Gianni mi scrive:
Ciao Claudio, scusa tanto se ti disturbo. Volevo solo ringraziarti per la tua recensione sui Van Der Graaf Generator. Nonostante la mia età (56) li ho scoperti da poco e li trovo sorprenderti. Tutto quello che scrivi nel tuo articolo l’ho ritrovato nell’ascolto, soprattutto per quanto concerne la parte sugli strumenti musicali e i supporti audio. Grazie ancora.
Buongiorno Gianni,
nessun disturbo, il modulo di contatto è stato messo li apposta.
Grazie a te per l’attenzione e l’apprezzamento.
Rileverei soltanto che quando si parla di cose vissute a livello personale, e con tale profondità e partecipazione, si è lontani dalla banalità superficiale propria della recensione.
In ogni caso, già per tanti che a quei tempi seguivano un certo tipo di musica era difficile avvicinarsi ai Van Der Graaf Generator. Allora quello che andava per la maggiore era il rock duro, la definizione heavy metal non era stata coniata, dato che la forzata esasperazione di sonorità e tematiche che vi corrisponde e non di rado spinta al caricaturale, come sempre a insaputa di interpreti e fruitori., doveva ancora vedere la luce.
Va da sé che chi si dedicava a quello i VDGG non li avrebbe mai presi in considerazione, ma anche fra quanti ascoltavano il rock progressivo, e quindi avevano se non altro fatto l’abitudine a sonorità in un certo senso contigue, ad apprezzarli era una minoranza. Sparuta tra l’altro.
Figuriamoci allora quanto può essere difficile avvicinarsi a quel gruppo al giorno d’oggi, in cui tutto quel che è dotato di vera personalità, e come tale non studiato innanzitutto per piacere all’istante, quindi è falsificato allo scopo, risulta quantomai complicato in primo luogo da esprimere.
Trova infatti un filtro rigidissimo già a monte, ossia nel meccanismo di produzione, e per conseguenza diventa problematico se non impossibile da reperire per l’ipotetico ascoltatore. Proprio in quanto decenni di vera e propria repressione – eseguita non a livello ideologico o politico, al quale siamo abituati ad accostare quella parola ma artistico – hanno reso inconcepibile persino l’eventualità stessa di potersi muovere lungo determinate linee creative.
Ciò che hai apprezzato maggiormente nell’articolo credo, o almeno spero, sia in buona sostanza il racconto di quel che ho vissuto sulla mia pelle, per quel che riguarda la deriva dei gruppi attivi nell’ambito del rock progressivo e delle loro sonorità.
E’ stata tale anche e soprattutto per intercessione delle case discografiche, già allora controllate dai soliti noti, quelli che risiedono colà dove si puote, determinate a chiudere in via definitiva con una tipologia di prodotto nato con finalità ben precise e che proprio in quanto tale aveva ottenuto i suoi scopi. Probabilmente diversi da quel che si desiderava.
Dunque non solo non aveva più motivo d’essere, ma non avrebbe tardato a rivelarsi controproducente, per quel riguardava l’assetto sociale e istituzionale instauratosi nel frattempo nonché per le forze che lo controllavano.
A questo proposito occorre ben presente un elemento fondamentale, dal punto di vista di chi di esso tiene materialmente le redini, che ovviamente non sono i pupazzi attorno alla recita dei quali si fa ruotare lo pseudo-confronto politico dato in pasto al pubblico.
L’industria dell’intrattenimento nel suo complesso, quindi anche quella musicale, non ha conosciuto lo sviluppo che le è proprio nella cosiddetta era moderna affinché le masse ne beneficiassero o altrimenti secondo la logica del panem et circenses, ma perché fungesse da veicolo di diffusione d’idee e concetti ai fini della formazione del pensiero di massa, se non di vera e propria manipolazione, e soprattutto di modelli comportamentali.
Per conseguenza, se certi discorsi non dovevano trovare più spazio, quantomeno negli ambiti destinati a condurre a una qualche notorietà, quindi diffusione e inevitabilmente possibilità di veicolazione e condivisione di determinate idee, la stessa sorte non poteva che determinarsi nei confronti del mezzo atto alla loro materializzazione formale, ovverosia le sonorità.
Oggi è tutto estremamente più edulcorato, inoffensivo, anche se a volte ha una veste di falsa aggressività, fatta apposta per far credere allo sprovveduto di un avere una funzione alternativa, solo perché ascolta certa robaccia che in realtà ha la medesima funzione del mainstream. Meglio ancora, è fatto apposta per condurre le menti, senza che se ne rendano conto, ove stabilito da lorsignori.
Malgrado ciò si pretende di essere ancora in democrazia, del tutto inesistente nel momento in cui qualcuno si adopera affinché i propri simili pensino in un certo modo e allo scopo spende i denari, oltretutto in tale quantità, forniti tra l’altro, e inconsapevolmente, dagli stessi destinatari della sua azione.
In tal modo si rende vieppiù improbabile che qualcuno riesca ad avvicinarsi a forme e sonorità tanto angolose e intollerabili per gli stomaci delicatissimi propri del giorno d’oggi, allevati a omogenizzati pre-digeriti, già nella fase del loro confezionamento.
Il solo fatto che qualcuno riesca, nella fase storica attuale, ad accostarsi alla musica dei VDGG e ad apprezzarla come merita, è da un lato consolatorio e dall’altro motivo di speranza che certi meccanismi in apparenza implacabili, innanzitutto per via della loro applicazione a tappeto, così da eliminare alla radice qualsiasi possibilità di alternativa, riescano a trovare infine il granellino di sabbia capace di incepparli, una volta e per tutte.
