La ricetta e gl’ingredienti

La realizzazione di un qualsiasi manufatto si fonda su due elementi fondamentali: il metodo con cui la si esegue e i materiali che si utilizzano allo scopo.

Come possiamo arguire senza difficoltà, si tratta di aspetti inscindibili l’uno dall’altro. Cosa accadrebbe per esempio se volessimo fare una torta e decidessimo di cuocere gl’ingredienti prima d’impastarli? Se invece seguissimo la giusta procedura ma usassimo quale legante del fango al posto delle uova o bicarbonato al posto dello zucchero che risultato otteremmo?

Nel primo caso non riusciremmo ad avere qualcosa che somigli sia pure alla lontana a quel che ci proponiamo di ottenere e nel secondo, inutile dirlo, una schifezza immangiabile.

Questo anche per le cose in apparenza più semplici: potremmo prepararci un caffé seguendo alla lettera tutte le accortezze della migliore arte partenopea, ma basterebbe prendere il sale per lo zucchero, magari per distrazione e dover gettare via tutto.

Sembra una banalità, ma chi si farebbe tagliare la mano destra sulla sicurezza che all’interno delle apparecchiature e dei diffusori che preferiamo non ci sia del sale al posto dello zucchero? Con ogni probabilità, il mondo degli appassionati di riproduzione sonora avrebbe una percentuale di monchi singolarmente elevata.

Quindi non c’è ricetta senza ingredienti e non ci sono ingredienti che tengano se non seguiamo la ricetta.

Poi, come sappiamo, non ci sono soltanto il bianco e il nero ma tra di essi vi è una serie infinita di gradazioni di grigio, rispetto alle quali, e al di là della soggettività individuale, la nostra percezione non è assoluta ma influenzabile da una serie di fattori esterni.

Il primo di essi riguarda le condizioni di partenza: immagino che tutti noi avremo fatto caso almeno una volta al modo in cui varia la percezione dei sapori in base a quello che abbiamo messo in bocca immediatamente prima. A volte la cosa è ininfluente, ma in altri casi possono presentarsi combinazioni totalmente distruttive.

Adesso purtroppo non è più stagione, ma nell’assaggio delle ciliegie la valutazione del loro sapore si troverà a essere del tutto stravolta se prima ci saremo lavati i denti, anche da più di una buona mezz’ora. Proprio perché le sostanze e gli aromi contenuti nel dentifricio, nonché la loro persistenza, sono tali da uccidere anche il sapore delle ciliegie più buone e meglio maturate di questo mondo.

Un altro esempio: giorni fa mi è stata regalata una crema di nocciole molto, molto buona. Mangiarne un cucchiaino e dopo prenderci un caffé esalta la delizia di entrambi. Ma se si fa il contrario, ossia si prende prima il caffè, a quella crema eccellente si attribuisce il sapore del peggior succedaneo della nutella.

Basta poco insomma per far passare da mediocre anche la cosa più buona di questo mondo, qualora si sia sottoposti a un adeguato pre-condizionamento.

Un secondo elemento riguarda l’abitudine. Qui l’effetto è ancora più subdolo poiché ambivalente. Se da un lato l’abitudine a sapori particolarmente raffinati può rendere inaccettabile una pietanza di una qualche mediocrità, graduandone in maniera opportuna lo scadimento qualitativo lo si può rendere impercettibile, dimodoché in una prospettiva di lungo termine si può arrivare a servire un prodotto estremamente degradato senza che il destinatario se ne accorga. Tranne che se lo si mette di fronte a quello di partenza e immediatamente dopo a quello finale, cui si è pervenuti attraverso una serie prolungata di cambiamenti minimi, si renderà conto che non hanno più nulla a che vedere l’uno con l’altro.

Questo procedimento è tipico del prodotto industriale, che per non portare alla bancarotta il suo fabbricante deve assicurargli un guadagno, aspetto che però si scontra con la caduta tendenziale del saggio di profitto.

In sostanza quindi il fabbricante deve fare in modo da ottenere un margine via via crescente sulla produzione e commercializzazione di un qualsiasi prodotto. Questa è una possibile spiegazione per il succedersi delle serie rinnovate di tante apparecchiature, che per quanto appetite al momento della loro comparsa anche per via del battage che le accompagna, non di rado col passare del tempo si vedono preferire quelle originali da parte degli appassionati dotati di maggior esperienza e senso critico.

