1983-2023: 40 anni di digitale

Un tempo, quando ne avevo circa venti o forse meno, era diffuso il detto “La vita comincia a 40 anni”.

Sinceramente non ho mai capito se questo volesse significare l’ingresso nell’età matura e quindi la capacità di cogliere il significato, l’essenza della vita stessa, oppure funzionasse da elemento consolatorio per l’uscita definitiva dall’epoca caratterizzata ancora da un qualche collegamento alla gioventù.

Ora, a 40 anni di vita appena compiuti, il digitale si trova nella fase forse più contraddittoria della sua esistenza, che di contraddizioni irrisolvibili è stata letteralmente costellata, da prima ancora che nascesse. Per un verso abbiamo la somministrazione da remoto di dati audio, la cosiddetta liquida, che sta conoscendo un indubbio successo, soprattutto per l’indisponibilità del pubblico ad essa affezionato a comprendere la sua attitudine primaria, squisitamente distruttiva: innanzitutto per le condizioni in virtù delle quali sia possibile comporre e produrre musica e com’è inevitabile per la musica stessa.

Ce lo ha spiegato un addetto ai lavori del calibro di Maurizio Giammarco, ma mai come in questo caso i destinatari del discorso fanno orecchie da mercante, malgrado siano i primi a essere mercificati in tutt’uno con le loro passioni, segno ulteriore della contraddittorietà fisiologica e irrisolvibile propria del digitale.

Del resto ogni realtà monopolista nel settore in cui domina cerca di congelare le condizioni che le hanno permesso di acquisire la sua posizione. Pertanto quanti detengono il controllo del materiale edito fin qui tendono a inibire il costituirsi di una qualsiasi forma di concorrenza, secondo un abito mentale tipico che naturalmente tende a prolungare più che sia possibile le condizioni di maggior favore per la propria impresa.

Senza pensare che per quanto sterminato possa essere il repertorio che si è in grado di mettere a profitto, prima o poi è destinato a venire a noia ai suoi fruitori. Tuttavia, siccome quello che conta davvero, nel mondo occidentale a trazione capitalista è il breve termine o al più il medio, dato che come diceva Keynes nel lungo saremo tutti morti, il problema non sussiste. O comunque non lo si considera.

Dall’altro versante abbiamo invece il CD, inteso come supporto fonografico e categoria di apparecchiature adibite alla loro riproduzione, che una parte consistente della stampa e quindi anche dell’opinione pubblica, la cui attitudine primaria è il ripetere a pappagallo qualsiasi cosa le venga proposta con la convinzione e la frequenza sufficienti, danno ormai per morti.

Le argomentazioni a tale riguardo prendono quale motivazione primaria l’avanzare del progresso e della tecnologia. Malgrado ciò gli argomenti che si utilizzano allo scopo sono gli stessi identici con cui quaranta anni fa si volle dare per morto l’analogico: bel progresso davvero. E’ una contraddizione questa, l’ennesima, già di per sé più che sufficiente a mostrare per quella che è l’impostura modernista che del progresso e della tecnologia ha fatto in sostanza una neo religione, come sempre basata su un certo numero di feticci altrettanto sistematicamente idolatrati dai suoi credenti e seguaci, e di superstizioni del cui credere si fa un punto d’onore.

La modalità di diffusione in questo caso è sempre la stessa, basata sul push-pull, che non è soltanto una tecnica per la realizzazione di circuiti di amplificazione ma anche un sistema propagandistico. Da parte si spinge verso l’obiettivo predeterminato con il pretesto della tecnica moderna e l’inadeguatezza insopportabile di tutto quanto l’ha preceduta, dall’altra si tira, ammonendo il pubblico a non dedicarvisi più con la minaccia di tacciarlo di essere un nostalgico, passatista, retrogrado, quindi reazionario e per conseguenza fascista. Il che lo costringerebbe a identificarsi come tale e peggio ancora immeritevole di cotanta democrazia, quella a tal punto falsificata e virtualizzata tipica della realtà attuale, dunque condannato a una vita sociale fatta di rinunce ed emarginazione proprio per via della sua inadeguatezza.

Vediamo pertanto che se le tecniche di riproduzione sono moderne, o almeno si cerca di contrabbandarle in ogni modo come tali, quelle di intimidazione e coercizione con cui le s’impone restano immutate nei secoli dei secoli.

Osservando la realtà, e meglio ancora intepretandola alla luce della realtà storica venuta a delinearsi nel corso degli ultimi decenni, le probabilità maggiori sembrano essere quelle che malgrado si stia facendo tutto il possibile, e spesso anche l’impossibile, il CD non si riuscirà a sopprimerlo. Proprio come a suo tempo non si è riusciti nei confronti dell’analogico, facendo leva sul dischetto argentato.

Anzi, nel momento in cui i sicari del sistema di profitto legato alla produzione e riproduzione sonora, passando sopra a tutto e sotto a tutto erano convinti di averlo seppellito una volta e per tutte, è ricicciato più vivo e vegeto che mai. Per poi arrivare in breve a essere l’unico comparto in attivo dell’intero settore concernente la riproduzione sonora e come tale a trainarlo nel suo recupero d’interesse, malgrado fosse da tempo boccheggiante proprio per via della crisi originatasi nel momento in cui il digitale ha acquistito il predominio.

