Antonio mi scrive:
Salve. Nel ringraziare per la saggezza (e la chiarezza) che attraverso questo blog dispensi agli audiofili, vorrei porre una domanda, per capire meglio il tema dell’interfacciamento braccio-testina.
Posseggo un braccio “The Wand” (un braccio unipivot in carbonio) con il giradischi omonimo, che suona con una testina Shelter 501 II. Al momento dell’acquisto, avevo ascoltato l’insieme dal rivenditore e verificai anche la compatibilità meccanica con i dati “di targa”. IL braccio, infatti, ha massa 12,5 mentre la testina ha massa 8,1 g e cedevolezza 9 x 10-6 cm/Dyne.
Tenuto conto di uno 0,5 g rappresentati dalle viti e, soprattutto, di un distanziatore del peso di 2 g, questi numeri, sulla carta, dovrebbero restituire una frequenza di risonanza pressocchè ottimale a 11 hz. Invece, usando il disco test HiFi News, che ha una traccia dove le singole frequenze sono indicate da una voce guida, il sistema braccio-testina entra in risonanza tra 15 e 14 hz.
Do importanza a misure e test, ma mi fido anche delle mie orecchie. Per cui questa cosa non mi toglie il sonno, anche perchè il mio prephono ha il filtro subsonico.
Ho provato però, per curiosità tecnica, ad appesantire la massa del braccio con un piccolo peso di circa 1 g, e la situazione non è cambiata. E questo mi pare contrario alla formula.
Mi chiedo allora cosa non ho capito delle formule per interfacciare al meglio braccio e testina, o se più banalmente qualcuno di questi dati dichiarati dai produttori non siano in verità sballati.
Un caro saluto
Ciao Antonio,
grazie della considerazione e dell’apprezzamento.
Inizierei senz’altro col dire che il tema relativo all’abbinamento fra braccio e testina resta uno tra i più trascurati e malcompresi tra i numerosi che riguardano la riproduzione da supporto analogico.
Ricapitoliamo allora per sommi capi i diversi aspetti che lo riguardano.
La combinazione tra le caratteristiche meccaniche del braccio e dell’equipaggio mobile della testina determinano, in fase di lettura del supporto, il prodursi di un picco di risposta. Di solito è posizionato in gamma infrasonica, ma in alcuni casi particolari può ricadere all’estremo inferiore della gamma udibile, con tutte le ripercussioni del caso.
Da questo trae origine il fenomeno, tale da destare la preoccupazione di diversi appassionati, riguardante il correre a vuoto dei woofer meglio visibile durante il tracciamento dei solchi muti di un qualsiasi disco, specie quando il volume è piuttosto alto.
Ovviamente per quel movimento dei woofer è necessaria un’erogazione di potenza da parte dell’amplificatore, che pertanto viene distolta dalla banda audio, determinando una riduzione della gamma dinamica utile. Nello stesso tempo il movimento eseguito dai woofer sottrae corsa utile del loro equipaggio mobile, ossia l’insieme bobina più membrana e relativi dispositivi di sospensione e centratura, dalla disponibilità relativa all’emissione del segnale udibile.
Ampiezza del picco di risposta e valore della frequenza a cui si presenta sono determinati in prima istanza dalle caratteristiche fisiche di braccio e testina, in particolare dalla massa del primo e dalla cedevolezza dell’equipaggio mobile, ossia dell’insieme formato da cantilever, relativa sospensione e magneti, o bobine a seconda della tipologia, della seconda. La cedevolezza può essere vista in pratica come la tendenza allo spostamento dell’equipaggio mobile della testina sotto un determinato sforzo, idealmente simile a quello che avviene nel seguire le modulazioni incise nel solco. In altri termini la si potrebbe considerare come la resistenza meccanica che oppone per muoversi dallo stato di quiete.
La relazione tra questi due parametri è abbastanza intuitiva: una testina di cedevolezza maggiore, dato espresso in cm/dyne, di solito per un segnale di frequenza conosciuta e come tale indicato nelle tabelle diramate dai vari costruttori, avrà un equipaggio mobile più “morbido” e quindi avrà bisogno di un braccio di massa inferiore rispetto a una testina più “dura”, bisognosa invece di una massa maggiore che la induca a restare al suo posto e a tracciare più o meno correttamente la modulazione presente nel solco.
Dunque, le testine di cedevolezza elevata vogliono un braccio di massa contenuta mentre le testine di cedevolezza minore necessitano di un braccio di massa più consistente.
