Approfitto della richiesta di un appassionato, per un consiglio sulla scelta di un lettore CD non esageratamente costoso, per osservare e commentare gli aspetti comuni della situazione attuale, nell’ambito della riproduzione sonora, con quella che andò a materializzarsi poco meno di un quarantennio fa. Ossia nel momento in cui si ritenne necessario fare piazza pulita dell’analogico per imporre definitivamente, allora così si pensava, il nuovo verbo del digitale.
Per prima cosa vorrei dire che reputo grandemente consolatorio il pervenirmi di richieste del genere. Per uno che chiede consigli sull’acquisto di un nuovo lettore, evidentemente volendo continuare a esercitare la propria indipendenza d’ascolto e fruizione mediante l’utilizzo della propria collezione di supporti fisici ce ne saranno altri mille, o forse diecimila che non mi scrivono e neppure conoscono il mio sito, ma possibilmente hanno la stessa idea.
Quella collezione oltretutto, nell’intervallo temporale più o meno lungo in cui è stata messa insieme ha contribuito all’accumulazione di un’esperienza e di una raffinazione dei gusti non ottenibili altrimenti e men che mai sommergendo il somministrato con l’alluvione di titoli disponibili di cui i somministranti fanno il loro vanto primario.
Di fatto quell’alluvione comporta un solo risultato, che non è mettere a disposizione del somministrato l’intero scibile musicale composto ed eseguito dall’anno zero a oggi, come declamano senza requie gl’interessati cantori del sistema, ma il porre tutto quanto ne fa parte sullo stesso piano, senza più distinzione alcuna.
Certo, a suo tempo sono stato un sostenitore irriducibile della causa dell’analogico e sono sempre restato tale, nello stesso modo in cui non esito a osservare le conseguenze del digitale e i metodi utilizzati ai fini della sua affermazione, cosa che mi accingo a fare anche ora.
Al punto in cui ci troviamo, tuttavia, ritengo inevitabile schierarsi anche a favore di esso, almeno nella sua forma su supporto fisico, proprio nella consapevolezza che dei corsi e ricorsi storici fa parte un’ampia rappresentanza delle nefandezze perpetrate dal sistema industriale operante nell’ambito della riproduzione sonora, insieme a quello della (dis)informazione che è da sempre al suo servizio.
Esempio tipico ne sono i reiterati cambi di sistema cui ha obbligato tutto il comparto della riproduzione sonora, facendoli passare come sempre in nome del progresso, giusti i comandamenti dell’ordinamento capitalista.
Ogniqualvolta si parla di progresso, nell’ambito della riproduzione sonora, non solo è inevitabile o meglio ancora doveroso mettere mano alla pistola, ma è anche necessario prendere atto che a primeggiare tuttora, in termini di realismo e naturalezza, è un sistema le cui origini risalgono all’anno 1877.
Non solo per la cosa in sé, ma soprattutto per cogliere nella sua essenza il significato oggi attribuito più comunemente a quella parola, tanto abusata alfine di compiere atti di violenza e di estorsione dei quali le vittime non si rendono neppure conto, nella stragrande maggioranza dei casi e quasi altrettanto spesso li approvano.
Se a scuola ci hanno insegnato che la storia si ripete, presentandosi gli eventi che la caratterizzano prima in tragedia e poi in farsa, negli ultimi tempi sempre più spesso quella consecuzione è andata capovolgendosi. Così non di rado gli eventi si presentano prima in farsa per poi ripetersi sotto forma di tragedia.
Quantomeno dal mio punto di vista, la sostituzione dell’analogico da parte del digitale assunse proprio i tratti della farsa, per utilizzarne una tra le forme più comuni, il tormentone.
L’apparato mediatico di regim… ahem di settore infatti, soprattutto da parte delle sue frange tecnocraticamente più oltranziste, è andato avanti per decenni a battere sull’argomento riguardante la superiorità inarrivabile del digitale nei confronti dell’analogico. Meglio ancora, sulla sua stessa perfezione, del tutto incurante delle innumerevoli dimostrazioni che fosse del tutto inesistente e quindi che le cose stessero in maniera del tutto diversa o meglio opposta.
Proprio questo evidenziarono in maniera persino impietosa i confronti sul campo che furono organizzati ,soprattutto durante i primi anni dominati dalla contrapposizione trascinatasi dall’esordio del digitale, qui da noi nella primavera del 1983, per buona parte del decennio, prima di decretare il suo vincitore provvisorio.
Lo è stato solo per quel che riguardava l’aspetto commerciale, ma tanto bastò a quanti si attribuirono i ruoli primari in commedia. Al di là delle espressioni dottorali e dell’aura di eminenti scienziati che ostentarono con una caparbietà degna di ben altra causa, per meglio avvalorare le loro prese di posizione, con ogni probabilità era proprio quello che più interessava loro, in particolare per il retrostante economico che vi è legato indissolubilmente.
L’industria di settore mise in campo una quantità di capitali enorme per aprire la strada al suo nuovo ritrovato, in proporzioni tali che oggi sono difficili persino da raffigurarsi, prima ancora che da comprendere. Del resto allora la riproduzione sonora aveva un posto di primo piano nell’immaginario collettivo e nella pratica che da esso derivava, a livello di diffusione concreta presso il pubblico. Soprattutto era uno tra gli elementi di punta atti a testimoniare l’avanzare del progresso tecnico che la propaganda voleva inarrestabile e foriero dei destini magnifici e progressivi che immancabilmente ne dovevano derivare.
Poi la Storia è andata in direzione completamente opposta, ma fa niente: allo scopo è stato ideato, sviluppato e poi affermato il concetto di eterno presente, proprio per cancellare i presupposti che hanno portato alla situazione corrente, mediante l’abolizione del passato e la demolizione e il sovvertimento degl’insegnamenti che la sua esperienza dovrebbe fornire. Da cui l’incapacità non solo di comprenderne il significato, ma l’impossibilità stessa di ricordare mediante il susseguirsi incessante e ravvicinatissimo di stimoli sempre nuovi, sul principio della heavy rotation radiofonica. Ossia il martellamento ininterrotto di fatti e notizie privi di qualsiasi importanza ma gonfiati artatamente e coi sotterfugi più inverosimili proprio allo scopo di nascondere i fatti di reale importanza.