Magari non nei confronti della maggioranza, di per sé condannata a una passività sempre più pervasiva, ai fini della quale i sistemi di somministrazione di file da remoto e più in genere tutto quanto funziona in digitale hanno un ruolo fondamentale, ma almeno di una minoranza sperabilmente destinata a divenire il più possibile rumorosa.
A questo proposito si è utilizzato un sistema non di repressione, come nel caso precedente, ma di induzione.
L’involuzione del processo creativo riguardante le sonorità, rispetto al quale i VDGG e diversi altri artisti di quell’epoca costituiscono un esempio quantomai significativo, è stata tale da condurre infine all’incapacità stessa di produrre, e prima ancora di concepire, una personalizzazione delle sonorità quale esito di un percorso di sviluppo individuale.
Ciò è avvenuto per mezzo di quel che all’apparenza poteva essere osservato come il suo contrario, stante nella disponibilità, cui si è pervenuti ancora una volta grazie al digitale, di sonorità preconfezionate, oltretutto in vasta quantità e secondo un piano di rinnovamento forzato e continuativo. Tale per un verso da rendere priva di senso l’idea stessa di doversi industriare in prima persona al fine di dotarsi di una sonorità adeguata a distinguersi da tutti gli altri, e per l’altro da rendere il musicista meglio produttivo sotto l’aspetto economico, dato che con il fai da te l’industria del prodotto finito ha sempre guadagnato poco o nulla.
Meglio ancora, si è fatto in modo che il bisogno di una sonorità propria, per il musicista che ritenesse necessario distinguersi dalla massa, venisse del tutto meno e si ritenesse bastevole averne una alla moda. Definita appunto dall’evolvere delle tecniche di sintesi sulle quali si sono basate le generazioni successive di strumenti digitali.
Dunque si è instaurato un meccanismo di rinnovamento continuo di tastiere e non solo – basti pensare alle batterie elettroniche, automatiche o manuali, al synth-axe che era una chitarra digitale oppure all’EWI, Electronic Wind Instrument o all’EVI, Electronic Valve Instrument, rispettivamente uno pseudo-sax e una finta tromba digitalizzati – via via più costose e dalla vita utile sempre più breve, per mezzo del quale le possibilità di trarre profitto, da parte dei loro fabbricanti, si sono moltiplicate.
Un tempo si diceva che il diavolo fa le pentole ma non i coperchi, così a fronte di tutto questo bailamme, per il quale si sono investite somme colossali e se ne sono ricavate di ancora più grandi, è andata a finire che ci ritroviamo al giorno d’oggi in cui organo Hammond, Minimoog, piano Fender e Mellotron, spinti prematuramente a un’obsolescenza intollerabile e priva di alternative nelle prime fasi del processo sopra descritto, tale da spingere fin quasi a regalarli a chiunque mostrasse la disponibilità a portarseli via, col passare del tempo siano ridiventati i più desiderati. Proprio in quanto hanno dimostrato la grandezza irripetibile della loro sonorità, che ormai da tempo li ha spinti a quotazioni inaccessibili.
Così quella stessa industria che a suo tempo li mise fuori gioco, facendoli apparire a tal punto sorpassati, grazie alle novità che sfornava a getto continuo e sembravano chissà cosa, salvo poi mostrare in capo a qualche mese tutta l’irrecuperabile povertà dei suoni che riuscivano ad emettere, malgrado la complessità dei meccanismi e delle circuitazioni su cui erano basati, conseguenza dello sforzo tecnologico dal quale traevano origine, si ritrova oggi a dover cercare con ogni mezzo di replicare nella maniera più fedele possibile la sonorità di tutto quello che a suo tempo si è impegnata allo spasimo affinché lo si mandasse in soffitta.
La stessa industria che tanto ha fatto per spingere a sbarazzarsi una volta e per tutte di quella generazione inimitabile di strumenti, già da qualche decennio dirige pressoché tutti i suoi sforzi nel tentativo di realizzare prodotti che riescano a copiarne nel modo più fedele la sonorità che essa stessa ha reso superata. Com’è ovvio senza riuscirci fino in fondo, dato che se vuoi il vero suono dell’organo Hammond, del Mellotron o del Minimoog quello ci devi mettere e non altro, accettando anche le loro limitazioni inevitabili.
In questo modo, inoltre, si evidenziano ancora una volta il vero significato e le conseguenze effettive di quello che si vuol far passare per progresso ma tale non è. E’ anzi l’esatto contrario, proprio in quanto ha il suo scopo primario non nel favorire un miglioramento delle condizioni generali ma come è prassi al giorno d’oggi è un meccanismo gravato dal peccato originale della società attuale che asserve qualsiasi cosa alle logiche del profitto.
Inteso però non come tale, ma nella sua forma più esclusiva, destinata già in partenza ad andare a favore di pochissimi, i quali adoperano il potere che ne deriva per far si che la loro cerchia vada sempre più restringendosi, quindi a diventare sempre più potente e autoreferenziale.
Vediamo allora come il tutto si risolva con un’attività che, in linea di principio, è del tutto indistinguibile dallo scavare buche per poi ricoprirle, trovando per essa una giustificazione riguardante essenzialmente la necessità di occupare persone che altrimenti sarebbero a spasso e più ancor i profitti che ne derivano. Come sempre a favore esclusivo di quanti sono in grado di controllare tutto il processo.
