamento.
Anche quel fatto così abietto, a ben guardare, ha avuto la sua valenza a livello sperimentale, proprio per saggiare fino a che punto possano arrivare la credulità e la crudeltà popolare. Infatti per tutti a uccidere Pierpaolo Pasolini, passandogli più volte sopra con la sua stessa auto, è stato Pino la rana e per più di qualcuno ha fatto bene, per ragioni su cui è meglio stendere un velo.
Per come è stata raccontata, la vicenda ha anche uno scopo addestrativo, volto a sospingere un passo più in là il punto di soglia del comune senso del verosimile.
Neanche Pasolini, tuttavia, ha immaginato si potesse arrivare a tanto. Ossia innalzare l’individuo esibitosi in quella singolare prestazione al pianoforte a martire globale della libertà, dopo che per anni, da burattino delle élite, ha ucciso, bombardato, gassato, rinchiuso e torturato chiunque fosse colpevole di appartenere all’etnìa odiata a tal punto, da lui e da una parte rilevante dei suoi connazionali. Sempre in nome della lotta al razzismo, sia chiaro, che resta il peccato originale numero 1 di cui ci si possa macchiare. Valido però solo nei confronti di chi ha la pelle scura, dato che per chiunque altro evidentemente non conta, anzi è persino raccomandabile.
Ora quel burattino, lo Stato di cui si trova a capo e l’intero suo popolo fanno da paravento alle élite che li controllano, li usano e li hanno resi ostaggi e scudi umani, incaricati di combattere la loro guerra di conquista per procura (proxy war), istigata come sua abitudine col pretesto da una superpotenza che però non vuole comparire direttamente. Proprio quella che ha inventato la gabola del golfo del Tonchino, per massacrare Vietnam, Cambogia e Laos per oltre dieci anni. Anche stavolta tutti sanno che è coinvolta fino alla cima dei capelli ma fingono di non saperlo. Così si limita ad alti proclami, da parte di chi ha ritenuto, in pubblico, lo sterminio di centinaia di migliaia di bambini iracheni un prezzo che è stato giusto pagare, per esportare la democrazia. Ora fornisce armi e denaro in quantità, secondo la riedizione depurata e attualizzata dell’armiamoci e partite di mussoliniana memoria, nel suo significato più genuino ed edificante.
Segui i soldi, dice il saggio. Quella superpotenza e l’impero coloniale del quale ha il controllo, come ci ha spiegato già diverso tempo fa un esperto del calibro di Nino Galloni, per mezzo della cartiera con cui realizza un prodotto interno lordo basato in massima parte sul fittizio e l’inesistente, ha accumulato debiti tossici per un valore superiore a 55 volte il PIl mondiale.
Il che tradotto in termini pratici vuol dire che, per farvi fronte, sarebbe necessario che l’intero mondo lavori a pieno regime per più di mezzo secolo, ma senza toccare una briciola di pane o bere una sola goccia d’acqua.
Com’è inevitabile, è arrivato a rischio di saltare in aria, cosa che se accadesse trascinerebbe con sé il mondo intero, con un evento dalle conseguenze inimmaginabili. In confronto al quale la scaramuccia a carattere regionale cui stiamo assistendo è una pinzillacchera, malgrado il polverone mediatico appositamente innalzato. Dunque occorre metterci una pezza, tanto più nel momento in cui un altro pupazzo molto in vista ha preso la curiosa abitudine di salutare persone inesistenti nelle occasioni pubbliche e di fronte agli occhi e alle telecamere di tutto il mondo.
Meriterebbe di essere lasciato in pace, data la sua età e le sue condizioni di salute. Invece una manica di profittatori, ancora una volta dalla viltà disumana, lo ha messo a copertura dei suoi traffici inconfessabili.
Tutto ciò rende l’Unione di Stati che rappresenta, e l’impero che a sua volta controlla, quello che appunto ha sulle spalle la massima parte di quel debito, mediante il quale ha imposto al mondo intero il suo predominio politico, economico e militare che è sul punto di disgregarsi, non più affidabile. Pertanto quel debito deve trovare al più presto un corrispettivo, tangibile. Dato che, com’è noto, se i prestiti vengono concessi per mezzo di pezzi di carta, quando si deve ripagare il debito che ne deriva ci vogliono i beni reali. Così le banche hanno acquisito il loro potere assoluto, il che mette in evidenza la natura rapinosa sui cui si regge tutto il sistema che fa capo a quel meccanismo.