Principio che come abbiamo visto più volte è utilizzato a fondo anche dalla (dis)informazione di settore mediante l’infinita sarabanda di recensioni di apparecchiature indistinguibili le une dalle altre, e tutte afflitte dagli stessi identici problemi, dato che originano tutte dai concetti e dalle limitazioni alla base della produzione di massa, per forza di cose vieppiù massificata ogni giorno che passa, al grido di “E’ il lettore che ce lo chiede!“.
A tutto questo viene abbinato poi l’azzeramento delle capacità di astrazione individuale che proprio in funzione dell’incapacità di ricordare e comprendere le esperienze, quindi la consapevolezza che da esse deriva, accumulate nel passato, lungo il suo divenire, mediante la capacità anch’essa eliminata di metterlo in prospettiva. Nel loro insieme dovrebbero permettere di raffigurarsi una qualche concretezza del presente, cosa ormai più simile a una pia illusione, e soprattutto una traiettoria plausibile per i tempi che verranno, quantomeno a livello personale e a breve-medio termine, il che equivale, nelle condizioni attuali, a pura fantascienza.
Quella propaganda era volta in particolare all’induzione di un consumismo sempre più sfrenato che all’ordinamento capitalista fa da asse portante ed è essenziale per l’ottenimento dei risultati economici in crescita perenne che presuppone. Serve inoltre a giustificare la dilapidazione delle somme folli, necessarie all’avanzamento del progresso tecnico, secondo le direttrici più convenienti per chi lo controlla, che altrimenti qualsiasi individuo ancora in possesso di qualche capacità d’intendere e di volere, appunto sottratto per mezzo dell’abolizione di ogni consapevolezza di ordine temporale, e poi del minimo senso di giustizia sociale, avrebbe potuto ritenere ben più legittimo utilizzare per ben altre cause, anche se assai meno profittevoli. Prima fra tutte, porre in essere le condizioni atte a mitigare le disparità enormi nelle condizioni di vita tra le diverse zone del mondo e i popoli che le abitano, conseguenza propria dello stesso ordinamento capitalista.
D’altronde, sollevando le parti più disgraziate del mondo dal loro stato di povertà, come si potranno convincere i loro abitanti a lasciar depredare le terre su cui vivono delle materie prime di cui l’Occidente (de)industrializzato ha sempre più fame? Nello stesso modo, qualora si riconoscessero alle classi subalterne retribuzioni all’altezza dei costi della vita attuali, e sempre avendo presente che se il lavoro viene retribuito con lo stretto necessario al sostentamento e al pagamento dei servizi essenziali, mentre oggi una percentuale rilevante di stipendi non basta più nemmeno a quello, detto lavoro viene prestato in condizioni equivalenti alla schiavitù, come si potrebbe continuare a tenerle in pugno così facilmente?
Ci si è portati avanti a tal punto lungo quella traiettoria da aver perduto qualsiasi senso della misura. Ormai non sono più solo i lavoratori di fascia più bassa a essere ipersfruttati, ma anche quelli demandati a funzioni particolarmente critiche, destinate a operare su prodotti dal costo particolarmente elevato, che quindi s’immaginerebbe non siano particolarmente sensibili nei confronti di una compressione tanto esasperata per i costi della filiera produttiva.
Si tratta oltretutto di prodotti per i quali la sicurezza degli utilizzatori è un aspetto d’importanza primaria, dato che per le loro caratteristiche possono causare la morte di centinaia di persone alla volta. Tutto questo però sembra non avere importanza alcuna, il che potrebbe sembrare paradossale anche se non più di tanto nel momento in cui si prende atto che la volontà di spopolamento del pianeta diviene sempre più tangibile per chi ne ha assunto il dominio. Allo scopo dunque non si guarda tanto per il sottile, una volta soddisfatta l’esigenza di scampare alla possibilità di essere incolpati direttamente, per chi eventualmente ci vada di mezzo rimettendoci le penne.

Come ho sempre sostenuto, i soldi danno alla testa e i nel nostro settore ne abbiamo esempi che si potrebbero definire illustri, se non fosse per la statura dei personaggi cin questione. Tuttavia arrivare a esternalizzare l’ingegnerizzazione di un aereo passeggeri tra i più diffusi e quindi profittevoli al mondo, pagando gli addetti 9 dollari l’ora lo trovo indice di grave patologia mentale.
La notizia oltretutto non è nuova, quindi è possibile che per i contratti attuali si faccia ancora di peggio.
Se quell’ingegnere potesse contare su una retribuzione degna della preparazione che almeno a livello teorico dovrebbe poter mettere in campo, riteniamo che accetterebbe proposte del genere? O forse si ricorre deliberatamente a gente impreparata, la sola pronta ad accettare certi compensi proprio alfine di rendere insicuri mezzi che poi, misteriosamente, vengono lo stesso certificati dagli enti preposti alla salvaguardia della sicurezza di passeggeri e personale viaggiante?
Guerra senza quartiere
Come ho rilevato più volte, ma certe cose giova ripeterle, se la superiorità del digitale fosse stata a tal punto incomparabile, come sostenuto dalla stampa e dall’industria di settore, che bisogno ci sarebbe stato di muovere quella guerra senza quartiere nei confronti dell’analogico?
Stando alle leggi ferree del libero mercato, attorno alle quali è stata messa in piedi una nuova religione cui aderire è obbligatorio, e non si differenzia in nulla da quella delle sacre tavole ricevute da Mosè, dovevano essere le stesse prerogative del digitale ad avviare irreparabilmente l’analogico sulla strada dell’obsolescenza.
Così non è stato, non solo oggi e neppure allora, ai tempi del boom del digitale. Per questo, a ogni buon conto, si ritenne indispensabile sostenere il digitale in ogni modo possibile e non di rado andando oltre l’immaginabile, nel modo che abbiamo visto durante tutto il corso della sua esistenza.
Si è trattato solo di una manifestazione di partigianeria, tra l’altro fuori luogo da parte di chi aveva il preciso dovere di mantenere la necessaria neutralità, essenziale per poter esprimere valutazioni fondate almeno su una parvenza di realismo ed equanimità, quindi dotate di una qualche verosimiglianza, oppure ci si è sentiti proprio in dovere di sostenere in maniera tanto plateale il digitale, spingendosi addirittura a stendere la cortina di assoluto silenzio sull’analogico durata circa un ventennio, data la legge non scritta che tutto quanto non trova spazio da parte del sistema d’informazione di fatto non esiste?