Chi è costretto a subirlo, invece, è chiamato non solo ad accettarne le conseguenze ma a pagarne anche i costi, secondo una logica esemplare.
A livello di produzione musicale ha dovuto prima spendere la rilevante quantità di denaro necessario all’acquisto di un organo Hammond nell’epoca del suo massimo splendore, rimettendoci anche l’osso del collo quando è stato messo fuori moda poiché costretto a rivenderlo per una cifra simbolica e a indebitarsi nuovamente per comprare l’ultimo gioiello della tecnica che non ne valeva neppure la minima parte. Per poi finire con lo spendere una somma colossale per comprarsi di nuovo lo stesso Hammond che a sua tempo ha buttato via. O peggio, la sua copia attuale inevitabilmente castrata, una volta che la paccottiglia digitalizzata che è stato fatto credere fosse il non plus ultra ha infine mostrato la banalità irrecuperabile e la stucchevolezza dei suoni che riusciva a emettere. Pertanto trova, stavolta giustamente, la via del rottamaio, dalla quale però nessuno vorrà salvarla.
Sul lato della fruizione invece i costi da affrontare hanno riguardato il dover subire musica fatta con sonorità di merda, le quali finiscono inevitabilmente per influenzarne tanto la composizione quanto l’arrangiamento. A tal fine si sono dovute spendere ugualmente le somme non indifferenti necessarie per acquistare i dischi e i CD su cui è stata fissata, o altrimenti gli abbonamenti ai sistemi di somministrazione da remoto attualmente in voga, per poi venirne in larga misura influenzati, sia pure in via transitoria ma ricavandone comunque una degenerazione dei gusti e più che mai di concezioni e a livello culturale.
Dimostrazione ennesima che la produzione di quel profitto andato a favore di pochissimi, sul quale però si calcola il PIL, moderno feticcio della religione universale intenta all’adorazione dello sterco del diavolo, imposta quale comandamento inderogabile destinato a valere anche per tutti gli altri, presuppone in concreto costi enormemente maggiori.
Non essendo però quantificabili in denaro sonante per la loro parte di gran lunga maggiore, si tralascia semplicemente di considerarli, in una delle applicazioni più sublimi, diffuse ed esemplari del bispensiero orwelliano.
Questo tra l’altro non è nemmeno l’aspetto peggiore della faccenda, che consiste invece nel far si che più passa il tempo e più il differenziale tra il profitto dei pochissimi destinati ad appropriarsi di esso e i costi che la collettività è costretta a subire in suo nome aumenti, con progressione geometrica.
Lo dimostrano le conseguenze della farsa pandemica, in cui per far si che l’industria farmaceutica guadagnasse sui finti vaccini che in realtà erano sistemi di modifica del genoma umano quel che ha guadagnato, anche se ora sta crollando in borsa, si è inventata una malattia che servisse proprio a imporre l’obbligo del finto vaccino.
Allo scopo si è proceduto a invertire l’ordine naturale di causa ed effetto: non la ricerca e la scoperta della medicina per guarire la malattia, ma l’invenzione della malattia per poter imporre la pseudo medicina, in realtà arma per la guerra biologica, già approntata allo scopo. Esattamente come al giorno d’oggi non si costruiscono più le armi per trovarsi pronti in caso scoppi una guerra e possibilmente vincerla, ma s’inventano le guerre, fomentandole con ogni mezzo, che permettano di vendere prima armi sempre più costose e meno efficienti, e poi, ai popoli, le classi dirigenti falsificate incaricate di gestire l’intero processo, da ripetersi ad libitum.
Dopodiché si passa alla ricostruzione, che è un affare ancora più colossale, ma solo per quanti sono ammanicati a sufficienza da potersene aggiudicare gli appalti, concessi appunti dalle classi dirigenti falsificate appena menzionate.
Affinché si credesse alla finzione pandemica un’intera categoria di professionisti ha devastato il rimasuglio di credibilità che le era rimasto ammazzando le persone a milioni, tra l’altro coi metodi più gratuitamente crudeli ed efferati, invece di guarirle.
Per poi far si che quanti si erano salvati dalla mattanza, ma non dal terrore propagato per il suo tramite, andassero incontro a problemi di salute che non si sa più come risolvere, morti improvvise per crisi cardiaca e turbo-tumori che si si risolvono in poche settimana quando prima richiedevano anni per i loro esiti finali. E oltretutto colpiscono anche in età sempre più infantile, quando un tempo si manifestavano nell’età adulta e nella fase dell’invecchiamento.
Il sistema mediatico ancora una volta coopera, dal canto suo, facendo di tutto per tenere nascosti quegli eventi, secondo la logica collaudata basata sul principio che ciò a cui cui non si dà spazio di fatto non esiste.
Allo scopo non riesce a trovare di meglio dalla menzogna, atroce, del “è sempre successo” o del “è colpa della pizza margherita, del cambiamento climatico, peraltro inesistente, o della droga”, come non si è avuto alcun ritegno a scrivere anche per bambini in età prescolare, e così via.
Questo è: il suo nome è capitalismo reale e ai suoi vertici è incistata la razza più disumana di psicopatici, ormai arrivata a uno stadio che una mente non del tutto degenerata trova impossibile concepire, sia pur lontanamente.
Cosa che di fatto è il nascondiglio migliore, per certe malefatte e per chi le compie, proprio perché per la loro enormità appaiono inverosimili. Così chi si azzarda a parlarne viene fatto passare per complottista, come sempre a cura del sistema mediatico che sta li proprio per questo. Poi a distanza di tempo si viene regolarmente a scoprire che le cose stavano addirittura peggio, e di molto, rispetto a quanto immaginato anche da quelle che si vorrebbero definire teorie del complotto peggiori.