Stabiliti questi principi di base, veniamo al quesito espresso da Antonio. Nello specifico, a occhio direi che la cedevolezza della testina sia più bassa di quella adatta per un braccio di quella massa. Se possibile, inoltre, sarebbe da eliminare qualsiasi elemento metta in discussione la continuità dell’accoppiamento meccanico tra fonorivelatore e portatestina, tantopiù se questo è perfettamente integrato nella canna del braccio come nel caso in questione.
Ogni elemento spurio, a questo livello, ha conseguenze distruttive per l’estrazione delle informazioni dal solco e in conseguenza per la qualità sonora. Se poi questo comporta un ulteriore aggravarsi del problema relativo alla combinazione tra massa del braccio e cedevolezza della testina, forse è il caso di pensare a una sostituzione della seconda con una più indicata.
Sotto questo aspetto ci sarebbe da considerare anche un elemento di fondo, da ritenere conseguente alla condizione attuale dell’audio analogico.
Da un lato, ancora una volta, la sua origine andrebbe ascritta all’analfabetismo di ritorno conseguente al ventennio di dominio incontrastato del digitale: se già all’epoca d’oro dell’analogico la questione della relazione tra le caratteristiche meccaniche di braccio e testina era materia alquanto complessa, oggi è diventata pressoché arabo.
Dall’altro vi è la necessità di semplificazione imposta dalla realtà odierna del mercato, in cui un qualsiasi prodotto provvisto di senso sotto l’aspetto commerciale deve avere le carte in regola per una diffusione di massa. Pertanto tutto deve andare bene con tutto, il che ha come prima conseguenza la messa ai margini di qualsiasi prodotto si discosti dalla media. Ne deriva la tendenza a realizzare testine “dure” a sufficienza per abbinarsi in maniera almeno decente con qualsiasi braccio.
In termini più generali andrebbe tenuto conto di quel che invece si tende a trascurare maggiormente con il passare del tempo, ossia che a fronte di una teoria, per quanto inoppugnabile, c’è poi una pratica con tutte le sue variabili più o meno note e calcolabili, insieme a quelle non considerate per un motivo o per l’altro, e a quelle che si trascurano minuziosamente, magari perchè potrebbe non fare comodo tenerle in conto.
Ai tempi d’oro dell’analogico c’era chi pubblicava i grafici relativi all’andamento della risposta in gamma infrasonica delle testine e dei bracci sottoposti a prova tecnica. Al di là del tempo necessario ad eseguirle, dette prove comportavano la presenza di un equipaggiamento di prim’ordine, come tale parecchio costoso, oltreché delle capacità di manovrarlo in modo corretto. Basi sismiche, sonde di rilevazione, frequenzimetro, dispositivi di scrittura, dischi test di provenienza certificata ed altro erano adibiti allo scopo, con i numerosi problemi che derivavano dalla necessità di mantenere il tutto in taratura perfetta al fine di ricavare dati che avessero una qualche attinenza con la realtà. Sia pure solo quella dell’istante in cui si eseguiva la misurazione.
E’ evidente che tutto questo non possa far parte dell’equipaggiamento dell’appassionato comune. Anche se lo avesse, e fosse in grado di utilizzarlo in maniera corretta, cosa accadrebbe? Che passerebbe parte rilevante del tempo dedicabile all’ascolto della musica nel tentativo di eseguire le prove necessarie atte a procurarsi i dati in base ai quali minimizzare il problema, ovviamente a partire dalla verifica delle combinazioni date da un certo numero di bracci e di testine.
Con quali spese e quali conseguenze? Non è difficile immaginarlo. Così alcuni hanno dato alle stampe dischi-test o presunti tali con cui eseguire una verifica spannometrica del problema, che per forza di cose non può avere la precisione, la risoluzione e soprattutto il controllo delle condizioni operative di un banco di misura accuratamente allestito, tarato e utilizzato.
Anzi vi sono numerose probabilità che da esso, e quindi dall’attendibilità dei dati che sarebbe possibile ricavarne, quanto a disposizione del comune appassionato rimanga ben lontano. Per conseguenza le indicazioni che è possibile trarre dall’impiego di certi dischi, eseguito in ambito domestico, hanno un margine di aleatorietà talmente ampio da perdere di qualsiasi significato.
Innanzitutto per le caratteristiche del supporto stesso. Già per la sua conformazione e le inevitabili imperfezioni, conseguente all’esigenza di venderlo a un prezzo che non sia improponibile per il comune appassionato, potrebbe dare luogo a fenomeni potenzialmente scambiabili per quelli su cui tentiamo di indagare coi mezzi che abbiamo a disposizione, per forza di cose alquanto impropri.