Ora basta farsi una domandina facile facile: quale paese al mondo ha la ricchezza più grande di materie prime ancora da sfruttare e in larghissima parte inesplorate, quindi di beni reali in misura ancora una volta incalcolabile?
E come si fa per sottrarglieli, in modo da tamponare quel debito impagabile o meglio dare ai mercati, appositamente deificati, l’impressione che lo si possa fare, cosicché tutti tornino a dedicarsi con tranquillità e fiducia ad accudire ed alimentare la macchina che produce denaro dal denaro, ma divorando tutto quanto ha attorno, a livello planetario?
Risposta esatta, basta solo trovare il pretesto. Appunto nella persona di uno che prima suona il piano con l’uccello, abbigliato con calze a rete e tacchi a spillo e poi lancia proclami all’intero mondo, con l’intento di colpevolizzarlo se non accetta le richieste, che qualcuno ha scritto per lui, in armi e denaro, quantomai esose.
Alle quali tutto il mondo che vuol passare per civile e democratico, soprattutto per il tramite dello schermo TV, si precipita ad accondiscendere, facendo a gara per dargli sempre di più.
Naturalmente tutto questo è troppo complesso per poter passare dalla TV, oggi divenuta come la DC di una volta. Tutti la guardano, per poi ripeterne a pappagallo le fandonie colossali, ma giurano di non farlo per nessun motivo al mondo. Esattamente come ai tempi di Andreotti votavano tutti scudo crociato, per poi negare di averlo fatto, persino alla propria madre, anche solo per una volta.

Libertà, dicevamo prima, di pensare e agire tutti allo stesso modo, ovviamente, fine ultimo di genti che hanno subito un intervento di lobotomizzazione così radicale da essere ormai, con ogni probabilità, senza ritorno.
Anche perché dello schierarsi, di fatto, tra i sostenitori di malefatte così enormi, una traccia pur se a livello subcosciente resta nell’animo di qualsiasi essere umano. Che proprio per quel tramite, in funzione del senso di colpa che ne deriva, è reso manipolabile con facilità anche maggiore.
Del talento tutto questo è all’antitesi, come del resto appare evidente nella realtà che stiamo vivendo. L’unico a cui è concesso diritto di cittadinanza è quello rivolto al male, dove vediamo eccellenze sempre più estreme e raffinate.
Ninna nanna, nanna ninna,
er pupetto vò la zinna:
dormi, dormi, cocco bello,
sennò chiamo Farfarello
Farfarello e Gujermone
che se mette a pecorone,
Gujermone e Ceccopeppe
che se regge co le zeppe,
co le zeppe d’un impero
mezzo giallo e mezzo nero.
Ninna nanna, pija sonno
ché se dormi nun vedrai
tante infamie e tanti guai
che succedeno ner monno
fra le spade e li fucili
de li popoli civili
Ninna nanna, tu nun senti
li sospiri e li lamenti
de la gente che se scanna
per un matto che commanna;
che se scanna e che s’ammazza
a vantaggio de la razza
o a vantaggio d’una fede
per un Dio che nun se vede,
ma che serve da riparo
ar Sovrano macellaro.
Chè quer covo d’assassini
che c’insanguina la terra
sa benone che la guerra
è un gran giro de quatrini
che prepara le risorse
pe li ladri de le Borse.
Fa la ninna, cocco bello,
finchè dura sto macello:
fa la ninna, chè domani
rivedremo li sovrani
che se scambieno la stima
boni amichi come prima.
So cuggini e fra parenti
nun se fanno comprimenti:
torneranno più cordiali
li rapporti personali.
E riuniti fra de loro
senza l’ombra d’un rimorso,
ce faranno un ber discorso
su la Pace e sul Lavoro
pe quer popolo cojone
risparmiato dar cannone!
Trilussa, anno 1914
Già allora il poeta romanesco erede del Belli aveva capito tutto. A più di un secolo di distanza, la maggioranza reputa necessario mostrare con sussiego la pretesa di non aver capito nulla.
Spesso perché non vuol sapere. Ma allora, come ha detto una persona dalla mente acuta, se non vuole più sapere, che fine fa l’homo sapiens?
