
Ognuno ha le sue idee e anch’io, nel mio piccolo, ho ovviamente le mie. Tra quelle riguardanti il settore della riproduzione sonora, una delle prime è che se si ambisce a mettere insieme un impianto capace di dare vere soddisfazioni, ossia un’idea almeno vaga di trovarsi di fronte all’evento reale, la prima cosa da fare è evitare i Quattro dell’Apocalisse.
Non mi riferisco a uno dei classici del western all’italiana, genere che nella completa assenza degl’intenti celebrativo-propagandistici dell’epopea coloniale trovava il miglior punto di distinzione e contrapposizione sostanziale agli originali di provenienza hollywoodiana, dei quali era invece un elemento imprescindibile.
Sto parlando invece, dei marchi che nel nostro settore hanno il più fulgido blasone. in rigoroso ordine alfabetico, Accuphase, Audio Research, Mark Levinson e McIntosh.
Perché li definisca in modo tale è dal mio punto di vista piuttosto semplice: con le apparecchiature di quei marchi si può spendere qualsiasi cifra, ma più si spende e più ci si allontana dal concetto stesso di alta fedeltà, che come dovrebbe essere noto non è una definizione di fantasia o puramente casuale.
Si chiama così invece perchè ha insita e imprescindibile la domanda “a che cosa?”.
Purtroppo è destinata a rimanere senza risposta con le apparecchiature dei Quattro, che poi in realtà sono ben di più. In primo luogo perché rispecchiano come meglio non si potrebbe la massima del “Primo, non prenderle”.
Sembrerebbe improntata a un criterio di prudenza commendevole, e non a caso è nei fatti la legge fondamentale della squadra di calcio e in genere di qualsiasi sport: quella che definisce inutile fare un bel gioco o comunque esibire un atteggiamento agonisticamente valido se poi si torna a casa con zero punti.
Se a livello utilitaristico ha una sua attendibilità, nell’ottica puramente sportiva che nell’irrecuperabile obsolescenza del mio modo di vedere le cose si rifà allo spirito decoubertiniano, è quanto di peggio si possa immaginare.
Chiunque abbia ancora un minimo di contatto tra i suoi piedi e il suolo terrestre, sa perfettamente che non si può sempre vincere. Talvolta si pareggia o si perde. La legge delle probabiltà dice che proprio queste due ipotesi sono destinate ad avverarsi nella maggioranza dei casi, pari al 66,6%. Allora se si è destinati a perdere, almeno qualche volta, tanto vale farlo con onore e soprattutto conservando e mettendo in pratica i propri valori.
Mille volte meglio una sconfitta, anche pesante, su quelle basi che una vittoria ottenuta con l’inganno.
Anche se oggi s’insegna fin dalla più tenera età che l’essenziale è vincere, con qualsiasi mezzo.
Proprio così facendo d’altronde si è riusciti a ripercorrere a ritroso nel giro di qualche decennio la storia dell’evoluzione sociale e intellettiva del genere umano, sviluppatasi nel corso di secoli e millenni. Tornando al feudalesimo dove il servo del signorotto ha diritto di vita o di morte sui pezzenti a lui sottoposti, intesi nel senso letterale del termine, ossia di quanti precipitati in completa povertà devono rattoppare con pezze i soli abiti consunti in loro possesso, e peggio all’età della pietra, in cui c’è una sola legge: quella del più forte.
Oggi del resto vige unica e incontrastata quella del denaro, che in pratica è la stessa cosa.
Dimostrazione definitiva di quale sia l’esito dei destini magnifici e progressivi sventolando i quali è stato fatto credere che la cosa più intelligente ed efficace da fare fosse mettere delle volpi a guardia dei pollai e dei lupi a proteggere le greggi umane. O altrimenti, seguendo lo stesso principio, designando dei conti e dei draghi a baluardo di masse vittima di un’offensiva mediatica a carattere terroristico-patologizzante senza precedenti di sorta e spinta oltre l’inverosimile.
