Strilli e urlatori: panzane a gogò

La storia c’insegna che da essa non impariamo mai nulla

G.B. Shaw

Nel gergo di redazione gli “strilli” sono quelle brevi frasi a effetto messe a bella posta in copertina, in modo tale da attirare l’attenzione e spingere a pensare che per nessun motivo al mondo ci si possa perdere la lettura degli articoli cui rimandano.

L’utilizzo di quello strumento, che spesso e volentieri sconfina nell’abuso, e in ogni caso ha il primo e più vistoso risultato nell’attribuire a quel che vi si affida la rassomiglianza alla stampa di tipo scandalistico, avviene per solito in conseguenza dell’adozione di una linea editoriale basata sul sensazionalismo. Questo a sua volta è uno strumento di manipolazione, utilizzato nella fattispecie per acquisire visibilità, o comunque migliorarla, presso il pubblico cui ci si rivolge.

Si tratta evidentemente di una scorciatoia, rispetto ai metodi tradizionali basati su serietà editoriale e quindi attendibilità di contenuti, caratteristiche che nella considerazione di chi cerca in ogni modo di abbreviarsi il cammino hanno almeno due difetti pessimi.

Il primo è quello di obbligare a discostarsi il meno possibile dalla realtà, rinunciando quindi a priori alla narrazione di comodo. Adulterata fin dai presupposti, è soprattutto indispensabile nel processo indirizzato a trasformare il mezzo d’informazione in strumento di mera comunicazione, a sua volta essenziale per un’altra serie di finalità di ordine commerciale e non solo.

Il secondo è che i metodi basati sui valori tradizionali, atti ad acquisire una fiducia del pubblico degna del suo nome, hanno bisogno di tempo per dare risultati. Come tali, si affermano nel medio e lungo termine. Nei loro confronti la volontà di ricorrere al sensazionalismo e forse l’esserne succubi, possibilmente senza rendersene conto o fingendolo a mezzo dell’autoinganno su cui si decide il ricorso alla tattica dello strillo, non può che essere in antitesi.

Tutto questo ha un retrostante inevitabile, ovvero la considerazione, da parte della redazione, nei confronti del proprio pubblico e per conseguenza di sé stessa. Va da sé che nel momento in cui ritiene lo si possa conquistare a suon di strilli, o solo sia il caso di tentare un approccio del genere, quella considerazione non dev’essere granché elevata.

Ne consegue inoltre che se il pubblico è quello che è, non può che essere la redazione stessa, o meglio chi la dirige, ben consapevole di non poter ambire alla conquista di nulla di meglio. Oltreché privo dell’intenzione di predisporvisi o almeno d’impegnarsi per la crescita di quello su cui basa il suo seguito.

Hai visto mai che prenda coscienza dell’inganno di cui lo si rende vittima e magari decida di rivolgersi altrove. Proprio in per via di tale crescita, lo sforzo ai fini della quale si ritorcerebbe in ultimo contro chi lo ha eseguito.

Dunque il mezzo d’informazione scaduta in comunicazione va a operare nella prospettiva tendente a indurre regressione nel suo pubblico, proprio in funzione di tenerlo legato a sè il più a lungo possibile, col fine di garantirsi la sopravvivenza più agevole e proficua.

La copertina strillata non è inelegante solo nelle sue premesse concettuali, ma anche a livello materiale, non potendo essere altro che chiassosa e per forza di cose disordinata. Dunque sprovvista dell’aplomb necessario a quello che, di fatto, è il biglietto da visita per qualsiasi pubblicazione ambisca ad affermare innanzitutto la propria serietà. Elemento a sua volta primario per il pubblico, almeno di quello un minimo avvertito, nell’attribuzione della propria fiducia.

La fase dello strillonaggio più esasperato, per la rivista che i suoi curatori ambivano a imporre come “la più autorevole” dell’intero settore, cosa di cui erano così convinti e rispondeva talmente al vero da doverlo scrivere a caratteri cubitali sulla copertina di ogni santo numero che arrivava in edicola, si ebbe in una fase ben precisa della sua esistenza. Ossia quando si decise di porre in liquidazione l’assetto societario d’origine, a causa degli attriti divenuti insanabili tra i suoi componenti.

Il senso di responsabilità che si riterrebbe doveroso, quando tra impiegati diretti, collaboratori e affini si è arrivati a impegnare qualche centinaio di persone e per forza di cose si va a decidere anche della loro sorte, avrebbe dovuto consigliare a individui un minimo maturi e all’altezza del compito che si erano attribuiti di ricomporre i motivi di contrasto, per proseguire in un’attività che aveva tutte le possibilità di continuare a essere redditizia. Innanzitutto per loro stessi e comunque in grado di mettere chi vi lavorava nelle condizioni di portare in tavola il suo pane quotidiano.

Così non è stato e, come se intenti a baloccarsi invece di essere impegnati in un’attività professionale di tale rilievo, ciascuno dei soci decise di riprendersi il giocattolo personale e andare avanti per suo conto. In casi del genere il detto “l’unione fa la forza” assume tutto il suo significato: nel volgere di alcuni mesi, o al più qualche anno, quei giocattoli si sono rotti, irrimediabilmente. Ponendo fine all’occupazione dei tanti che a lungo vi avevano lavorato e contribuito alla loro riuscita.

In merito alla pubblicazione dedicata alla riproduzione sonora, proprio quella da cui quel gruppo destinato a sfasciarsi ignominiosamente aveva preso le mosse iniziali, venne rilevata da quanti più fermamente determinati alla scalata sociale che era nelle loro ambizioni. Allo scopo si misero d’accordo in gran fretta e nel segreto più assoluto, sicché tutti quanti da loro furono esclusi conobbero il proprio destino a cose fatte. Ebbe così inizio l’assalto alla diligenza cui talvolta ho fatto riferimento.

L’esito fu ovviamente devastante ma perfettamente in linea con la statura di quanti vi parteciparono. Tutti loro, senza eccezioni, s’impegnarono nel tentativo di acquisirne il controllo. Il tira e molla che ne seguì trascese in breve in una vera e propria guerra per bande o meglio ancora nel tutti contro tutti. Invece di prenderla, la diligenza la fecero in mille pezzi.

Quanti inizialmente non poterono che provare disappunto, per via dell’esclusione che avevano dovuto subire, malgrado avessero operato fattivamente e in grande misura affinché la pubblicazione di cui stiamo parlando superasse le traversie cui i suoi stessi fondatori l’avevano mandata incontro, si ritrovarono a tirare un sospiro di sollievo vedendo da quale vespaio l’avevano scampata.

Chi a suo tempo l’aveva costruita, quella diligenza, intervenne in seguito nel tentativo di rimetterla in piedi, ma compì anch’egli un errore fatale, imperdonabile poiché evitabilissimo e quel che è peggio dovuto alla solita mania per le scorciatoie. Allo scopo volle riciclare, da sottoposti, gli stessi che da dirigenti sia pure improvvisati e platealmente inadeguati l’avevano portata allo sfascio. Effetto inevitabile l’assenza di qualsiasi coesione, a fianco di un sentimento di rivalsa dovuto al rifiuto di accettare i limiti marchiani di cui avevano dato prova. Ne è derivata la remissione di somme ingenti che infine consigliarono di lasciar andare il relitto al suo destino.