Non vanno poi trascurate le condizioni in cui andiamo a eseguire la verifica. Per quanto valido, efficace e costoso, un tavolino per giradischi non è e non sarà mai una base sismica. Tanti poi non hanno nemmeno quello e poggiano il giradischi sulla prima mensola che capita. Cosa garantisce che non sia proprio lo scarso isolamento della base su cui è poggiato il sistema di cui vogliamo indagare le caratteristiche e il combinato disposto con le caratteristiche summenzionate del disco prova a innescare o solo a facilitare l’insorgere del problema descritto?
Questo aspetto lo ritengo fondamentale, perché al di là della loro componente ingannevole, che le rende atte soprattutto a prospettare una realtà inesistente, e a quella ancora peggiore inerente la parzialità dei fenomeni che vorrebbero indagare, praticamente il nulla nei confronti della quantità enorme di fenomeni che hanno luogo nell’ambito della riproduzione sonora e della scala ancora maggiore su cui si esprimono i relativi parametri, si fa presto a parlare di misure e ancor peggio a riempirsene la bocca.
Proprio come si vede fare sempre più spesso, e senza neppure capire qual è il loro significato, secondo una tendenza regressiva perfettamente in linea con la realtà dei nostri tempi.
Da qualche tempo ormai lo scientismo è stato promosso a nuova religione. Oltretutto unica e insindacabile, quindi obbligatoria, quando invece tra le religioni vere e proprie vi è sempre stata ampia scelta. Il giro d’affari di tutto quanto vi ruota attorno è sostanzialmente incalcolabile. Strano allora che non si sia ancora inventata una misura adatta a indicarne l’ammontare, sia pure con l’approssimazione del caso.
Ben altro invece è sapere cosa si sta effettivamente misurando e ancor più comprendere le insidie innumerevoli che si verificano lungo il percorso che porta alla misurazione e quelle legate all’atto stesso con cui la si esegue. Invece si vorrebbe credere sia intrinsecamente tendente alla perfezione, comunque la si ottenga, e su questo, anche riguardo a quanti ci marciano, si fa presto a perdere il conto.
Dunque ciò che una determinata corrente di pensiero vorrebbe sia sinonimo di perfezione assoluta e di infallibilità, intesa come dogma divino, è invece quanto di più incerto si possa immaginare. Oltretutto per una serie di elementi rispetto ai quali è già difficile farsi un’idea, figuriamoci tenerli sotto controllo.
Fin qui abbiamo considerato soltanto gli aspetti riguardanti la prassi di verifica del fenomeno e le incertezze ad essa legate, con ogni probabilità in maniera parecchio parziale. L’elemento più importante in questa sede, tuttavia, non è un’elencazione spinta al millesimo dei problemi inerenti all’atto della misurazione provvista di senso compiuto, ma più semplicemente l’essere consapevoli di ciò a cui ci troviamo di fronte.
Ci sono poi le variabili inerenti il soggetto che vorremmo misurare, tali da comportare se possibile una quantità di incertezze ancora maggiore.
Partiamo dall’equipaggio mobile della testina: il suo sistema di sospensione, responsabile principale del dato di cedevolezza, è composto da una serie di elementi, ciascuno dei quali caratterizzato inevitabilmente dalle sue tolleranze, rese più significative dalle loro dimensioni minuscole e dalla conseguente difficoltà di allestire un sistema di assemblaggio capace di produrre esemplari tutti perfettamente uguali. E’ evidente pertanto che il dato complessivo inerente la cedevolezza dichiarata dal costruttore non possa che essere di massima, rispetto al quale il dato reale dell’esemplare numero uno o di quello numero mille o diecimila dello stesso modello di testina possa differire in maniera rilevante.
Inoltre, essendo realizzato sostanzialmente a partire da materiali gommosi, è oltremodo probabile che la sua elasticità subisca una variazione, oltretutto difficilmente calcolabile a priori, tra l’esemplare appena uscito dalla linea di montaggio sottoposto a verifica dal costruttore, e quello a disposizione dell’appassionato, sicuro reduce da una serie di vicissitudini più o meno documentate, tra cui il tempo in cui è rimasto nei magazzini di costruttore, distributore e rivenditore e la variabilità delle relative condizioni.