Nell’ambito di nostra pertinenza il primo non prenderle è quanto di più devastante si possa immaginare. Eppure è l’atteggiamento tipico dei marchi caratterizzati dal blasone più altisonante. Non solo dei Quattro, per quanto siano i più in vista della tendenza che li include, ma anche di svariati altri. Coi loro prodotti, quindi, ottenere determinati risultati diventa molto più difficile e di fatto praticamente impossibile.
Il loro comandamento numero 1 è che un qualsiasi impianto comprenda le apparecchiature da essi realizzate non debba presentare nella sua sonorità un qualsiasi elemento che possa essere visto da un qualsiasi utilizzatore, esperto o meno che sia come un difetto, benché minimo.
Per questo motivo a tali apparecchiature viene attribuita la timbrica che tutti conosciamo e la pubblicistica di settore, irrimediabilmente azzerbinata agl’interessi del più forte, fa credere da sempre che sia il solo e unico modo in cui le apparecchiature migliori debbano suonare. E che quel suono, pertanto, sia sinonimo stesso della più alta qualità di riproduzione.
Quindi un suono spento, tronfio, senza vita né energia, immobilizzato in una camicia di forza, palesemente e irrimediabilmente gravato dai limiti che rendono riconoscibile fin dal primo istante la sua realtà, che è appunto quella tipica della riproduzione. Tale proprio perché priva della minima parvenza di realismo.
Ci troviamo così di fronte alla negazione stessa del concetto di alta fedeltà. Eppure quella sonorità è il tratto distintivo degli oggetti ritenuti da tutte le fonti, in particolare quelle allineate, l’espressione più alta di tale concetto se non addirittura la sua sublimazione. Altro paradosso eccellente per un settore che nella loro produzione ai ritmi più serrati ha trovato il terreno ideale su cui esprimere l’efficacia migliore. Nello stesso tempo, dimostrazione ennesima di questa realtà sconcertante..
In sostanza, per far si che nessun elemento della riproduzione sia riconoscibile come sgradevole o difetto da un qualsiasi ascoltatore, in particolare l’acquirente potenziale delle apparecchiature di quei marchi, spesso più interessato a porre in evidenza le sue capacità di spesa o il suo status di appassionato di categoria superiore, che vorrebbe certificare appunto col possesso di quel prodotto o di qualsiasi altro sia abbastanza prestigioso, si procede alla cancellazione implacabile di tutto quanto non sia un tratto elementare del segnale di partenza.
Così facendo, mediante scelte tecniche opportune si elimina la fonte di tutto quanto si potrebbe ritenere un difetto, senza comprendere o voler considerare che in realtà se ne produce uno che è enormemente maggiore. E possibilmente è il più grande di tutti, almeno in hi-fi: l’assenza totale di una qualsiasi attinenza all’evento originario, e insieme ad essa di qualsiasi elemento da cui possa derivare, sia pure per motivi imperscrutabili, la benché minima parvenza di realismo.
C’è poi un altro aspetto, anch’esso fondamentale: in questo mondo nulla è a costo zero, quindi anche l’eliminazione di cui stiamo parlando ha le sue conseguenze, tra le quali la più appariscente è proprio la sensazione che la sonorità che fuoriesce dall’impianto sia intrappolata in una sorta di camicia di forza. Nei confronti della quale lo sforzo di liberarsene, da parte dell’emissione, è ben percettibile, contribuendo ancor più a rendere riconoscibili i tratti che derivano da quel conflitto.
Ecco spiegato il motivo di certe sonorità tanto riconoscibili quanto deteriori.
Il problema allora sta non tanto in quella tipologia di suono, per la quale tanti spendono somme folli e personalmente non la vorrei manco regalata. D’altronde ognuno infonde alle proprie apparecchiature il suono che predilige. Lo si materializza invece nel momento in cui per mezzo di una campagna ben orchestrata, eseguita per mezzo di un battage propagandistico senza requie che va avanti da decenni, si convincono le persone che sia proprio quello il suono “giusto”, e che nulla si discosti da esso vada preso in considerazione.
Che le cose stiano proprio così lo dimostrano il senso di intima soddisfazione, il sussiego compiaciuto e l’aria di superiorità che appare evidente nell’espressione nel tono di chi, a domanda, risponde ho il McIntosh, il Mark Levinson, L’Audio Research, l’Accuphase eccetera.