Quello dell’irrilevanza, da cui non si è più risollevato.

Crudele per una pubblicazione che per molti anni ha predominato nel suo settore, sia pure nel modo e coi presupposti che sappiamo, ma inevitabile proprio per lo spessore di quanti si arrogarono il prenderne le redini, smaniosi esclusivamente di placare la loro sete di denaro e affermazione sociale. Quindi privi del minimo rispetto per qualsiasi altra cosa e innanzitutto per sé stessi.

 

L’era degli strilli

Proprio durante la fase in cui si preparava e poi venne condotto l’assalto alla diligenza fu resa più evidente la tattica centrata sugli strilli. Oltre a quel che abbiamo già visto, per quanto la riguarda, se eseguita nelle modalità che le sono congeniali è priva di vie d’uscita e pertanto destinata a rivelarsi per quello che è: una scelta suicida.

Non è difficile da capire, come non lo è quanto annotato fin qui, ma l’accaduto dice che lo era fin troppo per quanti si sono arrogati il bastone del comando in maniera tanto risoluta, appunto in funzione del loro istinto di accaparramento. Così non vollero ascoltare chi ancora aveva occhi per guardare e li usava, persino.

Una scelta siffatta, appunto quella dello strillo in copertina, seguito necessariamente dalla qualunque nelle pagine interne, oltre agli altri suoi effetti e forse ancor prima di essi, induce assuefazione. Tanto in chi la pone in essere quanto, soprattutto, nei suoi destinatari.

Conseguenza inevitabile, qualora non la si abbandoni per tempo, ossia all’istante o meglio prima ancora che la si vada a concretizzare, è il costringere ogni giro ad alzare la posta. Da un lato perché in quanto tale lo strillo non deve mai essere ripetitivo, altrimenti perde la sua funzione di richiamo. Dall’altro per mantenere una qualche percettibilità, da parte di un pubblico che proprio a forza di strilli si è ottenuto soltanto di assordare: destino più paradossale in assoluto per una pubblicazione riguardante la specialità che nella sua pratica presuppone innanzitutto finezza d’udito.

Alzare ogni volta la posta però è difficilissimo, avendo in sé lo strillo la componente primaria nella straordinarietà, nell’inedito, nel superlativo, che nel mondo reale non si presentano ogniqualvolta si decida di andare in edicola, ossia mese per mese. Come tale si rivela per quello che è, una trappola che non lascia scampo.

Innanzitutto a chi la pone in essere, dato che al di là della sua esteriorità a tal punto chiassosa e di cattivo gusto, implica la necessità di disporre effettivamente, e in via continuativa, di qualcosa di fuori dal comune su cui puntare l’attenzione del pubblico.

Se questo è improbabile già in condizioni normali, diviene completamente fuori dal mondo nel momento in cui ci si trova nel mezzo di una tendenza regressiva, a livello tecnico, prestazionale e di qualità d’ascolto. Proprio come quella verificatasi nella fase storica di cui ci stiamo occupando, caduta a cavallo del cambio di secolo, tra gli ultimi anni novanta e i primissimi dei duemila.

E’ bastato poco, circa un lustro infatti e forse meno, per mandare a scatafascio quanto costruito col lavoro, il sudore e il sacrificio dei decenni precedenti, stante l’inadeguatezza a ogni livello di quanti dopo averla assaltata pretesero anche di guidare quella diligenza, per mandarla dritta al precipizio.

Primariamente per incapacità personale e, inevitabilmente, di comprendere che la realtà che si andava delineando in quel periodo non era più quella dei tempi che lo avevano preceduto. Se a tutto questo si aggiunge un’ingordigia tanto priva di limiti quanto di ogni scrupolo, tale da spingere a svuotare dall’interno una realtà che se ben gestita avrebbe avuto tutte le potenzialità per rivelarsi non dico redditizia come in passato, ma almeno in grado di sostenere decentemente quanti si occupavano di essa, il risultato non può che essere catastrofico, come in effetti è stato.

Abbiamo visto tante volte che il mondo della riproduzione sonora rispecchia, e non di rado anticipa, quanto avviene in ambito più generale a livello della società civile. In quel periodo si stava compiendo la transizione già decisa da tempo, colà dove si puote, dalla fase espansiva degli investimenti finalizzati alla crescita, con il conseguente propagarsi di un benessere più o meno condiviso, alla fase contraria in cui si sono tirate nuovamente le redini della corsa allo sviluppo. Proprio ciò che ha portato alle attuali condizioni di sperequazione stridente, con la forbice tra i ceti sociali mai tanto divaricata, in quella generalmente definita come era moderna. Al punto da spingere diverse fonti, attendibili, a tirare in ballo qualcosa di semplicemente inimmaginabile solo pochi anni prima, parlando a ragione di neofeudalesimo.

La riproduzione sonora di qualità elevata nella sua realtà di mercato, nella distribuzione sociale che ne caratterizza l’accesso, nelle potenzialità e nelle prerogative delle apparecchiature ad essa adibite ha rispecchiato in maniera quantomai fedele il cambio di passo verificatosi a livello globale, esasperandone oltretutto i criteri di fondo.

Da un lato obbligando a comprimere all’osso i costi di produzione rigurdanti le apparecchiature di fascia bassa, per chiunque volesse continuare a stare sul mercato. Dall’altro spingendo verso l’alto, nell’assenza di qualsiasi limite apparente, i prezzi delle apparecchiature di gamma superiore e più ancora di quelle di vertice, inaugurando così fasce di prodotto del tutto nuove, come quella che mi piace definire hi-fi per oligarchi.

A fronte di questa duplice tendenza vi è stato lo svuotamento fin quasi totale della fascia intermedia, ormai pressoché inesistente. Proprio come a livello sociale le classi intermedie sono state decimate con l’esasperazione delle politiche austeritarie, precipitando chi un tempo ne faceva parte direttamente nel sottoproletariato. Oggi allevare un figlio è un grandissimo lusso, se non il più grande.

Secondo i dati Eurostat, la percentuale delle famiglie europee che hanno difficoltà ad arrivare alla fine del mese assomma a un surreale 45,5%. In ben sei Paesi dell’unione, tra cui l’Italia, detta percentuale è addirittura superiore al 62,5%, secondo le rilevazioni risalenti al 2022. Immaginiamo quali potranno essere quelle del 2023, in seguito all’ondata di rincari verificatasi nel corso di quest’anno.

Così Landini è tornato a interpretare il suo ruolo, quello del sindacalista parolaio, dato che al governo c’è “la destra”. Dunque indice uno sciopero generale in piena regola, quella del passata la festa gabbato lo santo.

L’effetto del quale, sul già impoverito, è di lasciarlo con le tasche ancora più vuote.

D’altronde l’azione politica che quello sciopero va a costiture ha i suoi costi, che necessariamente qualcuno deve pagare. Mentre i datori, arricchitisi nel frattempo oltre ogni misura, risparmiano le paghe di costose giornate di lavoro e domani non dovranno far altro che aumentare la velocità della catena di montaggio, per poi parlare nei media compiacenti di “produttività”.