Agli aspetti “storici” riguardanti i fattori economici legati alla produzione di beni materiali, come lo sono appunto i prodotti destinati alla riproduzione sonora, si aggiungono quelli determinati dalla realtà attuale dei mercati, diversi tra i quali indotti dagli stessi costruttori che da essi hanno creduto di trarre beneficio, per poi trovarsi a pagarne lo scotto, puntualmente riversato sui prezzi di listino.

I più evidenti sono l’obsolescenza programmata e la conseguente abitudine data al pubblico a un continuo rinnovamento dei prodotti e dei listini, a causa del quale tende a perdere interesse per qualsiasi cosa sia sul mercato da più di qualche mese. Ritenendola “superata” in conseguenza del martellamento mediatico volto a causare sindrome da acquisto compulsivo, la cosiddetta oniomania, che da quando si sono andati diffondendo gli acquisti in rete è entrata di prepotenza nel novero delle dipendenze da internet.

Contrariamente alle giaculatorie e ai mantra dei cantori del progresso e della sua deificazione, in seguito alla quale ci troviamo in una sorta di regime fondamentalista a carattere tirannico-religioso che si pretende basato sulla scienza, quando di fatto è la dimostrazione più lampante delle conseguenze di un evidente scientismo, quel che si definisce come progresso ha i suoi costi. Che sono ingenti ma spesso si fa di tutto per trascurarli, dato che se ci si mettesse a tavolino per farne un conteggio obiettivo crollerebbe tutto il sistema industrial-commerciale quale oggi lo conosciamo.

Il nuovo prodotto costa. Per ideazione, progettazione, sviluppo e pubblicizzazione, voci che per forza di cose devono essere scaricate sul suo prezzo di listino. Induce inoltre l’obsoletizzazione di quel che lo ha preceduto, con le conseguenze inerenti la svendita di quel che ne è rimasto in magazzino e soprattutto l’aumento esponenziale dei rifiuti, coi quali non sappiamo più cosa fare. Allo scopo mettiamo al potere governi fantoccio nei paesi del terzo mondo affinché assumano sulle loro spalle i costi dei quali la cosiddetta civiltà dell’occidente capitalista non ha intenzione di farsi carico.

Il carico di rifiuti non è causato soltanto dal processo di graduale sostituzione del prodotto, ma anche dalla necessità di renderlo più fragile e meno durevole allo scopo di facilitare tutto il processo.

Si dirà: “sono i costi del progresso” e questo è assolutamente vero. Il punto però è valutare con obiettività se si tratti di vero progresso o delle necessità di soddisfare le esigenze economiche dell’industria nel macinare profitti sempre maggiori, a causa delle richieste degli azionisti che vedono soltanto la necessità di una remunerazione sempre crescente del denaro che in esse hanno investito e non vogliono sapere niente altro.

L’innovatore si espone inoltre a un rischio ulteriore, oggi più concreto che mai. Quello che in un paese dai bassi costi di manodopera, ma versato nel riprodurre un qualsiasi oggetto a prezzi stracciati sia pure mantenendo l’aspetto dell’originale, se ne realizzino dei cloni coi quali si andrà poi a invadere il mercato.

L’ideatore si ritrova così punto e daccapo, non prima di essere passato attraverso quel che si definisce un bagno di sangue a livello economico, per non parlare degli anni di progettazione e sviluppo buttati via. Per evitarlo non c’è niente da fare, come insegna la storia delle dispute centrate su questioni del genere. Esemplare al riguardo è la causa intentata a suo tempo dalla Fiat alla Volkswagen quando quest’ultima, preso possesso della SEAT, fabbrica spagnola nata espressamente per la produzione delle auto torinesi adattate alle specificità del mercato iberico, continuò a produrre la Marbella. Di fatto era una Panda dotata di motori tecnicamente più arretrati, quello della 850 e poi della 127. Malgrado la sostanziale identità delle due vetture, diversificate solo da una mascherina cambiata nel dettaglio, Fiat ha perso la causa e Volkswagen ha potuto continuare a vendere la sua auto, ovviamente a prezzi stracciati rispetto all’originale.