Gli appassionati che riconoscono in questo il loro atteggiamento stiano tranquilli, dato che sono in buona compagnia. Come ad esempio quella di alcuni tra i più riveriti esponenti del Coro Degli Entusiasti A Prescindere, dagli scritti dei quali emana l’ammirazione cieca e assoluta o meglio la vera e propria idolatria nei confronti dei prodotti realizzati dai marchi in questione.
D’altronde è proprio partendo da tale stato d’animo che li si può descrivere nel modo ritenuto più adeguato.
Quando parlo di cose simili mi torna sempre alla mente il fatterello accaduto ormai molti anni fa.
Arrivo in redazione, segnatamente nella saletta di ascolto, dove era presente un certo numero di coristi, i più noti, riveriti e carichi di boria, intenti all’ossequiente e genuflessa venerazione dell’impianto che stava suonando, in verità in maniera piuttosto inadeguata, a essere buoni.
A costoro però doveva sembrare il non plus ultra della qualità sonora, date le espressioni rapite dipinte sui rispettivi volti, a testimoniare che stavano vivendo la fase apicale della loro estasi onanista, della quale nei loro scritti vanno poi a ricamare le cronache rosa.
Non so se per dono di natura, esperienza o altro, all’epoca avevo già sviluppato una certa disposizione a cogliere in breve i tratti essenziali di una qualsiasi sonorità. Pertanto non passano manco tre secondi dal mio ingresso nella saletta che me n’esco con un “Ma… Non sentite quanto è moscio?”
Credo che valesse la pena trovarsi li solo per osservare il tramutarsi subitaneo di quell’espressione rapita nella tracimazione dell’odio più viscerale si possa concepire, mentre gli occhi dei fedeli cui avevo osato interrompere il sacro rituale idolatrico sembravano lanciare coltelli avvelenati a quattro a quattro. Ovvio bersaglio l’incauto che ha osato esprimere con tanta libertà il proprio pensiero. Quel che è più grave, cogliendo nel segno.
Come si è permesso, costui, di far notare in modo tanto brusco una realtà così palese da essere innegabile, eppure cancellata nella percezione degli astanti dal sentimento di adorazione che qualsiasi vero appassionato non può che provare, ed esibire, dinnanzi ai totem presso i quali si raccoglie, nell’attesa di essere permeato dall’illuminazione di quell’esperienza mistica?
Può bastare pochissimo per farsi odiare e quelle persone la mia uscita se la devono essere legata al dito. Da quel giorno il loro atteggiamento nei miei confronti è diventato ancor più scostante e hanno approfittato di ogni occasione per farmela pagare. Innanzitutto per mezzo del falso, della delazione e della pubblica diffamazione.
Ma senza mai poter esibire la prova materiale delle loro bugie bambinesche.
Per quel tramite hanno creduto di screditarmi, quando invece è in realtà la dimostrazione, questa si tangibile, della loro statura morale e intellettiva.
Al di là del fatto in sé, questo dimostra che certe valutazioni sono innanzitutto una questione di parametri. Se l’esperienza che si è fatta non permette di costruirsene di migliori, e neppure si riesce a immaginare che possano esistere orizzonti al di là di quelli tanto ristretti nei quali la si è giocoforza rinchiusa, in quanto privi della forma mentale necessaria non dico a mettere in discussione ma almeno a valutare l’attinenza alla realtà di alcuni dogmi, c’è ben poco da fare.
Essendo quei dogmi incisi nella roccia peggio delle tavole di Mosè, e oltretutto rafforzati dalla presunzione conseguente all’essere stati cooptati in determinati ruoli, metterli in discussione non è purtroppo cosa facile.
L’esigenza della verifica summenzionata, d’altronde, è resa inutile proprio dal blasone del marchio e dal nobile aspetto del prodotto che può inalberarlo sul suo frontale, essi stessi certificazione di una perfezione tecnica, formale, e per conseguenza sonora, al di sopra di ogni possibile dubbio.
Del resto se la stragrande maggioranza delle persone attribuisce alle apparecchiature di certi marchi una superiorità incontrovertibile e tale da portarle alle soglie di un’illusoria perfezione, un motivo ci sarà pure.