E’ ancora tale? Oppure proprio perché reputa necessario adoperare tale pretesto, non considera che così facendo perde il suo status e si riduce alla stregua di una pulce, e come tale viene schiacciato. Da un potere che proprio in quanto messo in discussione e gravemente ferito dalle conseguenze delle sue stesse malefatte, mostra il suo lato più truce, violento e omicida.
I DM 16 e la produzione attuale
Al di là delle questioni di costo, che per ora tralasciamo, il parallelo con l’alto di gamma commercializzato nell’epoca disgraziata di oggidì assume caratteri sostanzialmente impietosi.
Basta osservare qualcuno dei suoi campioni per rilevarne la tendenza irrimediabile non solo al brutto, ma all’osceno, per quanto è pacchiano, inutilmente pletorico e regolarmente condito dall’arrogante spocchia finto-tecnologizzata che piace tanto all’oligarca e all’arricchito troppo in fretta, ma anche di più a chi aspira alla loro condizione sociale.

Peggio ancora, a chi crede sia necessario mostrare innanzitutto a sé stessi la capacità di anticipare e dominare le tendenze più avanzate di un progresso appositamente mitologizzato e innalzato a divinità pagana del nostro tempo. Senza voler comprenderne e anzi trascurando minuziosamente le sue finalità concrete, volte innanzitutto alla sottomissione dell’uomo alla creazione del suo simile, la macchina, affinché la possa idolatrare come si conviene, e poi all’imposizione di un modello, di vita più che stilistico, atto in primo luogo a suggerire l’inesistente, come tale ingannevole e pretestuoso.
Se già a livello visivo un diffusore come come quelli raffigurati denota le difficoltà insormontabili in cui la sua squadra di progettisti è incorsa nel conciliare l’attribuzione di una veste ritenuta consona a un senso estetico minimamente degno di questo nome, per quale motivo sotto l’aspetto della qualità di emissione le cose dovrebbero andare in maniera diversa?
Del resto è ben noto che l’hi-fi per oligarchi non ha priorità alcuna nel raggiungere traguardi sonici di una qualsiasi rilevanza, essendo il suo scopo fondamentale l’esibire le capacità di spesa, possibilmente illimitate, del suo acquirente. Il quale, per forza di cose occupatosi dell’ammucchiare denaro in maniera similmente ossessiva, è alquanto improbabile possa contare su un’educazione uditiva per quale che sia.
Nella sua transizione dal brutto all’osceno, per finire inevitabilmente al mostruoso, si riassumono tutte le difficoltà dell’industria di settore, al momento attuale, nel corrispondere alle condizioni e ai vincoli che essa stessa si è attribuita, ritrovandosi poi nell’obbligo di uniformarsi ad essi, ponendo così in evidenza un’attitudine all’autodistruzione a dir poco spiccata e senz’altro emblematica.

Certa roba, in sostanza, non la vorrei nemmeno regalata, innanzitutto per questioni di prezzo, oltraggioso, anche se c’è chi sbava di fronte ad essa e per farla propria sarebbe pronto a fare carte false. Il motivo è semplice: mi vergognerei di averla nella mia saletta.

Dal canto suo B&W è stato un anticipatore della tendenza appena descritta, riguardo alla quale il trapasso da DM 16 a 801 è stato piuttosto esplicito.
Dal diffusore di aspetto raffinato e di pilotaggio non troppo complesso, bastano una cinquantina di buoni watt per canale per farlo rendere in maniera più che dignitosa, si è passati al prodotto oggettivamente brutto e per di più assai difficile da pilotare. Capace in effetti di digerire quantità di watt inusitate, specie all’epoca, ma nello stesso tempo divoratore insaziabile di potenza, della quale in sostanza non ce n’è mai abbastanza.
Ricordo come se fosse ieri il suo assorbire poco meno di un kilowatt senza manco fare una piega. E quel che è peggio, senza dare seguito alcuno, in termini di pressione sonora e di dinamica di emissione, a tale inusitato quantitativo di corrente, più da cabina di smistamento della rete elettrica che da apparecchiatura che abbia qualche probabilità di entrare nelle case degli appassionati, sia pure nella loro frazione più benestante.
Al di là dello sbigottimento causato dal trovarsi di fronte a dimostrazioni di dispendio di energia tanto esagerate quanto prive di conseguenze pratiche di qualche rilevanza, quell’accadimento è stato la dimostrazione iniziale, per il nostro settore, che all’avanzamento tecnologico, presunto, difficilmente si accompagnano prerogative non dico di segno equivalente, ma almeno correlabili in qualche modo all’esperienza concreta fatta dall’essere umano. Al quale in teoria certi oggetti si riterrebbero destinati.