Come al solito la palla sta in mano agli appassionati, ai quali è demandato il compito primario di disobbedire. Quindi di mantenere in vita il supporto, prima in modalità sotterranee, ossia ciascuno per proprio conto, fino a raggiungere e poi oltrepassare la soglia di massa critica in conseguenza della quale il sistema di profitto legato al settore si trova costretto a obbedire, suo malgrado, proprio in quanto si rende conto che in caso contrario non potrà intascare i bigliettoni dei quali è compulsivamente goloso.

Nel caso in questione, è anche possibile che a un certo punto si sia compreso l’errore stante nell’aver eliminato l’analogico proprio ai fini dell’affermazione del digitale. In particolare nel momento in cui i suoi nodi sono venuti al pettine e la crisi a cui ha dato innesco ha dimostrato in via definitiva di essere irrisolvibile.

 

Buon compleanno

Proprio in queste settimane dunque, il CD e per conseguenza la riproduzione sonora basata sulla codifica binaria del segnale, ha passato il traguardo dei 40 anni di vita.

Il primo formato digitale dedicato all’ascolto di musica ha esordito sul mercato europeo nell’aprile 1983, dopo essere stato presentato qualche mese prima, nell’ottobre del 1982, sui mercati giapponese e americano.

In realtà ci sarebbe voluto più di qualche mese ancora per arrivare al regime di esercizio vero e proprio, avviatosi nel 1984, guarda la combinazione, ma le date principali sono quelle.

Gli studi per l’allora nuovo formato andavano avanti da parecchio e diverse soluzioni si erano avvicendate l’una all’altra, sia per le modalità di codifica del dato digitalizzato, sia per le sembianze e le dimensioni attribuite al supporto. Tutto questo aveva causato ovviamente spese enormi, giustificate dall’affare ancora più grande che si stava prospettando, di portata planetaria. Anche per via del ruolo che si prevedeva avrebbe avuto il digitale, non solo riguardo alla riproduzione musicale che gli ha fatto da apripista, ma in una serie di ambiti diversi pressoché infinita, relativi al supporto e alla distribuzione delle informazioni.

A tale riguardo, pertanto, ci sono ottime probabilità che la codifica digitale del segnale audio abbia avuto finalità sperimentali non solo per le funzioni della riproduzione sonora ma in un’ottica dallo spettro ben più ampio.

Le conseguenze che il digitale avrebbe portato erano allora imprevedibili, almeno al livello dei comuni mortali. Nel giro di pochi decenni ha causato tuttavia una vera e propria rivoluzione in termini di usi, costumi e stili di vita. A questo proposito penso valga la pena riportare le parole di Shoshana Zuboff, nel suo “Il capitalismo della sorveglianza“: Il mondo digitale sta prendendo il sopravvento, ridefinendo qualunque cosa prima che ci sia offerta la possibilità di riflettere e decidere.

Si tratta di un’affermazione incontestabile e particolarmente grave, proprio in quanto palesa la possibilità di spossessare masse ingenti di individui delle loro capacità di scelta, per metterle di fronte al fatto compiuto, semplicemente facendo in modo che la codifica binaria vada a interessare il maggior numero di ambiti possibile.

In questo senso allora sembra palesarsi un’ulteriore spiegazione per l’ostinazione con cui ai suoi esordi il digitale è stato spinto in pratica da ogni fonte d’informazione, che immancabilmente ne ha cantato le lodi. Al punto tale che, purtroppo, esaminarne i punti deboli, che pure esistevano come per qualsasi cosa di questo mondo, non è stato possibile. Dato che lo spazio disponibile da dedicare all’argomento, per forza di cose non estendibile all’infinito, era purtroppo esaurito.

Quale disdetta!

In perfetta contemporaneità fu avviata una campagna di discredito nei confronti dell’analogico, altrettanto capillare, che con ostinazione almeno pari puntava il dito su tutti i suoi difetti, anche e soprattutto quelli inesistenti. Per conseguenza ciò che fino al giorno prima era stato salutato come uno tra i miracoli della tecnica moderna, ossia la riproduzione sonora ad alta fedeltà, basata per l’appunto sull’LP,  improvvisamente era diventato brutto, sporco e cattivo.

La medesima qualifica fu estesa per forza di cose a chiunque non si allineasse istantaneamente al nuovo verbo.

 

Questo già all’epoca è stato un ottimo marcatore per le modalità funzionali del capitalismo reale ed è un esempio di come il mondo della riproduzione sonora non solo ne riproduca le dinamiche, ma a volte ne sia persino un precursore.

Un secondo elemento, che mi sembra importante per meglio comprendere la portata del fenomeno e l’uso che s’intende farne è il seguente: una tra le conseguenze portate dal digitale, a partire dalla metà degli anni novanta circa, ha riguardato il fenomeno del download, facilitato dal diffondersi della rete e dei cosiddetti formati compressi, come l’MP3 e similari.