Dov’era Landini quando la Fornero con le sue lacrime di coccodrillo ha devastato le pensioni e quando Renzi ha abolito l’art.18? Dov’era mentre i governi tecnici, tutti immancabilmente sostenuti dal partito cui risponde il suo sindacato giallo, da Dini a Ciampi, a Monti e a Draghi,  hanno causato uno dopo l’altro una desertificazione industriale e un impoverimento di massa che non hanno precedenti storici di sorta?

Leccava i loro augusti deretani intascando quel che ha comprato il suo silenzio.

Di fronte a dati a tal punto catastrofici, che i media allineati censurano inesorabilmente per poi accusare chiunque non si attenga alla loro linea di fare disinformazione, i Sigg. Ministri dello Sviluppo Economico non si sentono in dovere di dare le dimissioni?

Che senso ha tenere in vita quei dicasteri?

Perché mai, impoveriti come ci ritroviamo dopo la promessa che avremmo lavorato un giorno in meno guadagnando come se lavorassimo un giorno in più, quando invece disoccupazione e precarietà di massa dilagano, dovremmo ancora continuare a pagare gli stipendi alla pletora di burocrati e portaborse che s’ingrassano a quella e tutte le altre mangiatoie di istituzioni che si adoperano allo sfascio del Paese?

Le èlite globali d’altronde vanno ripetendo da decenni, incessantemente, che secondo loro al mondo siamo in troppi e quindi la popolazione composta da tutti quanti non sono parte della loro conventicola dev’essere sfoltita, drasticamente. Ne sono proprio ossessionate, come traspare già leggendo qualcuno dei romanzi programmatici la cui stesura hanno affidato ai loro componenti più versati in ambito letterario. Tra di essi vi era un certo Aldous Huxley e il suo “Il mondo nuovo” e più ancora l’appendice postuma “Ritorno al mondo nuovo” sono illuminanti in tal senso.

Quale esempio, con fini dimostrativi per l’inderogabilità dei loro propositi, prendono cose che non vi hanno niente a che fare, ma per mezzo dell’inganno che praticano fin dalla notte dei tempi ed è alla base del loro dominio riescono a far credere all’inesistente la maggioranza schiacciante delle persone.

Caso tipico, quello secondo cui il pianeta non sarebbe in grado di produrre quanto necessario per sfamare tutti. In realtà il problema è esssenzialmente di ordine distributivo, rafforzato nelle sue conseguenze  dai modi di produzione capitalistici, gli stessi con cui le élite summenzionate hanno acquistito il controllo materiale del Pianeta. Ai fini della massimizzazione dei profitti, si procede alla distruzione sistematica di masse ingentissime di derrate e alimenti, così da tenerne alti i prezzi sui mercati, grazie alla carenza in questo modo pilotata.

Di recente vi si sono aggiunte scelte politiche come quelle destinate all’annientamento e alla confisca delle piccole e medie aziende agricole, giustificati dall’insostenibilità ambientale dei peti di vacca, come avviene in Olanda. Paese tradizionalmente progressista il cui elettorato per conseguenza ha assegnato la vittoria alla destra nelle consultazioni tenutesi pochi giorni fa.

Niente di meglio per le anime belle del falso progressismo votatosi anima e corpo alla causa globalista, che così potranno tornare alla loro occupazione preferita: criminalizzare chiunque ardisca a non pensarla come prescrivono, o peggio a mantenere un rapporto con la realtà concreta, strappandosi i capelli al grido da sempre in vetta alla loro Hit Parade: Dalli al fascista!

Ricordiamo allora le parole dell’ultimo tra i veri poeti che abbiano calcato il suolo italiano, Pierpaolo Pasolini: “Io profetizzo l’epoca in cui il nuovo potere utilizzerà le vostre parole libertarie per creare un nuovo potere omologato, per creare una nuova inquisizione, per creare un nuovo conformismo. E i suoi chierici saranno chierici di sinistra“.

Quanto alla CO2, oggi additata a simbolo di ogni male, in realtà non solo è l’elemento fondamentale per l’esistenza della vegetazione, che grazie alla fotosintesi clorofilliana fornisce l’ossigeno essenziale per la vita sul nostro pianeta, ma si trova anche ai limiti minimi per la sua funzione.

La morale è sempre la stessa: basta ripetere il numero di volte necessario la baggianata più colossale per trasformarla immancabilmente in verità. Non solo, oramai il sistema adibito a tale incombenza è riuscito anche a far si che quanti ne sono pilotati a distanza ripetano tutti le stesse cose nello stesso identico momento, all’unisono.

Il sensazionalismo degli strilli di coperina risponde a una logica del tutto identica.

L’ossessione ambientalista a propulsione global-capitalista e il resto dei falsi costrutti necessari alla narrazione preferita dalle élite, propagandata dai media allineati da esse controllati nella loro interezza, deriva a sua volta da un falso ulteriore, plateale. Consiste nell’attribuire all’uomo il primato nei confronti della Natura o meglio ancora una superiorità inesistente, non è dato sapere in maniera a qual punto pretestuosa. Ciò avviene in funzione della medesima visione antropocentrica propria di un’epoca, di concezioni e del sistema di potere ecclesiastico. Nei suoi confronti dette èlite si sono storicamente schierate in opposizione irriducibile, e vorrebbero convincerci a ogni costo lo abbiano superato, innanzitutto sotto l’aspetto logico, cognitivo e progettuale.

All’umanità pertanto viene attribuita la capacità di variare il corso della Natura più o meno a piacimento, in funzione di una logica superomistica malcompresa e peggio coniugata. Vorrebbe far credere che la Natura non sia in grado di corrispondere, ammortizzare e infine ricondurre nel proprio alveo, com’è nello stesso ordine delle cose, tali variazioni, al pari di tutto quanto ricade nel suo dominio.

In realtà le cose stanno esattamente al contrario: l’uomo continua a essere sottoposto al predominio della Natura o meglio ancora permane in balia dei fenomeni che la caratterizzano e della loro variabilità, che non riesce a comprendere, nelle loro origini e nei meccanismi di attuazione, se non in parte minima. Mentre tutto quanto egli fa per oltrepassare i limiti attribuitigli dalla Natura stessa si rivelano in breve per quello che sono: roba da apprendisti stregoni che quando va bene dimostra la sua inconsistenza ma più spesso la sua dannosità, gli effetti della quale vanno regolarmente oltre i limiti dell’umana immaginazione.

A me piace dire da sempre che l’uomo potrà pensare di confrontarsi con la Natura quando riuscirà a inventare la ciliegia. Ma non in funzione della sua realtà pedestre che per ogni problema che riesce a risolvere ne causa almeno altri dieci, immancabilmente più gravi. Quanto invece in un insieme armonico in cui ogni singolo elemento, dal più grande al più piccolo, s’inserisce perfettamente e si abbina con tutto ciò che lo circonda. Caratterizzato, oltretutto, da una molteplicità di funzioni che cooperano e si completano l’una con l’altra.