Guadagnandoci comunque, dato che per ideazione, progetto e sviluppo non aveva speso nulla. Per Fiat viceversa la sola parcella di Giugiaro, autore del disegno dell’auto, dev’essere stata tuttaltro che modica.

In un ambito come quello del settore di nostro interesse, sempre caratterizzato da un rilevante retroterra tecnologico, di esempi ne abbiamo a bizzeffe, sempre che si abbia la volontà di tenerne conto.

Il caso più tipico è quello del digitale, che a quasi quarant’anni dal suo esordio in termini di prestazioni pure, che a mio avviso è il primo parametro da tenere in considerazione, ancora non riesce a eguagliare la qualità sonora dell’analogico. Sistema che, ricordiamolo, nella sua prima incarnazione ha visto la luce nel 1877.

E a questo punto si può dubitare vi riuscirà mai.

Poi, certo, il digitale ha dimostrato di essere più pratico e di minor complessità nella sua fruizione, per quanto tale aspetto sia stato del tutto sconfessato dall’intricatezza dei problemi posti dalla cosiddetta musica liquida a chi intenda esplorarne a fondo le possibilità prestazionali. Così da riuscire finalmente a trarne prestazioni che non facciano troppo rimpiangere le sorgenti vere e proprie.

Tuttavia sempre in termini di prestazioni pure, ossia laddove si misura nel concreto il vero potenziale di quel che si usa definire progresso, nei confronti dei ritrovati cui Il Coro Degli Entusiasti A Prescindere ha inneggiato e inneggia senza posa, il sistema vecchio di un secolo e mezzo detta tuttora la sua legge.

Un altro aspetto eclatante è quello che riguarda i componenti attivi, nel quale se da un lato lo stato solido ha permesso livelli di miniaturizzazione che solo un paio di decenni fa si sarebbero ritenuti inverosimili, dall’altro la valvola termonionica la fa tuttora da padrona in qualsiasi elemento riguardi la qualità sonora. Che, non mi stancherò  mai di ripeterlo, in un ambito riguardante la musica riprodotta va ritenuto l’elemento di gran lunga preminente.

Tanti, tra cui il Coro di cui sopra, si sforzano in ogni modo di porre all’attenzione degli appassionati elementi d’interesse alternativi. Lo scopo è quello di distrarla da una realtà che essi stessi sanno essere troppo cruda, se non del tutto inaccettabile. In caso contrario terrebbero un atteggiamento diverso, il che evidenzia il livello della loro buona fede.

Fermo restando che qualcuno che creda per davvero a certe cose lo si trova sempre.

Il primo di quegli elementi alternativi è l’estetica, ormai da tempo tramutatasi in cosmetica, stanti le esigenze del famigerato WAF, con ogni probabilità il concetto più idiota, di sottile auto-razzismo e oltretutto androfobo partorito da quelle menti singolarmente votate all’inganno. Ci sono poi la finitura, l’imponenza, la modernità, il progresso, osservati secondo una visuale completamente staccata dall’elemento prestazionale, e così via: tutti aspetti pompati a dismisura, con lo scopo di distogliere gli appassionati da quel che conta veramente.

Il problema è che per essere soddisfatti sottraggono risorse al nucleo del prodotto. Ossia a quanto necessario affinché si presti al suo scopo primario, appunto quello di riprodurre musica, nel modo migliore possibile.

A cosa mi serve un impianto dall’estetica sopraffina se poi suona in maniera pietosa o comunque non tale da giustificare la somma spesa per il suo acquisto?

Si, posso rimirarlo compiacendomi delle sue fattezze, pubblicando foto su foto sui social ricevendo un gran numero di “mi piace” e venendo da essi gratificato. Ma di musica riprodotta in maniera credibile, ossia tale da dare almeno l’impressione di essere di fronte all’evento reale invece di palesare smaccatamente il suo essere frutto di una riproduzione, nemmeno l’ombra.