In merito alla riconoscibilità degli effetti della compressione sul segnale audio, nacque in breve la solita polemica, destinata a finire com’era iniziata, tanto erano evidenti e malgrado lo si sia negato con ostinazione degna di ben altre cause, sempre a cura dei soliti noti. Al di là di questo che pure è importante come vedremo tra breve, ne derivò la nascita del cosiddetto “peer to peer”, ossia lo scambio di brani e interi album eseguito tra pari oppure attingendo a siti come Napster ed E-Mule che in breve si trovarono nell’occhio del ciclone.

Le multinazionali discografiche dopo aver lucrato somme colossali sull’esplosione del digitale, da esse spinto come se non ci fosse un domani, non avevano intenzione alcuna di accettare il ritorcersi dei suoi inevitabili effetti collaterali contro i loro interessi economici. Così sguinzagliarono media, forze dell’ordine e magistratura alla caccia di quelli che definirono pirati, rei di appropriarsi dei dati di proprietà altrui, inerenti appunto file audio, anche solo per farne un utilizzo personale o al massimo di condivisione tra pari, a titolo rigorosamente gratuito.

Ora, a circa 20 anni di distanza dal culmine di quel fenomeno, vediamo che una moltitudine di società di capitali fa letteralmente di tutto per espropriarci dei nostri dati personali, divenuti nel frattempo una miniera d’oro, a scopo di profilazione, termine di neolingua sinonimo di schedatura.

E’ stato necessario coniarlo perché di essere schedato nessuno ha voglia, ma la profilazione la si accetta ben più volentieri, anche se in realtà non vi è differenza alcuna e se vi è riguarda la sua pervasività ancora peggiore.

Dunque vengono memorizzate le nostre abitudini e preferenze, i nostri dati anagrafici, di spostamento e persino quelli sanitari. Per quel tramite oggi tutti noi siamo letteralmente vivisezionati e ancora di più lo saremo in futuro.

Quei dati, che sarebbero di nostra proprietà, non solo ci vengono sottratti o meglio ne veniamo depredati, nei modi più impensabili, ma di essi si fa un commercio estremamente lucroso, tale da essere l’affare più profittevole del nostro tempo. Però guardacaso di pirateria non si parla più, quando invece la nostra proprietà privatissima è oggetto dell’attacco di torme di veri e propri filibustieri che escogitano ogni giorno i modi più impensabili per sottracela, e poi rivenderla sull’apposito mercato, in realtà più somigliante a un suk dove di tutto si fa commercio e tutto si può trovare. Restando comunque nell’ambito della pseudo-legalità o comunque potendo contare su una totale impunità e sul lassismo connivente della politica e delle istituzioni legislative e di controllo.

Ancora non basta, in quanto ci è già stato annunciato che quei dati saranno utilizzati per comprimere le libertà fondamentali che ci è stato insegnato a dare per scontate. I pezzi di carta su cui sono enunciati i principi alla loro base si è già provveduto a stracciarli, in nome dell’emergenza, aggirando l’iter legislativo ritenuto necessario, dato che per quella via non ci sarebbe stato verso di arrivare al risultato desiderato.

Saremo in grado di difendere quelle libertà? Personalmente ho grossi dubbi, a iniziare dal fatto che troppi, ormai, non saprebbero più cosa farsene.

Comunque, ora che sulla somministrazione dei dati audio a scopo di lucro banchettano numerose società erogatrici del servizio, la parola pirateria è scomparsa letteralmente dall’orizzonte, malgrado quella che eseguono a danno di creatori e produttori dei contenuti, nonché dei fruitori del servizio, sia ancor peggio di una rapina.

 

Digitale compresso, una storia emblematica

Quasi altrettanto significativa, e pertanto tale da meritare almeno un accenno, è poi la questione inerente il digitale compresso. Come spesso accade, al suo esordio fu salutato da salve ripetute di giubilo e di evviva, così che conquistò alla sua causa un numero significativo di sostenitori. Diversi tra loro ricoprivano a vario titolo incarichi tecnico-direttivi nella stampa di settore o comunque nei diversi ambiti della riproduzione sonora. Fu così che, come rilevato in precedenza, divenne dominante la fazione che riteneva ininfluente la compressione dei dati audio, ossia l’eliminazione della maggioranza di essi, fino a oltre il 90%, ai fini della qualità di riproduzione.

Come fosse possibile non è dato saperlo, quando già il digitale a codifica lineare, ossia quello basato sul 100% dei dati campionati in fase di conversione trovava e trova tuttora difficoltà significative ad appaiare la qualità sonora dell’analogico, ma soprattutto la soddisfazione all’ascolto dell’utenza più esperta.

A questo riguardo si accamparono le scuse più disparate, inerenti quasi sempre le pretese proprietà miracolistiche degli algoritmi basati sullo studio della psicoacustica e sulle teorie secondo cui i segnali più evidenti renderebbero inudibili quelli di entità minore, e quindi non necessari. su cui sono basati i sistemi di compressione, tra i quali il più noto rimane l’MP3.