Letture a parte, come quella di  “Il mondo nuovo”, se si osservano gli accadimenti del nostro tempo con quel presupposto, appunto l’ossessione delle èlite per il drastico sfoltimento della popolazione, ci si accorge senza difficoltà che non ce n’è uno che non risponda alla falsa esigenza del depopolamento, in un modo o nell’altro.

Questo dovrebbe farci riflettere non solo sulla cosa in sé, ma anche e soprattutto sugli aspetti riguardanti, la democrazia, la sovranità, in assenza della quale non si può che essere gregari, vassalli, alla faccia delle pompose dichiarazioni dei diritti dell’uomo, dell’autodeterminazione dei popoli e di conseguenza di tutti quanti ne fanno parte, intesa regolarmente secondo la logica del doppio standard. Se ne concede l’uso se e solo quando fa comodo e lo si nega recisamente, o meglio fingendo che il concetto non esista, ogniqualvolta non lo si ritiene opportuno.

Il problema di fondo sta proprio qui: i diritti si esercitano, senza attendere il permesso da parte di chicchessia, che oltretutto non ne ha titolo alcuno.

 

Il nulla con la polarizzazione intorno

Nel settore di nostro interesse la fascia di prodotti intermedia è quella che storicamente ha mostrato le sue carenze e le difficoltà più tipiche, inerenti la realizzazione di un prodotto di qualità e capace di discostarsi in maniera indiscutibile da quello destinato alle fasce inferiori del mercato, sia pure mantenendo un prezzo terreno.

La crescita esponenziale dei prezzi per l’alto di gamma e soprattutto i prodotti di vertice non ha avuto una corrispondenza a livello prestazionale e di contenuti non dico proporzionale ma quantomeno confrontabile, per almeno due ordini di motivi. L’oligarca che è in grado di spendere certe somme e l’aspirante tale difficilmente sono in grado di discernere determinate sottigliezze a livello sonico, dovendo innanzitutto essere ferrati in ben altre materie per poter giungere alla loro condizione sociale o solo mantenere quella eventualmente ereditata.

Per conseguenza dotare i prodotti che vi sono destinati di un livello prestazionale in linea coi costi che lo caratterizzano non è solo particolarmente complesso o velleitario, ma del tutto inutile. Quindi controproducente ai fini del profitto, tantopiù in un segmento che in primo luogo è caratterizzato da un numero di esemplari venduti particolarmente esiguo. Come tale impone ricarichi stratosferici, necessari a tenere in piedi un’attività che deve continuare a essere redditizia e confrontarsi coi costi di produzione tipici del prodotto destinato ad attrarre un pubblico oltremodo pretenzioso, in particolare riguardo alle apparenze.

La sua priorità maggiore riguarda il dimostrare le proprie possibilità di spesa per mezzo dell’oggetto prescelto, il quale poi dev’essere all’altezza dello specifico stile di vita, innanzitutto a livello visivo e più che mai nei particolari. Tutto il resto è secondario.

Un ulteriore problema a questo riguardo è dato dalla spinta all’emulazione sempre diffusa tra quanti si trovano sotto il tallone di quegli oligarchi, che anche nelle apparecchiature alla loro portata vogliono ritrovare in misura crescente la presenza di caratteristiche se non proprio comuni, almeno non troppo dissimili da quelle destinate ai loro oppressori. Questo causa un incremento inevitabile per i costi di produzione, che si ripercuotono moltiplicati sui prezzi al pubblico.

Anche e soprattutto di quello ormai tendente all’estinzione che cerca solo oggetti impeccabili sotto l’aspetto della qualità sonora. Finalità destinata a restare insoddisfatta, sia pure a fronte di spese ragguardevoli e perennemente tendenti all’aumento.

Va considerato poi che l’ottenimento di livelli prestazionali in linea coi costi delle apparecchiature per oligarchi è oltremodo complesso, sempreché esistano.

Proprio perchè, come sappiamo bene, una volta oltrepassati certi limiti il dispendio necessario per ottenere una qualsiasi miglioria aumenta secondo un andamento non più esponenziale ma tendente proprio all’iperbole. Dando luogo peraltro a differenze sempre più aleatorie e pertanto di percezione complessa, ma quantomai facili, per contro, da perdersi lungo la strada.

Mano a mano che ci si avvicina all’ipotetica perfezione, infatti, gli equilibri su cui si reggono gli elementi che vi danno luogo si fanno sempre più delicati. Per finire in ultimo all’impalpabilità e alla relativa difficoltà per la comprensione stessa delle cause che vanno a determinarli o per contro a renderli irraggiungibili.

Dunque, all’avveduta raffinatezza necessaria in un contesto siffatto, i velleitari sapientoni di cui stiamo parlando hanno ritenuto di rispondere col ricorso a una veste editoriale e mezza strada tra un giornaletto scandalistico e un volantino da supermercato.

Inevitabile chiedersi se potessero concepirne una meno inadeguata, per la pubblicazione di cui si erano appropriati, e di conseguenza affrontare la loro attività in una forma meno servile, genuflessa o per meglio dire appecoronita nei confronti della materia di cui si occupava.

A questo punto dedicare un istante a capire meglio chi fossero, in realtà, gli urlatori, può essere utile per chiarire meglio l’intera vicenda.

La foto d’apertura ci viene in aiuto. In alto a destra possiamo vedere l’urlatore-capo, che completato l’assalto alla diligenza si autonominò direttore, ma per tema che non fosse abbastanza volle attribuirsi anche il titolo di editore. Dando vita così al medesimo conflitto d’interessi che aveva deprecato fino al giorno prima, da sottoposto. Tuttavia non ha esitato un istante, al suo subentro, a renderlo persino peggiore di quanto già fosse: almeno il direttore-editore che lo aveva preceduto era quasi sempre in altre faccende affaccendato, quindi più di tanto non poteva mettere i bastoni tra le ruote nelle attività di routine.

Costui invece pretese di avere voce in capitolo sempre, comunque e su tutto. Come avviene spesso d’altronde a quanti non ne capiscono niente. Di mettere una figura filtro, destinata a mitigare le assurdità dell’editore per mezzo di una politica redazionale possibilmente basata su una serietà almeno residuale, e magari provvista anche di un barlume di competenza per la materia di cui si occupava la rivista, neppure a parlarne.

Figure del genere d’altronde non solo vanno a limitare fastidiosamente il potere assoluto del vertice, ma costano. Denari che non sarebbero entrati nelle tasche dell’editore e in quelle dei suoi soci, secondo una scelta ancora una volta suicida che ovviamente accelerò il crollo di quanto destinato fatalmente a mostrarsi per ciò che era, un castello di carte.

Nell’immagine d’apertura si rileva anche una somiglianza d’aspetto, magari parziale nei tratti somatici ma del tutto coincidente alla sua espressione più usuale.

Al suo fianco la collaboratrice consorte, almeno lei dotata di qualche punto a favore. In particolare nell’essere in grado di produrre in un qualsiasi osservatore un’impressione di attività instancabile entro un contesto d’inefficienza totale.

Il suo sguardo, a metà strada tra il melanconico e il rassegnato, insieme al sorriso forzato spiega meglio di mille parole l’aria che tirava in certi luoghi.

