Creative A 300, il più grande dei microimpianti?

In questa fase storica stiamo vivendo tempi molto particolari. Nel nostro settore, e di pari passo nella società civile, che non sono separati come taluni desidererebbero da compartimenti stagni ma spesso l’uno rispecchia e persino anticipa le tendenze che hanno luogo nell’altra, la corsa al sempre più grande sembra priva di limiti. Al punto che ormai persino lo smisurato non è ancora abbastanza.

Al riguardo viene fin quasi istintivo chiedersi cosa vi sia bisogno di compensare, perché e in quale misura, per quel tramite. Ognuno potrà darsi la sua risposta.

Altrettanto interessante da osservare è la capacità di chi si compiace di questa tendenza, e si riconosce in essa, di passare all’istante a declamare le virtù del “sostenibile”, parola che mi scatena l’urto di nervi al solo sentirla nominare per l’abuso che se n’è fatto, e del rispetto ambientale senza manco fare una piega. Non accorgendosi del contrasto stridente, vero e proprio testacoda concettuale, tra le due cose.

Come sempre in casi simili, ossia quando una tendenza acquisisce una diffusione a tal punto endemica, non è sufficiente limitarsi a osservarne le contraddizioni nel proprio piccolo, ma si riterrebbe indicata una presa di posizione più netta. Dato che il principio di Juncker, l’avvinazzato non eletto da nessuno messo a suo tempo a capo dell’UE, non trova applicazione soltanto nelle politiche comunitarie ma un po’ a tutto campo.

Il suo enunciato è il seguente: “Noi prendiamo una decisione in una stanza, poi la mettiamo sul tavolo e aspettiamo di vedere cosa succede. Se non provoca proteste o rivolte, è perché la maggior parte delle persone non ha idea di ciò che è stato deciso; allora noi andiamo avanti passo dopo passo fino al punto di non ritorno”.

Molto democratico, senza dubbio, ma ancor più omissivo, secondo una logica che ormai non lascia scampo. In particolare del ruolo attribuito ai media, sul quale politiche del genere fondano tutte le loro possibilità di attuazione.

Ad essi infatti va il compito non di informare, se mai lo hanno fatto, e di vigilare su quanto avviene a livello politico, economico, industriale o quant’altro, ma di produrre un rumore di fondo assordante, incessante, ossessivo, seppellendo i suoi destinatari sotto un cumulo di argomenti privi di qualsiasi importanza ma presentati in modo da essere i più divisivi possibile. Così da tenere impegnate le masse in contrapposizioni che più fatue non si può, mentre sopra la loro testa passano i provvedimenti più infami e criminali, come prescrive la logica del dividi e impera.

Il meccanismo non è dissimile da quello della contrapposizione tra squadre di calcio: Roma e Lazio, Milan e Inter, Juve e Toro, Genoa e Samp e così via. Per conseguenza anche il livello intellettivo di chi si lascia trascinare in quel gorgo si trova di fatto a essere segnato.

Lo stesso avviene, con il compiacimento di chi le induce, per le mille e una contrapposizioni proprie del settore della riproduzione sonora, tipo bass reflex o cassa chiusa, valvole o transistor, MM o MC, diffusore da pavimento o da piedistallo e così via. Sono tali da tenere impegnati gli appassionati in diatribe non solo prive di senso ma efficaci come niente altro nel distoglierli dal perseguire il loro vero obiettivo, che l’industria e la propaganda di settore hanno tutto l’interesse a far si che rimanga irraggiungibile, nel momento stesso che lo utilizzano quale richiamo, non di rado irresistibile.

Dimostrazione ennesima che la riproduzione sonora e la società civile condividono gli stessi identici meccanismi.

Da rilevare inoltre che il “passo dopo passo” menzionato da Juncker ricorda da vicino una tra le più famose dichiarazioni prodiane, mentre “il punto di non ritorno” è proprio della narrativa di Monti riguardo alla necessità e allo sfruttamento delle emergenze. Dimostrazione che in certi ambienti il vero collante è l’uniformizzazione non solo del pensiero ma delle direttrici lungo le quali si articola. Sarebbe interessante sapere come la si ottiene, ma è sufficiente osservare che i suoi risultati sono una truppa formata da individui telecomandati, quindi intercambiabili a piacimento senza che i risultati ottenuti varino in modo alcuno.

 

In direzione ostinata e contraria

Sia pure trovandosi in disaccordo, quantomeno in linea teorica, con la spinta al sempre più grande, si può essere influenzati da essa senza accorgersene. Ad esempio con la tendenza a sminuire o più ancora a trascurare tutto quanto non abbia le dimensioni che oggi si è portati – da cosa?- a ritenere necessarie.

A questo riguardo, e anche in merito alla questione del “passo dopo passo”, credo valga la pena di osservare come a confronto delle auto di oggi, quelle di un tempo appaiano contenute nelle loro dimensioni al punto di sembrare persino ridicole. Un’auto da professionista affermato degli anni 60, come potrebbe essere la Lancia Flavia, è più piccola di tante utilitarie attuali: se per ipotesi qualcuno presentasse un’auto di quelle stesse proporzioni e pretendesse di indirizzarla a un pubblico formato da persone “arrivate” professionalmente o solo sotto l’aspetto economico, quanti la prenderebbero in considerazione?

Nessuno, è evidente. Dimostrazione stessa che nel giro di qualche decennio, “un passettino alla volta”, hanno cambiato il modo di pensare e di vedere le cose dell’intera umanità.

Pretendendo però, nello stesso tempo, di essere impegnati allo spasimo nella lotta contro lo spreco e l’inquinamento. Dilapidazione di materie prime a parte, va da sé che muovere un mezzo più pesante e ingombrante comporti un dispendio di energia enormemente maggiore. Non solo per il sue peso, cresciuto più ancora delle dimensioni, ma per la resistenza opposta dall’aria al suo spostamento. La quale, attenzione, non è fatta solo dal coefficiente adimensionale, il cosiddetto Cx su cui si è insistito fino allo sfinimento così da lasciar credere che non esistesse niente altro, ma dal suo prodotto con la superficie frontale, Cz, caratterizzata negli anni da una crescita esponenziale, inevitabilmente.

Se poi ci carichi sopra anche mezza tonnellata e più di batterie, pronte a esplodere e che per essere spente necessitano di utilizzare quantità inimmaginabili di liquido speciale, e molto costoso, a calcolare il risultato non ci vuole molto.

Per non parlare del fatto che volendo produrre quelle necessarie a una sola auto occorre sbancare un’intera collina, alfine di estrarne i materiali necessari. Allo scopo, come noto, si utilizzano bulldozer a pedali e meccanismi di separazione e cernita a manovella.

Così prima ti hanno condizionato ad avere l’auto che meno di certe dimensioni è improponibile, e a spendere di conseguenza mentre gli stipendi sono fermi da 30 anni, poi ti accusano di essere un inquinatore schifoso e incorreggibile, che va eliminato dalla faccia di questa terra, altrimenti il Pianeta non potrà sopravvivere, perché hai obbedito alle loro imposizioni.

Non lo sembravano perché veicolate da pubblicità e travestite da articoli tecnici o pseudo tali, pubblicati dai media asserviti, ma tali erano e non altro.

Qui si può osservare il vero principio che regola i rapporti tra chi ha la capacità di prendere le decisioni e quanti sono chiamati a osservarle: questi ultimi vengono sistematicamente criminalizzati per mezzo di tutto quanto sono costretti a subire. Con le buone o le cattive, mentre i costi sono regolarmente a loro carico.