Altri algoritmi erano poi destinati a rendere più digeribili gli effetti causati dalla rimozione dei dati ritenuti ridondanti, dimostrando già di per sé stessi l’inattendibilità delle basi teoriche su cui si basava tutto il sistema.

Era nato per facilitare la diffusione dei primi lettori portatili, in funzione delle capacità di memoria allora disponibili e della scarsa velocità della rete. Messa così non ci sarebbe stato nulla di male nell’accettare le limitazioni del mondo reale in quella fase storica, ma come sempre c’è chi si sente in dovere di fare il fenomeno, regolarmente al servizio degl’interessi economici di chi annusa l’affare del decennio e per condurlo in porto non lesina la distribuzione di lubrificanti. Parte consistente dei quali, data la generosità con cui li si fa circolare, non può che favorire lo scivolamento di molti e la conseguente caduta nel tranello a causa della loro credulità. Nei confronti del sistema d’informazione, divenuto ormai di mera comunicazione, del progresso, della tecnologia, della scienza e così via.

Al di là di tutto questo, l’aspetto più significativo di tutta la faccenda era che gli esperti di settore, per mezzo del loro sostegno all’MP3, andavano di fatto a sancire l’inutilità della riproduzione sonora di qualità elevata, ossia dell’ambito stesso in cui esercitavano la loro professione, sia pure in maniera così discutibile. Non era del resto la prima volta che, di fatto, andavano a minare le basi stesse dell’esistenza del settore all’interno del quale avevano assunto la qualifica di “esperti”, tra l’altro non si sa a che titolo, secondo un atteggiamento davvero paradossale.

Ancor meno verosimili sarebbero state le loro gesta nel momento in cui, qualche mese dopo, si palesò la tendenza opposta, ossia quella inerente i formati digitali cosiddetti ad alta definizione.

Anche in quel caso il loro sostegno è stato assoluto e indefettibile, e quel che è più significativo non colsero traccia di contraddizione alcuna tra le due cose. Se il sospetto della sua esistenza non li abbia proprio sfiorati o se invece lo abbiano trascurato minuziosamente non è dato sapere.

Anche questo aspetto fa parte delle meraviglie della tecnologia moderna, tali soprattutto perché si possono trovare nei luoghi più inattesi.

In effetti se vogliamo, un elemento di coerenza, oltretutto significativo, è reperibile anche in testa-coda concettuali tanto estremi da arrivare ai limiti del surreale. Consiste appunto nella piena, totale e incondizionata accettazione di tutto quanto passa il convento. Il solo punto essenziale è che si tratti di un dogma calato dall’alto: che sia una cosa, come l’inudibilità degli effetti prodotti dall’abbattimento forsennato dei dati utili alla riproduzione sonora, fino a salvarne il 10% o meno, oppure tutto il suo contrario, come l’esigenza improcrastinabile di utilizzare una quantità di dati così ridondante, peraltro in un contesto in cui non si riesce nemmeno a utilizzare fino in fondo quelli che in numero molto minore sono resi disponibili da formato audio digitale d’origine, deliberato per il CD, non ha importanza alcuna.

Qualche decennio fa, assumendo atteggiamenti del genere, la raccomandazione che si aveva la probabilità maggiore di ricevere è quella di far pace col cervello.

Oggi quel modo di dire non esiste più, il che è significativo già di per sé. Il sospetto tuttavia è che sia difficile pacificarsi con qualcosa che non si possiede o quantomeno non si è in grado di far funzionare, peggio ancora se non lo si vuole, e comunque tende a essere sostituito in un numero sempre più ampio di funzioni da un ricevitore di istruzioni impartite da remoto.

La sua efficacia, nell’indurre all’obbedienza quanti ne sono equipaggiati, somiglia da vicino al meccanismo delle pompe di benzina self service: più bigliettoni si caricano nel sistema e più dispensa istruzioni che si tende a far proprie in maniera del tutto istintiva, tacciando nello stesso tempo con gli epiteti peggiori chiunque non si uniforni all’istante al nuovo credo e nella convinzione irremovibile che tutto questo sia parte dell’ideale di democrazia più elevato che sia possibile immaginare.

 

Digitale: sinonimo di perfezione?

Ancor prima del suo esordio, al digitale si ritenne necessario conferire un’immagine di perfezione. Si batté a tal punto su quel tasto che di essa, almeno a livello di riproduzione sonora divenne sinonimo, in seguito piegato agli utilizzi più disparati in modo tale che qualsiasi cosa ricevesse l’appellativo di “Qualità CD” fosse al di sopra di ogni sospetto.

In realtà, come spesso accade, si giocava coi numeri, che per loro stessa natura sono la cosa più manipolabile che esista. Dunque bastava che a monte vi fosse un formato a 16 bit/44,1 kHz per dar luogo alla pretesa perfezione. Che poi il segnale fosse sottoposto a una serie di elaborazioni distruttive, sostanzialmente di compressione, così da ridurre la quantità in maniera drastica di dati necessaria alla riproduzione, lo si riteneva ininfluente. O meglio, lo si spacciava come tale.