Subito sotto, anche qui nella tipica espressione sprizzante acume da ogni angolazione, è raffigurato il direttore tecnico. Quello convinto che far saltare in aria apparecchiature varie nella maniera più cruenta possibile, o comunque danneggiarle di proposito per creare difficoltà possibilmente insormontabili a chi poi ne doveva scrivere ma non era nelle sue simpatie, fosse la dimostrazione migliore di sapienza suprema. Che era convinto non di possedere, ma proprio d’incarnare.

Le vicende del Graaf GM 200 narrate a suo tempo ne sono un ottimo compendio e un esempio fra i tanti.

Anche lui del resto era un miracolato. Prelevato qualche mese prima dall’ufficio tecnico della rivista concorrente, in cui era adibito a compiti di supporto, si ritrovò padrone dI quello che si definiva pomposamente laboratorio di misura, per poi nominarsi direttore tecnico una volta completato l’assalto alla diligenza.

A questo punto un inciso si rende necessario. Davvero curioso è rilevare come quanti hanno dimostrato di essere affetti dall’autismo misurista più esasperato, appunto la coppia di direttori appena menzionata, siano stati gli stessi che in funzione della logica degli strilli e di quel che ne consegue abbiano perduto qualsiasi riferimento, persino il più remoto, con il senso della misura.

Inevitabile a quel punto che proprio la fretta di sostituire in corsa l’organigramma disgregatosi in seguito alla prima liquidazione societaria abbia determinato il ricorso a elementi simili, che per forza di cose non potevano ottenere risultati superiori a quelli consentiti dalle loro doti personali.

Detto ricorso venne anche forzato da un’ulteriore scelta degli assaltatori, in funzione della loro indole velleitaria. Pretesero l’eliminazione di chiunque avesse avuto un ruolo nella gestione precedente, rivelatasi come abbiamo visto fanciullesca ma anche provvista della capacità di mantenere il necessario controllo dell’attività nei suoi diversi aspetti. Almeno fin quando le beghe personali non presero il sopravvento.

Dal canto suo il curatore fallimentare rese intollerabili le condizioni di lavoro dei collaboratori, ai quali era da tempo attribuito un ruolo fondamentale, per la realizzazione concreta del prodotto editoriale e malgrado ciò tenuti in condizioni di totale precariato.

In quella fase di transizione, protrattasi fin troppo a lungo, venne totalmente interrotto il pagamento delle loro spettanze, accumulando col passare dei mesi, che poi divennero anni, un arretrato di dimensioni considerevoli. Senza peraltro che si ritenesse necessario comunicare termini certi al riguardo. Si provocò in tal modo il loro dileguarsi, uno dopo l’altro, non si sa quanto voluto e quanto subìto.

In sostituzione vi fu il ricorso a personale raccogliticcio ma soprattutto inadeguato, il che non solo peggiorò ulteriormente la reputazione della testata, a causa di testi semplicemente inverosimili, nel loro dilettantismo costellato d’iperboli prive di considerazione per un qualsiasi senso della realtà.

Tutto ciò fu ben accetto alla nuova dirigenza, evidentemente sprovvista della capacità di riconoscere il degrado, prima ancora di potervi porre un limite. D’altro canto un tenore siffatto corrispondeva perfettamente alla politica editoriale basata sugli strilli di copertina.

Come la nuova dirigenza aveva eliminato i vertici precedenti, così i collaboratori da essa radunati si adoperarono in ogni modo per fare terra bruciata nei confronti di chiunque avesse maggior esperienza di loro. Essenziale infatti era rimuovere ogni termine di confronto, tantopiù se azzardasse a esprimere dubbi al riguardo. I metodi utilizzati al proposito sono stati i soliti, quelli del falso e della diffamazione, evidentemente più indicati per chi vi ha fatto ricorso.

La neo-dirigenza che aveva cooptato detto personale, e quindi non poteva né doveva essere meno inadeguata, desiderava in misura almeno pari di fare piazza pulita del passato e delle figure che vi appartenevano, divenute scomode.

In primo luogo perché non intendeva accettare, figuriamoci riconoscere o onorare, il debito sostanziale che aveva nei loro confronti. Se potè compiere il suo assalto alla diligenza era in buona parte perché proprio i caduti in disgrazia avevano contribuito in misura rilevante a tenerla in piedi.

Andò qundi a spalleggiare con ogni mezzo i nuovi arrivati, rafforzandone ulteriormente i ranghi e curando che la sua azione fosse inequivocabile.  Seguendo quel criterio ha danneggiato ulteriormente e in larga misura il prodotto editoriale, con ovvi risultati a livello di vendite e della reputazione della stessa testata, crollata in breve ai minimi storici.

Chi avrebbe potuto contribuire a tenere dritta la barra del timone, salvando anche la loro faccia, venne messo sempre più ai margini.

 

La dirigenza di quel bell’ambientino comprendeva anche altri elementi, che non hanno trovato spazio nell’immagine sopra menzionata. La loro attività preminente era dedicarsi a cabriolet e barche a vela, progettando iniziative rovinose mentre si adoperavano affinché i conflitti interni divenissero sempre più cruenti e insanabili, convinti di poterne trarre vantaggio nella forma di dividi e impera che rendere ancora più autolesionista sarebbe stato davvero complesso.

Tutti loro una volta vistisi addosso la malaparata, inevitabile date le premesse, non hanno mai ritenuto di andare a correggere gli errori di fondo, ammesso e non concesso fossero in grado prima di tutto di comprendere la loro esistenza, oltretutto in tal numero.

Preferirono rifugiarsi in quello che potrebbe essere visto come una sorta di delirio di megalomania, in preda al quale, invece di provare a salvare il salvabile hanno preteso di dare vita a una serie di ulteriori iniziative editoriali, fallimentari già nelle premesse. Se non sei capace di gestirne una, di rivista, in maniera almeno decente, come puoi tenerne in piedi quattro o cinque?  Così ottennero soltanto di trasformare la caduta in una valanga che trascina tutto quanto trova sul suo cammino.

 

Metamorfosi

Il processo atto a trasformare il mezzo d’informazione sempre più in uno strumento destinato in via esclusiva alla comunicazione, quindi a diffondere solo quanto è nell’interesse di chi ne detiene il controllo, ha inevitabilmente una serie di collaterali.

Il primo, e più importante, riguarda la perdita della funzione di punto di riferimento e di elemento propositivo per l’evoluzione della specialità di cui si occupa, e quindi anche per il pubblico che ad essa si dedica. Nei loro confronti un mezzo d’informazione degno del suo nome, quindi in grado di esercitare un controllo ragionevole sulle proprie funzioni, assume necessariamente un ruolo di avanguardia.

Nel momento in cui quel ruolo viene meno, gli effetti pratici per il settore verso il quale il mezzo d’informazione rivolge(va) la propria indagine, sono il ritrovarsi abbandonato al proprio destino, secondo la logica del capitalismo. Ovvero ridursi a un contenitore dalle finalità eminentemente commerciali, atto in via esclusiva a soddisfare le velleità di profitto degli attori principali che operano al suo interno. Con tutto quel che ne consegue a livello tecnico, prestazionale ed evolutivo, proprio in quanto privato di un qualsiasi elemento non dico equilibratore ma almeno di verifica e indirizzo.