A quel punto però non ha più importanza dato che gli argomenti connessi non sono più d’attualità, dopodiché ci pensano ancora una volta i media allineati a insabbiare il tutto, contando oltretutto sull’indisponibilità del loro pubblico ad avventurarsi fuori dalla propria area di confort mentale.
Dato il procedere del meccanismo, arrivato ormai alle sue conseguenze più estreme, come proprio l’evolvere della psico-pandemia ha mostrato in maniera tanto cruda, ma senza che la maggioranza schiacciante delle persone voglia finalmente prendere atto della realtà, delle due l’una: o ci liberiamo di esso oppure esso si libererà di noi. Tra l’altro nel tempo più breve.
Quanto accaduto nel quinquennio 2020-2024 anzi potrebbe aver fatto si che il necessario al riguardo sia già stato compiuto. Ci sarebbe solo da attendere lo sviluppo degli eventi, nello stesso modo in cui il veleno per topi è realizzato per agire con il ritardo opportuno affinché le sue vittime non s’insospettiscano.
Così funziona il capitalismo reale. Però curiosamente a scuola certe cose non le spiegano. E neppure le dicono al telegiornale. Come mai?
Evoluzione e massificazione
Le modalità di evoluzione della musica si sono rivelate rispondenti alle necessità di spersonalizzazione dell’individuo e di conseguente massificazione che nello stesso tempo sono andate imponendosi, non solo in ambito musicale ma un po’ a tutti i livelli.
Meccanismo essenziale nel momento in cui si desiderino imporre i canoni di una maggiore controllabilità e prevedibilità nei comportamenti delle masse, in funzione delle stesse motivazioni per cui a un certo punto si è deciso di chiudere con un certo tipo di musica.
Questo ci fa capire una volta di più, inoltre, come nel mondo moderno, definizione comprendente anche quello di alcuni decenni fa, non esistano i cosiddetti compartimenti stagni. In funzione dei quali un intero sistema didattico e di formazione si affanna a voler conformare le menti di quanti se ne fanno vittime, sia pure a fronte della promessa di una vita agiata e della cooptazione entro le caste di grado superiore, altrimenti inaccessibili per chiunque non ne faccia già parte, su cui è ordinata la società (in)civile del giorno d’oggi.
Dunque, ciò che avviene in determinati settori, quali appunto la produzione musicale o la riproduzione sonora, non solo si rispecchia nella società civile ma sotto diversi aspetti ne anticipa addirittura i meccanismi, le dinamiche e poi anche le contraddizioni, appunto come strumenti di induzione di un cambiamento che ha tutte le probabilità di essere stato deciso preventivamente e come tale non avviene secondo modalità spontanee, ma stabilito a tavolino, con largo anticipo e con la massima accuratezza.
Proprio a questo servono del resto i cosiddetti think tank, alias serbatoi del pensiero, che nel corso dello scorso secolo e di quello corrente sono andati moltiplicandosi, grazie ai finanziamenti a piene mani da parte dei ceti dominanti. Così sono riusciti a imporre il loro potere e a mantenerlo sempre più saldo nelle loro mani ponendosi di fatto al di sopra, e oltretutto per numerose stratificazioni, delle istituzioni tradizionali. Ormai ridotte a un ruolo puramente formale, ma che al popolo bue si fa di tutto per far credere si trovino ancora ai vertici del potere.
Dunque il cambiamento è tale da non essere il frutto di un processo casuale come quello che si avrebbe lasciando le cose libere di andare lungo la loro china, quale che sia, determinatasi col passare del tempo, ma la conseguenza di azioni ben calcolate, progettate da una minoranza esigua ma potentissima, appunto in funzione delle conseguenze della società capitalista. Sono fatte poi ricadere sull’intera collettività, obbligata a subire i loro effetti e soprattutto a pagarne i costi, facendo in modo che non solo non se ne renda conto, ma per mezzo di ami disseminati sapientemente sia convinta di andare incontro al progresso e ai suoi effetti più radiosi.
Si tratta in ultima analisi degli esiti di quella che si usa definire democrazia, dove due lupi, vestiti però con magliette di colore contrario l’una rispetto all’altra, e un agnello decidono cosa c’è per cena. Secondo le leggi giustissime e inderogabili della maggioranza.
Sotto questo aspetto ritengo essenziale il contributo di almeno due testi, fra i tanti. Il primo è il già menzionato “Weird scenes in Laurel Canyon“, che descrive, cataloga e cerca di attribuire una logica tale da permettere di inquadrarli nel loro processo di continuità agli accadimenti, alle apparenti coincidenze e ai numerosi e inevitabili dietro le quinte susseguitisi nel corso dell’evoluzione della musica moderna, da un lato rivelatasi più spesso involuzione. Mentre dall’altro è stata inserita a pieno titolo nel sistema di intrattenimento globale, come del resto dimostrano gli stessi marchi che dell’industria discografica hanno acquisto un controllo vieppiù ferreo e ormai divenuto sostanzialmente monopolistico.
Il secondo è “All art is propaganda“, il cui titolo spiega già da sé le tesi che va ad affrontare. Tutta l’arte del resto non può che essere propaganda nel momento in cui si trova a esistere in un ambito in cui la società civile rispecchia le conseguenze dovute al suo conformarsi all’ideologia capitalista, giunta nel frattempo ai suoi stadi di evoluzione più avanzati, in cui più nessuna azione, e quindi la stessa sopravvivenza di chi la esegue, può essere concepibile in assenza del ritorno economico ad essa conseguente.