Si è agito così per semplici questioni di bandiera, portandosi al livello delle tifoserie più sfegatate ma sempre continuando ad atteggiarsi a grandi scienziati e sapienti al di sopra delle parti, secondo una prassi incompatibile per qualsiasi parvenza di equilibrio, sia pure residuale, o proprio perché consapevoli o quantomeno timorosi che altrimenti il digitale non ce l’avrebbe fatta e comunque avrebbe trovato ostacoli ancora maggiori lungo la sua strada, non a caso travagliata come poche sotto l’aspetto tecnico?
Dare una risposta non è facile, su tutto emerge come sia davvero complesso stabilire quale sia l’ipotesi non dico migliore ma la meno deprecabile. In particolare riguardo alla deontologia e alla stessa credibilità di un sistema che vorrebbe dare a intendere di essere del tutto imparziale, primo cardine di quell’autorevolezza cui si teneva tanto e si era talmente convinti d’impersonare da doversela auto-attribuire a caratteri cubitali sulla copertina di ogni numero di rivista che arrivava in edicola.
Tranne poi abbandonarsi a una partigianeria a tal punto smaccata, e talvolta sconfinata in forme di vera e propria violenza verbale, che poi all’interno della redazione ha trovato anche una sua concretezza, contraddicendo di fatto e in modo tanto teatrale le proprie asserzioni.
Osservando quegli eventi con gli occhi di oggi sembrano inverosimili. Malgrado ciò, allora nessuno ci trovava nulla di strano, a ennesima dimostrazione che il modo migliore di nascondere qualcosa al pubblico è quello di metterglielo sotto il naso. Con la più grande faccia tosta ovviamente.
Un modo di fare identico, ossia basato sull’insulto, il dileggio, la delegittimazione e persino la criminalizzazione di chiunque osi pensarla in modo di diverso da quello prescritto lo avremmo ritrovato decenni dopo, con l’esplodere della truffa pandemica. Con cadenza martellante, 24 ore al giorno per 7 giorni a settimana, a reti e testate militarmente schierate a coorte, i personaggi alla Burioni, Bassetti, Galli e compagnia cantante hanno dato dei sorci, degli untori e hanno invocato le misure repressive più inverosimili (“Vanno prelevati nelle loro case e chiusi in campi di concentramento”) per chiunque non accettasse la loro versione dei fatti.
Poi si è rivelata per ciò che era, un’invenzione dalle finalità squisitamente terroristiche. Atta a favorire gl’interessi economici dell’industria farmaceutica, alla quale quei personaggi hanno fatto da piazzisti, e di quella del controllo di massa, che in quel periodo hanno visto i loro bilanci andare letteralmente alle stelle.
Dimostrazione ennesima che nel suo piccolo, spesso e volentieri tendente all’infimo come fa di tutto per confermare a oltranza, giusto nei giorni scorsi ne abbiamo avuto un nuovo e penoso esempio, il comparto della riproduzione sonora anticipa, talvolta a distanza di anni e persino di decenni, quanto avviene nell’ambito della società civile.
Come l’industria delle armi ha le sue lobby occupate a sobillare guerre in ogni angolo del globo, appunto necessarie per sospingere i cicli di vendita, consumo e sostituzione del suo prodotto, così per l’industria farmaceutica è necessario inventare malattie sempre nuove, affinché i suoi bilanci restino in attivo, come d’altronde è prescritto dalle leggi del capitale.
In quest’ottica, tuttavia, un conto è curare chi si ammala, che per forza di cose rimane una percentuale minoritaria della popolazione, avendo saputo la Natura ben fare il suo mestiere, al contrario dei cialtroni di cui sopra.
Ben altro invece, in termini di profitto, è portare la quasi totalità delle persone, con le buone o le cattive, a sottoporsi a misure preventive quali appunto i vaccini. Se poi questi per pura casualità vanno a scatenare malattie vecchie e nuove, insieme a quelle latenti, tantomeglio per gli amministratori e gli azionisti di quelle società.
Se tutte le malattie venissero debellate, secondo quello che secondo la pura teoria sarebbe il fine ultimo della medicina, l’industria farmaceutica e gli stessi medici che fine farebbero? Forse dovrebbero trovarsi un altro mestiere?
Un destino segnato?
Ormai purtroppo la categoria dei lettori CD sta andando in disarmo, oltretutto secondo le medesime logiche che a suo tempo colpirono l’analogico.
Se possibile, tuttavia, in una loro concretizzazione ancora più ferrea.
L’analogico almeno dovette soccombere a causa dell’arrivo di un formato nuovo, che il complesso industriale non solo legato alla riproduzione sonora era disposto, o forse persino costretto, a fare di tutto affinché si affermasse.
Come noto, al di là delle necessità di rientro immediato per le somme colossali dilapidate nel corso degli anni per la messa a punto dell’allora nuovo sistema, le motivazioni reali del trapasso erano in buona parte legate ai costi di produzione delle sorgenti analogiche e del supporto da riprodurre per il loro tramite, che già allora rendevano sempre più difficoltosa la realizzazione di giradischi destinati alle fasce di pubblico intermedie, secondo criteri di qualità minima al di sotto dei quali non si riteneva possibile andare.
I lettori CD non avevano bisogno di piatti sempre piuttosto pesanti, dei sistemi meccanici atti a tenerli in sede, con la necessaria stabilità e senza indurre troppi rumori spuri, dei motori sempre piuttosto potenti e dei sistemi di trazione atti a farli girare, dei bracci necessitanti sempre una certa precisione meccanica nella loro realizzazione, delle testine che somigliavano a pezzi di orologeria di precisione e dei telai atti di robustezza adeguata ad accogliere il tutto, possibilmente anche in una forma esteticamente valida e gradevole per l’occhio.
Quanto elencato era poi difficilmente adattabile a una produzione automatizzata, dalla quale espellere a piacimento la componente umana ai fini di un’ulteriore compressione dei costi.