In realtà così non era e malgrado gli sforzi del sistema d’informazione, appunto tendenti a far credere che anche dopo l’eliminazione di percentuali elevate dei dati di partenza il risultato che ne derivava fosse indistinguibile dall’originale, col tempo anche i più duri d’orecchio e di comprendonio si resero conto della realtà dei fatti. Per conseguenza si dovette lasciar cadere quel punto. Non prima di aver portato nelle casse di chi lo sostenne oltre qualsiasi verosimiglianza somme decisamente ingenti.

E’ anche vero, d’altro canto, che pure con tassi di compressione elevatissimi, fino al 90% dei dati d’origine e oltre, il file continua a funzionare. Certo con limitazioni evidenti, ma non tali da rendere irriconoscibile il brano musicale sottoposto al trattamento.

Quello è stato l’esempio iniziale di come il segnale digitalizzato tenda in una certa misura a essere indipendente dal numero di dati utilizzato per rappresentarlo. Nessuno però mi sembra che lo abbia detto, quantomeno a livello di stampa specializzata, probabilmente per i soliti motivi. Ossia quelli inerenti la necessità di vendere tutto e tutto il suo contrario, senza ovviamente che il pubblico, o almeno la stragrande maggioranza di esso, se ne accorga.

Ne abbiamo avuto la dimostrazione, posto che vi sia la volontà di osservarla, nel momento in cui i progressi relativi alla capacità delle memorie di massa le hanno liberate dalle limitazioni dimensionali, da cui sono state gravate per gran parte della loro storia.

Venute meno è stato possibile dare il via libera alla tendenza opposta, ossia alla moltiplicazione, o meglio ancora all’aumento esponenziale dei dati utilizzati nella codifica in digitale del segnale audio, dando vita alla cosiddetta alta definizione, ancora una volta reclamizzata con dispendio enorme di superlativi assoluti, ma senza che vi corrispondesse un divario qualitativo così netto.

Anzi, nel momento in cui il progredire dei mezzi di trasmissione ha reso possibile l’eliminazione del supporto fisico, almeno in termini di densità del flusso dei dati, il regresso a livello della qualità sonora è stato evidente.

Quello che si è fatto credere, e lo si fa tuttora, è che all’aumento dei dati utilizzati per la rappresentazione del segnale audio corrisponda un incremento lineare della qualità sonora. A parte che non è così, non si vede per quale motivo, ai tempi in cui le limitazioni tecniche imponevano la scelta opposta, la loro riduzione ai minimi termini la si ritenesse ininfluente o quantomeno la si spacciasse come tale.

Personalmente lo ritengo alquanto inverosimile, ma ancora di più lo è, almeno dal mio punto di vista, che a livello di pubblico nessuno si ponga il problema, per poi chiedersi se per caso non ci sia qualcuno che lo sta prendendo in giro.

Per forza poi che le élite fanno come gli pare: se le masse con cui si devono confrontare sono a tal punto annichilite, non può che derivarne l’idea di poter mettere in atto qualsiasi cosa senza che vi sia una reazione di sorta.

I formati cosiddetti ad alta definizione hanno un numero rilevante di controindicazioni, delle quali ho parlato più volte, anche se poi nel loro insieme prevalgono ancora una volta i file per la realizzazione dei quali si è percorsa una strada caratterizzata dal minor numero di pasticci.

Questione che ha a che fare con l’elemento primario di degrado del digitale nella fase a monte della generazione stessa del segnale a codifica binaria, ossia la quantizzazione.

Per quantizzazione s’intende l’attribuzione al campione del segnale analogico prelevato del livello lecito più vicino al suo livello effettivo, comportando di conseguenza un errore, detto appunto errore di quantizzazione che a sua volta è causa di distorsione.

Ne consegue che il formato perfetto per definizione è gravato di per sé da un errore irrisolvibile già al momento in cui è generato il segnale su cui si basa.

Per la cronaca, il formato a 16 bit permette 65.536 livelli leciti.

Inoltre tutti i processi di riquantizzazione, come quelli tipici del ricampionamento su un numero maggiore di bit rispetto a quello della codifica d’oirgine, eseguito da alcune macchine e a cui una parte degli appassionati debitamente imbeccata dalla stampa di settore ha attribuito proprietà miracolistiche, non possono fare altro che sovrapporre errore a errore, con tutto quel che ne consegue.

Se si quantizza un numero di volte maggiore nell’unità di tempo, e lo si fa con una precisione più elevata, grazie all’impiego di un numero accresciuto di livelli leciti, diciamo per mezzo di un formato a 24 bit invece che a 16, in linea teorica ci si dovrebbe avvicinare assai di più alla forma originaria della sinusoide.

I livelli leciti diventano infatti 16.777.216, ma all’atto pratico ci si accorge che tale affinamento ha un’importanza marginale e sono altri gli aspetti a diventare prevalenti. Il primo e più importante di essi è che procedendo in tal senso si ottiene un aumento esponenziale della quantità di dati necessari alla rappresentazione codificata in binario del segnale d’origine. Senza però che ne derivi un miglioramento della situazione da risultare determinante e soprattutto incontrovertibile: ci si va a infilare in una strada senza uscita, quel che è peggio credendo di pervenire alla soluzione dei propri problemi.