Il punto è che non solo non se ne accorge nessuno. mancando innanzitutto le capacità di valutazione e discernimento necessarie, e poi perché solo pochissimi vanno alla ricerca di un risutalto del genere, che dovrebbe essere l’unico in grado di giustificare certe spese. Non a caso la stampa specializzata ha ripetuto a oltranza che certe cose sono impossibili e pertanto non è pensabile pretenderle da apparecchiature che comunque sono arrivate a costare quantità di denaro improbabili.

Ma ancora una volta, e come sempre, la risposta è sbagliata.

Tra i motivi primari dell’incapacità di ottenere determinati risultati da parte del prodotto industriale c’è appunto la questione riguardante la ricetta e gl’ingredienti.

Storicamente l’industria di settore ha datto tutta l’importanza alla ricetta, ossia alle soluzioni tecniche e alle circuitazioni, per poi osservare gl’ingredienti, ovverosia la componentistica, come una specie di bancomat dal quale estrarre margini i più ampi possibile, mediante la compressione dei costi relativi.

Questo, del resto, è un atteggiamento tipico nel settore industriale, dove risparmiando 10 centesimi su un particolare impiegato in un milione di esemplari, ci si ritrovano in tasca 100.000 begli eurozzi. Coi quali si può fare in modo di convincere il pubblico della superiorità del proprio prodotto, quando invece per esso si è andati al risparmio.

La stampa di settore e i suoi succedanei, ovviamente, saranno felicissimi di magnificarne le lodi proprio grazie all’impiego dei denari fatti saltar fuori nel modo descritto, chiudendo tutti e due gli occhi di fronte ai suoi limiti. Ammesso e non concesso che siano in grado di rilevarli.

All’interno dellle redazioni oltretutto non è stato mai visto di buon occhio chiunque rivolga troppa attenzione a certi temi, se non con scopi esclusivamente magnificatori.

Prima di tutto fare le pulci al prodotto dell’inserzionista non sta bene, e poi quest’ultimo non acquista certo pagine e pagine di pubblicità, e non distribuisce apparecchiature gratuitamente o con forte sconto presso amministratori di siti e gruppi social, per veder vivisezionare in modo simile il suo prodotto.

In ambito redazionale, chiunque agisse in modo simile verrebbe accusato innanzitutto di essere un ricattatore, determinato a ottenere in prima persona del denaro dal costruttore/distributore del prodotto. Cosa della quale  l’editore si attribuisce l’esclusiva, ritenendosi il solo legittimato a farlo, dietro il paravento del contratto pubblicitario.

La ricetta, infine, ossia la soluzione tecnica più o meno raffinata e innovativa è l’argomento che meglio si presta al sensazionalismo tipico della pubblicistica di settore e da essa è stato sfruttato in ogni modo possibile e immaginabile.

Questi sono alcuni dei motivi per cui storicamente si punta da sempre sulle ricette, sempre dipinte come risolutive, piuttosto che sugl’ingredienti.

D’altronde realizzare un circuito piuttosto che un altro, o dare l’incarico a un progettista di realizzarne uno ex-novo da utilizzare poi su vasta scala, determina poca o nulla differenza riguardo ai costi di produzione.

Poi se ci vanno 10 o 15 componenti di più non fa niente, dato che il fabbricante si approvvigiona di quelli più a buon mercato, oltretutto in proporzioni tali da pagarli somme trascurabili.

Viceversa l’ingrediente di qualità costa, e pure caro. Quindi, al di là delle abitudini e tendenze descritte in precedenza, lo si evita con la massima cura. E, nel momento in cui malgrado tutto si ritiene necessario utilizzarlo, lo si sceglie comunque tra quelli di prezzo più abbordabile, riservandolo alla produzione di vertice. Nei confronti della quale resta comunque non all’altezza secondo una visuale meglio attenta ai particolari: se ne gonfiano poi a dismisura le prerogative, volendo far credere si tratti di chissà cosa quando tanti artigiani utilizzano lo stesso prodotto per la loro produzione normale.

Cose del genere le abbiamo viste fare tante volte, eppure ci si deve rallegrare quando accadono, dato che in genere non si fa neppure quello, per affidarsi alla componentistica più andante anche per i prodotti di costo elevato.

Puntando appunto sulla tecnologia all’utimo grido, sulla cosmetica, che oltretutto costa ben di più e sul supporto della pubblicistica di settore cui è affidato il compito di decantare il prodotto senza alcuna considerazione per le sue reali caratteristiche.