Il CD eliminava drasticamente tutto ciò, che tra l’altro era roba piuttosto costosa per le materie prime necessarie oltreché da fabbricare, trasportare e tenere in magazzino. Il poco che rimaneva lo si poteva alloggiare in una scatola ben più economica da realizzare, non dissimile da quella di un registratore o di un amplificatore economico.
Inoltre, data la novità del prodotto e il suo significativo contenuto tecnologico, poteva essere venduto a un prezzo notevolmente maggiore, garantendo margini cospicui, togliendo di mezzo almeno per qualche tempo gli effetti della legge di caduta progressiva del tasso di profitto.
Restava la meccanica, che però si poteva fare di plastica e così venne fatta nella maggioranza schiacciante dei casi, mentre il pick up laser, unico elemento intrinsecamente costoso, lo si sarebbe reso non più tale grazie alle economie di scala derivanti dalla sua realizzazione in milioni di esemplari.
Oggi invece non c’è un formato realmente nuovo, ma solo modalità diverse d’intendere quello digitale, ancora una volta non certo migliori rispetto a quello d’origine, malgrado le pretese di chi lo commercializza e lo propaganda.
Di diverso ci sono le modalità di distribuzione destinate a eliminare il supporto fisico, mentre identica ad allora rimane la volontà di tagliare sempre più i costi, appunto per mezzo della sua eliminazione e di quanto necessario alla sua lettura, comprese le relative necessità di alimentazione.
Solo pochissimi si rendono conto dello scenario distopico, e qui entriamo nell’ambito della tragedia che nella realtà attuale segue la farsa invece di precederla. E’ conseguente alla somministrazione da remoto di tracce audio, coi suoi annessi e connessi, rispetto al possesso e alla gestione in prima persona del materiale da riprodurre e all’indipendenza che solo esso può dare.
Per quasi tutti vi sono preferibili la comodità e la possibilità di accesso a un repertorio pressoché illimitato. Ovviamente senza intenzione alcuna di porsi domande sulle conseguenze derivanti per le stesse modalità di produzione dell’opera musicale, vista ormai esclusivamente come oggetto di consumo, oltretutto sfrenato e immediato, appunto in modalità da liquidazione, nonché sul destino che ne deriverà per la stessa forma d’arte un tempo nota come musica.
Salvo poi lamentarsi che di musica degna di essere ascoltata non se ne realizzi più.
Ne abbiamo già parlato più volte e un parere autorevole al riguardo ce l’ha dato un musicista del calibro di Maurizio Giammarco, nel corso dell’intervista a suo tempo pubblicata.
Rendere liquida la musica, ovverosia metterla in liquidazione che come abbiamo visto è il vero significato di quella definizione, anche quando intesa nel senso di attributo riguardante le modalità della sua diffusione che si sta facendo di tutto per affermare, comporta l’impossibilità di fatto della sua produzione ex novo.
I costi necessari allo scopo certamente non possono essere coperti da quell’insulto vergognoso costituito dalle somme miserabili riconosciute dagli intermediatori che si occupano della sua distribuzione a chi l’idea e la produce.
Questo comporta due aspetti essenziali per comprendere la realtà della cosiddetta liquida e soprattutto le motivazioni in funzione delle quali si spinge su di essa come se non ci fosse un domani.
Rimuovendo ogni possibilità di produzione indipendente, ne consegue che chi controlla il sistema di somministrazione ha il dominio pieno e definitivo della produzione discografica. In particolare togliendo di mezzo le piccole etichette che da sempre hanno rappresentato una spina nel fianco delle major.
La storia del mercato discografico insegna che non hanno solo permesso di esprimersi e di sottoporre la loro opera al responso del pubblico a tanti artisti trascurati o peggio relegati ai margini. Hanno persino accolto numerosi musicisti di prima grandezza nel momento in cui il loro percorso artistico non ha più trovato l’interesse delle grandi case, che hanno guardato sempre e solo ai numeri. Per conseguenza, e per fortuna, sono stati accolti dalle piccole etichette o persino da quelle fondate da loro stessi per poter andare avanti.
Nel jazz e nel rock questo fenomeno ha assunto a un certo punto un andamento endemico, nella fase di transizione avvenuta a cavallo tra gli anni 80 e 90 dello scorso secolo. Facciamo giusto due esempi, quello dei Weather Report e del loro fondatore Joe Zawinul, e quello degli Steps Ahead, gruppi che nella rispettiva epoca hanno costituito la punta di diamante del jazz moderno. Arrivati a un certo punto si sono visti chiudere le porte pressoché in contemporanea da parte delle loro etichette storiche, rispettivamente la CBS e la Elektra. Questo avvenne proprio mentre la Warner stava dismettendo il ruolo storico di traino che ha assunto per quel genere musicale nelle sue diverse coniugazioni.
Fu così che quegli artisti, essenziali per il progredire della musica intesa in primo luogo quale forma d’arte e di espressione e non quale mero strumento di accumulazione capitalistica e relativa assunzione di potere, persero d’un colpo le possibilità di penetrazione presso il pubblico generalista, con tutto quel che ne consegue in termini di popolarità e dell’agibilità stessa, a favore di quegli artisti, dell’intero sistema di diffusione musicale.
Quindi le loro possibilità di esposizione al pubblico ne sono state grandemente depauperate, in particolare per quello non particolarmente specializzato, condannandoli di fatto all’invisibilità. Né più e né meno rispetto a quello che è accaduto all’analogico, per gentile intercessione della stampa specializzata.
In sostanza è stato loro preclusa la stessa agibilità nei confronti della scena musicale e del mercato che essa alimenta.
Nello stesso tempo, il pubblico ha perso quasi completamente la possibilità di arrivare a conoscenza della stessa esistenza degli artisti più meritevoli, con grave nocumento delle sue possibilità di fruizione della musica innanzitutto come forma d’arte, invece che quale strumento meramente finalizzato al consumo e al profitto. Altrettanto penalizzate, quindi sono state le sue possibilità di crescita e di critica, ancora una volta a favore dell’industria e dell’immondizia che era decisa a smerciare, e almeno in una prima fase è stata libera d’imporre il prodotto da essa preferito.
Ossia quello a costo zero, affidato preferibilmente ai pupazzi da una botta e via, non sia mai che dopo il primo, effimero, successo inizino a chiedere invece che esclusivamente a dare.