Dunque, proprio per la natura stessa del sistema e della codifica binaria, quella dell’incremento della base dati utilizzata a fini di riproduzione è un metodo che non porta da nessuna parte. Dato che nel suo impiego ai fini di ulteriori miglioramenti, se ne avranno di sempre minori, sia pure a fronte di incrementi esponenziali della quantità di dati da utilizzare. Come tali perverranno alla saturazione di qualsiasi sistema atto a immagazzinarli, prima ancora che il dispositivo cui sono necessari, in questo caso il riproduttore audio, giunga a un’approssimazione, sia pure per difetto, di quel che vorrebbe replicare, ossia la sinusoide alla base del segnale analogico.

A quel punto poi entrano in ballo le limitazioni del canale di riproduzione del mondo reale e delle sue componenti, che per quanto si faccia più veloce di tanto non può andare nella sua funzionalità di interruttore, ossia il dispositivo atto alla commutazione tra uno e zero.

Inoltre più preciso di tanto non può essere nel collocare ciascuno di essi al punto esatto che gli compete sull’asse dei tempi. Non solo perché con l’aumentare esponenziale del numero di campioni utilizzato la precisione necessaria a tal fine tende anch’essa a infinito, ma anche per via del numero sostanzialmente incalcolabile di elementi in grado di produrre alterazioni in tale ambito, oltretutto secondo modalità subdole e più ancora imprevedibili, come spiega l’esperienza. Specie quando ci s’ingegna un minimo riguardo alle modalità empiriche con cui la si costruisce.

Percorrere quella strada di per sé senza uscita costringe inoltre a mettere da parte i formati fisici per ricorrere al mezzo informatico, da parte sua caratterizzato da una serie di problemi non indifferenti, il più vistoso ed effettivo dei quali riguarda l’alimentazione. A sua volta, e come sempre avviene quando dall’onanismo tecnocratico si torna nel mondo reale, questa influenza in maniera molto pesante il rendimento del sistema cui fornisce energia, come e più degli stessi circuiti attraverso i quali transita il segnale, con tutto quel che ne consegue.

Fino a oggi nessuno è riuscito a realizzare un’alimentazione a impulsi capace di paragonarsi sia pure alla lontana con una lineare fatta come si deve. Non solo in termini funzionali, ma anche per la quantità di disturbi emessi, che vanno per forza di cose a influenzare il comportamento dei circuiti di segnale e il segnale stesso, oltre a quello delle altre apparecchiature dell’impianto e più ancora del mezzo adibito alla somministrazione dei dati.

Poi però ci pensa un altro lato della realtà a metterci una pezza, e precisamente quello in cui la massima goebbelsiana spiega che qualunque cosa, dopo essere stata ripetuta il numero di volte necessario, si trasforma in verità.

Se quella cosa ha anche un risvolto economicamente interessante, la sua ripetizione ha ottime probabilità di essere eseguita in maniera ben più convincente, a un ritmo ancor più frenetico e per periodi più lunghi. Stante la difficoltà oggettiva di eseguire una verifica al riguardo, non solo in termini tecnici ma anche e soprattutto percettivi, il resto viene da sé.

Alla base della questione resta il quesito di fondo numero 1, che però ciascuno finge di non vedere. E’ il seguente: se in funzione di quanto è possibile reperire sul mercato delle sorgenti, già a livello di trasporto digitale, ossia di lettori dotati unicamente di uscita digitale, risulta evidente che a 40 anni di distanza dal suo esordio non siamo ancora in grado di trarre le effettive potenzialità dal formato digitale d’origine, quello del CD a 44,1 kHz/16 bit, e quindi dal numero di dati che si pretende sia intollerabilmente limitato per le necessità di oggi, per quale motivo invece di impegnarci allo scopo andiamo ad aumentare il numero dei dati, sapendo già che saremo ancora meno in grado di sfruttarli, o meglio li butteremo via in ampia misura?

Perché dunque cercare ulteriori complicazioni con formati il cui potenziale per forza di cose potremo sfruttare in maniera ancor più incompleta, e oltretutto già per loro natura implicano difficoltà molto maggiori a tale proposito?

Ancora una volta è una questione esclusivamente economica e di narrativa: l’ideazione di nuovi formati e la sostituzione continua dei dispositivi di riconversione in analogico è affare lucroso. Non a caso proprio su tale aspetto punta da sempre la propaganda di settore, seguita docilmente dal pubblico, che fa proprie le panzane da essa spacciate. Facilita infatti la vendita di nuovi dispositivi di lettura, PC, music server e via discorrendo, al punto da rendere possibile la realizzazione di un sistema di distribuzione completamente nuovo, che proprio su tale presunzione, sbagliata, offre possibilità di profitto replicabili virtualmente all’infinito. Come appunto quello conseguente al succedersi di nuovi formati, regolarmente peggiori di quanto li ha preceduti, e poi dello streaming e della musica liquefatta o meglio ancora liquidata.