Sulla ricetta inoltre è possibile ricamare meglio, attribuendole le doti miracolistiche più indicate per stimolare la fantasia dei lettori. A furia d’insistere questi ultimi, che nella stragrande maggioranza non hanno modo di verificare di persona e nel caso solo in maniera assai superficiale la realtà delle cose, si abituano non soltanto al meccanismo ma finiscono con il ritenerlo indispensabile. Andando di fatto a rifiutare tutto ciò che non sia caratterizzato in quel senso nel modo più vistoso, poiché lo ritengono inadeguato alle proprie necessità.

 

Dalla sala d’ascolto a quella da pranzo…

L’argomento di cui stiamo parlando si presta ancora una volta a un parallelo con la culinaria e la conseguente degustazione del cibo. In quest’ambito anche la ricetta più raffinata ed eseguita magistralmente troverà un destino ingrato se la scelta degli ingredienti non è stata curata come si deve. Anzi, ha ottime probabilità di vanificare tutti gli sforzi fatti in precedenza, penalizzando in maniera irreparabile la bontà del piatto.

Una ricetta particolarmente raffinata, oppure presentata in maniera fin troppo leccata può venir buona per distogliere l’attenzione da una qualità e una scelta degl’ingredienti non particolarmente felice. Lo stesso vale per certe commistioni che vorrebbero essere fantasiose ma che in realtà mostrano innanzitutto la scarsa comprensione dei fondamentali della materia e subito dopo la volontà di contenere le spese di preparazione.

Dunque una ricetta inutilmente complicata, o meglio utile in particolare per scopi che nulla hanno a che vedere con il piacere del palato e le esigenze nutrizionali, ha probabilità maggiori di risolversi in un guazzabuglio caratterizzato dalla confusione e quindi dall’indecifrabilità dei sapori. Sfruttabile a sua volta per gli scopi anzidetti.

Quando l’ingrediente è buono, ma buono per davvero e non semplicemente costoso, concetti che vanno ben distinti, una ricetta semplice non si rivela solo sufficiente ad accontentare il palato più esigente ma di esso esalta sapore e aroma. Dunque per trovare piena soddisfazione non c’è bisogno di chissà cosa ma basta una semplice fetta di pane bagnata d’olio. A patto naturalmente che il pane sia fatto a partire da ingredienti che non siano farine irrorate a pesticidi, oltretutto cancerogeni, o tagliate con sostanze ignote, e l’olio non sia un prodotto da lavorazioni industriali ma quello del frantoio in cui opera un mastro olivaio che conosce il fatto suo e lavori su una materia prima ineccepibile sotto ogni aspetto.

Proprio in questi giorni è arrivato l’olio nuovo e la sua prima degustazione, su una fetta di pane fatto come si deve, ossia da un fornaio che usa farine provenienti dal grano da lui stesso coltivato e acqua non contaminata, non è solo una festa per il palato e per il nostro organismo, le cui condizioni di salute e funzionalità dipendono in larga parte da cosa vi immettiamo. Concerne anche la possibilità di assaporare sensazioni non ottenibili altrimenti, capaci di dare soddisfazione e appagamento in misura tale da non temere confronti a qualsiasi livello.

Un esempio è il pizzicorino di fondo tipico dell’olio più sincero prodotto nell’Alto Lazio. Ovviamente poi ci vuole la consapevolezza necessaria per decifrarne la valenza: una volta qualcuno ha sentenziato che è causato dall’acidità: dimostrazione di come non solo nell’ambito della riproduzione sonora sia comune la confusione tra gli elementi tipici di prodotti che sono agli estremi opposti della scala qualitativa.

Nel caso della fetta di pane e olio la ricetta non esiste o quasi: tutto deriva dagl’ingredienti. Ovvio che in condizioni simili, se il pane è la specie d’ibrido inconsistente e spugnoso venduto dalla Grande Distribuzione Organizzata nel cellophane che finisce di devastare quel poco che si è salvato nella sua preparazione in modalità industriale, e l’olio è quello di scarto proveniente da chissà dove ma fatto passare per “extra vergine d’oliva” a 3-4 euro la bottiglia, che solo il vetro costa di più, ne deriva qualcosa d’immangiabile. Non fosse che per il sentore di acidità inevitabile in una simile mistura.