Poi, nel lungo termine sappiamo perfettamente come sono andate a finire le cose, arrivando alla fase attuale in cui la produzione musicale è diventata tranne poche eccezioni roba per cerebrolesi e dalla funzione esclusivamente lobotomizzante. Fatta su misura per chi ritiene che sul palco sia necessario innanzitutto levarsi le mutande, o altrimenti per far passare e diffondere i messaggi più deteriori e distruttivi per l’immaginario comune e la società civile, come nel caso del cosiddetto trap.
Fino a prova contraria significa trappola, coincidenza che come per la definizione di liquida trovo alquanto significativa.
Dunque, con la liquida l’industria discografica consegue un potere enorme, di vita o di morte nei confronti degli artisti e più in genere della produzione musicale, assumendo di fatto un controllo pieno e assoluto, quindi l’ultima parola, sulle possibilità di un qualsiasi brano o opera musicale. Non solo di avere accesso all’attenzione del pubblico, ma proprio di essere realizzata.
Come pensiamo che utilizzerà questo potere smisurato? Una risposta la potrebbe dare proprio la traiettoria che ha assunto la produzione musicale realizzata dalle major e destinata alle masse nel corso degli ultimi decenni.
Come se non bastasse, togliendo di mezzo il supporto fisico, l’industria discografica si libera dei problemi di stampaggio, distribuzione, gestione del catalogo e dell’invenduto, con le relative campagne di rientro. In sostanza abbatte i suoi costi moltiplicando i suoi introiti, dato che gli appassionati non di musica ma del suo consumo, abbindolati dall’offerta del repertorio smisurato a 9,99 euro al mese, del quale sono convinti di fruire ma in realtà ne vengono sommersi, aderiscono in massa.
Dando in cambio che cosa, al mondo della musica? Un bello zero e peggio quei compensi ad ascolto, secondo la logica del cottimo applicata all’arte musicale, lesivi della dignità stessa dell’artista e del rispetto dovuto a una così importante forma d’arte.
L’artista dunque, se non vuole tornare a essere un dilettante, costretto a trovarsi un altro mestiere per sopravvivere (spazzino, lavapiatti, pedalatore per Glovo?), sottraendo alla sua arte e allo sviluppo di essa quantità di tempo significative ed essenziali, si troverà costretto ad aumentare oltremodo il compenso richiesto per le eventuali esibizioni.
Ne consegue che il prezzo del biglietto va alle stelle, togliendo di fatto alla stragrande maggioranza degli appassionati, che non possono permettersi di spendere cento e più euro per assistere al singolo concerto, non solo la crescita culturale che ne deriva, ma anche la capacità di eseguire un raffronto tra quanto ascoltato dal vivo, imparando a riconoscere la vera sonorità degli strumenti, e quanto emesso invece dal sistema di riproduzione.
Va da sé che rarefacendosi le possibilità di riscontro, l’industria delle apparecchiature possa ammannire qualsiasi ciofeca al pubblico degli appassionati, facendola oltretutto pagare a caro prezzo, senza che questi si accorgano della sua inadeguatezza di fondo. Stante appunto nella totale incapacità di produrre un’emissione che ricordi sia pur lontanamente la sonorità reale dello strumento o del gruppo di essi.
Come vediamo, dunque, la liquida altro non è che un affare colossale, completamente sbilanciato nei suoi effetti a favore dell’industria. Ecco perché viene spinta in ogni modo, anche e soprattutto dal sistema di disinformazione, o meglio di deformazione in quanto istigatore e produttore di deformità, che è completamente asservito alle sue richieste.
Musica e propaganda
La musica non è solo un mezzo di svago o di accrescimento culturale, il suo potenziale propagandistico e di vero proprio direzionamento del sentire comune è enorme. Chi si occupa di certe cose lo sa perfettamente e agisce di conseguenza, fin dagli albori della sua diffusione di massa.
Sull’argomento mi sembra interessante la lettura di un saggio di Dave Mc Gowan, l’autore di “Wagging the moon doggie”, dedicato alle contraddizioni e alle fandonie che costellano letteralmente la storiografia ufficiale dell’astronautica e dei viaggi spaziali. Stiamo parlando di “Weird scenes inside the Canyon”, il cui sottotitolo recita Laurel-Canyon covert ops, the dark heart of the Hippie Dream.
Il libro offre uno spaccato della scena musicale riguardante il rock americano, delle troppe coincidenze che hanno accomunato tante figure di spicco e dei modi con cui chi ne ha avuto il potere ha utilizzato quella musica e le suggestioni da essa indotte presso il pubblico che l’ha seguita.
Spiega inoltre che forse la musica rock e il movimento che ad essa ha ruotato attorno, anche a livello concettuale e di stile di vita, non corrispondono esattamente all’idea che i suoi cultori, tra quali ci sono tanti appassionati e ovviamente anch’io, se n’erano fatta.
Attraverso la liquida, chi ne ha il controllo non ne assume solo quello, ferreo, sulla produzione, ma anche su ciò che riguarda il versante della sua diffusione, compresi i suoi fruitori.
A tale proposito vediamo una volta ancora che per liquida si vuol significare il sistema di somministrazione da remoto di tracce audio in abbonamento. Dando la parvenza di poter accedere con la massima libertà a un repertorio pressoché sconfinato, in realtà quel sistema non fa altro che assumere il controllo totale, ovviamente in merito alle funzioni dell’ascolto di musica, di chi ne fa uso. In primo luogo vivisezionandone scelte e modalità d’uso, come sempre a scopo di profilazione, che in realtà è una schedatura digitale, ossia approfondita come mai in passato, riguardante le informazioni su ciascun utente che sono il vero affare del secolo, dato lo scambio enorme che notoriamente se ne fa a titolo oneroso.
Altrettanto utile è per direzionare le scelte dell’utilizzatore, ovviamente secondo le convenienze di chi gestisce l’intero sistema.
Inoltre, dietro il paravento costituito dalla possibilità di accesso al già menzionato repertorio, quel sistema spossessa il suo utilizzatore dei diritti di riproduzione privata che in passato acquisiva entrando in possesso dell’opera su supporto fisico.