Nell’ambito della riproduzione sonora è andata nello stesso identico modo. Oggi tutto quel che non è il Mac coi vu meter da 50 pollici o il Dan D’Agostino da 500.000 watt per canale, coi quali pilotare diffusori da quattro quintali e mezzo ciascuno, è roba da barboni.

Faccio presente che, se non ricordo male, la normativa attuale per i solai prescrive una capacità di carico massima pari a 400 kg per metro quadro.

Signori appassionati, fate i vostri calcoli per benino, casomai chiamate uno strutturista, e controllate fino in fondo le clausole scritte in piccolo sui contratti di assicurazione per la casa che avete stipulato.

Le possibilità di fare esperienza, nondimeno, si trovano a volte laddove non lo s’immaginerebbe. Tanto più al giorno d’oggi. Dunque si può trovare qualcosa da imparare anche in cose che si riterrebbero prive di un qualsiasi motivo d’interesse, già per le loro dimensioni.

Per quanto suonino come luoghi comuni, nei confronti dei quali ho un’allergia particolarmente spiccata fin dalla più tenera età, accade di osservare con una certa frequenza che le cose stiano proprio in questo modo.

L’evolvere del settore di nostro interesse dà sempre più l’idea di rifiutare l’esistenza stessa di qualsiasi limite verso l’alto, proprio come accade per le potenzialità di arricchimento del singolo, inevitabilmente a spese del resto della collettività. Soprattutto quella che ha accesso al minor numero di privilegi. Questo fenomeno riguarda in particolare i costi delle apparecchiature, la ridondanza e la pacchianeria che ad essi si accompagnano sempre più di frequente, al punto da essere diventate un segno di riconoscimento imprescindibile.

Per quale motivo, allora, un grado di evoluzione confrontabile, almeno a livello quantitativo, non dovrebbe poter avvenire anche sul versante opposto?

Tra l’altro senza la necessità di chiamare in causa particolari sviluppi della tecnica, acustica o elettronica che dir si voglia ma, nella fattispecie, per un sistemino che ha visto la luce ormai più di venti anni fa.

Era il 2006 e a seguito della composizione di un PC fisso destinato a sostituire quello che stava per esalare l’ultimo respiro, e utilizzavo da un po’ più di dieci anni, mi resi conto che a fronte dell’aggiunta di un 5% appena alla spesa da affrontare, avrei potuto equipaggiarlo con un sistemino in grado quantomeno di emettere i segnali audio del sistema operativo.

All’epoca infatti non era ancora abituale equipaggiare i monitor con altoparlanti di servizio.

Quella almeno è stata l’idea d’origine, ma una volta spesa una somma a tal punto astronomica, pari a 30 euro, mi resi conto che l’oggetto in questione aveva ben altre cartucce nel suo arsenale.

Vero è che quel prezzo era praticato da uno tra gli scontisti più agguerriti della Capitale nell’ambito dei personal computer, tipologia di commercianti dei quali oggi si sente fortemente la mancanza, costretti come siamo a rivolgerci alle piattaforme di diffusione globale per un qualsiasi acquisto di prodotti informatici. La sua sede era ricavata nei sotterranei di un edificio nelle vicinanze della Basilica di S. Paolo.

Comunque sia, 30 euro sempre tali sono: per una somma del genere cosa ti vuoi aspettare? Già è tanto che un prodotto audio di prezzo simile riesca ad accendersi.

Invece, una volta estratti i vari componenti dall’imballo, è stato inevitabile accorgersi che l’A 300 avesse una sua dignità già a livello realizzativo. A iniziare dall’alimentatore, sempre del tipo da inserire direttamente nella presa a parete ma bello pesante, a suggerire la presenza al suo interno di un trasformatore piuttosto sostanzioso.

Ai fini della prima valutazione per le caratteristiche del prodotto, in relazione al suo prezzo di vendita, andrebbe comunque rilevato che all’epoca il differenziale tra costo di lavoro e materie prime in estremo oriente e potere d’acquisto della valute occidentali era ben più ampio rispetto a oggi.

Proseguendo la tendenza nei modi e nelle dinamiche che abbiamo imparato a conoscere fino a oggi, anzi, non è azzardato ipotizzare che in un futuro più o meno prossimo avverrà un’inversione dei ruoli e saranno proprio gli orientali a potersi permettere di acquistare a prezzi per loro stracciati quanto realizzato in Occidente. Soprattutto se quest’ultimo riuscirà in qualche maniera a salvarsi dalla deindustrializzazione che insieme alle scelte suicide di politica energetica è stata la chiave di volta del suo retrocedere sullo scenario mondiale, su qualsiasi parametro si desideri considerare. Questo, a sua volta, è stato l’ elemento primario su cui si è basato il meccanismo della cosiddetta globalizzazione.

Paradosso dei paradossi, adesso le vittime di tale meccanismo si stanno scagliando contro quel che potrebbe costituire non dico un’inversione di tendenza ma solo mettergli un freno o almeno dà l’idea di poterlo fare.

Imbeccate come sempre da un sistema d’informazione che svela come meglio non si potrebbe il suo vero ruolo, la manipolazione e il controllo di masse ormai talmente inebetite da essergli rimasta solo la capacità di ripetere a pappagallo quanto viene martellato nelle loro menti, senza manco riuscire a capire di cosa stiano parlando. Analfabetismo funzionale insomma, da parte di quanti, bene o male, almeno una quindicina di anni di scuola se li sono fatti.

A cosa siano serviti è un mistero, tranne ovviamente che per le solite necessità di discriminazione e irreggimentazione. Rispetto alle quali hanno funzionato benissimo, occorre riconoscerlo.

Lo spauracchio, perché la tecnica dell’uomo nero funziona sempre, nei confronti delle masse appositamente infantilizzate, è che dall’avviarsi di un processo di de-globalizzazione gli stessi che della globalizzazione hanno pagato tutti i costi si troveranno di nuovo a pagare dazio, per l’ennesima volta.

Cosa del resto inevitabile. Ai contraccolpi di quel meccanismo infernale che va in blocco non c’è riparo, soprattutto se colà dove si puote così è stato deciso.

D’altronde, come disse Brenno, guai ai vinti.

Chi ha perduto la guerra della globalizzazione è inevitabile che debba poi pagare anche i costi della rilocalizzazione, nel momento in cui le contraddizioni della prima si rivelano insostenibili. In particolare per quanti ne hanno tratto tutti i benefici e di essi non hanno intenzione di cedere neppure una briciola.

Rilocalizzare è peraltro inevitabile, semplicemente perché il mondo è un luogo finito. Come tale non può offrire alternative al ribasso per i costi della manodopera, e quindi del prodotto all’origine, oltre un certo limite. Abbiamo avuto il Giappone, negli anni 1950 e 60, poi Taiwan, la Cina, il Bangladesh, la Birmania e infine il Vietnam. Che prima abbiamo raso al suolo col napalm insieme a Laos e Cambogia, come in Giappone è stato fatto con le atomiche, sganciate per il solo gusto di vederne l’effetto e minacciare con esso il mondo intero, ma tanto chi scrive i testi di storia giura che i criminali di guerra sono sempre gli altri.

Poi lo si è convertito alle logiche dell’accumulazione capitalista, concedendogli in cambio qualche misero avanzo ma sempre facendoglielo pagare un prezzo spropositato, stante nell’accettazione supina e incondizionata delle finalità e dei modi di vita capitalisti, capaci di spazzar via in un solo istante tradizioni e valori millenari.

Risultato, nichilismo e alienazione.