Si, la testa girevole, realizzata oltretutto in maniera tale da rendere alquanto fragile tutto il sistema, l’indirizzo ai vertici qualitativi, non si sa fino a qual punto ottenuti effettivamente e quanto resi sinonimo della serie a botte di propaganda, i costi della quale è probabile abbiano influenzato le quotazioni del prodotto già allora inavvicinabili per il comune mortale, hanno caratterizzato effettivamente la serie iniziale degli 801.
Si è trattato di diffusori sgraziati nelle loro proporzioni tracagnotte, prima ancora che brutti, e tali da segnare un regresso evidente nei confronti dei predecessori così gradevoli, ai quali li imparentano numerose soluzioni tecniche, a livello di altoparlanti, di rete di filtraggio e d’impostazione generale.
Dimostrazione, ennesima per noi ma forse inedita a quell’epoca, che la frenesia della rincorsa all’assoluto sembra presentarsi quale sinonimo di avanzamento, ma fa presto a produrre, nel concreto, passi indietro tutt’altro che irrilevanti.
Poi, forse, la setta formata dagli adoratori degli 801, griderà allo scandalo o peggio al sacrilegio, come del resto è già avvenuto in passato per altri oggetti e questioni. Ma se l’amore è cieco, l’idolatria rende sordi, prima ancora di ottenebrare i cervelli, neutralizzando per conseguenza, e alla lunga atrofizzando, i recettori degl’impulsi provenienti dagli organi sensoriali nonché ogni elemento capace di darci un qualche legame, sia pure remoto, con la realtà che ci circonda.

Sostanzialmente inguardabili, in particolare a griglie montate e difficilmente inseribili in ambiente, ulteriore dimostrazione che nel pieno convincimento di andare avanti non è da trascurare l’ipotesi di procedere all’indietro, soprattutto nel concreto, gli 801 hanno avuto la loro consacrazione in quello che a livello propagandistico è stato un colpo da maestri: l’infilarli, non è dato sapere a quali condizioni, negli studi Abbey Road. Da cui si è ricavato un mantra che prosegue, se possibile ulteriormente ingigantito, persino ai giorni nostri.
E’ anche vero d’altronde che allora si era nell’epoca del rigore timbrico divenuto fin quasi proverbiale per i diffusori del marchio inglese, e più in genere per la scuola d’oltremanica. Anche se di li a una quindicina d’anni si sarebbe iniziato a rinunciarvi, in maniera sempre più evidente, per rincorrere le preferenze del mercato. Migliorando forse i conti economici ma non la reputazione del fabbricante, che col tempo si sarebbe allineata in buona sostanza a quella di un qualsiasi altro marchio attivo nel settore.
Un pochino meglio è andata agli 802, quasi altrettanto difficili da pilotare e comunque poco attraenti, ma almeno favoriti dalla forma slanciata del contenitore, in particolare avendo l’accortezza di rimuovere il baldacchino superiore, ancora una volta di bruttezza esemplare.
Qui sono raffigurati nella versione Matrix S3, caratterizzata dall’impiego di una rete di filtraggio semplificata, a tutto vantaggio delle doti di pilotabilità e naturalezza di emissione.

L’aspetto slanciato del volume di carico produce comunque una transizione peggiorata verso la testa orientabile atta ad accogliere midrange e tweeter, con un che di posticcio e sproporzionato che appare con grande evidenza nella foto qui sopra.
Il woofer utilizzato nei DM 16, del diametro dichiarato di 22 cm ma in realtà più assimilabile a un 25, denota la sua stretta parentela con quel che si sarebbe usato nella successiva serie 800. Membrana in materiale sintetico, cestello in pressofuso, robusto ma poco ostruttivo nei confronti dell’aria mossa dalla parte posteriore della membrana, malgrado si tratti di un sistema in cassa chiusa, magnete sostanzioso.