Va da sé pertanto che una qualsiasi attività non sia in grado di generare un attivo rilevante e caratterizzato da una sua continuità, quali per l’appunto non soltanto tutte o quasi le forme di arte ma anche quelle relative alla formazione e alla diffusione del pensiero, non possa che essere destinata all’estinzione, nel medio-lungo termine. Non prima di aver ristretto le possibilità di accesso al suo esercizio agli appartenenti a classi sociali ben precise, quelle per cui le necessità economiche inerenti la stessa sopravvivenza individuale non costituiscano un problema tale da renderne necessaria la soluzione nel tempo più breve. Il che costituisce di per sé una seria ipoteca alla possibilità stessa di quelle attività al mantenersi in vita.
Infatti già la mancanza della necessità di esercitare il cervello, al fine di procurarsi quanto sufficiente alla propria sopravvivenza, produce una limitazione nelle sue funzioni tale da inibirne lo sviluppo più armonico ed efficace.
In sostanza, quindi, oltre a tutti gli altri suoi difetti inemendabili, il capitalismo non può produrre altro che regressione mentale: in una parola stupidità o meglio caduta del quoziente intellettivo, come la realtà attuale va dimostrando con enfasi sempre maggiore
Il meccanismo funziona come il discorso riguardante gli automatismi, che da un lato ci rendono la vita più comoda, o forse solo meno scomoda, ma dall’altro ci portano a disimparare e infine a perdere la capacità di compiere azioni che in precedenza si dovevano eseguire in prima persona. Nel momento in cui il cambio automatico, cui è abbinata la scomparsa del pedale della frizione, va ad imporsi e a causare l’eliminazione del cambio manuale e suoi connessi, in capo a qualche decennio più nessuno è più in grado di fare una semplice partenza decente al semaforo, in assenza di un meccanismo di assistenza. Figuriamoci poi il partire in salita o gli utilizzi più complessi come la doppietta o il punta-tacco, dei quali molti ormai non conoscono neanche più il significato.
Questo inoltre va a generare una forma sostanziale di dipendenza, da cui poi risulterà sempre più complicato liberarsi, ammesso e non concesso che arrivati a un certo punto si riesca persino a elaborare lo stesso concetto volto al recupero dell’indipendenza, per tanti aspetti.
Unica alternativa al ricorso alle sorgenti del benessere familiare è il finanziamento da parte di terzi, che siano lo Stato o entità private poco importa. Per effetto stesso della logica capitalista, essi pretenderanno un ritorno o quantomeno l’aderenza ai canoni che abbiano stabilito come essenziali. Per conseguenza la forma d’arte espressa attraverso quegli strumenti non avrà più il grado di libertà, ossia quello assoluto, indispensabile a catalogarla come tale, ma diverrà per l’appunto un mero tramite di diffusione di idee e concetti precostituiti.
Ossia un sistema di propaganda.
Peggio ancora, il suo asservimento sarà tale per cui ogni forma d’arte finirà con l’assimilarsi a quella parassitaria e regressiva di cui Alessandro Gassman è oggi tra gl’interpreti più in vista.

La spinta all’eliminazione della famiglia, pertanto, è evidente che risponda non soltanto a retaggi, ma anche e soprattutto a finalità di matrice ideologica, sia pure in relazione alle potenzialità creative limitate di chi possa ricorrere al benessere familiare per esercitare l’arte nelle sue diverse forme.
Questo ovviamente solo quando fa comodo. In altri casi, come quello dello pseudo attore summenzionato, l’appartenenza a una famiglia, sia pure specialissima e anzi proprio per quello, è lasciapassare indispensabile ma non sufficiente, in assenza dei requisiti ideologici ritenuti opportuni, per ottenere determinati scopi.
Un imbecille patentato di pari rango ma dal nome qualsiasi, infatti, sarebbe mai riuscito a ottenere una simile quantità di denaro per produrre opere che alla meglio riescono a simboleggiare soltanto la degenerazione irrecuperabile della forma d’arte cui si applicano e la vera propria ricerca spasmodica di essa a fini d’irregimentazione?
Non a caso, oggi è praticamente impossibile imbattersi in un qualsiasi film sia provvisto del minimo di critica sociale espressa come tale, ossia non sia mimetizzata dietro più e più strati di comicità gratuita, tali da renderla impercettibile ai più. Però il fascismo è sempre e solo quello del ventennio. E proprio per mezzo della lotta ad esso si sono potuti imporre metodi di controllo che quelli di allora al confronto sono roba da asilo infantile. Tanto è vero che la censura non serve neanche più, sono gli stessi autori e sceneggiatori a censurarsi da sé, non di rado a loro insaputa.
Proprio come ha preconizzato Paolini: “Io profetizzo l’epoca in cui il nuovo potere utilizzerà le vostre parole libertarie per creare un nuovo potere omologato, per creare una nuova inquisizione, per creare un nuovo conformismo e i suoi chierici saranno chierici di sinistra”.
La mercificazione, appunto attività prediletta del sistema capitalista, in funzione dell’unica legge che riconosce, quella del profitto, si appropria anche dei nomi storicamente più in vista del loro settore di appartenenza per trasformarli in carne di porco da utilizzare a fini di propaganda e di istupidimento generalizzato.