Ora la lista volge al termine: certo, chi ha tratto vantaggi tanto grandi da essere fuori dalle stesse possibilità di concezione dell’uomo qualunque, se potesse andrebbe a produrre persino all’inferno o magari solo su Plutone o sugli Anelli di Saturno. Purtroppo però ancora non si è trovato il modo di spostare le fabbriche fin laggiù e difficilmente lo si potrà fare nel prossimo futuro.

Anche se sempre più spesso sembra che i “ragionamenti” tipici del piddino ZTL e sinistrati vari siano proprio quelli di chi vive in luoghi così ameni.

Guai ai vinti, allora, e peggio che mai per quelli che si arrendono senza combattere.

Proprio come hanno fatto le classi lavoratrici negli anni 80, in primo luogo perché chi marciava alla loro testa era a libro paga dell’avversario, di classe. E poi perché si sono lasciate intortare dalle sirene del consumismo e dai falsi miti della Milano da bere e di tutto il resto della paccottiglia ideologica liberista con cui un sistema d’informazione come sempre unito e compatto al servizio del più forte le ha turlupinate.

Ora, a più di quarant’anni, quel sistema di falsificazione intensiva pretende ancora di detenere il monopolio della verità, sia pure a fronte del numero incalcolabile di fandonie con cui ha fatto bersaglio le sue vittime. E se non gli si crede ecco pronte le leggi, via UE, atte a criminalizzare la libertà del pensiero e il diritto inalienabile alla sua espressione. Malgrado siano sanciti della Costituzione, così che si comprenda una volta e per tutte a cosa è servita, di fatto.

Tutto questo a dimostrazione del principio assoluto e inderogabile della semantica: chiunque per una qualsiasi ragione si trovi a utilizzare il vocabolario dell’avversario, proprio come avvenuto a iniziare dalla fine degli anni 70 e poi in quelli a seguire, finirà col pensare secondo la sua stessa logica. Avendo perduto così la sua battaglia prima ancora che abbia inizio.

Le conseguenze concrete ce le mostra il costituzionalista Carlo Ianniello, nella sua intervista da parte di Martina Pastorelli, da ascoltare con la massima attenzione. La Pastorelli è tra i pochissimi veri giornalisti che ci sono rimasti e come tale andrebbe salvaguardata come e più delle specie in via di estinzione.

Dunque, l’elemento primario, essenziale innanzitutto sotto l’aspetto delle proprie possibilità di sopravvivenza, nonché vero e proprio bastione di mantenimento del necessario contatto con la realtà, è continuare a chiamare le cose con il loro nome.

Mai lasciarsi imporre il cambio di definizione, per quanto sia insignificante il suo campo d’applicazione e quale che sia il pretesto con cui si cerca di effettuarlo. Da tempo, non a caso, il passaggio a tappe forzate alla neolingua, elemento fondamentale di modificazione e ricostruzione arbitraria della realtà, è terreno sul quale si combatte senza quartiere e s’immolano quantità di risorse ingentissime, materiali e umane.

Inverosimile peraltro è anche la pretesa di liberarsi di un rullo compressore a tal punto poderoso nel comprimere diritti, qualità della vita e possibilità di costruirsi un futuro, come lo sono state stata l’ideologia e la pratica basate sulla globalizzazione, senza subire alcuna conseguenza.

Per tema di doverle affrontare, è la tesi generale, sulla quale i media di regime battono come al solito in maniera forsennata, meglio restare schiacciati sotto di essa in via definitiva.

La cosa inverosimile è che la gente crede ancora a quelle fonti e non si rassegna ad accettarne i fini. Come sempre ne ripete i mantra a pappagallo: al peggio non c’è mai fine.

Allo scopo si agisce sul vero e proprio terrore, provato dai ceti impoveriti dalla globalizzazione, che la fine del suo ciclo e i dazi conseguenti, in origine pensati appositamente per evitare che si potessero mettere in concorrenza i lavoratori di aree in cui troppo diversi erano i costi della vita e quelli della manodopera, producano aumenti.

Che si rivelerebbero esiziali per i magri stipendi che si sono ridotti ad accettare. Come sempre per intercessione dei sindacati più grandi e potenti dell’intero mondo, primi propiziatori della precarizzazione e della disoccupazione di massa.

Ciò vale in modo particolare per le merci approntate affinché le masse potessero continuare a sopravvivere con un simulacro di dignità, mentre le si impoveriva in maniera drastica e mai tanto sadica, senza rivoltarsi. Come le scarpacce di cartone e i cenci che li indossi due volte e sono da buttare, tutti di provenienza rigorosamente cinese e come tali marcatori efficacissimi per distinguere la massa dei perdenti della globalizzazione da chi invece ne ha tratto vantaggio in varia misura.

I media, come sempre al servizio del più forte, fanno di tutto per spingere quelle masse di diseredati non a opporsi a chi li ha ridotti in tali condizioni, ma contro chi si adopera per limitare e possibilmente togliere di mezzo quel che li ha portati in tali condizioni.

I depredati, prima di tutto delle loro capacità intellettive, a quei media continuano a obbedire senza fiatare, come in preda a ipnosi.

Nel frattempo, ossia nei primi tre mesi del 2025, il capitalismo parassita mandante della globalizzazione che ha schiacciato i ceti subalterni, al punto tale che ora proprio questi ne temono maggiormente il disgregarsi, e si concretizza nei principali istituti finanziari degli USA, come JP Morgan Chase, Goldman Sachs, Morgan Stanley, Bank of America e Citigroup, ha incassato guadagni per 37 miliardi di dollari.

Tutto questo mentre i media mainstream puntano l’attenzione di chi negli ultimi decenni è stato depredato di somme che di quelle menzionate costituiscono un multiplo incalcolabile, sulla pettinatura, il colore dei capelli e la lunghezza del ciuffo del personaggio designato apposta per la sua capacità di far discutere. Come sempre a vuoto.

Il settore della riproduzione sonora dalla globalizzazione è stato letteralmente travolto, dopo aver creduto di avvantaggiarsene e poterla dominare.

Hanno cominciato i marchi di maggior diffusione, come Nad, a portare in Cina la fabbricazione delle loro apparecchiature. Una tra le primissime mi fu affidata in prova e scrissi che al cinese tutto si può imputare tranne che di essere uno stupido. Quanto tempo ci sarebbe voluto, allora, prima che prendesse lui il controllo, invece di lasciarlo ad altri, del margine enorme tra i costi della fabbricazione delocalizzata e i profitti della rivendita del prodotto sui mercati dell’occidente?

Ormai da anni tutti i marchi della riproduzione sonora, con particolare riguardo a quelli operanti nell’alto e altissimo di gamma, sono controllati da società cinesi.

Contenti?

Un sistema come l’A 300 va considerato anche per il suo valore simbolico al riguardo, in particolare per la strada senza ritorno che il settore nel suo insieme ha imboccato.

Proseguire nella corsa al gigantismo, anche in considerazione delle dinamiche di prezzo che ad essa sono legate, non ha senso, specie in queste condizioni,  e non può far altro che condurre a un progressivo restringersi della fascia di acquirenti potenzialmente coinvolgibile. Quindi all’annientamento del settore. Tanto più in una realtà come quella attuale, in cui la spinta all’impoverimento di massa si va facendo sempre più ampia ed energica.

Il 2030 si avvicina e la profezia del “Non avrai nulla e sarai felice”, formulata a suo tempo dal WEF e issata a vero e proprio slogan atto a illustrare i destini che quell’organo di governo di fatto, sovraordinato alle istituzioni tradizionali, legate ai meccanismi di consenso e designazione popolari, la si sta rendendo sempre più concreta.