La stessa composizione dei materiali con cui è realizzata la sospensione dell’equipaggio mobile, poi, può causare un comportamento variabile se non del tutto contrario tra un modello e l’altro nel medio o lungo termine. A questo riguardo l’esperienza insegna che alcune testine tendono a indurirsi invecchiando, altre invece ad ammorbidirsi fin troppo, proprio in funzione delle caratteristiche dei materiali con cui è realizzata la sospensione.
Non solo, le variazioni di temperatura e di umidità che si verificano nello stesso ambiente domestico durante il corso degli anni influenzano il dato di cedevolezza, attribuendogli un elemento d’incertezza che per quanto sia trascurato più o meno consapevolmente, li sta e li rimane.
Questo solo per uno dei due elementi che concorrono alla formazione del problema, dato che poi c’è il braccio, con il cavetto interno che tende a modificare le sue caratteristiche meccaniche nel corso del tempo, se si pensa al materiale isolante da cui è rivestito, o alla sensibilità al mutare delle condizioni ambientali dei cuscinetti su cui è articolato, nella stragrande maggioranza dei bracci, e dei lubrificanti che favoriscono lo scorrimento delle loro parti costituive.
Le variabili dunque sono innumerevoli, considerando anche la possibilità che la variazione indotta nelle condizioni di lettura non sia sufficiente a far si che il sistema oltrepassi il livello di soglia necessario a rilevarla con il metodo utilizzato. Ossia proprio quello che sorprende Antonio.
Dunque il problema esiste ed è parte di quelli fisiologici dell’analogico, tali da aver generato la falsa idea che una volta rimosso l’elemento di contatto fisico tra supporto e dispositivo di lettura, insieme a tutti gl’innumerevoli motivi di incertezza funzionale, si sarebbe arrivati a disporre di un sistema perfetto.
Pia illusione, dato che anche senza tutto quel fardello, sia pure dopo tanti anni, il digitale ancora non riesce ad avvicinare la naturalezza dell’analogico. E, a questo punto, si può dubitare vi riuscirà mai.
Inevitabile allora considerare che deve essere gravato da problemi ancora maggiori, malgrado la lettura su cui è basato sia di tipo ottico, vendutaci a suo tempo come la panacea di ogni male. Quel che sembra paradossale, inoltre, è che proprio laddove è stato eliminato il concetto stesso di lettura, come nella somministrazione da remoto di contenuti audio o nella riproduzione da dispositivi di memoria a stato solido, le cose vadano ancora peggio.
Pertanto è inevitabile chiedersi se quel che nella limitatezza dei nostri sensi e delle nostre capacità concettuali e di astrazione siamo abituati a vedere come una limitazione, e una fonte di difetti in numero incalcolabile, non sia invece il vero asso nella manica del sistema di riproduzione.
Questione di prospettive.
Se così fosse, diverrebbe inevitabile, come in effetti avviene, che qualsiasi dispositivo atto a minimizzare quei difetti vada in realtà a snaturare la funzione stessa e i risultati del procedimento di lettura. Ossia proprio quello che il nostro udito insiste a suggerirci ma la mente, specie quella di certuni, è ancora più testarda a non voler ascoltare.
Il primo di essi lo ha menzionato proprio il nostro amico, il filtro subsonico. Come chiunque sia dotato di un udito di funzionalità media e di un impianto di selettività adeguata, il filtro subsonico riesce in alcuni casi a ridurre l’entità del problema più grossolano, il correre a vuoto dei woofer. Ma come sempre per tutto quanto realizzato dall’uomo, per un male che risolve ne crea almeno altri dieci, sovente più sottili e di valutazione incerta, ma non per questo meno significativi.
Il problema numero uno di quei dispositivi è che per rimuovere un difetto se vogliamo marginale, posizionato in un punto ben preciso della gamma di frequenze, vanno a penalizzare in maniera irrimediabile tutto l’insieme della banda udibile. Ponendo oltretutto lungo il percorso del segnale una serie di ostacoli, come interruttori, cablaggi e relative saldature, potenzialmente esiziali nei confronti del segnale debolissimo che esce dalla testina. Come tale, notoriamente, è nella condizione di vulnerabilità maggiore in assoluto.
Se questo lo si aggiunge agli effetti propri dei componenti passivi con cui si realizza il filtro, arrivare alla conclusione tanto frequente nel mondo reale, ossia che la medicina è spesso peggiore del male che vorrebbe curare, oltretutto di parecchio, è sostanzialmente inevitabile.