E’ ben noto infatti che un’idea la si ritiene plausibile non per i principi o sugli elementi materiali su cui si basa, ma per il numero delle persone che le attribuisce validità.
L’eccezione conferma sempre la regola?
Il destino è per sua indole beffardo, proprio come la natura lo è stata nei confronti di certi personaggi. Così si è presentato qualche tempo fa con l’occasione di rivedere le mie idee riguardanti I Quattro dell’Apocalisse. Lo ha fatto nelle vesti di un appassionato che mi chiede lumi riguardo alla sua amplificazione a due telai, formata appunto dalle apparecchiature cui è dedicato questo articolo.
Le aveva appena acquistate, ma era rimasto fortemente deluso dall’assenza delle peculiarità soniche che ci si attenderebbero da oggetti del genere. Era preoccupato inoltre da una sonorità alquanto tendente al gracchiante che faceva pensare a un qualche malfunzionamento.
Ben ti sta, potrebbe dirgli qualcuno, non sai che ti sei andato a pescare proprio le pecore nere dei due marchi, e per quello costano (relativamente) poco? Soli passi falsi in una carriera così fulgida da essere costellata soltanto da grandi successi, che se non sono stati tali è solo perché erano enormi o addirittura giganteschi?
L’SP4 è notoriamente guardato dall’alto in basso dagli ammiratori del marchio perché non è a valvole ma a stato solido. Peccato inemendabile che lo esclude dall’Olimpo Ufficialmente Certificato delle apparecchiature audio, come sempre a cura del Coro Degli Entusiasti A Prescindere, e lo relega in una sorta di limbo, di vorrei ma non posso.
Anche se sprovvisto di controlli di tono, la sua realizzazione è piuttosto complessa, pur se molto meno rispetto ai preamplificatori Audio Research più apprezzati, in alcuni dei quali ci sono mandate di cavo per qualche decina di metri e forse più.
Il passato dell’esemplare di SP4 pervenutomi nel modo descritto dev’essere stato alquanto travagliato. Lo testimoniano i quantitativi considerevoli di residui oleosi da bomboletta disossidante con cui erano cosparsi lo stampato principale e i componenti posti su di esso. Sui connettori del pannello posteriore, poi, le formazioni di ossido erano tali da averli del tutto opacizzati, mentre le loro gole erano fortemente annerite. Tra l’altro per via del loro isolante di tipo ceramico è risultato impossibile ripulirli del tutto.

Solo una volta ho visto di peggio, in un’apparecchiatura di cui ci siamo occupati qualche tempo fa.
In tutta sincerità mi riesce difficile capire come si possa avere tanta trascuratezza per qualcosa che a suo tempo è costato bei soldi e quindi meriterebbe di essere mantenuto non dico in condizioni perfette, ma almeno con un minimo di cura.
Anche perché il segnale è proprio attraverso quei connettori che è costretto a passare. Quindi ossidazioni similmente stratificate, notoriamente poco favorevoli alla conduzione elettrica, non possono che deprimere ulteriormente condizioni di funzionamento già di per sé lontane dall’esemplare.

MC 502
L’MC 502 è poco apprezzato dai fedelissimi del marchio per via di una mancanza intollerabile: non ha gli occhioni blu.
Si tratta pertanto di un McIntosh degenere, appartenente a una razza inferiore e pertanto del tutto indegno di far parte di una dinastia di cotanta nobiltà.
Inoltre ha solo 50 watt per canale, qualcosa di assolutamente intollerabile di fronte al geometrico dispiego di potenza tipico degli stato solido dello stesso marchio. Al quale peraltro corrisponde una carenza di energia riversata sul carico tale da destare interrogativi destinati già in partenza a non trovare risposta.
Peggio che peggio, non dispone neppure di trasformatori di uscita, mentre gli stadi finali impiegano soltanto una coppia (aaargh!) di bipolari per canale.
Se di un McIntosh si tratta, insomma, si tratta di qualcosa irrimediabilmente fuori dagli standard del marchio.