In quest’ottica può essere osservato anche il programma di riarmo diventato improvvisamente l’esigenza primaria dell’Unione Europea. Il pretesto stavolta è l’aggressività russa, peraltro inesistente per il semplice motivo che tutto quanto di cui abbia bisogno quello Stato è fornito con abbondanza invidiabile, un’enfasi particolare va a quest’ultimo vocabolo, dai territori sconfinati che di esso fanno parte. E, occorre sempre ricordarlo, si estendono lungo uno spazio equivalente a ben 11 fusi orari. Qualcosa di semplicemente inimmaginabile per tutto quanto non si chiami Russia.

La propaganda occidentale è giunta da tempo a una pressione asfissiante, e alla capacità di contraddirsi il minuto dopo aver spergiurato una qualsiasi cosa, che per conseguenza è essa stessa La Qualunque. Senza che i suoi destinatari se ne accorgano, tanto avanzato è lo stato della manipolazione cui li si è portati.

Ad esempio, se il destino dell’Europa da 80 anni a questa parte è di unirsi, perché mai allora gli stessi che proclamano l’inderogabilità di quel fine sono così fermamente determinati a spezzettare la Russia con ogni mezzo in più di 20 Stati e staterelli? Perché hanno fatto la stessa cosa con la ex-Jugoslavia, proprio nel momento in cui nel resto d’Europa lo sforzo a fini d’unione era al suo massimo?

La narrazione utilizzata da quella propaganda è incentrata su argomentazioni tanto inverosimili e definizioni usate volutamente a sproposito, come la decolonizzazione completa menzionata nel manifesto, da destare il sospetto che sia in atto un test permanente volto a saggiare la capacità di raziocinio e di comprensione delle masse. Ridotta peraltro al lumicino per mezzo di un’azione a tappeto che prosegue ormai da tempo immemore.

Per anni si è preteso che la tecnologia russa fosse arretrata al punto che, per recuperare tardivamente alla vivibilità per chi abita da sempre i territori russofoni sottoposti per anni a una discriminazione ucraina particolarmente cruenta, eseguita su commissione dell’Occidente, le truppe russe dovessero combattere nel gelo a piedi nudi e usando pale. Proprio per l’incapacità della loro industria di fornire persino scarpe e calzini ai suoi militari, figuriamoci le armi, dando il risalto più ampio a questa non-notizia.

Curiosamente però era l’occidente a riversare, e prosegue tuttora, quantità incalcolabili di armi e di denaro a favore del Paese che ha inviato a combattere per procura la sua battaglia. Nello stesso tempo, secondo i portavoce di più alto grado dell’occidente, dei quali si può comprendere se lo si desidera la credibilità, i russi si sarebbero ridotti a smontare le lavatrici per recuperare i circuiti integrati necessari a far funzionare i dispositivi tecnologici indispensabili nei conflitti moderni.

Determinatisi tra l’altro e come sempre grazie all’intercessione dell’occidente reale, che ha inteso procurarsi così il pretesto per un intervento che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto risolvere i problemi causati dal capitalismo iper-finanziarizzato cui si è legato mani e piedi.

All’improvviso però, il Paese malmesso al punto di essere incapace persino di procurarsi le calzature necessarie a chi lo difende nelle trincee sarebbe diventato la minaccia numero 1 oggi conosciuta, la cui aggressiva volontà di conquista porrebbe a rischio della stessa sopravvivenza i popoli e i territori dell’intera Europa.

 

Attaccherà fra cinque anni, oggi ci viene giurato solennemente. Perché solo allora e non prima e nemmeno dopo, non ci si è presi il disturbo di spiegarlo. Tanto nessuno lo ha chiesto.

Proprio a questo serve il mainstream, buttarla sistematicamente in caciara così da evitare domande scomode per il manovratore.

Forse è per allora che i russi prevedono di aver recuperato tutti i chip dalle vecchie lavatrici?

E’ arcinoto invece, almeno per chiunque conservi ancora quello strumento arcano e vagamente leggendario un tempo conosciuto come memoria, che è stato proprio proprio l’occidente, per mezzo del suo braccio armato che si chiama Nato, a tradire gli accordi presi a suo tempo col presidente Gorbaciov di non avanzare neppure di un millimetro negli Stati che quest’ultimo ha lasciato uscire dal controllo dell’ex Unione Sovietica, e quindi dal Patto di Varsavia, a fine anni 80.

Non solo se n’è impossessato uno dopo l’altro, ma ne ha fatto gli arieti della sua politica di sfondamento nei confronti della Russia, troppo ricca di materie prime e territori per essere lasciata nelle mani di chi la abita da sempre.

In pratica la Nato si è espansa arrivando a ridosso dei confini russi. Anche il più elementare dei manuali di tecnica militare spiega con estrema chiarezza che chi ha intenzione di seguire una strategia difensiva deve mettere le maggiori estensioni di territorio tra sé e l’attaccante. Affinché facciano da cuscinetto in caso di attacco e insieme garantiscano gli spazi necessari a un’eventuale ritirata. In particolare se destinata a svolgersi nella maniera ordinata necessaria a non trasformarsi in una rotta come quella di Caporetto.

L’attaccante invece deve avvicinarsi il più possibile ai territori che progetta di conquistare, anche per motivi logistici. Lanciare le proprie truppe d’attacco eccessivamente in profondità le allontanerebbe troppo dalle basi di rifornimento di munizioni, viveri e di avvicendamento, ponendole alla mercé della reazione da parte dell’attaccato.

Dunque, osservando la cartina qui sopra chi è, di fatto, che mostra in modo plateale e da decenni l’intenzione di attaccare chi?

Le dichiarazioni rilasciate dai politici polacchi, estoni, lituani e consimili su base giornaliera, di tutto questo sono la prova evidente. Alcuni di essi, come la famigerata Kaja Kallas, sono stati messi a capo della politica estera della UE, malgrado eletti con un numero di voti che non basterebbe nemmeno per assicurarsi un posto da consigliere in un comune italiano di media grandezza.

A sottolineare ancora una volta i criteri con cui è stato allestito il meccanismo demenziale noto come unione europea, il minuscolo è d’obbligo.

Nella foto che segue, la dimostrazione dell’estrema serietà che pone nel ricoprire il ruolo assegnatole.

Nondimeno, si è sentita in dovere di diffidare ufficialmente il primo ministro slovacco Robert Fico dal recarsi in Russia per le celebrazioni del prossimo 9 maggio, ricevendone ovviamente la risposta che merita. Al di là di essa, un atto del genere pone in evidenza quale considerazione godano nell’Europa reale la sovranità e la libertà personale, sia pure riguardo alle cariche istituzionali di primo piano dei Paesi Membri.

Tutti gli Stati che fanno parte dell’ue hanno riversato nel calderone ucraino una quantità di armi inverosimile, nella piena consapevolezza che sarebbero state distrutte, restandone per forza di cose sguarniti. Mai nella storia dilapidazione più grande di beni appartenenti a una cittadinanza ridotta all’inerzia da una propaganda senza requie è stata eseguita con maggior leggerezza. Creando così l’ennesimo pretesto per la volontà di riarmo, issata a vera e propria emergenza. L’ennesima.

S’intende ridare vita in tal modo all’industria automobilistica tedesca mandata in malora con l’idiozia delle auto elettriche, giustamente rifiutate da tutto il pubblico che abbia mantenuto un minimo di raziocinio. In quanto inadatte, costosissime e perché con la necessità di materie prime che ne contraddistingue la fabbricazione, già prima di spostarsi di un solo centimetro hanno già inquinato 100 volte più di un qualsiasi veicolo euro 0 giunto alla fine del suo ciclo vitale. Prerogativa tra l’altro condivisa con qualsiasi cosa o tecnologia definita come verde, sostenibile o rinnovabile, come da decalogo della distopia di cui l’europa è luogo d’elezione.