La perdita delle funzioni appena elencate ha inoltre la conseguenza di innescare un circolo vizioso tale da accelerare lo stesso processo da cui ha avuto origine, ossia il degrado da mezzo d’informazione a strumento di comunicazione, con tutto quel che ne consegue.

Questo in primo luogo riguarda i contenuti della pubblicazione, destinati per forza di cose a uniformarsi alla logica degli strilli e soprattutto ai loro significati: di ordine metodologico innanzitutto e ancor più quelli attribuiti di volta in volta a ciascuno di essi.

Il sensazionalismo su cui è basata la forma comunicativa dello strillo, ed è la sua stessa origine, deve allora trovare una qualche corrispondenza, atta in primo luogo a evitare la percezione dell’artificiosità che è e resta la sua caratteristica primaria, rendendo quindi necessaria una narrazione ad esso coerente.

Allo scopo i contenuti delle pagine interne non possono che acquisire un’artificiosità ancora maggiore, proprio perché in condizioni simili è indispensabile affidarne la produzione a personale fidato, capace innanzitutto di dimostrare di essere più realista del re.

L’assuefazione indotta nel pubblico degli appassionati da contenuti di origine simile fà si che nella gran parte non si accorgano più di tale connotazione, proprio in virtù di un’abitudine che diventa sempre più radicata, mese dopo mese.

Per sua stessa natura, e probabilmente anche per quella di chi in un modo o nell’altro va a subire il trattamento che si esegue per il suo tramite, il sensazionalismo tende a propagarsi in maniera dilagante. In tal modo diviene parte integrante della logica stessa che sovrintende al progetto e alla realizzazione delle apparecchiature, alle modalità con cui vengono concepite e alle finalità che sono chiamate a soddisfare.

Va a permeare in ultima analisi l’intero settore e persino gli stessi desideri del pubblico ne vengono modificati, riguardo alle peculiarità soniche, estetiche e realizzative delle apparecchiature verso le quali rivolge la propria attenzione. Dimodoché la presenza e l’influsso del sensazionalismo si diffondono fino a diventare talmente scontati, che di esso neppure ci si accorge più, perdendo la concezione stessa del suo significato.

L’aspetto e le prerogative, anche a livello di sonorità, della stragrande maggioranza delle apparecchiature oggi in commercio denunciano questa realtà come meglio non si potrebbe. Basta solo avere la volontà di osservarla.

Una volta assuefatto, è il pubblico stesso a rifiutare qualsiasi cosa, pubblicazione, apparecchiatura, assetto prestazionale e persino meccanismo concettuale che non risponda più alla logica del sensazionalismo.

 

Gli urlatori

Se le frasette a effetto che si mettono in copertina si chiamano strilli, quanti le ideano e le diffondono non possono che essere urlatori. Resi tali dall’urgenza di sostenere con ogni mezzo gl’interessi del sistema di distribuzione, dato che proprio da esso si traggono i proventi necessari alla propria sussistenza.

Per questo sono andati storicamente a coltivare solo i suoi scopi preminenti, che riguardano appunto il porre in essere o comunque il premere verso le condizioni più idonee a velocizzare quanto più possibile il ricambio delle apparecchiature, fino al parossismo della condizione attuale.

Significativo è poi il tenore degli “strilli” di copertina, in funzione delle regole che abbiamo visto fin qui. Non sono dissimili dal legarsi una corda al collo e, inevitabilmente, sono andati assumendo un tono sempre meno distinguibile da quello di un imbonitore da sagra paesana, con tutto il rispetto dovuto alle manifestazioni della tradizione popolare.

Ad esso deve corrispondere quello dei contenuti interni. Prendendo delle copertine a caso si possono leggere cose del tipo “L’alba di una nuova era“,  che non è stata quella di prestazioni superlative come si voleva intendere, ma della crescita dei prezzi oltre l’assurdo, abbinata al crollo delle doti soniche, a dimostrazione ennesima delle reali capacità di comprensione di chi a quegli strilli sovrintendeva.

“Ultra-audiophile” era riferito evidentemente a un oggetto e senza che si fosse sfiorati dall’idea di cadere nel ridicolo, stante nell’esasperazione ultimativa di un termine ridicolo già di per sé. Sia pure di grande efficacia nelle sue vere finalità, come qualsiasi definizione neolinguistica.

“Precisione e impatto” e “Oltre la tradizione” sono altri esempi con cui la finiamo qui. Non per stendere il consueto velo pietoso, un adagio di antica saggezza popolare dice infatti che il medico pietoso ha fatto la piaga puzzolente, ma per mere questioni di decenza.

Senza contare il rispetto per un pubblico che forse non meritava di essere trattato in modo simile, almeno in origine, anche se poi la sua condiscendenza sostanziale verso il fenomeno lo ha reso complice, sia pure in parte.

In sostanza si è ritenuto di paragonarlo a un branco di deficienti, parola intesa non come insulto, tipico della sua accezione attuale, ma proprio nel senso letterale di deficere, ossia risultare manchevoli. In questo caso delle capacità atte a comprendere, per poi trattarlo come tale, mentre da un altro lato lo si blandiva. Secondo un atteggiamento tendenzialmente schizofrenico, dovuto forse all’incapacità di attribuire una linea di fondo per quale che fosse all’attività editoriale, preferendo agire come una banderuola, pronta a puntare qualsivoglia direzione a ogni spirare del vento.

Se si batte su tasti simili per anni, che poi diventano decenni, è evidente che si vada a costruire un immaginario estremamente fantasioso, e per meglio dire manipolato, a concretizzare il quale, sia pure in via del tutto apparente, ha contribuito la costruzione di una serie di falsi miti. Funzionali soprattutto all’affermazione, secondo un iter quantomeno paradossale, della propria immagine e ad attribuirsi una veste atta a favorire la propria credibilità. Non a livello di critica o solo di analisi, ovviamente, ma di strumento, atto a rendersi il più possibile indispensabile, nella concezione dell’inserzionista, a fini di propaganda per il suo prodotto.

A questo modo di fare disinvolto, se non addirittura spregiudicato e in definitiva offensivo dello stesso pubblico verso il quale poi ci si va a rivolgere, si è contrapposta però una realtà del tutto differente, che ha portato per forza di cose a un ulteriore, grandioso fallimento.

Come se non fosse ancora abbastanza, in un attacco di coerenza nei confronti di una prospettiva tanto distruttiva e scriteriata come quella degli strilli di copertina, e poi del contenuto interno che necessariamente doveva ad essi far seguito, si è andata addirittura a concepire una sorta di logica ordinamentale, che dati i presupposti non poteva essere meno delirante. In quanto basata ancora una volta su megalomania e sprezzo incoercibile della realtà.

Esempio tipico che anche le scelte più scriteriate possono essere caratterizzate da una loro coerenza, il cui dettato viene stabilito da chi, inevitabilmente, ha una spiccata inclinazione al riguardo. Condivisa, in varia misura, con quanti lo lasciano fare.

A detta pubblicazione venne attribuita così una suddivisione secondo una serie di elementi fissi, funzionali alla logica dello strillo e a quanto vi doveva corrispondere nelle pagine interne, riguardo ai toni attribuiti alla descrizione delle apparecchiature.