Come si spiega che a fronte della dilapidazione di tutti quei denari, per scopi tanto commendevoli, per cose molto più importanti come scuole, ospedali, infrastrutture e altri provvedimenti legati al bene comune i soldi non ci sono mai?
E’ una menzogna? Come mai allora chi mente in maniera a tal punto spudorata allo stesso popolo cui poi richiede legittimazione per mezzo della lusinga e più spesso della minaccia, dell’accusa di essere un antidemocratico se insieme al resto del gregge non si reca alle urne nelle occasioni comandate, può rimanere impunemente a ricoprire certe cariche o altrimenti usufruire delle porte girevoli adibite al riciclaggio di politici trombati e/o dimostratisi clamorosamente inadeguati al ruolo che è stato attribuito loro?
Una volta tolta di mezzo l’istituzione familiare, finalità a cui spinge non si sa quanto consapevolmente il progressismo in tutte le sue declinazioni e sfumature, da quelle più blande alle più esasperate, così da evidenziare le sue vere origini che non sono quelle di universalizzazione del godimento dei diritti ma tutto il suo opposto, anche l’arte, intesa come veicolo di diffusione delle idee, non potrà che essere sottoposta a un controllo totale, definitivo e soffocante.
Appunto secondo i criteri del totalitarismo più genuino, cui guardacaso tendono sistematicamente quanti ritengono sé stessi desiderosi, propagatori più illuminati e persino depositari dei concetti più elevati di libertà e democrazia.
Tutto questo discorso serve da un lato a depurare la percezione dell’arte, e in particolar modo quella musicale nelle forme affermatesi in maniera prepotente nella seconda metà dello scorso secolo, necessaria affinché la sua fruizione sia fine solo a sé stessa e non invece mezzo più o meno subdolo di induzione del pensiero, di sovvertimento delle coscienze o d’imposizione di usi e costumi.
Proprio la prepotenza di quell’affermarsi è indicativa, per un determinato genere di finalità e da essa occorrerebbe trarre insegnamento per comprendere che, quando le cose assumono un determinato andamento, è sempre bene diffidare.
Non per snobismo, ma proprio per la consapevolezza che per il tramite loro e della loro bellezza e suggestività s’intendano affermare cose che lo sono molto meno. E che dunque tali valori non siano più intesi come tali ma utilizzati quale pretesto.
Come sempre dunque l’esperienza e quindi la storia sono maestre di vita. Essenziale a tale proposito attrezzarsi a livello culturale e concettuale per comprendere e dunque rendere utile la lezione che c’impartiscono. Cosa che non può essere che eseguita a livello esclusivamente personale: non si può pensare infatti che i mezzi forniti dallo stesso sistema che ai fini della propria sopravvivenza ha la finalità primaria di far degenerare tutto ciò che tocca, al fine di di esercitare il controllo più ferreo su ciascuno di noi, possano servire allo scopo.
In mancanza, non si potrà altro che cadere sempre negli stessi trabocchetti, senza peraltro rendersene conto, con tutte le conseguenze del caso. Il che equivale a ritrovarsi a essere completamente manipolati e quindi telecomandati persino nei gesti più usuali della ripetitività quotidiana, quel che è peggio senza neppure rendersene conto.
A questo proposito la storia e l’evoluzione del genere definito come rock progressivo sono d’esempio.
Dai King Crimson e dagli Yes, due tra gli esempi più fulgidi delle vette di creatività e delle capacità incessanti di sviluppo del laboratorio creativo materializzato attraverso il genere musicale definito come rock progressivo, che a mezzo secolo dalla sua fine costituisce ancora l’esperimento più avanzato in assoluto in ambito musicale, derivarono gli Asia, ossia quanto di più inascoltabile a causa della commercialità spinta fino allo spudorato per qualsiasi appassionato di musica apprezzasse il progressive non per caso o per moda. Ne riconosceva invece meriti, scelte stilistiche e formazione da cui derivavano, improntate alla massima libertà e alla padronanza del numero più ampio di generi musicali, dai quali attingere e miscelare nelle forme più varie e imprevedibili.
Gli stessi Yes, chiusa quella parentesi, seguirono una traiettoria simile, e senza nemmeno cambiare nome, come tali non riuscendo più non soltanto ad attingere alle vette creative del loro passato recente, ma neppure a produrre qualcosa che fosse sia pur lontanamente ascoltabile e non abbrutito da esigenze commerciali che gli artisti inclusi in quella formazione si mostrarono pronti ad accettare e ad obbedire.
A partire da un certo momento, diciamo dal 1976-77, la spinta alla banalizzazione è stata irresistibile, proprio in funzione del ricatto eseguito dai discografici: se volevi continuare a suonare e far dischi, fino a che avessi retto, con certi contenuti dovevi chiudere. La parabola dei gruppi nostrani, in primo luogo la PFM e il Banco sono esemplari. Solo gli Area hanno resistito, ma per i motivi che sappiamo hanno comunque perduto visibilità risultando ininfluenti ai fini dell’evoluzione del genere, per quanto includerli nel prog fosse una notevole forzatura. Hanno fatto però parte a tutti gli effetti nel fenomeno più ampio consistito nella cosiddetta musica alternativa. Del resto essere più alternativi di loro non era assolutamente facile, ammesso fosse possibile.
Un altro esempio, spettacolare, furono i Supertramp, campioni indiscussi del genere particolarissimo e devastante che va definito per quello che è stato: rock gne gne.