Osservato con occhi più imparziali, quello che colpisce dell’MC 502 è l’inadeguatezza del cavo di alimentazione. Non solo è sottilissimo, da cui per forza di cose una sezione del materiale conduttore del tutto insufficiente, ma ha anche una copertura con materiale poco resistente, quindi facile a scoprirsi.
Già in passato, del resto, ho visto McIntosh più o meno coevi, ma di ben altra potenza, che utilizzavano un cavo di alimentazione identico a questo.
Ma che importa: apparecchiature siffatte, nate apposta per provocare l’estasi mistica, non possono che ricevere la quantità di energia atta al loro funzionamento per opera dello Spirito Santo.
Per il resto, l’MC 502 pervenutomi sembrava anch’esso essere reduce da lunghi periodi di abbandono, come suggeriva lo stato dei connettori d’ingresso.
Sulle uscite, invece, il suo possessore aveva provveduto a montare degli adattatori, visibili nelle foto pubblicate, tali da permettere l’impiego di cavi terminati con banane sui risicati morsetti a vite di primo equipaggiamento. Tali da far pensare che all’epoca il problema della connessione con le altre apparecchiature dell’impianto non fosse tenuto in considerazione alcuna, come se la funzionalità dell’elettronica e le relative modalità d’impiego si esaurissero entro il suo telaio.
Il frontale però è quello classico del marchio, anche nell’assenza imperdonabile dei vu-meter. Infatti è retroilluminato e al posto degli strumenti ci sono due coppie di spie. La prima s’illumina in verde alla presenza di segnale, la seconda, rossa, si accende quando i finali vanno in sovraccarico.
Se gli occhioni blu non ci sono, le loro funzioni essenziali sono comunque assolte.
La dotazione comprende due potenziometri di livello e l’interruttore a manopola che inserisce gli altoparlanti sulle uscite. Al loro proposito viene spontaneo chiedersi se tale presenza sia dovuta a una reale convinzione riguardante la loro indispensabilità oppure al timore che in assenza il frontale sarebbe apparso troppo vuoto, soprattutto per un McIntosh.
La densità di controlli, infatti, suggerisce essa stessa la capacità e la sapienza del possessore del prodotto di cui fanno parte, per il fatto che lo si reputa in grado di comprendere, e controllare, funzioni imperscrutabili per il comune mortale.
Dell’influsso che per forza di cose hanno sulla qualità del segnale, non è dato sapere se ve ne fosse o meno contezza o se invece lo si ritenesse un male necessario atto a evitarne uno peggiore, stante nell’aspetto anonimo che avrebbero avuto le apparecchiature qualora ne fossero sprovviste.
L’intervento
Con l’impiego prolungato nel corso degli anni i condensatori elettrolitici, che sono sorgente e serbatoio di energia dell’apparecchiatura, tendono per forza di cose a esaurirsi. A questo proposito basta leggere le tabelle relative a detti componenti per apprendere che la maggior parte di essi lo fa nel giro di 2-3000 ore d’impiego continuativo ai valori di tensione ammessi, e non di rado anche meno. Solo una cosa ne accorcia ulteriormente la vita, il lasciarli inattivi per lunghi periodi di tempo.
Le condizioni delle apparecchiature in questione davano l’idea che avessero trascorso numerosi anni della loro vita in stato di abbandono, quindi si rendeva consigliabile, la sostituzione integrale di tali componenti.
Del resto anche il primo ascolto ha denunciato nettamente le condizioni precarie in cui si trovavano le apparecchiature in questione, data la sonorità spenta e priva di energia cui hanno dato luogo.
Inutile insistere più di tanto, sperando in un tardivo risveglio, dato che non si poteva cavare nulla di meglio da esemplari in condizioni del genere. Dunque, sia per il preamplificatore che per il finale, la sostituzione integrale degli elettrolitici è apparsa d’obbligo.
Sul pre, inoltre, dato l’ampio impiego di condensatori a film di by pass, tutti del valore di 4,7 e 2,2 uF, si è deciso di sostituire anch’essi, dato che invecchiano pure loro, e forse anche peggio, con esemplari moderni di tipo audiophile.