Con quale mandato si è fatto tutto questo? Forse perché chi si aggiudica le elezioni, in che modo tra l’altro è tutto da verificare, ha diritto di fare tutto quel che gli viene in mente, senza remora alcuna?

Per quale motivo popoli già impoveriti gravemente da trenta e più anni di austerità, idolatrata guardacaso dai comunisti al servizio del grande capitale come Berlinguer, che a suo tempo ci ha scritto sopra persino due libri, dato che uno solo non era abbastanza, dovrebbero sobbarcarsi gli ulteriori sacrifici durissimi necessari a quest’operazione suicida, della quale poi dovranno pagare anche gli esiti che non potranno che essere devastanti?

Come sempre, e come accaduto già per la psicopandemia, qui da noi c’è il bisogno incoercibile di fare i fenomeni. Così il guitto che risponde al nome di Roberto Benigni ha intascato 1 milione di euro per una comparsata TV nella quale con equilibrismi lessicali improponibili per qualsiasi pubblico in possesso del minimo raziocinio, ha inteso diffondere i destini magnifici e progressivi del conflitto.

Mentre le persone si dibattono tra difficoltà sempre più insormontabili, scuole e ospedali cadono a pezzi e vedere pensionati che frugano nella spazzatura alla ricerca di qualcosa di commestibile è ormai abituale, Benigni il comunista non si vergogna: va orgoglioso di aver sottratto somme tanto ingenti a una comunità a tal punto impoverita, tentando di convincerla a lasciarsi condurre al macello.

Dal canto suo il comune di Roma, per decisione del sindaco gualtieri noto maggiordomo delle oligarchie, e ancora una volta il minuscolo è d’obbligo, ha pagato le spese della manifestazione guerrafondaia di Piazza Del Popolo, per ulteriori 300 mila euro.

Somma valutata senz’altro per difetto stando alle singole voci di spesa, in cui il sindacato, nemico giurato dei lavoratori e servo sempre e comunque di governi e padronato, si è incaricato portare via pullman – pagando con cosa? – alcune migliaia di pensionati, giusto per rendere la piazza meno infotografabile, come sempre a fini di propaganda.

Erano tutti anziani, a Piazza del Popolo, gente platealmente inadatta a combattere per oltrepassati limiti di età, ormai da parecchio. Di fatto allora la sinistra ha radunato quella piazza secondo la logica dell’Armiamoci e partite.

Che si tratti dello slogan mussoliniano più noto in assoluto e più deriso, messo in pratica però con estrema serietà da quelli che dell’antifascismo militante hanno fatto, a loro dire, la loro unica e sola ragione di vita è coincidenza assolutamente trascurabile.

Spiega una volta di più chi siano i veri squadristi del ventunesimo secolo.

Chi dovrebbe partire tra l’altro nessuno lo dice e neppure lo sa, data la politica di depopolazione perseguita in Italia, peggio ancora che nel resto dell’occidente.

Il sigillo finale ce lo voleva mettere a tutti i costi il mortadella, seppure ormai in stato avanzato di decomposizione, il che avrebbe dimostrato oltre ogni ipotesi contraria l’assurdità di tutta l’operazione.

Fonti degne di considerazione assicurano che per l’occasione volesse rispolverare il suo slogan di maggior successo, attualizzato però sulle necessità del momento. Sembra tuttavia che dopo trattative estenuanti, l’alzheimer di cui è preda evidente obbliga ormai a ripetergli ogni concetto almeno una decina di volte, lo si sia convinto a desistere. Dato che altrimenti la vera finalità dell’operazione sarebbe stata evidente persino per i lobotomizzati senza recupero dal sistema di (dis)informazione mainstream.

Il quotidiano della confindustria, dal canto suo, non poteva esimersi dal contribuire al farneticante battage bellicista. E’ noto del resto che gl’industriali sono i primi destinatari delle somme enormi che si sperperano in tempo di guerra. Inevitabile quindi che il giornale del loro sindacato si schieri a favore di qualsiasi conflitto, anche se lo si dovrà combattere a sassate.

Stavolta però la frenesia del guerrafondaio sembra abbia giocato un brutto scherzo e reso percettibili i termini dell’operazione.

Per recuperare la somma necessaria, stimata in 800 miliardi di euro, ma inevitabilmente saranno molti di più, vogliono appropriarsi dei risparmi dei cittadini europei messi insieme con tanti sacrifici, ancora più gravi in funzione delle politiche di impoverimento di massa che proseguono ininterrotte da oltre un trentennio.

“Almeno in parte” è stato lasciato trapelare, il che sta a significare che quei risparmi se li vogliono prendere tutti.

Vogliono la guerra e la vogliono a tutti i costi, ma non hanno alcuna intenzione di farsi carico delle spese, che del resto sono incalcolabili. Allo scopo hanno deciso di depredare i risparmi messi sui conti correnti personali di chi risiede in ue e trasformarli in capitali di rischio.

Tradotto dalla neolingua del mondo finanziario, vuol dire che si tratta di somme che anche se andranno bruciate all’istante nessuno potrà lamentarsi e tantomeno vi saranno responsabilità per la loro scomparsa.

Li chiamano “di rischio” proprio per quello.

Nella foto dell’articolo pubblicato dal Sole c’è come sempre la megera Von der Laiden. Non a caso, a chiarire una volta di più il significato del suo appellativo.

Come coerenza ordina, le operazioni di riarmo verranno condotte secondo tutti i crismi di sostenibilità e inclusività.

Restano ora da capire le vere intenzioni di chi ha dato il via libera alla pubblicazione di quell’articolo.

Le possibilità sono almeno tre. La prima riguarda appunto il “Non avrai nulla e sarai felice”: difficile trovare un’occasione migliore della guerra, vera o finta che sia, per rapinare i risparmi di un numero tanto consistente di persone, lasciandole sul lastrico così da portarsi avanti lungo la strada già decisa dal WEF.

La seconda ipotesi trae spunto dalle conseguenze reali verificatesi nel corso dell’ultimo quarto di secolo almeno, per le azioni del meccanismo denominato ue. Lo si è utilizzato come un reparto di guastatori nei confronti del Paesi che ne fanno parte e più ancora dei loro destini. Se l’intenzione è il regresso e la distruzione, come lo stato attuale di quei Paesi testimonia inequivocabilmente, nulla di meglio che propiziare la corsa agli sportelli bancari, per ritirare i denari che i correntisti credono ivi custoditi ma in realtà non ci sono, tranne che per una parte irrisoria. Cosa si può escogitare di meglio rispetto al minare le istituzioni economiche del Paese o gruppo di Paesi che si desidera mandare in rovina?

Terza, e ancora una volta come per il covid, unica malattia della storia per designare la quale si è ritenuta necessaria l’iniziale maiuscola, la dichiarazione è stata diffusa con fini di test, per saggiare le capacità di reazione dei popoli europei. O meglio, la possibilità di infierire su di essi come si potrebbe fare nei confronti di un corpo morto, giusto nell’applicazione concreta del principio di Juncker menzionato in apertura.

Di possibilità ce ne sarebbe poi anche una quarta, fresca di giornata.