Il midrange è un 13 cm, in kevlar, ancora una volta non dissimile da quello montato in seguito sui modelli della serie 800. In esso ritroviamo le peculiarità del woofer: magnete poderoso, cestello meccanicamente inappuntabile, ma soprattutto la realizzazione che ha fatto di questi altoparlanti gli alfieri della naturalezza dei diffusori B&W che hanno portato al marchio inglese un gran numero di estimatori. Almeno quelli in grado di discernere le qualità di emissione dei diffusori dai problemi causati da impianti non all’altezza del situazione, talvolta per composizione ma più spesso per installazione e messa a punto che definire trasandate è ancora poco.

Nel tweeter si trovano le differenze più evidenti nei confronti della produzione successiva. Essendo integrato nel frontale, in luogo del suo posizionamento all’esterno del diffusore tipico della serie 800, non ha bisogno delle soluzioni rese necessarie da una scelta tecnica ancora una volta opinabile, non tanto nell’esecuzione quanto per i i risultati pratici. Comunque si tratta di un’idea che ha fatto sensazione e ha contribuito grandemente a porre la serie 800 in un livello a parte nell’immaginario di tanti appassionati, portandola a essere sinonimo di alto di gamma.
La realizzazione del tweeter è dunque più consueta, ma ancora una volta in linea con la migliore tradizione quanto a cura realizzativa e qualità delle materie prime. Ne risulta un altoparlante dalle prerogative ancora oggi invidiabili, tale da contribuire nel modo più degno alla sonorità del DM 16.
Sul magnete si osserva la data di produzione dell’altoparlante, 8 aprile 1981. Se all’epoca ci avessero detto che oltre quaranta anni dopo avremmo ascoltato ancora questo altoparlante e il diffusore di cui fa parte, chissà come avremmo reagito. Probabilmente con incredulità.

All’ascolto, nella loro veste originale, i DM 16 mettono in evidenza alcune tra le caratteristiche tipiche della scuola inglese di quell’epoca. Asciutti e rigorosi in maniera persino impeccabile, quindi privi di caratterizzazioni evidenti a livello timbrico, sembrano però innalzare quella che potrebbe sembrare una sorta di muro invalicabile tra sé e l’origine del segnale che perviene ai loro morsetti d’ingresso, secondo quello che non è infrequente riscontrare tra i diffusori coevi, specie di classe elevata.
Personalmente tendo ad attribuire questa particolarità, che a qualcuno potrebbe anche piacere, alla complessità di quel che si frappone appunto tra i morsetti d’ingresso e gli altoparlanti, con tutti i limiti che ne derivano, in termini di vitalità e naturalezza.
Queste del resto sono preogative alquanto rare da incontrare nella produzione dell’epoca, e per conseguenza negli impianti realizzati per il suo tramite, la cui sensazione di riprodotto, e quindi in sostanza di artificiale, era data a tal punto per scontata da non farci proprio caso. Del resto era quella la realtà del periodo, tranne forse casi più unici che rari e come tali difficilissimi da ascoltare e ancor più da farne un elemento produttivo alla costruzione della propria esperienza.
Difficile anche stabilire un punto di transizione tra le sonorità così smaccatamente “da impianto” e quelle che hanno iniziato almeno a suggerire la sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa di meglio assimilabile all’evento reale, che poi a mio modo di vedere è il vero e solo elemento chiave in grado di giustificare la definizione di alta fedeltà. Quantomeno se vi si associa un significato non di pura fantasia ma più letterale, che in quanto tale ha in sé la domanda fatidica: a che cosa?
Girando per fiere e salette dimostrative, che spesso hanno la loro attitudine più spiccata a tramutare la domanda di cui sopra in “di che cosa?” si ha l’impressione che in molti casi quella transizione sia ancora di là da venire, ma per quanto mi riguarda si tratta di un elemento imprescindibile, in assenza del quale il mondo che ruota attorno alla riproduzione sonora perde irrimediabilmente d’interesse.
Forse la mia è una posizione che taluni definiscono fin troppo massimalista, ma in tutta sincerità o meglio detta proprio fuori dai denti, coi prezzi che girano al giorno d’oggi, in assenza di quella sensazione, la riproduzione sonora non ha proprio alcun senso.
Forse perché di roba ne ho ascoltata fin troppa e troppo poca mi ha dato quel che sarebbe desiderabile, lo ripeto, dal mio punto di vista e per il mio modo di ascoltare, ma voglio dirlo ancora una volta: se caratterizzato dalla mancanza della sensazione di trovarsi di fronte a qualcosa che rassomigli all’evento reale, tutto quest’armamentario serve davvero a poco.