Agli oggetti di costo più abbordabile tra quelli che si prendevano in esame venne attribuita la definizione di “Affare del mese”. Appunto secondo una concezione atta a mostrare che al delirio non c’è limite, del tutto incurante della realtà del mercato e soprattutto del livello intellettivo di un qualsiasi lettore.

Come fa un oggetto fatto apposta per costare il meno possibile, e pertanto basato su soluzioni tecniche inevitabilmente mediocri, quando non addirittura rinunciatarie e spesso inadeguate, a rivelarsi un affare secondo il significato corrente di questa parola?

Solo perché costa poco? O forse perché malgrado tali rinunce e a dispetto di qualsiasi presupposto riesce comunque a funzionare?

Fino a quando?

Secondo chi ha partorito quella definizione, effettivamente di coerenza impeccabile con la logica dello strillo di copertina, chi è che lo fa davvero l’affare: chi lo fabbrica, chi lo vende, chi lo acquista? O forse chi lo propaganda in maniera così sfacciata, rumorosa e incurante della realtà, volendo oltretutto attribuirsi un’immagine centrata su un’analisi rigorosa e senza concessioni di sorta, che è quantomai lontano da poter non dico fare ma solo concepire, proprio in conseguenza dei presupposti che egli stesso si è attribuito?

Come vediamo per l’ennesima volta, il settore della riproduzione sonora è stato danneggiato nella maniera più evidente e distruttiva proprio da quanti hanno ritenuto di operare ai fini della sua diffusione.

Per inconsistenza, inadeguatezza, vera e propria incapacità o chissà cos’altro, ma questo è.

Il tutto tralasciando poi la mediocrità propria del concetto stesso di “affare del mese”, nel modo con cui lo si è andato a declinare, scopiazzando l’idea dei trofei rigorosamente falsificati attribuiti alla “auto dell’anno” o al “prodotto dell’anno”, buoni tuttalpiù per spot pubblicitari di terz’ordine.

Ecco lo spessore, la ratio, di chi ha partorito idee del genere, tra gli applausi degli astanti, per poi esasperarne la serializzazione su una cadenza oltremodo ravvicinata, così da banalizzare ulteriormente quel poco di significato che potrebbero avere, se non proprio azzerarlo.

Per non parlare della logica miracolistica alla base di quel concetto, nella quale finisce regolarmente per rifugiarsi l’ateismo scientista dominante negli ambienti dei quali ci stiamo occupando, in maniera quantomai significativa.

Quel che è peggio, senza che chi adotta un abito mentale siffatto si renda conto del vero e proprio testacoda concettuale insito nell’idea da cui deriva la definizione stessa di affare del mese o meglio ancora nella sua origine. Nuova dimostrazione della superficialità di chi dà vita a certe stravaganze e peggio di chi gliele lascia passare.

Ciò diventa tanto più vero se la logica dell’affare del mese non è concepita in funzione di mero una tantum, rispetto a cui potrebbe avere una sua credibilità, ma come appuntamento fisso. Possibile mai essere convinti che tutti gli altri siano tanto stupidi?

Nell’impossibilità di stabilire le cause profonde di un atteggiamento del genere, ricordiamo soltanto come a suo tempo il grande poeta osservò che “ciascun col proprio metro l’altrui misura”.

Basi concettuali del tutto identiche, ma adattate all’estremo opposto dell’offerta commerciale erano quelle della cosiddetta “Accademia dell’audio”. Ancora una volta mese per mese, e addirittura più volte nel corso dello stesso, l’apparecchiatura più costosa, forse la più pomposa e roboante, o magari solo la più pompata riguardo al prezzo di listino e alle capacità persuasive del suo distributore, sotto forma della pubblicità palese o meno da questi commissionata, veniva inserita nello spazio così denominato.

Mettendo da parte la componente propagandistica spudorata di un simile modo di fare, come si può pensare che di mese in mese si renda disponibile, oltretutto nelle limitazioni inerenti il noto rapporto inscindibile tra contratti pubblicitari e apparecchiature che è possibile tenere in considerazione per una presa in esame, un oggetto degno di un attributo siffatto? Quale logica a tal punto svincolata dall’esistente nel mondo reale può determinare un ordinamento costruito su simili suddivisioni, da attribuirsi a un periodico?

Giusto quella di individui talmente convinti della giustezza delle loro idee, in relazione agli obiettivi che intendevano perseguire a qualsiasi costo, con il sottostante narcisistico che ne è inscindibile, da perdere la capacità di capire che un legame con la realtà, del mercato, del prodotto, del pubblico cui questo si rivolge e non ultima della spesa necessaria per avvalersi del suo potenziale tecnico e sonoro, resti comunque necessario.

Per poi rifiutare a ogni costo, innanzitutto con sé stessi, di riflettere sulle conseguenze inevitabili a un simile atteggiamento.

Venendo a mancare tutto questo, si è pervenuti a una narrazione che non è solo di pura fantasia, ma forzata al punto di farne lo strumento di una vera e propria manipolazione, alla quale il pubblico degli appassionati è stato in buona sostanza ricattato a sottomettersi. Pena, in caso contrario, il dover abbandonare il punto di riferimento essenziale ad orientarsi nel mare magno di offerte, parametri, potenzialità e ambizioni legate alla riproduzione sonora, rispetto al quale non è mai stato facile attribuirsi una direzione.

Se non lo è stato per gli addetti ai lavori, come quanto descritto fin qui spiega in maniera tanto esplicita, figuriamoci come possa esserlo per il semplice appassionato. Provvisto di un’ esperienza per forza di cose limitata al poco che ha potuto possedere o al limite ascoltare, sia pure in condizioni ben lontane dall’ottimale. Come quelle tipiche un tempo dei negozi specializzati e oggi delle sventurate rassegne messe su in maniera più o meno raffazzonata e comunque sempre in ambienti inadatti e in condizioni gravemente penalizzanti per il rendimento delle apparecchiature.

In particolar modo per quelle indirizzate all’ottenimento delle prestazioni migliori, che idealmente dovrebbero fare da riferimento per l’intero settore, proprio in funzione dei problemi legati al materializzarsi del loro effettivo potenziale che abbiamo analizzato brevemente in precedenza.

 

Il meglio del meglio del nostro meglio

Resta un ultimo aspetto da considerare, ossia la funzione concretamente propedeutica di quanto fin qui osservato alla glorificazione idolatrante con cui oggi si esegue la presentazione delle apparecchiature di volta in volta immesse sul mercato.

Ognuna di esse è immancabilmente migliore di ogni altra, ma di nessuna però si è disposti solo a considerare la possibilità che possa rivelarsi peggiore di un qualsiasi oggetto cui la si possa confrontare, nella più ardita e definitiva tra le sfide all’ultimo e residuale barlume di realismo che si possano concepire. Oltreché alla logica e alle capacità d’interpretazione del lettore. Funziona infine da test, per vedere fino a che punto ci si possa inoltrare su una china del genere.

Da parte sua il pubblico non sembra toccato dalla cosa, neppure marginalmente. Per molta parte anzi dà l’idea di voler prendere quel sistema comunicativo a modello, quando va ad analizzare in proprio il prodotto che ha acquistato o ha solo potuto ascoltare, in quello che pubblica sui social e sui forum di settore.