Ne consegue che nel medio-lungo termine l’utilizzatore del servizio di somministrazione avrà speso somme non dissimili da quelle necessarie a mettere insieme una collezione rispettabile, salvo trovarsi nell’obbligo di continuare a pagare a oltranza, vita natural durante. Proprio perché una volta entrato a regime il sistema di somministrazione, e come tale costituirà l’unica opzione accessibile, cosa che grazie alla fattiva collaborazione di quanti se ne servono avverrà entro un lasso di tempo ragionevolmente breve, se non paghi non ascolti più nulla.
Non solo, una volta che un potere riesce a spossessare di un diritto quanti ha nel proprio controllo, tende inesorabilmente a non restituirlo, se non costrettovi con la forza.
Difficilmente si può ipotizzare che la massa degli appassionati riesca a raggiungere il livello di soglia oltre il quale diventa massa critica. Ci è riuscito una volta, per motivi in larga parte imperscrutabili, nei confronti dell’analogico, ma in tutta sincerità chiedergli di ripetersi, oltretutto lungo una traiettoria temporale così prolungata, mi sembra francamente improponibile.
Difficilmente i miracoli riescono due volte e così pure certi giochi di prestigio, stante oltretutto l’assenza di consapevolezza sostanziale derivante dall’aver piegato l’industria di settore, e l’intero sistema che gravita attorno alla riproduzione sonora, da parte del pubblico degli appassionati, alle sue necessità.
L’induzione dell’eterno presente, secondo i metodi e le finalità che abbiamo visto in precedenza, e che certo non è costata una somma irrisoria, serve anche a quello.
Un deterrente altrettanto significativo, di nuovo in merito al ricotto del “se non paghi non ascolti”, deriverà dal rendere inutilizzabile il costoso impianto che, a proprie spese, si sarà messo insieme per fruire del servizio nel modo migliore. Sommati questi due elementi di spesa, l’abbonamento vita natural durante e il costo dell’impianto trasformato in un ingombrante soprammobile nel caso non s’intenda o per qualsiasi motivo non si possa più sottostare al ricatto eseguito dai somministratori di tracce audio, l’utilizzatore avrà di fatto speso molto di più rispetto a chi ha acquistato il supporto fisico e possiede una collezione che nessuno gli potrà mai toccare o impedire di ascoltare, per ritrovarsi tra le mani il classico pugno di mosche.
Molto conveniente, altroché!
Di sicuro lo è, oltretutto in proporzioni mai viste prima, per chi sfrutta l’intero sistema.
Da rilevare poi che il soggetto a cui viene somministrato il servizio, viene di fatto a trovarsi in una posizione subordinata rispetto al somministratore, secondo un legame di dipendenza che come abbiamo visto è inscindibile. Nei suoi confronti pertanto il somministratore acquisisce un potere enorme, non solo per la capacità di interrompere il servizio a sua volontà e per cause più disparate, che un domani potranno riguardare anche il credito sociale del fruitore. Di li la possibilità di indirizzare e decidere una parte rilevante dei suoi atteggiamenti, pubblici e privati, ma anche di portare all’ascolto di quanto ritiene maggiormente opportuno, proprio in funzione del controllo altrettanto ferreo che detiene sulla produzione musicale.
Tutto questo collima a meraviglia con il “Non avrai nulla e non sarai mai stato così felice”, che insieme è slogan e finalità del WEF, acronimo di World Economic Forum, organo a cui sembra sia stata deputata la funzione di controllo e governo unico mondiale, come evidenziato nel sito internet che lo riguarda, al quale abbiamo fatto riferimento più volte.
I suoi esponenti, come Bill Gates, trattano da pari a pari con capi di governo e persino di Stato. Meglio ancora ne dispongono come loro sottoposti. Proprio in occasione dell’annuale incontro dei membri del WEF nella località svizzera di Davos, ai fini della quale migliaia di soldati e poliziotti vengono schierati in assetto di guerra a protezione di quegli oligarchi, ma ovviamente a spese dei contribuenti, significando una volta di più la valenza politica, di lotta e autodifesa contro l’ingiustizia ormai assunta dall’evasione fiscale, lo stesso Gates ha approfittato per recarsi a Roma ed è stato ricevuto con tutti gli onori, ancora una volta a spese della cittadinanza, dal capo dello Stato e dal capo del governo.
A che titolo, di grazia, gli è stata concessa udienza da cariche di ordine così elevato? Forse perché queste ricevessero gli ordini da lui portati? Con singolare tempestività, subito dopo il colloquio lo stesso garante supremo si è sentito in dovere di rivolgere un discorso alla Nazione che ha destato scalpore per gli argomenti controversi che ha toccato, ennesima dimostrazione che la terzietà che dovrebbe contraddistinguere la sua carica è un lontano ricordo e da tempo ormai è parte attiva in causa nei riguardi di ciò verso cui è richiesto di agire, oltretutto da entità residenti fuori dai confini dello Stato.
Naturalmente misure come quelle summenzionate non si applicano tutte in un colpo ma un pezzettino alla volta, secondo la logica della rana bollita.
In primo luogo per evitare contraccolpi possibilmente fastidiosi, ma anche per far passare da complottista chiunque chiunque sia ancora in grado di unire i puntini, gioco che all’epoca della mia infanzia era riservato appunto agli infanti ma che oggi è troppo complesso anche per gli adulti, magari laureati o in possesso di master, e quindi si azzardi a parlare del disegno complessivo, peraltro evidente qualora si desideri osservarlo, a cui certe misure preludono.
In tal modo chi non vuol credere a certe cose, e allo scopo chiude occhi, orecchi e soprattutto cervello a quello che gli si para di fronte, ha un appiglio concettuale comodissimo e altrettanto facile da utilizzare in maniera del tutto automatica. Ossia senza bisogno di attivare neurone alcuno.
Basta gridare Complottista!, possibilmente a squarciagola, e poi tornare a nascondere la testa sotto la sabbia per ritrovarsi perfettamente convinti che tutto proceda nel migliore dei modi.
Piccolo particolare, la città di Verona lo scorso 15 gennaio ha attivato un sistema di prenotazione digitale che è il solo a permettere di salire su alcune linee di autobus per le corse notturne. Naturalmente la cosa viene spacciata come una misura di sicurezza, praticità, progresso eccetera. In sostanza ne deriva che per prendere l’autobus si deve avere uno smartphone, un collegamento dati attivo e un sistema di pagamento online.