In realtà erano musicisti validissimi, come dimostrano certi intermezzi delle canzonacce con cui sono pervenuti al successo planetario, mere filastrocche cantate in quel falsetto bambinesco quanto intollerabile. Oggi è riconoscibile per ciò che è stato: esperimento tra i primi nel genere all’induzione della femminilizzazione e dell’idiotizzazione di massa, come metodo di controllo e di pilotaggio delle scelte e dei comportamenti di fasce sempre maggiori della popolazione.
I Supertramp erano attivi già da tempo quando a un certo punto sembrò che i loro dischi spuntassero fuori dal nulla. Lo fecero, guardacaso, proprio nell’epoca in cui l’attacco al rock progressivo divenne più incisivo. Era necessario toglierlo di mezzo, e a questo si provvide col punk, la new wave, con particolare riferimento al nichilismo e alla spinta all’autodistruzione che hanno caratterizzato soprattutto il primo, e insieme con la disco music tanto per non farsi mancare nulla in quello che è stato un attacco a tenaglia da manuale .
La disco era altrettanto se non ancor più nichilista, ma sul versante della spensieratezza e se vogliamo della gioia di vivere, mirata però a una vita insulsa e priva di traguardi di qualsiasi genere, innanzitutto culturali o di evoluzione del proprio essere, che non fossero altro che il godimento di essa del tutto fine a sé stesso. Per certi versi allora era ancora più pericolosa e distruttiva dello stesso punk, proprio perché le sue finalità erano nascoste dietro la sua apparenza del tutto innocua.
Nello stesso tempo tuttavia occorreva evitare sempre possibili ricadute verso il prog, da parte del pubblico che vi era in qualche misura affezionato. Occorreva pertanto fornirgli qualcosa che vi somigliasse sia pur vagamente, ma fosse del tutto edulcorato o quasi dai contenuti che di esso erano parte essenziale ma si ritenevano troppo ingombranti.
Ecco allora la ricetta Supertramp, per tanti versi non dissimile dalla traiettoria percorsa dai Genesis, altri giganti del progressive, in seguito all’abbandono di Peter Gabriel: un paio di dischi in cui in qualche modo sono riusciti a reggere la barra, anche se palesemente privi dei contenuti artistici della fase precedente, e poi la capitolazione nei confronti di una musica, se ancora così la si può definire, sempre più votata al commerciale più vacuo. Sia pure eseguita da artisti di grande mestiere, il che non è certo un’attenuante.
Come dicevamo non ci si è fatti mancare nulla, neppure il dissenso controllato come quello dei CCCP: i rivoluzionari che però, guarda la combinazione, sono stati sempre e comunque osannati da tutta la stampa allineata.
Al riguardo delle involuzioni di genere simile, ai fini delle quali anche i fenomeni alla Skiantos, Alberto Camerini e similari hanno avuto la loro importanza, la fase temporale in cui hanno avuto luogo ricopre un’importanza fondamentale. Lo spiegano sempre i Supertramp, che come abbiamo detto era da parecchio tempo che si cercava di portare al successo.
Almeno dal 1973, anno in cui vennero a esibirsi in Italia per la prima volta, nientemeno come gruppo d’apertura ai concerti dei Ten Years After. E’ evidente tuttavia che per per assurgere a traguardi del genere, pur nella loro parzialità, sia necessario del tempo. per cui è probabile che il gruppo di cui stiamo parlando fosse attivo già in precedenza.
Nel 1973 i Supertramp avevano definito la formula che anni dopo li avrebbe portati al successo: pianofortino ultrapetulante insistito fino all’insopportabile e vocine in falsetto in stile eunuco, che non avrebbero dato l’idea di essere fuori luogo persino in un musical stile “Grease”, non a caso asse di sfondamento assieme a “La febbre del sabato sera”, e più in generale all’intero fenomeno della disco music di quella tendenza che a suo tempo venne definita come “riflusso”.
Su di essa si giocarono tutte le carte per arginare le conseguenze ideologiche di liberazione e proto-rivoluzionarie determinatesi con il rock progressivo e più in generale tutta la musica alternativa eseguita a partire dalla seconda metà degli anni 1960.
Ora, mettere roba del genere in apertura ai concerti dei Ten Years After, dove il pubblico si affollava esclusivamente per la volontà di riascoltare dal vivo le prodezze della “I’m goin’ home” che l’aveva fatto saltare sulla poltroncina dei cinema in cui si proiettava il film “Woodstock”, veicolo per mezzo del quale la musica “pop”, allora si definiva così, conobbe il primo successo di massa nel nostro Paese, poteva apparire una scelta semplicemente distruttiva.
Osservata con gli occhi di oggi, invece, finisce con l’apparire per ciò che potrebbe essere stata in effetti: un test vero e proprio, atto a verificare se i tempi fossero almeno in parte maturi per far si che il pubblico abbandonasse generi che avevano già dimostrato la quantità di effetti controproducenti ai fini della gestione del potere concreto che era in grado di produrre, specie nei riguardi del controllo delle masse, e potesse essere dirottato su cose assai più inoffensive.
Proprio come la musica da asessuati, se non peggio, sia pure a propria insaputa, tipica dei Supertramp.
Poi come sempre quel che si teorizza a tavolino trova ostacoli insormontabili nella pratica, tanto è vero che un certo genere di pubblico avrebbe trovato il suo nirvana in cose ancora più banali, oltretutto in misura imprevedibile come i 45 giri di Raffaella Carrà, ma questo è un altro discorso, che tralascio molto volentieri.
Si è trattato comunque di un personaggio costruito e imposto con finalità che, per chiunque desideri vederle, sono oggi ben chiare.