Certo, rimane l’aspetto ludico della questione, il cambia-cambia, le lancette che danzano sullo sfondo di vu-meter dall’illuminazione celestiale, lo sfarzo di frontali da chili e chili di metallo tirato a lucido con accuratezza certosina, le alettature che emanano tutta la possenza degli stadi finali che devono raffreddare e anche di più, il tenue baluginare rossastro delle valvole col loro suggerire che non esista percorso più scevro da ostacoli del vuoto e una serie di altre suggestioni delle quali potremmo star qui a parlare per un’altra settimana,.
Si tratta però di roba per sognatori inveterati e in buona parte irrecuperabili, quella su cui Il Coro Degli Entusiasti A Prescindere ricama le cronache rosa delle sue estasi onaniste.
Attività per la quale dimostra grande inclinazione ed eccellenza di risultati, questo è doveroso riconoscerlo.
Per quanto detto poco fa, i DM 16 offrono un terreno parecchio ampio su cui lavorare, al fine di portarne il comportamento a livelli meglio in linea con le esigenze proprie di una riproduzione in linea coi significati propri del termine hi-fi.
Trattandosi di un tre vie, oltretutto caratterizzato da una rete di filtraggio parecchio complessa, e dall’impiego di componenti di valore elettrico rilevante, i costi purtroppo sono quelli che sono, anche in conseguenza dei numerosi aumenti succedutisi negli ultimi tempi che hanno interessato la componentistica di qualità.
I risultati però, se le cose si fanno nel modo dovuto, sono decisamente interessanti. La sensazione di presenza di quel muro separatore descritto in precedenza è parecchio affievolita, se non del tutto eliminata. Anche mantenendo il rigore timbrico che lo caratterizza, e oltretutto è l’aspetto primario con cui la scuola inglese si è affermata, la sonorità migliora molto in termini di vitalità e nitidezza. Ne guadagna soprattutto il realismo, che se i componenti a monte fanno il loro dovere diventa uno fra i tratti dominanti della riproduzione e per conseguenza in grado di produrre il maggior piacere d’ascolto.
Fluidità e tempestività nel rispondere alle variazioni del segnale sono altri elementi che caratterizzano il comportamento dei DM 16 ottimizzati, che acquisiscono così un punto di forza proprio in un elemento su cui nella loro veste originale denotavano una sostanziale carenza, oltretutto in modo alquanto spiccato. In sostanza quella sorta di pigrizia nel seguire le variazioni più repentine è scomparsa, lasciando il posto a un diffusore rapido nel reagire agli impulsi, anche quelli di complessità notevole, ferma restando la compostezza che è parte fondamentale del suo patrimonio caratteriale.
Un altro aspetto su cui si riscontra un miglioramento sostanziale è quell’accenno al medioalto pungente e alquanto grazzo che ho potuto rilevare al primo ascolto, alquanto fuori luogo in considerazione della qualità degli altoparlanti impiegati. La cosa lasciava alquanto perplessi e ha trovato piena soluzione dopo l’intervento, in una nuova dimostrazione che dietro l’altoparlante, al quale si tende ad attribuire per intero la responsabilità riguardo al complessivo delle caratteristiche di emissione, c’è molto altro. Spesso e volentieri è proprio quel molto altro ad assumere un’importanza persino superiore a quella dell’altoparlante stesso, che dal canto suo non può che comportarsi in conformità a quello che giunge ai suoi terminali, passato per forza di cose attraverso parti che in certi casi più che componenti audio e accessori vari sembrano agire come vere e proprie forche caudine.
In sostanza si ha un diffusore godibile e all’altezza sia di impianti di pretese notevoli, sia delle esigenze degli appassionati evoluti, in particolare di quelli alla ricerca di sonorità di gran classe ma senza per questo comportare le spese folli oggi in apprenza inevitabili per poter attingere a un livello di qualità sonora un minimo soddisfacente.
Il gioco insomma vale davvero la candela, tantopiù per un diffusore di bell’aspetto, raffinato nella sua semplicità formale, secondo canoni che sembrano ormai dimenticati nella foga dell’inseguimento al sorpredente, e all’inusitato, con tutto quel che ne consegue di vistoso e dell’inutilmente pacchiano.
Progettisti e designer, guardate i DM 16 e imparate, se ne siete in grado. Ma soprattutto, datevi una regolata.