Ci sarebbe poi un secondo sistema, operante sull’elemento meccanico anziché su quello elettrico nei cui riguardi interviene il filtro subsonico. Si tratta del cosiddetto smorzatore, dispositivo ormai dimenticato. In parte ancora una volta in conseguenza dell’analfabetismo di ritorno causato dal ventennio di predominio pressoché assoluto del digitale. Per il resto a causa della sua complessità realizzativa e d’impiego, del tutto incompatibile con le esigenze di semplificazione per un qualsiasi prodotto attuale.
Alcuni bracci commercializzati nell’epoca di massimo fulgore dell’analogico ne erano equipaggiati. Si tratta in pratica di una vasca in cui è presente un fluido di viscosità variabile, in genere olio siliconico, all’interno del quale pesca una paletta, anch’essa di dimensioni variabili, a sua volta collegata meccanicamente alla canna del braccio, di solito nelle vicinanze dell’articolazione. Il sistema, una volta tarato e messo a punto come si conviene, cosa già di per sé stessa non proprio facilissima, risulta in effetti particolarmente efficace ai fini che c’interessano: al posto del vistoso picco in gamma più o meno infrasonica, la risposta è caratterizzata da una piattezza non solo esemplare ma persino insperata.
Problema risolto, dunque? Si, ma solo sotto l’aspetto più vistoso: all’impeccabilità del grafico di risposta, fuori discussione, corrispondono problemi non proprio trascurabili. Innanzitutto quelli inerenti il vincolo riguardante la libertà di movimento del braccio, che all’atto pratico può essere visto come un aumento particolarmente sostanzioso della sua massa. Questo lo rende pressoché inutilizzabile con le testine di cedevolezza media e alta, che dovendo vincere una resistenza molto maggiore nello spostare il braccio da un estremo all’altro nella sua corsa lungo la superficie del disco, dal margine esterno alle vicinanze dell’etichetta centrale, vengono gravemente penalizzate nelle loro doti sonore e in quelle relative alla capacità di tracciamento. Queste sono ovviamente maggiori quanto più il cantilever è libero da vincoli meccanici di sorta che tendano a gravare sul suo movimento.
Quanto descritto è istruttivo per chiunque non intenda limitarsi a osservare il lato più superficiale di una qualsiasi questione, che nel fenomeno specifico è dato dalla già rilevata piattezza della risposta in frequenza del sistema di lettura, che si andrebbe a interpretare come sinonimo di perfezione assoluta. Poi però quando si passa dalla teoria alla concretezza del mondo reale si rivela molto meno funzionale, finendo col mettere in discussione la possibilità stessa di compiere la funzione desiderata, ossia la lettura del supporto fonografico nelle condizioni di maggiore efficacia.
Quale insegnamento possiamo trarre da tutto questo? Forse il primo è che nel mondo reale i problemi esistono e spesso la soluzione più indicata è imparare a convivere con essi. Possibilmente cercando di fare in modo che restino in proporzioni contenute al loro presentarsi, tenendo appunto a mente le motivazioni a cui devono la loro origine. Quindi cercheremo di eseguire l’abbinamento tra braccio e testina nella maniera più adatta a trarre il meglio della loro funzionalità, secondo i principi che abbiamo visto. Primo fra tutti proprio quello inerente l’abbinamento corretto tra massa del braccio e cedevolezza della testina. Avendo presente, soprattutto riguardo alla seconda, che non si tratta di un valore assoluto ma conseguente a un’ampia quantità di variabili.
Che poi l’industria di settore faccia del suo meglio per rendere irrisolvibile questo problema, mediante la tendenza all’uniformità del prodotto per le solite esigenze di ordine commerciale, non mi sembra ci sia molto di che stupirsi. Sono decenni che l’intero comparto della riproduzione sonora amatoriale passa tutto il suo tempo a spararsi sui piedi, al punto che ormai si regge solo su dei moncherini.
E si vede eh, altroché.
Vorrei aggiungere un solo parametro che può risultare facilmente intuibile: la differenza sostanziale fra massa e peso. Se possediamo due bastoni di egual peso ma uno di mezzo metro e il secondo di 3 metri, tenendoli singolarmente in mano, quale risulterà più facilmente gestibile muovendo il polso? Complimenti per l’esposizione ,come sempre molto equilibrata.
Ciao Alberto, grazie dell’apprezzamento e del contributo.
In effetti la differenza tra massa e peso ha la sua importanza, ma andrebbe considerato che quest’articolo ha solo il compito di rispondere al quesito di Antonio, riguardante un aspetto di potenziale interesse per numerosi appassionati.
La differenza cui fai riferimento è stata analizzata diverso tempo fa nella sede opportuna, ossia negli articoli dedicati a bracci e testine.
A presto