Ma se il telefono “intelligente” non lo si sa usare, come la maggior parte degli anziani, ha la batteria scarica, è fuori copertura, si è terminato il traffico dati o non si hanno fondi sul conto virtuale, sull’autobus non si sale.
Oltretutto nelle corse notturne, rispetto alle quali è quasi impossibile trovare un mezzo di trasporto alternativo. Per non parlare del fatto che per l’acquisto del biglietto non si possono più usare i contanti, quando invece la loro accettazione è obbligatoria e stabilita da leggi ben precise.
Al di là di tutto questo, per quale motivo al mondo si dovrebbe ottemperare a tante condizioni nello stesso tempo per poter eseguire un’azione tanto banale come comprare il biglietto dell’autobus? Forse perché ai gestori della cosa pubblica è stato dato l’ordine di rendere sempre più impossibile la vita agli sventurati che se li ritrovano a capo delle istituzioni e degli apparati di gestione dei servizi pubblici?
Da chi prendono quegli ordini e a che titolo? Per quale motivo chi è costretto a subire le loro alzate d’ingegno dovrebbe continuare a pagare i loro stipendi per mezzo delle tasse comunali, per poi esserne vessato in modo simile?
Interessante rilevare anche come con quel metodo le amministrazioni pubbliche mettano a disposizione un servizio, ma con l’intento di restringerne quanto più possibile le possibilità di utilizzo. Per poi lamentarsi che quello stesso servizio è diventato troppo costoso da gestire e quindi da fornire. Pertanto il sindaco, assessore o chi per lui si presenterà in televisione, assumendo l’aria più grave e contrita che gli riesce, da attore consumato qual è e ormai li si coopta proprio per quello, a dichiarare che a causa della non remuneratività del servizio e delle casse comunali sempre più disastrate, pur con la morte nel cuore si trovano costretti a tagliare i cosiddetti rami secchi.
Conseguenza, il loro stipendio, principesco, continuano a prenderlo ma il cittadino il servizio pubblico non ce l’ha più.
Di recente quello stipendio è stato portato a cifre folli. Sarà per questo che i loro percettori hanno iniziato a fare a gara nell’inventare le misure più inverosimili per vessare non solo gli stolti che li hanno eletti e continuano a votarli, ma anche quelli che sono in pieno disaccordo e li vedono come il fumo negli occhi?
Gran cosa la “democrazia”, per chi ha intenzione di controllare col pugno di ferro e ha i mezzi economici per farlo.
Tutto questo ha anche un altro aspetto: digitalizzare l’accesso al servizio. Si comincia prima con le corse notturne di qualche linea e poi lo si estende gradualmente a tutta la rete, e lo rende compatibile con il sistema di credito sociale, con tutto quel che ne consegue. Hai parlato male del sindaco sui social perché l’acqua del rubinetto è piena di veleni o la nettezza urbana lascia a desiderare e i cinghiali girano in città indisturbati? Non hai pagato una multa, la maggior parte delle quali è da tempo verbalizzata secondo modalità che ricadono nell’abuso d’ufficio? Sull’autobus non ci sali.
Ma come sempre a tutto c’è un rimedio. Proprio in questi giorni si sta eseguendo l’abolizione, per legge, proprio del reato di abuso d’ufficio. Il ministro della (in)giustizia spiega che “la misura riveste la più grande urgenza essendosi levata alta la voce delle amministrazioni comunali riguardo al problema”.
Nel mentre si fa in modo che l’argomento di cui si parla, in esclusiva, sia il pandoro della Ferragni. Escludendo doppi sensi perché è piatta come un asse da stiro, probabilmente in funzione della sua condizione di anoressica.
A suo modo quel ministro racconta la verità: le amministrazioni esigono di poter continuare nel loro malaffare, come sempre alfine di taglieggiare la cittadinanza con l’agio maggiore e se impedite minacciano di rivoltarsi. Il problema in effetti deriva proprio da quest’ultima, che insiste a ottemperare. La smetta, in massa, oltrepassando il livello di soglia critica e finalmente il rapinatorio malcostume istituzionale avrà termine.
Il tutto è funzionale a far si che la popolazione rassomigli sempre più all’immagine messa in apertura. E per conseguenza la si possa gestire con molta più facilità.
La gabbia
La forma di potere inedita e insieme enorme che deriva dal rinchiudere un numero di persone sempre più grande all’interno di quella che altro non è da una gabbia digitale alla quale non è possibile sfuggire la si ottiene, altro elemento d’importanza e interesse fondamentali, facendone pagare i costi non a chi si accinge a perseguirla, farne uso e trarne ogni vantaggio, ma a chi si ritroverà costretto a subirne le conseguenze, dopo aver creduto gli si stesse offrendo chissà quale opportunità.
Questo è un altro punto comune ed essenziale di tutto quanto fa parte dell’elenco di nuove prospettive utilizzative ed esistenziali che il pubblico è spinto con ogni mezzo a preferire, in nome del progresso, della tecnologia, della comodità, della “sostenibilità”, dell’immagine personale e della sua rivendibilità e via discorrendo, secondo la serie infinita di luoghi tanto comuni quanto falsi utilizzati a scopo propagandistico. Tutti rientrano nell’alveo del cosiddetto Grande Reset, finalità primaria del WEF, nell’ambito di quella che definisce Quarta rivoluzione industriale.
Quel libro è a nome di Klaus Schwab, capo dell’organizzazione mafioso-massonica che ha dichiarato di avere nelle sue mani il controllo di tutti i governanti di maggiore rilievo a livello mondiale. Non a caso sono usciti dalla scuola per young manager gestita proprio dalla sua organizzazione. Schwab è figlio di un gerarca nazista, del quale ripropone principi, modalità d’azione, scelte politiche e finalità, ma quale braccio destro ha nientemeno che il sionista Yuval Harari, l’alfiere del transumanesimo ossessionato da quelli che definisce “mangiatori inutili”. Secondo lui ne fanno parte i 7/8 della popolazione mondiale, che pertanto vorrebbe siano messi nelle condizioni di non consumare più le risorse del pianeta, in nome della sua conservazione e della sostenibilità ambientale.