Inoltre, giacché c’eravamo, il pre è stato portato alle specifiche della versione successiva, l’SP4 A.
Anche se si tratta di un esemplare a stato solido, utilizza condensatori elettrolitici dl tipo radiale, in genere scelta propria delle apparecchiature valvolari. Questo rende più difficcoltoso il reperimento di sostituti di valore adeguato, proprio perché gli elettrolitici radiali si trovano con più facilità ed assortimento per tensioni elevate. Ai valori di capacità necessari nella fattispecie, tuttavia, corrispondono dimensioni fuori misura per gli spazi previsti all’interno dell’SP 4 e delle elettroniche similari.
Il reperimento dei componenti necessari, quindi, è stato più difficoltoso del solito ed ha causato anche l’impossibilità di scelta. Pertanto è stato giocoforza ricorrere a esemplari di produzione Vishay, marchio del resto noto per la qualità del suo prodotto, che alla resa dei conti ha dimostrato di comportarsi in maniera ottimale.
Qualche equilibrismo in più è stato necessario per alloggiare i condensatori in polipropilene, dei quali gli esemplari audiophile sono noti anch’essi per le dimensioni generose, che non di rado nelle apparecchiature comuni o con più di qualche anno sulle spalle causano problemi di spazio. Sono stati risolti con qualche equilibrismo, ma i grattacapi non finiscono qui.
L’SP4 infatti sembra progettato da persone diverse che non solo la pensavano in maniera diametralmente opposta, ma che neppure hanno avuto modo di comunicare tra loro. Così vediamo che parte della componentistica ritenuta più importante si avvale per il suo fissaggio allo stampato di robusti occhielli metallici, tali da permettere la sostituzione senza problema alcuno.
Per il resto invece ci sono piste sottilissime, che saltano via solo a guardarle. I collegamenti tra lo stampato principale e quello posizionato in verticale, cui fanno capo i numerosi interruttori posti sulla parte bassa del frontale, sono risolti in maniera altrettanto inadeguata. Si tratta del resto di una fonte di problemi ben nota per chi esegue interventi su apparecchiature del genere, oltreché di malfunzionamenti potenziali che possono trascinare con sé anche altre apparecchiature dell’impianto.
Scelte simili da parte di un marchio tanto stimato, insieme alla totale assenza di criterio per le soluzioni realizzative di un’apparecchiatura pure costosa, a suoi tempi, destano sconcerto e non trovano giustificazione di sorta anche nell’approccio più possibilista.
I numerosi condensatori al tantalio di cui è costellata la circuiteria dell’SP4, altra fonte probabile di guai, sono stati sostituiti con elettrolitici a basso ESR. A vantaggio non solo delle doti sonore ma anche dell’affidabilità, in particolare a lungo termine.
La ripulitura della grande quantità di residui oleosi presenti all’interno, conseguenza di altri interventi eseguiti nel passato con attenzione migliorabile, e di quella dei connettori letteralmente ricoperti di ossido, ancora più annosa dato il loro numero, ha completato l’intervento eseguito sull’SP4.
E’ vero che a volte delle mefitiche bombolette disossidanti l’impiego è necessario, ma ci si deve proprio inzaccherare tutto l’interno e lasciarlo così senza dare nemmeno una parvenza di ripulitura?

Al confronto il lavoro sull’MC 502 è stato quasi una passeggiata. Tuttavia l’irreperibilità di esemplari caratterizzati dallo stesso interasse tra i contatti ha reso necessaria la sostituzione dei grossi condensatori elettrolitici di filtraggio da 10.000 uF ciascuno, montati su una piastra metallica, con altri per cui si è reso necessario realizzare un nuovo sostegno. La difficoltà di questo lavoro è accresciuta dall’obbligo di disporre il raddrizzatore e le relative connessioni sulla faccia opposta dello stesso.
A questo proposito la scelta è andata su elettrolitici Kendeil, marchio noto per le doti dei suoi prodotti, anche in termini di qualità sonora. Malgrado abbia deciso di utilizzare condensatori da 16.000 uF al posto degli esemplari da 10.000 presenti in origine, i sostituti sono caratterizzati da dimensioni più compatte, a significare come la tecnica realizzativa di tali componenti abbia fatto da allora ad oggi più di qualche passo avanti.