Sembra vogliano mettere in piedi un MES appositamente destinato agli scopi di guerra. Il che significa che gli Stati s’indebitano per metterci i soldi e loro li usano per comprarci le armi, decidendo a piacimento tipologia, quantità e importi. Al riguardo è ben noto lo scandalo primigenio della Von der Ladren: quando era ministra della difesa tedesca ha intrallazzato coi fabbricanti di armi a colpi di SMS, incassando sottobanco tangenti per miliardi e poi ha cancellato i messaggi compromettenti.

Lo stesso giochetto l’ha fatto con Pfizer per i finti vaccini, non solo passandola liscia ancora una volta ma venendo rieletta per il suo secondo mandato ai vertici ue, così da chiarire una volta e per tutte i valori concreti sui cui si fonda quell’istituzione.

Prese le armi e fatti sparire i soldi, hanno infine intenzione di cederle in leasing agli Stati. Dunque prima si paga per entrare nel capitale, il MES si indebita, con i soldi raccolti decidono loro che missili comperare e poi li danno in affitto, come in un autonoleggio, a chi li ha già strapagati.

I ministri della difesa UE sembra siano tutti d’accordo. Probabilmente a ognuno di loro è stata fatta una proposta cui non si può rinunciare.

Ciliegina sulla torta, avvelenata come tutto quanto arriva da Bruxelles, la Von der Ladren ha sancito in favore di telecamere che i valori dell’unione europea non si fondano sull’eredità della filosofia greca, del diritto romano o della storia dei popoli che vivono da millenni sul Continente ma sul Talmud. Il libro sacro degli sterminatori del popolo palestinese.

Enormità della presa di posizione a parte, e si noti l’espressione profondamente compiaciuta con cui è stata pronunciata. Ora chiunque, se vuole, può capire finalmente chi comanda. Non solo: da oggi se si prende posizione contro l’ue si può essere accusati di antisemitismo e puniti severamente a norma di legge.

Ovviamente ciascuna di queste possibilità non esclude le altre ed è probabile che si desideri combinare variamente i loro effetti. Per non complicarci troppo la vita teniamo buona la prima, rispetto alla quale il sistemino esaminato in questo spazio casca a fagiolo.

Già, perché se “non devi possedere nulla ed essere felice”, conseguenza inevitabile è il ridimensionamento, un po’ a tutti i livelli. Per forza di cose ne verrà coinvolta anche la riproduzione sonora e in particolare i mezzi con cui la si esegue.

Come abbiamo detto, con o senza i proclami del WEF la strada che si sta percorrendo attualmente ha il destino segnato. Non è possibile infatti inoltrarsi a tempo indeterminato lungo il percorso verso il gigantismo. Chiunque lo imbocchi dovrebbe sapere già che non sarà possibile andare oltre un certo limite e, malgrado tutte le forzature che si eseguiranno allo scopo, prima o poi ci si dovrà fermare.

Questo però non costituisce un problema: per il momento in cui si occorrerà invertire il senso di marcia saranno pronti tutti gli argomenti necessari allo scopo: chiunque si azzarderà a denunciare l’assurdità dell’accaduto sarà tacciato di complottismo, giusti i criteri ormai tassativi di psichiatrizzazione del dissenso.

Dal canto loro i destinatari di quegli argomenti avranno provveduto a rimuovere, cosa che sono in grado di fare istantaneamente alla semplice ricezione del comando, occulto o dissimulato che dir si voglia, il ricordo di qualsiasi traccia delle motivazioni che li hanno portati a sostenere, a suo tempo e con tanto entusiasmo, la strada del gigantismo.

Prima di affrontare il discorso, ritengo assolutamente necessario segnalare l’articolo eccellente di Andrea Zhok in cui spiega con chiarezza e semplicità per quale motivo il percorso del capitalismo conduce inevitabilmente alla guerra.

Un ulteriore elemento di riflessione riguarda l’inadeguatezza arrivata ormai a livelli cosmici di qualsiasi discussione si possa fare, a fronte di quel che accade dietro le quinte. Più si va avanti e più distanzia di anni luce le stesse capacità di concezione di chi non fa parte di determinati circoli, dei quali persino le modalità di cooptazione per entrarne a far parte restano del tutto sconosciute.

Nei giorni scorsi il direttore dell’ufficio per la politica scientifica e tecnologica della Casa Bianca, Michael Kratsios, nel discorso che ha tenuto all’Endless Frontiers Retreat tenutosi ad Austin, Texas, ha dichiarato che “Le nostre tecnologie ci consentono di manipolare il tempo e lo spazio”.

Mentre noi stiamo ancora a discutere di dazi, globalizzazione e ciuffi biondi. Come Orwell ha ben spiegato a suo tempo, esistono almeno due livelli di scienza e tecnologia. Uno riservato alle masse, che si cerca di mantenere nella più completa immobilità, lasciando filtrare di tanto in tanto elementi privi di qualsiasi importanza concreta, in particolare per gli influssi che potrebbero avere nella modificazione dei rapporti di classe, che devono rimanere perennemente inalterati. Li si utilizza solo per tenere occupata la fantasia del popolino e per fargli credere cose che non si verificheranno mai, tenendone desta la speranza. L’altro è invece quello a cui si è in grado spingere le capacità assolute della scienza e della tecnica, che deve restare rigorosamente segreto, proprio perché è sul differenziale in perenne aumento della conoscenza che si basa il mantenimento e l’accrescimento del potere reale.

L’avvenimento spiega con chiarezza direi estrema un altro elemento fondamentale della realtà che stiamo vivendo: Quanto più è avanzato, agli occhi dell’individuo comune, il livello di inverosimiglianza di progetti, misure e scoperte, quale che sia il settore che sono destinati a interessare, tanto più facilmente è possibile tenerli lontani dalla curiosità e dalla percezione dell’opinione pubblica. Proprio perché, coi pochi dati a disposizione di quest’ultima, che soprattutto sono obsoleti, alla luce di notizie simili, dal suo punto di vista certe cose sono al di fuori dell’umanamente possibile.

Quando invece vi sono ampie possibilità che siano cose non solo progettabili o al limite fattibili, in un futuro più o meno remoto, ma persino consolidate e portate ormai a livello di prassi quotidiana, per quanto tenuta nascosta.

 

30 euri di hi-fi

Vediamo dunque cosa si riceveva, nell’anno 2006, per una somma tanto contenuta. Qualcuno potrebbe storcere il naso di fronte alla menzione di hi-fi, forse trascurando il fatto che, per decenni, la si è attribuita a roba molto peggiore del sistemino Creative.

Si tratta di un 2.1 autoamplificato per mezzo di un’elettronica e di un’alimentazione lineari, quindi non di tipo switching. Elemento che con ogni probabilità ha contribuito favorevolmente alle sue doti soniche. Come tale è in grado di funzionare in abbinamento a una sorgente che oltre a un PC fisso o portatile può essere anche un telefonino. Allo scopo il cavo d’ingresso, inamovibile, è terminato con un minijack stereo, da inserire quindi nell’uscita cuffia di un qualsiasi dispositivo.

All’interno dell’imballo troviamo 4 pezzi: oltre all’alimentatore menzionato in precedenza ci sono un woofer, definirlo sub sarebbe forse un pochino troppo e due satelliti.

Questi ultimi hanno dimensioni ben contenute, quindi l’unico elemento di un certo ingombro è il mobile che racchiude il volume di carico del woofer, che lavora in bass reflex e per questo è dotato di un condotto di accordo piuttosto generoso. Il diametro dell’altoparlante è di 13 cm, con membrana in polpa di cellulosa e cestello in lamiera stampata.

All’interno del mobile è posizionata anche l’elettronica del sistema, che verte su un chip TDA 4180, in grado di erogare 11 watt sul woofer e 5 watt ciascuno per i satelliti.