Talis pater talis filius dicevano gli antichi romani nella loro saggezza millenaria. Tanto è vero che il democraticissimo figliolo non si fa scrupolo di parlare in pubblico della sostanziale inutilità dei processi elettivi, quindi tanto vale abolirli, nel più totale disinteresse di Costituzioni, Statuti e trattati vari, in numero difficilmente quantificabile ma sempre in piena e totale dedizione ai valori della democrazia.
Un connubio, quello tra l’oligarca nazista e il sionista, apparentemente irrituale, in funzione della narrazione ufficiale della Storia fin qui propagandata, e che forse anche per quel tramite si sta cercando di modificare. D’altronde è proprio quella la funzione oltremodo velleitaria del Grande Reset, il modificare in modo irreversibile ogni realtà, idea, tradizione o percezione fin qui diffusasi. Non a caso si è arrivati anche a riscrivere i libri, e in particolare i grandi classici, proprio come in 1984.
Notare anche com’è assorto il ragazzotto nell’ascolto di quel discorso, dato che come dice Schwab, la sua azienda è legata al progetto, e quindi pregusta già un ritorno economico particolarmente sostanzioso. Sempre quello è il movente e lo strumento di convinzione ed esecuzione, ad accettare anche quanto di più innominabile.
Tutti i costi di quell’acquisizione di potere, dicevamo, li si fanno sostenere a chi lo deve subire, gioiosamente, in quanto convinto di fruire di chissà quale opportunità, oltretutto secondo la più irrinunciabile delle comodità.
Perché scomodarsi ad andare a votare quando c’è una macchina che prevede, come moderna e tecnologicissima Sibilla Cumana, l’esito della consultazione? Non è meglio restarsene in casa, sbragati sul divano, a farsi imbottire il cervello o quel che ne rimane, dalle bestialità che escono dal televisore?
Il repertorio reso disponibile dalla liquida è a costo zero, trattandosi di quanto è stato possibile produrre a livello musicale nelle epoche passate, secondo un paradigma che non era certo un miracolo di equità ma neppure era completamente sbilanciato a favore di chi può controllare l’intero processo come nella fase attuale.
I costi di diffusione se li paga il pubblico, con l’abbonamento al servizio e quello al traffico dati, ben più sostanzioso, dovendosi inoltre attrezzare con apparecchiature costose e inutilizzabili altrimenti o solo quando si decida o non si possa più pagare il servizio.
Infine, anche la subalternità altrettanto totale e irreversibile, nei confronti di chi somministra il servizio, da parte di chi in sua funzione viene controllato in tutto e per tutto per quanto vi attiene ed è penetrabile grazie alle app su cui si articolano le relative funzioni, ha il suo peso. Ovviamente in funzione di una libertà, di scelta, di comportamento, di giudizio il cui significato diventa sempre più remoto per chi è stato addestrato a non comprenderne il valore, innanzitutto a livello esistenziale.
Tutto il meccanismo infine contribuisce all’edificazione del sistema distopico basato sulla rimozione di qualsiasi elemento fisico e reale, a favore del virtuale in funzione del quale e del suo predominio assoluto si sta imponendo un vero e proprio diktat. Le sue basi funzionali e operative vertono appunto sulla digitalizzazione totale e definitiva, quella che ha preso le mosse iniziali, a livello di massa, proprio per mezzo della riproduzione musicale, al momento del passaggio da analogico a digitale e da LP a CD.
Ecco, forse, i motivi dell’ostinazione irriducibile con cui i propagandisti del digitale si sono adoperati ai loro scopi, con ogni probabilità senza conoscere gli effetti finali dei loro sforzi ma secondo il principio del Give and take the orders (cfr. “Mister class and quality?”, Gentle Giant, “Three friends”, 1972) su cui si regge l’organizzazione militarizzata della società civile nelle idee di chi intende diventarne dominatore assoluto e incontrastato.
La liquida inoltre, attraverso la somministrazione su cui si basa la sua funzionalità abitua anche a una fruizione del tutto priva di scambi con i propri simili e senza bisogno di muoversi dal proprio cubicolo. Come tale, non solo induce e abitua i suoi utilizzatori alla segregazione volontaria, dunque ad abdicare al diritto inalienabile della libera circolazione sul territorio, che resta riservato esclusivamente ai clandestini appositamente privi di documenti, ma evita la necessità di ogni contatto umano per gli scopi attinenti l’ascolto di musica.
Detta così potrebbe non sembrare niente di che, soprattutto per chi trascorre già parte rilevante della sua giornata incollato allo schermo del telefono o del PC, ma attenzione: per il suo tramite si mettono fuori gioco tutti i piccoli rivenditori di dischi e materiale musicale in genere, anche riguardo all’usato, ossia quelli che hanno avuto un ruolo a suo modo essenziale per porre le basi dello smacco più colossale che la grande industria abbia dovuto subire da parte delle masse dei fruitori del suo prodotto: il recupero d’interesse nei confronti dell’analogico, che pur con tutti i suoi limiti l’ha costretta a tornare sui suoi passi e a ricominciare a stampare l’odiato supporto analogico.
Simbolo stesso della capacità del genere umano, quando vuole, di decidere in prima persona il proprio destino, e di un concetto altrettanto fastidioso per chi si arroga la detenzione e l’esercizio del potere in forma assoluta, mascherandolo però dietro pretesti di ogni tipo: quello inerente la massa critica, oltrepassata la cui soglia non c’è blandizie o minaccia che tenga per far si che gl’individui continuino a fare e pensare ciò che non desiderano e non sentono.
Come il CD è servito a far prendere al pubblico dimestichezza con un digitale arrivato ormai a elemento essenziale di qualsiasi funzione della società civile, così la liquida serve a sdoganare l’idea di immateriale su cui si dovrà reggere l’ossatura futura dell’organizzazione umana, da parte di chi ha preso quella decisione in via unilaterale e priva di forma alcuna di mandato popolare, secondo le logiche dei non eletti da nessuno, esclusivamente in funzione dei propri interessi economici e di predominio.
Per quale motivo allora si dovrebbe accettare quella decisione e obbedire a tutti gli obblighi che ne derivano?
Come al solito in funzione della comodità?