Allo stesso modo, se si prende un uovo dal contadino, deposto da galline che razzolano in libertà e mangiano come devono, se ne usa il rosso mettendoci mezzo cucchiaino di zucchero e lo si sbatte si ottiene una delizia senza paragoni.  Pensiamo di poter avere lo stesso partendo da un uovo del supermercato, fatto nel modo che sappiamo e arrivato chissà come e dopo quanto tempo su quegli scaffali? E quali saranno gli effetti degli antibiotici e delle altre sostanze con cui sono bombardati gli animali d’allevamento sul prodotto che ne deriva e sulla sua salubrità? Per non parlare degl’insetticidi che saturano i loro mangimi e si ritrovano per conseguenza nelle loro uova. Di fonte ai quali qualcuno si sveglia all’improvviso dal sonno interessato in cui è rimasto immerso per decenni e si strappa i capelli dallo scandalo.

Questi esempi mostrano inoltre come proprio nella prevalenza degl’ingredienti si possa apprezzare il loro vero valore, opportunità che verrebbe meno non appena si andasse su una ricetta appena più complessa, il cui risultato non farebbe altro che attenuare le sensazioni gustative e olfattive conseguenti all’impiego di elementi di qualità tanto superba.

 

… e ritorno

Perché mai nella riproduzione musicale non dovrebbe essere esattamente la stessa cosa? Forse i cantori e gl’idolatri di progresso e tecnologie grideranno allo scandalo, vedendo messe in discussione le tesi che propagandano da decenni. Facciano quel che vogliono, ma la musica esce nel modo più puro e veritiero proprio quando si pone sul suo cammino il minor numero possibile di ostacoli. Facendo poi in modo che tutto quel che non si può togliere sia della maggiore qualità possibile.

Dunque, la riproduzione più realistica si ottiene per mezzo di un impianto che somigli il più possibile a una fetta di pane e olio.

Tutto il contrario insomma di quello che la pubblicistica di settore e i suoi succedanei fanno vedere nelle loro immagini, con quei panorami dominati da trionfi di componenstistica men che mediocre ma utilizzata a sfascio. Tanto la si è pagata qualche centesimo la carriola. Naturalmente è tutta messa in ordine perfetto, in un contesto di dorature e metalli tirati a lucido, a tutto vantaggio del riflesso onanistico dell’osservatore ignaro, che crede così di essere di fronte a chissà cosa. Quando invece si tratta del peggio che si possa immaginare.

Il motivo è semplice: al di là della loro qualità opinabile, mettere i componenti in così bell’ordine significa allungare a dismisura i percorsi elettrici e di segnale, che si snodano lungo piste di stampato industrialmente riproducibili a volontà e a costi irrisori, nonché indispensabili per le produzioni su larga scala. Hanno però il difetto di essere semplicemente distruttive per le caratteristiche non solo del segnale audio, ma anche per la corrente che deve alimentare le circuiterie attraverso le quali lo si fa passare.

Paradossalmente, lo spreco maggiore di componenti, possibilmente belli grossi così da presentare interni-telaio ricolmi quasi a scoppiare, facendo gravare per forza di cose le conseguenze sul destino del segnale, produce il panorama più efficace per mandare l’appassionato in un brodo di giuggiole.

Come dicevo più sopra, l’appassionato purtroppo non si rende conto degli effetti di cose simili, pur convinto di essere questo grandissimo esperto. Dato che si è comperato l’impianto e sempre più spesso ne ha più d’uno in casa. Essendo ormai è invalso il concetto che quantità equivale e addirittura eccede la qualità, non gli passa manco per l’anticamera che se invece di disperdere le proprie risorse in tanti rivoli concentrasse la spesa su un solo obiettivo otterrebbe ben altri risultati. Però poi nelle discussioni sui social non potrebbe più dire “perché io ho tre impianti”, aspettandosi che gli altri s’inchinino di fronte a lui in un coro di oooohhh e aaahhhh estasiati.