I controlli sono ridotti al minimo: una manopola per il livello di emissione su uno dei satelliti e una seconda sul woofer per regolare in maniera indipendente il livello di quest’ultimo. Il pannello su cui è montata riporta anche l’intervallo di regolazione ottimale, posto nei dintorni della metà corsa del controllo. La sua regolazione è in effetti critica, dato che se si esagera il sistema tende a mostrare il suo limite più evidente, stante nell’articolazione della gamma inferiore non sempre ottimale.

Se non si esagera con la richiesta di frequenze basse, anche in funzione del contenuto spettrale del programma riprodotto, il funzionamento funzionamento si rivela privo di difetti grossolani.

Un altro aspetto criticabile, che discende da quello appena descritto, riguarda la necessità, piuttosto frequente, di regolare nuovamente il livello del woofer quando si agisce su quello generale, posizionato come abbiamo visto su uno dei satelliti. Occorre parzializzarlo in una certa misura quando si richiede al sistema l’emissione di pressioni sonore di un certo rilievo, mentre ai volumi d’ascolto inferiori può rendersi opportuno enfatizzarlo.

La relativa macchinosità di utilizzo non pregiudica tuttavia quella che costituisce la prerogativa più interessante del sistema, stante nella capacità di ricreare un fronte stereofonico di dimensioni ovviamente contenute, ma caratterizzato da una tridimensionalità e da una differenziazione dei piani sonori difficili da ottenere anche per mezzo di di sistemi enormemente più costosi.

Di questo me n’ero accorto già dai primi utilizzi dell’A 300, per i quali invece di lasciarlo attaccato al computer cui lo avevo destinato inizialmente, l’ho portato in giro nei miei vari spostamenti, pilotandolo per mezzo di un telefonino.

Malgrado la relativa povertà della sorgente, che nondimeno era in grado di riprodurre file in formato Flac e persino di tipo non compresso, pur trattandosi di un Nokia da pochi soldi, il maggior elemento di soddisfazione dell’A300 si è sempre dimostrato pronto a evidenziarsi, nelle condizioni di utilizzo più disparate e persino all’aperto, dove l’assenza di superfici riflettenti a rinforzo dell’emissione fa sentire i suoi effetti.

Così pure per il suo altro punto di forza, stante nella capacità di emettere un segnale di completezza timbrica apprezzabile anche e soprattutto agli estremi banda.

Dunque un sistema dalla sonorità di buona completezza, caratterizzato oltretutto dalla capacità di dar vita a un’immagine stereofonica così ben delineata, tridimensionale e più ancora caratterizzata da una precisione impeccabile, è qualcosa di più di quel che si osi sperare, non solo per un prezzo di vendita tanto contenuto ma anche per la sua discreta trasportabilità, con prestazioni che eccedono in buona misura tutto quanto si adatti a essere portato in giro per sonorizzare situazioni diciamo così estemporanee.

Nel corso del tempo l’ho utilizzato anche come sistema di riproduzione per l’audio della TV, utilizzo per il quale è necessario che la sorgente, ossia l’apparecchio TV, disponga di un’uscita cuffia regolabile via telecomando.

In caso contrario, il consueto e continuo variare del livello audio durante la trasmissione della pubblicità, ne renderebbe l’impiego fin troppo scomodo.

Fin qui la prima fase dell’utilizzo che ho fatto dell’A 300, protrattosi per diversi anni.

Fino a che, a un’ispezione eseguita di recente, si è evidenziato quel che accade a tutte le elettroniche quando arrivano a una certa età: la tendenza a perdere acido da parte degli elettrolitici.

L’odore emanato dalla schedina su cui è assemblata la sezione elettronica era inequivocabile. Così ho deciso d’intervenire, utilizzando gli esemplari che mi convincono maggiormente per qualità sonora e adopero in genere per gli interventi di revisione e ottimizzazione sulle apparecchiature audio. Si tratta di componentistica dalle prerogative che potrebbero essere viste come ridondanti per un sistema del genere, ma ho deciso di impiegarla proprio al fine di verificare se e quale potesse essere il suo influsso su un oggetto così modesto, almeno in apparenza.

Laddove possibile ho provveduto anche all’impiego di valori elettrici più generosi, mentre per il singolo condensatore di filtraggio dell’alimentazione ho optato per un esemplare da 10.000 uF che era da tempo inutilizzato e per essere montato ha reso necessario qualche equilibrismo.

Per completare il lavoro ho deciso di coibentare il volume di carico del woofer, in origine del tutto vuoto al suo interno, e anche i piccoli scatolini che contengono gli altoparlanti dei satelliti.

I costi di un’operazione del genere non sarebbero ovviamente compatibili con la spesa affrontata a suo tempo per l’acquisto dell’A 300, ma i risultati ottenuti hanno senz’altro il loro perché, tra l’altro bello sostanzioso. Soprattutto hanno contribuito alla realizzazione di esperienze dal mio punto di vista fondamentali per la comprensione della realtà concreta della riproduzione sonora.

A sancire una volta di più che non è quella presentata dalle pagine di riviste e siti internet allineati e meno che mai dalle apparecchiature proposte al pubblico dai fabbricanti. Scopo delle quali, è opportuno ripeterlo ancora una volta, non è fare in modo che gli appassionati possano ascoltare musica nel modo migliore e qualitativamente più significativo, ma il profitto che deriva dalla loro fabbricazione e commercializzazione, secondo i modi, i tempi e le finalità concrete della società capitalista.

Grazie all’intervento descritto il sistema ha recuperato in maniera largamente superiore alle attese per dinamica, precisione, timbrica, capacità d’introspezione e comportamento agli estremi banda.

Soprattutto le doti di ricostruzione del fronte sonoro, già ottime nella veste originale, sembrano aver tratto grande giovamento dall’intervento e ora in certi casi lasciano persino interdetti, probabilmente in funzione del contenuto del segnale riprodotto.

A tale riguardo la frequenza di taglio dei satelliti, posizionata piuttosto in alto, non sembra influire più di tanto sulle doti di ricostruzione dell’immagine stereo. A volte, anzi, si ha il sospetto che vada persino a suo favore, in maniera se vogliamo alquanto paradossale.

A livello di dimensioni il fronte resta sempre quello che è: una sorta di riproduzione in sedicesimo di quel che sarebbe possibile ottenere da un impianto vero. Tuttavia le doti di profondità, separazione tra i piani sonori e soprattutto di precisione direi fin quasi estrema, nel seguire il continuo divenire dell’inviluppo costituito dal segnale riprodotto, sono tali da determinare la capacità di affrontare esecuzioni anche piuttosto complesse con livello di analisi e di resa del dettaglio fuori dalla portata di impianti coi quali si escluderebbe a priori ogni possibilità di paragone.

Tutto questo non può che suscitare un numero di domande fin troppo nutrito.

Concernono innanzitutto i motivi per i quali un sistema realizzato con tanto poco, sotto certi aspetti sia in grado di eccedere quel che si sente fare da tanti impianti, anche costosi, oltretutto con una simile facilità.

Un altro elemento di grande rilievo riguarda la coerenza di emissione, che abbinata alle prerogative menzionate finora dà luogo a una sonorità cui risulta difficile credere, soprattutto se si possiede un udito educato ad attribuire l’importanza maggiore agli aspetti qualitativi invece che a quelli quantitativi.

Insomma, se si è degli aficionados del ci ci – bum bum, tipologia in espansione perenne, meglio lasciar perdere, ma se per caso si è in grado di attribuire a determinate prerogative il loro effettivo valore, un A 300 ottimizzato può suscitare sensazioni persino inattese.