Ai Supertramp, quantomeno in quella serata tra fine inverno e inizio primavera 1973 tenutasi al Palasport di Roma, venne letteralmente impedito di suonare. Ai primi due accordi di quel loro pianofortino insulso e rompicoglioni iniziarono i fischi, sacrosanti, da parte della stragrande maggioranza del pubblico. Amplificati dalle risonanze prodotte dalla struttura particolare del luogo, tanto bella a vedersi quanto di meno funzionale a livello di acustica mente umana possa concepire, dimostrazione ulteriore che quel che trova gradimento per l’occhio è spesso del tutto inadatto per l’orecchio, riuscirono a sovrastare senza difficoltà l’emissione dell’impianto di amplificazione particolarmente potente, era destinato appunto ai Ten Years After, approntato per la serata.
E più suonavano, i Supertramp e più i fischi di un pubblico evidentemente esasperato dalla proposta del gruppo, a maggior ragione per orecchie abituate ai Ten Years After e probabilmente ai Deep Purple o ai Led Zeppelin allora ritenuti contigui per il genere musicale che eseguivano, andavano aumentando.
Per placarsi solo alla fine di ogni brano, dopo il quale neppure un accenno di applauso azzardava a comparire, E come riattaccavano col brano successivo, i fischi ricominciavano, più forti di prima, tanto che a un certo punto, in una fase alquanto prematura per le esibizioni dei gruppi di apertura, che di solito andavano avanti per tre quarti d’ora almeno e nei casi migliori si prolungavano a un’ora e anche a un’ora e mezza, i Supertramp si decisero finalmente a scendere dal palco.
Non è dato sapere se per decisione autonoma o altrimenti a richiesta degli organizzatori, date le reazioni del pubblico sempre più tendenti allo spaventevole.
Per comprendere in quale misura, occorre essersi trovati al livello della platea del Palasport, nel momento in cui dai due ordini di gradinate sovrastanti il pubblico dava sfogo alle sue reazioni, per quali che fossero.
Come ho potuto verificare di persona, come ad esempio al concerto dei Weather Report del 1980, la particolare conformazione del luogo le trasforma in qualcosa di terrificante anche quando sono di apprezzamento, oltretutto grande. Come ad esempio al primo bis di quest’ultimo concerto, quando il gruppo di Zawinul ha attaccato “Birdland”. In quel momento ho avuto la precisa sensazione che l’intero edificio stesse per crollarmi addosso.
Figuriamoci allora quando le persone sono incazzate come furetti, come nel caso in cui hanno pagato per ascoltare la chitarra fiammeggiante di Alvin Lee nell’esecuzione del riff indiavolato di “I’m goin’ home” e invece gli viene presento il pianofortino uso giocattolo e le vocine puerili dei Supertramp, agiti peraltro in piena serietà e dunque senza neppure un accenno al fare ironico o all’iconoclastia propri ad esempio della musica zappiana. Forse i soli a poterli rendere almeno accettabili per un pubblico di quel genere.
Il test lo hanno fatto, e come abbiamo visto è andato nel modo peggiore, sia pure prevedibile senza difficoltà, il che starebbe a dimostrarne l’urgenza, altrimenti se ne sarebbe potuto fare tranquillamente a meno. Anche perché di gruppi all’altezza della situazione, all’epoca, ce ne erano in grande abbondanza.
E’ probabile tuttavia che un bello spavento se lo siano preso, altroché. La rivincita sarebbe arrivata con gli interessi qualche anno dopo, quando i Supertramp, stavolta cooptati ad attrazione primaria della serata, avrebbero fatto il tutto esaurito e preso applausi a sfare, dimostrando che con la giusta fase preparatoria è possibile adattare il pubblico, inteso in senso lato, ad accettare tutto e tutto il suo contrario.
Come si vede, allora, passare da Ian Gillan, Robert Plant o persino da un Francesco Di Giacomo al cantante di quel gruppo di autoretrocessi a scappati di casa, il che è anche peggio, non è stata proprio questione di un attimo, ma poco ci è mancato.
Probabilmente, tuttavia, tra il pubblico che si è spellato le mani per applaudire i Supertramp, ben pochi e forse nessuno aveva partecipato al concerto dei Ten Years After di quattro o cinque anni prima. Dimostrazione che i gap generazionali, dato che proprio di questo si tratta, possono avere luogo anche tra persone separate da una data di nascita successiva solo di poco.
Quando si utilizzano i metodi opportuni, ovviamente.
E’ altrettanto vero, tuttavia, che sarebbe bastato qualche tempo ancora, ossia fino allo scoccare degli ’80, e tanti che prima di allora avevano ascoltato non proprio i Van Der Graaf ma almeno musica di un certo spessore, li si sarebbe potuti portare senza difficoltà a un genere ancora più vacuo e falsificato. Come quello che ha imperversato in quel periodo, in cui la cosa più importante non è stata più la qualità della musica, per quale che fosse, ma che ogni brano possibilmente destinato al successo fosse immancabilmente affiancato da un video.
Di sicuro io al “concerto” dei Supertramp non c’ero. Probabilmente lo si è già capito dal testo, ma roba simile non l’ho mai potuta sopportare, allora e tantomeno oggi.
Proprio perché se si apprezzano i Van Der Graaf, peraltro a tal punto e in piena coscienza delle motivazioni di quell’apprezzamento che in realtà è qualcosa di ben più profondo, certa roba non la si vuol vedere manco in cartolina. E per fortuna.