Casomai un appassionato di quel genere può essere esperto di estrazione di denaro dal portafogli, di firma di assegni, di racconto di frottole alla moglie in merito ai costi delle sue plurime attrezzature, e di presa di fregature. Ma sempre nella convinzione di essere un grande affarista, perché il dettagliante fingendo con arte consumata chissà quale sforzo gli ha concesso lo sconto del 30-40%. Che in precedenza era già stato doverosamente caricato sul prezzo reale dell’oggetto da lui comperato.

Purtroppo l’appassionato medio la pensa in un certo modo anche perché non fa le prove necessarie. D’altronde a volte non ne ha il tempo e altre non ne ha voglia. O altrimenti si è fatto delle idee, non di rado sbagliate, e presta la sua attenzione solo a quanto le confermi. Ossia al mucchio di fandonie e corbellerie per ottenere le quali un tempo doveva recarsi mensilmente dal giornalaio, soldi alla mano, e oggi le trova bell’e pronte accendendo il PC.

Ma se l’olio reperibile senza difficoltà sui banconi del supermercato, che per motivi di concorrenza deve costare poco, una volta messo sulla fetta di pane si rivela immangiabile, per quale motivo un qualcosa che trova gratis e in quantità smisurata non dovrebbe essere ancora peggio? E ancora, per quale motivo apparecchiature che derivano da un processo industriale e commerciale assolutamente non dissimile dovrebbero produrre invece una sonorità genuina?

E nel caso, la si saprebbe riconoscere?

Se si facessero, tali prove, posto di esserne in grado, ci si accorgerebbe che quelle cui si è creduto magari per decenni altro non sono che corbellerie. Togliendo di mezzo i circuiti stampati per ricollegare tutto punto-punto, si osserverebbe innanzitutto quale guazzabuglio di componenti ne uscirebbe fuori. Tantopiù se si cercasse di contenere quanto possibile la distanza tra di essi. Ma subito il sapientone di turno esclamerebbe: “Questa realizzazione è inaccetabilmente disordinata!” e ad essa farebbe seguito il solito codazzo di mi piace, cuoricini e faccine idiote, dato che il primo che alza polvere può dire anche la corbellerie più marchiana e tutti gli vanno dietro.

Rifelttendo un minimo, invece, potrebbe forse sorgere la domanda riguardo al vero significato del posizionamento dei componenti in si bell’ordine nelle apparecchiature di origine industriale, per mere esigenze fotografiche e coreografiche. Seguita all’istante dal dubbio di aver preso un abbaglio, cui ci si è lasciati condurre per mano dal volenteroso personale incaricato. Dopodiché sempre con formula dubitativa, potremmo ipotizzare ci si renda anche conto che quell’oggetto così trasformato, ma in sostanza equivalente a quel che era nella sua forma originaria, essendo immutati tipologia circuitale e valori della componentistica, suona in maniera del tutto diversa.

Non è dato sapere se infine si sarebbe in grado di dire cosa sia meglio o peggio. A volte ci s’imbatte in possessori di quegli impianti da svariate decine di migliaia di euro, e della sicumera che ne deriva, che si lamentano perché non ritrovano più i difetti, a volte marchiani, cui erano abituati e che secondo loro erano il marchio distintivo della vera hi-fi.

Così fai tanti sforzi non dico per neutralizzarli ma almeno per ridurne l’ammontare e loro li rivogliono indietro.

Immaginiamo allora cosa potrebbe succedere se a tutto quello spreco di componentistica s’iniziasse a dare una sfoltita, proprio affinché il segnale audio e la corrente che alimenta le circuiterie attraverso le quali lo si fa transitare s’inoltrino finalmente in un percorso nel quale è presente un numero di ostacoli minore e meno difficoltoso da valicare.

Quell’oggetto con ogni probabilità suonerebbe (molto) meglio, ma l’appassionato medio lo rifiuterebbe a priori. Proprio perché nel corso degli anni leggendo riviste e frequentando siti e social si è andato imbottendo la testa di pregiudizi, tali da fargli credere che tutto quello spreco di porcheria da quattro soldi venduto a prezzi folli sia sinonimo di qualità sonora.