Questo si deve alle potenzialità riguardanti le argomentazioni propagandistiche applicabili ai cosiddetti formati ad alta definizione, dove è facile far credere che siccome ci sono più dati, allora la riproduzione sonora non può che essere migliore, quando abbiamo visto fin qui l’esistenza di diversi elementi che suggeriscono l’esatto contrario.

Come noto tuttavia, qualsiasi ordigno inventato dall’uomo, per un problema che pretende di risolvere, oltretutto male come nel caso in questione, ne crea almeno altri dieci, tutti irrisolvibili. Il più marchiano tra di essi è che per rendere disponibile un flusso di dati tanto sostenuto da essere adeguato alla bisogna, occorre immergere tutti e tutto in un forno a microonde a cielo aperto. Non a caso la normativa vigente ha da poco stabilito che i livelli tollerabili relativi ai campi elettromagnetici passino da 6 a 61 V/metro, con gli effetti che è facile immaginare e quelli di cui tuttora non ci rendiamo conto ma che non tarderemo a sperimentare. Sulla nostra pelle e su quella degli altri esseri viventi che non potranno e non sapranno sottrarsi dal sopportare gli esiti della follia di un branco di squilibrati.

Ma che fà, allo scopo sono già stati assoldati plotoni di ascari, che riuniti in squadracce riduranno al silenzio e con ogni mezzo, primo tra tutti quello della delegittimazione, chiunque si azzardi a rilevarle, quelle conseguenze. Basta chiamarlo disinformatore, complottista e il gioco è fatto.

Tra di esse la necessità, inevitabile nei sistemi di trasmissione necessari allo scopo, operanti nella gamma di frequenze ultracorte, di eliminare la vegetazione dalle dimensioni superiori a un certo limite, proprio in quanto dannosa per le loro funzioni.

Tutto questo mentre gli ultrà ambientalisti a visione selettiva fanno finta di non avvedersi della cosa.

Malgrado la realtà si sgoli e faccia di tutto per mostrarci la contraddizione tra sé stessa e quel che si ha tanta convenienza a propagandare, per non parlare delle sirene che diffondono il messaggio, alla propaganda tutti ci credono. Anche in conseguenza dell’abitudine che ad essa si è fatta e peggio al lasciarsene guidare. Su quella si marcia non poco, e per conseguenza si fa di tutto per rendere sempre più dilagante e approfondito il fenomeno dato dal confondere quantità e qualità.

Eppure la riprova della loro inconciliabilità ce l’abbiamo. A suo tempo per farci accettare il digitale terrestre in ambito televisivo, e soprattutto le spese e le traversie innumerevoli resesi necessarie per la sua ricezione, ci venne detto che avremmo avuto un numero di canali molto maggiore rispetto all’analogico. Così nessuno si rese conto che la moltiplicazione dei canali ricevibili avrebbe causato per forza di cose null’altro che uno scadimento mille volte maggiore per la qualità del materiale trasmesso.

In realtà quel sistema non serviva a migliorare la visione e ad ampliare il numero di canali ricevibili, come ci è stato ripetuto fino allo sfinimento, ma a realizzare il contesto adatto all’esistenza dei canali a pagamento, che è tale solo nel momento in cui possono avvalersi di un sistema di criptazione sufficientemente difficile da attaccare. Grazie appunto al digitale. Non a caso dall’avvio del sistema in poi non solo si sono moltiplicati fino ad arrivare a un numero pletorico e privo di qualsiasi giustificazione pratica, ma hanno avuto come conseguenza il gravare sui bilanci familiari in maniera significativa nonché imprevedibile solo qualche anno fa, e poi quella di saccheggiare letteralmente i palinsesti delle TV in chiaro. Oltretutto i canali a pagamento eseguono un’azione propagandistica innegabile, in modo che chi li controlla ha ottenuto non solo di eseguire una forma palese di lavaggio del cervello sui loro spettatori, ma facendo in modo che le vittime paghino mese dopo mese per ricevere quel trattamento, del quale pertanto sono destinate a diventare schiave, se già non lo sono.

Dunque la lezione l’abbiamo avuta, ma nessuno ha intenzione di tenerne conto e così continuiamo a ripetere sempre gli stessi errori, ogni volta con spese superiori rispetto alla precedente e sbattendo più forte la zucca contro il muro della realtà concreta. Senza però che attraverso la spaccatura venutasi a creare per mezzo di quell’impatto, e malgrado diventi sempre più ampia, riesca a entrare il minimo indispensabile di sale. Che guardacaso si fa di tutto per eliminare dalla nostra dieta.

C’è poi un’altra serie di aspetti non considerati, innanzitutto perché non portano soldi a nessuno e peggio fanno risparmiare un pubblico che invece va spremuto fino a consunzione. Come tali possono far parte solo dell’esperienza personale di qualcuno, che per evitare il rischio che possa condividere la sua esperienza deve essere messo ai margini.