Così va in sostanza a incentivare l’ulteriore esasperazione della tendenza, proprio perché chi vi dà origine comprende di non essere solo seguito nella sua farneticazione ma addirittura imitato, in una cancellazione non si sa fino a che punto volontaria per ogni elemento di contatto con il senso della misura, prima ancora che con la realtà. Quella del prodotto e del suo rapporto con il contesto di cui entra a far parte e in esso va a disputarsi con gli oggetti confrontabili la preferenza dell’acquirente potenziale.

A sua volta questo comporta una profonda trasformazione a livello di quanti fanno parte della redazione, per i quali le attitudini tradizionalmente necessarie, capacità di verifica, indipendenza di analisi, esperienza, terzietà e distacco nei confronti del prodotto e della specialità stessa diventano non solo inessenziali ma persino dannose.

D’altronde se la logica è quella del sensazionalismo, tantopiù deve diventarlo quella cui si uniformano i contenuti. Di qui la vera e propria alluvione di superlativi assoluti, di iperboli, di figure retoriche prive del minimo addentellato con il più remoto istinto di concretezza che hanno trasformato la disamina dell’oggetto tradizionalmente basata sull’equilibrio in un atto di mera adorazione. Del prodotto stesso e dei suoi collaterali, secondo cui ciascuno di essi è e non può che essere immancabilmente migliore di tutti gli altri.

Se questo è il criterio, dev’essere basato sulla volontà di trascurare con estrema determinazione ogni elemento non confacente. Spinta persino al comprendere che lo stesso concetto di migliore implica in sè, e in maniera altrettanto e del tutto inevitabile, l’esistenza di qualcosa che rispetto ad esso sia peggio.

Eppure non lo si menziona mai e tantomeno è dato incontrarlo, lungo le pagine della pubblicazione in oggetto o di qualsivoglia suo consimile. A tale riguardo la scusa ufficiale, pretestuosa oltre ogni ragionevolezza e per questo preferita da certi personaggi, è che quel che si prova deve appartenenere al meglio. E se tale non è non lo si prova, dato che lo spazio è tiranno e non può essere certo sprecato con qualcosa che non lo meriti.

Intenzione commendevole, ma se prima non lo provi, come accidenti fai a sapere che un certo oggetto è meglio o peggio di un qualsiasi altro? E nel momento in cui lo provi, quell’oggetto, e ti fai l’idea che non sia migliore del suo simile e anzi sia peggiore cosa fai?

Non ne parli, fai finta che non esista, secondo una forma di censura non solo nei confronti dell’oggetto stesso o del mercato di cui entra a far parte ma proprio della realtà concreta, eseguendo in pratica una manipolazione nei suoi confronti. E peggio, della concezione stessa degli appassionati al riguardo, portati in tal modo a percepirlo in modo del tutto distorto e irrazionale, così da alterare per conseguenza il loro approccio nei suoi confronti e in quello dei prodotti confrontabili.

Questo ha un effetto ulteriore, il produrre la percezione, nell’appassionato, che tutto quanto di cui non si parla, ossia non trovi spazio sulla pubblicazione non ne sia meritevole. Orientando per forza di cose le sue scelte, da un lato, mentre dall’altro si esegue la forzatura nei confronti di chi lo commercia a far si che trovi a ogni costo il suo spazio, su quel palcoscenico di cartapesta, se vuole sperare in una qualche probabilità di vendita.

In condizioni del genere, e con le finalità che le caratterizzano, non solo determinate attitudini del redattore, legate al concetto generale di serietà, non sono più essenziali e si rivelano addirittura dannose. E’ proprio la sua figura a diventare obsoleta, dato che non c’è più bisogno di un redattore come di norma lo s’intende, ma di una scimmia ammaestrata, con tutto il rispetto per i simpatici quadrumani, non meritevoli di simili accostamenti, che balli al ritmo impartito da chi la tiene alla catena e dopo faccia il giro col piattino delle offerte.

Ulteriore metamorfosi o meglio vera e propria speciazione che porta a essere qualcosa di completamente diverso da quel che vi era in passato.

Rispetto ad esso non vi è più alcun punto di contatto, proprio in quanto gli scopi sono divenuti incompatibili rispetto alla fase storica precedente. Risale solo a pochi anni prima, eppure le differenze che la separano dall’attuale sono simili a quelle di un’era geologica. Immersa tuttavia, secondo l’ennesimo paradosso, nell’eterno presente costruito dai quei mezzi di comunicazione, per mezzo della loro heavy rotation di stile radiofonico, unico orizzonte concettuale e operativo che sono in grado di attribuirsi.

Per comprendere meglio gli effetti di un cambiamento tanto radicale, per giunta mimetizzato dietro le apparenze della piena continuità, andiamo a osservare un accadimento recentissimo che una volta di più suggerisce il legame tra quanto avviene nell’ambito della riproduzione sonora e nella società civile.

E’ notizia di pochi giorni fa che Judith A. Curry ex preside della School of Earth and Atmospheric Sciences presso il Georgia Institute of Technology, abbia rilasciato al New York Post la dichiarazione seguente: Abbiamo inventato il riscaldamento globale per spaventare il pubblico e fargli credere che dobbiamo combattere una “emergenza climatica”. A dirlo non è quello che dal sistema di comunicazione allineato verrebbe qualificato all’istante come complottista, terrorista e negazionista del clima, ma uno dei ricercatori più influenti al mondo, nella sua materia.

L’aspetto più sorprendente della questione è che fino a poco fa la Curry è stata una delle portabandiera più visibili e intransigenti del catastrofismo climatico. Ora spiega che il consenso scientifico su questi temi è fabbricato ad arte e che i ricercatori perseguono obiettivi di carriera e arricchimento che li portano a esagerare o addirittura a inventare i presunti rischi climatici. Probabilmente per compiacere chi deve allentare i cordoni della borsa, che in tutta evidenza apprezza parecchio certi discorsi.

Per forza di cose, aggiungo io, è molto probabile che lo stesso valga per qualsiasi altra delle emergenze che ormai sono fabbricate a getto continuo, in nome e per conto di chi risiede colà dove si puote.

Proprio perché, grazie alle condizioni tipiche dell’emergenza, è possibile spingere le persone a fare ed accettare cose che in situazioni normali non passerebbero mai.

In linea di principio la costruzione delle emergenze, e in particolare la loro diffusione a livello mediatico, non ha differenze dal sensazionalismo di cui ci siamo occupati fino ad ora, tranne per il fatto che per i loro fini si aggiungono dosi sempre crescenti di terrorismo, secondo il significato più genuino del termine, ossia induzione e amministrazione degli effetti prodotti dal terrore.

Se questo è a livello di principio, la pratica concreta implica la riduzione al silenzio e poi la definitiva emarginazione per chiunque non si assoggetti a fare da cassa di risonanza alla narrazione dominante. Peggio ancora se ha la sfrontatezza di porre in evidenza le sue contraddizioni plateali e gli scopi per cui viene propagandata, come sempre a reti e testate unificate.

 

 

 

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