Tali da spingere, almeno a me è capitato, a passare più di qualche serata di fronte ad esso senza sentire la mancanza dell’impianto grande e persino la voglia di accenderlo.

Sensazioni del genere si sono prodotte in particolare con l’abbinamento al PC fisso che ho allestito di recente, basato su una scheda madre MSI B 450, quindi non delle ultimissime serie, corredata da sezione audio come ormai avviene di solito, le cui prestazioni si sono rivelate anch’esse piuttosto soddisfacenti.

Lo stesso tuttavia si è verificato in abbinamento a un telefonino di penultima generazione, un Redmi 13 che sono stato costretto ad acquistare dopo che il suo predecessore, a seguito di cadute ripetute, ha visto separarsi carcassa e display, in modo tale da renderlo inutilizzabile.

Un altro esame passato a pieni voti dall’A 300 riguarda l’ascolto da un ambiente attiguo a quello in cui sta operando. Potrebbe sembrare una cosa di poca o alcuna importanza, eppure è uno tra gli esami più difficili da affrontare per un qualsiasi impianto. In genere, anzi, più è grande e più riesce a sfangarla con difficoltà. Condizioni del genere infatti tendono a moltiplicare i problemi di ordine timbrico eventualmente mostrati dall’impianto e dalla sua interazione con l’ambiente.

Dunque se è troppo generoso in gamma bassa il rimbombo sarà ben più evidente e non di rado persino esagerato. Se invece ha una sonorità più sbilanciata del dovuto verso l’alto, la sensazione sgradevole che ne deriva sarà ancora più palpabile, mentre se è afflitto da distorsioni evidenti il vero e proprio fastidio che ne deriva si rivela meno tollerabile.

Ascoltato da un’altra stanza, l’A 300 non solo pone in evidenza le sue doti di equilibrio, ma all’atto pratico sembra che di là stia suonando un impianto vero e proprio, a taglia intera. Oltretutto con livelli di pressione sonora non disprezzabili, a dispetto del numero di watt limitato erogabile dalla sua elettronica.

Per quanto mi riguarda, buona parte delle doti fin qui rilevate la si deve agli altoparlanti dei satelliti. Grandi abbastanza per arrivare senza buchi troppo evidenti al margine superiore, sia pure attribuito con una certa generosità, dell’emissione del woofer, ma nello stesso tempo sufficientemente piccoli e leggeri da potersi spingere a riprodurre la gamma alta con doti di estensione magari non da primato ma senz’altro di completezza apprezzabile. Tutto questo con la coerenza timbrica e di fase propria di tutto ciò che non debba subire gli influssi nefasti di un crossover, ma soprattutto per mezzo di membrane in grado di mantenere un grado di uniformità e sincronia con il movimento della bobina mobile che altoparlanti utilizzati per quella che si definirebbe vera hi-fi non sembrano in grado di ottenere in egual misura.

Ai tempi, ormai dimenticati, a volte si usava parlare di sorgente puntiforme e della capacità di un qualsiasi trasduttore di approssimarla per quanto possibile, proprio ai fini delle prerogative tipiche della sorgente ideale.

Ovvio che nel momento in cui si decide di percorrere la strada del gigantismo, non di rado con sfilate di decine di altoparlanti alla volta per ciascun diffusore, i quali non possono far altro che infastidirsi reciprocamente, certi argomenti sia obbligatorio mandarli in soffitta. Ci pensa così un sistemino da 30 euro a ripotarli alla nostra attenzione, oltretutto con una decisione tale da simboleggiare come meglio non si potrebbe l’assurdità di un intero sistema tecnologico, spacciato per il non plus ultra con una sistematicità degna di miglior causa, e di profitto. Questo si ingentissimo ed efficace quanto mai nello spillare soldi ai malcapitati che da esso si lasciano attrarre e trovano persino gradevole intrattenersi con le voci soavi e falsificate del sistema di propaganda che ne decanta le lodi, e più a sproposito non si potrebbe.

Chi può rifletta, se lo ritiene opportuno, e non solo sull’A 300. Gli altri continuino pure a vivere contenti e coionati, come si dice a Roma.

 

 

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4 thoughts on “Creative A 300, il più grande dei microimpianti?

  1. Bell’articolo Claudio.
    Per caso vai a Monaco Hi End…magari ci scappa la parte seconda dell’Ultracaffonal.
    Un saluto.

    1. Ciao Alessandro, grazie dell’apprezzamento.
      Per una serie di ragioni non penso che andrò a Monaco, prima fra tutte i costi legati alla trasferta.
      Non è detto tuttavia che una seconda parte non ci possa scappare.
      Staremo a vedere… 🙂

      1. Buongiorno Claudio,ho appena visto un video su You Tube di Monaco Hi End,boh…
        Evidentemente la mia ignoranza non mi permette di capire il materiale esposto.
        Lo definisco “materiale”perchè im diversi impianti esposti,mi domando quante centinaia di kg siano neccessari per la riproduzione sonora ad alta fedeltà,se vogliamo definirla tale.
        Mi piacerebbe vedere in quali contesti domestici vengono inseriti,forse in ville o castelli di ultra facoltosi proprietari che sfoggiano l’ultimo acquisto,nessuna invidia,sia chiaro.
        Mi domando se la “musica” che esce dai diffusori non sia l’ultima parte veramente importante o l’appagamento dell’ascolto sia più visivo che acustico.
        Come detto sopra,sono io che non capisco.
        Saluti.

        1. Ciao Alessandro,
          grazie del commento.
          Per prima cosa rileverei l’assurdità delle illazioni riguardanti la presunta invidia di chi muove una critica nei confronti dei fenomeni che coinvolgono o vedono protagonisti individui in grado di muovere parecchio denaro.
          Per quanto mi riguarda, è chi lancia illazioni del genere il primo a subire una vera e propria schiavitù nei confronti del denaro ed è vittima della coazione a far parte di ceti sociali che in tutta evidenza può vedere solo col binocolo.
          Quanto al resto, ogni anno che passa queste manifestazioni dimostrano la perdita di contatto sempre maggiore nei confronti della realtà del settore legata alla maggioranza degli appassionati. Le proporzioni del fenomeno sono tali da aver assunto le sembianze di una vera e propria dissociazione. Al di là dell’esistenza o meno di una fascia di clientela potenziale per determinati prodotti, sta a significare che il destino della riproduzione sonora è ormai segnato.
          Non ho idea di quanto a lungo si ritenga di poter proseguire in quella direzione, ma si tratta in tutta evidenza di una strada senza uscita.
          Probabilmente chi si adopera in tal senso ritiene di potersi tirare fuori prima dell’irreparabile, lasciando il cerino acceso in mano a qualcun altro.
          Basterebbe solo un minimo di senso della misura per tenersi lontani da certe astrusità, ma forse si tratta di qualcosa ormai incomprensibile.
          Qualunque sia il livello di prestazioni espresso da certi prodotti, siamo ormai a un punto in cui non hanno più senso, per tralasciare qualsiasi valutazione a livello etico e valoriale.
          A me gli sputi in faccia alla povertà non sono mai piaciuti e men che meno chi non si fa scrupoli al riguardo. Poi mi si dica pure che sono invidioso: per quanto mi riguarda chi la pensa in modo simile altro non può che essere un decerebrato a controllo remoto.
          Che poi si tratti di qualcosa che va sempre più diffondendosi, come sembrano dimostrare con frequenza allarmante i social di settore, a me interessa il giusto, ovverosia nulla.
          Alla prossima 🙂

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