D’altra parte sarebbe del tutto inutile e persino controproducente diffonderne ricette e risultati, dato che si verrebbe assaliti all’istante dalle torme di chihuahua da riporto addestrati fin dalla più tenera età a difendere fino alla morte le catene che li tengono in schiavitù.

Per non considerare che certe cose richiedono tempo e applicazione, sia pure su attività per nulla difficili da eseguire, quando oggi il fine primario e imprescindibile è la comodità, il cui significato tende a farsi sempre più confuso con qualcosa che è ben altro, ossia l’inazione. Quale sia il limite oltrepassato il quale diventa abulìa, altra parola inviata al dimenticatoio, paralisi e il subentrare dell’incapacità di portare a termine una qualsiasi attività pratica, anche la più elementare, che non sia il compulsare su un display, si fa in modo che nessuno abbia la ventura di domandarselo.

Va considerato infatti che sul supporto fisico, quindi anche sul disco CD è possibile eseguire una serie di operazioni, anche banali, che permettono non solo di migliorare in maniera significativa l’estrazione dei dati in esso presenti, e per conseguenza il segnale presente alle uscite dell’apparecchiatura atta a riprodurlo, ma anche di ridurre l’incidenza di alcuni fenomeni fisici indotti dal sistema di lettura e dai materiali con cui è realizzato.

Il disco rigido, invece, pur avendo una capacità di stoccaggio dei dati di ben altro livello, non permette nulla di tutto ciò, essendo ermeticamente chiuso.

Che anch’esso sia gravato da problemi indotti dalla sua stessa realizzazione e dalle caratteristiche dei materiali con cui è eseguita è reso evidente dal passaggio alle memorie di massa a stato solido, di solito in grado di dar vita a una sonorità più convincente. A loro volta tuttavia, come tutte le cose di questo mondo, anch’esse non possono che avere i loro difetti, che pian piano impareremo a conoscere.

Dunque, come vediamo, di problemi ce ne sono, e a bizzeffe. Solo, sono di ordine molto diverso da quelli con cui siamo abituati a confrontarci, oltreché difficili da inquadrare nella loro realtà.

Come sempre tuttavia è il profitto a prevalere ed è quello a costituire l’elemento ultimo di discrimine: se su una cosa si può lucrare di più e meglio che su un’altra la si fa e basta. Tutto il resto deve soccombere, con le buone o le cattive: ogni altra considerazione di ordine tecnico, qualitativo, estetico ed etico è messa ai margini.

Tutte queste cose e diverse altre ci ha insegnato il digitale, nel corso dei suoi primi 40 anni di vita: il problema è nostro, dato che in maggioranza soverchiante ci ostiniamo a non volerne tenere conto.

Su tutto però domina un elemento di fondo: se il digitale è così perfetto come ce lo hanno dipinto, per quale motivo ai fini della sua affermazione si è reso necessario togliere di mezzo l’analogico? Un formato di cotanta perfezione non dovrebbe essere al di sopra di qualsiasi timore di concorrenza, più che mai quella portata da un sistema di riproduzione dipinto come inaccettabilmente obsoleto e le cui basi tecniche risalgono addirittura all’ottocento, con buona pace dei cantori della tecnocrazia?

Fine della prima puntata

 

 

 

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2 thoughts on “1983-2023: 40 anni di digitale

  1. Gentile Claudio,
    quindi dobbiamo aspettarci , che a breve, i detentori della proprietà dei tanto amati messaggi musicali (le major della musica?) non ci permetteranno più di ACQUISTARE CD e LP , perchè non li produrranno più?

    Grazie
    Riccardo

    1. Ciao Riccardo, grazie a te dell’attenzione.
      Riguardo agli LP non penso, dato che nella deprecabile forma attuale attribuita loro dalle major, la produzione di massa è ripresa da non molto e ha comportato probabilmente investimenti di un certo rilievo.
      La sorte dei CD potrebbe essere più incerta, ma nei loro confronti è la storia che come sempre ci dà il suo insegnamento.
      Anche nei momenti più bui dell’analogico, è stata proprio la quantità di materiale usato in circolazione a permettergli di sopravvivere. E’ da ritenere anzi che proprio il volume degli scambi in continua crescita abbia fatto drizzare le antenne a un’industria discografica già in piena crisi, proprio per le conseguenze causate dal digitale, e ovviamente affamata di introiti.
      Il CD oltretutto è meno incline, almeno per certi versi, a subire i danni dell’usura e non risente di quelli dello sporco. Dunque le sue potenzialità di dar vita a un fiorente mercato dell’usato sono ancora maggiori e ulteriormente favorite dal numero di lettori circolanti in grado di funzionare.
      E’ da ritenere pertanto che volendo continuare a usufruire del supporto fisico anche in ambito digitale, cosa da ritenersi assolutamente consigliabile se non persino doverosa per qualsiasi vero appassionato di musica, non si avranno difficoltà di sorta.
      Anzi per un periodo piuttosto lungo questa scelta sarà facilitata dai costi del supporto tendenti al calo, in quanto fuori moda.
      Ottimo motivo quindi per continuare a servirsene.

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