Del resto le apparecchiature di gran classe suonano tutte in quel modo e il nome scritto sui loro frontali è talmente altisonante che non lo si può certo mettere in discussione. Del resto non vediamo come s’inchinano nei social quando si dice di possdere l’amplificatore del tal nome o del talatro?

Pertanto, maggiore è il numero degli ostacoli che si obbliga il segnale ad affrontare all’interno di ogni apparecchiatura, da moltiplicare poi per il numero di componenti dell’impianto, e maggiori si ritiene siano la qualità dell’oggetto e le doti sonore di quel che ne fuoriesce.

Tutto il contrario insomma di quel che avviene in realtà e potrebbe addirittura essere ipotizzato mediante una merce che non solo diventa sempre più rara ma la sua definizione è in via di eliminazione dall’elenco delle parole d’uso comune: il buon senso.

 

Un esempio

Per cercare di capire meglio certe cose, facciamo un esempio, che per motivi di semplicità riguarda i diffusori. Al fine di realizzarne uno abbiamo mille alternative possibili, ma in genere quel che si tende a fare soprattutto a livello industriale è utilizzare altoparlanti che esibiscano il loro contenuto tecnico-qualitativo nel modo più esplicito già a colpo d’occhio, per poi ricorrere a componentistica di qualità andante per il crossover e trascurare tutto il resto. Tanto quello non lo vede nessuno.

Così facendo si ottengono risultati grosso modo in linea con quelli della concorrenza, a parte le inevitabili differenze di ordine timbrico tra un modello e l’altro, ma che soprattutto non hanno alternative di sorta nell’ambito della produzione di serie. Dato che le scelte sono sempre le stesse e tali per forza di cose saranno le loro conseguenze. Cosa pensiamo di ottenere sia pure dall’altoparlante migliore di questo mondo se gli facciamo arrivare segnale degradato in maniera così palese?

Per bene che vada potremo rovinargli la reputazione.

Se provassimo a costruire un diffusore simile a quello del nostro esempio, a partire da altoparlanti meno raffinati ma posti a valle di un crossover realizzato mediante componenstica di qualità, ci accorgemmo che non solo suona molto meglio, ma esibisce caratteristiche musicali non reperibili anche in esemplari di costo molto superiore. Proprio perché anche quelli sono gravati dalle scelte che abbiamo descritto.

Se per caso oltre ai componenti del crossover interverremo su cablaggio e coibentazione interna, altri aspetti generalmente trascurati, il differenziale che ne deriva sarà ancora maggiore. E soprattutto, ancora una volta, avremo una qualità sonora che per vari aspetti non trova riscontro nella produzione di serie, anche se di classe molto più elevata.

Il problema sta nel fatto che diffusori siffatti verrebbero ancora una volta rifiutati dalla gran parte degli appassionati, proprio perché dalle foto pubblicate a cura delle riviste specializzate e dei loro succedanei il suono non passa. Quindi si vedrebbero solo altoparlanti in apparenza di qualità inferiore, che non solo non sarebbero graditi, ma spingerebbero immediatamente a scegliere altro. Ossia il diffusore di prezzo identico, o magari inferiore, che ne monta di più belli per non dire di migliori, ma nel quale tutto il resto è abbandonato al suo destino. Così da castrare inevitabilmente quei trasduttori, nel modo stesso con cui sono utilizzati, ossia da quanto li si fa precedere.

Ma tanto in fotografia certe cose non si vedono.

Proprio per questo una volta l’amministratore di uno dei gruppi social più frequentati mi ha chiesto: “che vuoi mettere la Panda con la Mercedes?” Convinto, poverino, di avere la Mercedes quando invece non è altro che un ammasso di ferraglia riempito da componentistica la più andante e realizzato in modo da suonare il peggio possibile, così che persino una Panda, ma messa a punto come si deve, gliele suoni di santa ragione. Magari non nella velocità ma nella percorrenza delle curve e nel misto. Ossia laddove si vedono le qualità concrete di un corpo vettura.

Ancora una volta, insomma, è questione d’ingredienti: quelli che le nostre mamme e le nostre nonne usavano per fare le crostate non hanno proprio niente in comune con quelli usati dall’industria.

Ecco perché, una volta usciti dalla casa dei genitori, certe cose non le ritroviamo più e le rimpiangiamo per tutta la vita.

 

 

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