Per il resto si è trattato di sostituire tutti gli elettrolitici sulle due schede di segnale, smontabili senza difficoltà eccessive, insieme ad alcuni esemplari di by pass del tipo a film. A parte questi ultimi, anche qui le dimensioni dei nuovi componenti si sono rivelati minori rispetto agli originali, malgrado dove opportuno si siano adottati valori di capacità e tensione superiori.
L’impiego di elettrolitici di tensione nominale più elevata permette di farli lavorare più “comodi”, quanto a margini di sicurezza, prolungandone la vita utile e migliorando l’affidabilità a lungo termine dell’apparecchiatura sui cui s’interviene, sia pure a fronte di un certo aumento dei costi.
Un ultimo tocco si è reso necessario alfine di permettere l’impiego di cavi di alimentazione meglio dimensionati per entrambe le apparecchiature. Non essendo disponibile lo spazio necessario ad accogliere una presa IEC sul retro del pre, e non volendo intervenire pesantemente su quello del finale, l’unica è stata utilizzare delle prese volanti, collegate con l’interno per mezzo di un breve tratto di cavo di sezione adeguata.

La soluzione forse non è elegantissima ma ha permesso di salvare capra e cavoli oltre a consentire un eventuale ripristino delle apparecchiature così come in origine. Fortuna ha voluto che sull’MC 502 il diametro del passacavo esistente fosse uguale a quello degli esemplari da pannello oggi reperibili, il che ha permesso un’esecuzione meglio rifinita.
L’ascolto
Era arrivato quindi il momento di riattaccare le due elettroniche all’impianto, nella fattispecie costituito da un lettore Rotel e dai diffusori Kef Cantor III di cui ci siamo occupati qualche tempo fa.
Le impressioni riguardanti la sonorità di questi ultimi, sempre in versione ottimizzata, sono state ottenute proprio con l’utilizzo dell’SP4 abbinato all’MC 502.
In particolare si è apprezzato un recupero energetico particolarmente evidente, insieme a dinamica, resa del dettaglio, chiarezza, nitidezza e fluidità persino inattese per apparecchiature di questo genere e di tale età.
Un risultato andato oltre le aspettative più rosee, riguardo al quale lasciamo la parola al possessore delle due elettroniche.
Caro Claudio,
finalmente ho potuto ascoltare con la dovuta attenzione il suono prodotto dalle elettroniche che hai restaurato (abbinate ai nuovi cavi di alimentazione).
Risultato: wow!
Sembrano due elettroniche completamente diverse da quelle che avevo: enorme recupero di potenza e dinamica, soprattutto sulle basse frequenze, e suono davvero limpido e definito. L’ARC è come deve essere, ossia lineare e senza enfasi su nessuna frequenza, ed il Mac pure, ossia tira fuori il tipico suono Mac (che a molti non piace, ma questo è un altro discorso). Sono passato da una scena sonora inconsistente, se non sulle alte frequenze (eccessive), ad un vero e proprio palcoscenico ben delineato e tridimensionale. Il tutto usando come sorgente un Bluesound NODE2i e files TidalMaster, ma senza DAC dedicato, ossia non proprio il meglio possibile.
Appena acquistate le elettroniche, che mi avevano dato per restaurate, ho dato la colpa del “piattume gracchiante” alle mie Tannoy Revolution DC6TS, in quanto usando altri diffusori il tutto si attenuava con recupero notevole sui bassi. In realtà, così non era: le Tannoy facevano egregiamente il loro lavoro, ossia riproducevano bene quello che usciva dalle elettroniche, cosa che le Magnat non fanno altrettanto bene per una serie infinita di motivi che ben sai.
Ora le Tannoy suonano perfettamente con il pre tutto “in flat” ed il sub lavora pochissimo, praticamente solo sulla cassa della batteria (“tagliato” a 40 Hz con volume bassissimo).
Insomma, davvero complimenti.
Prossimo step, cavi di potenza e di segnale.
Un caro saluto.
Andrea
Grazie a te Andrea.
Solo una puntualizzazione: dal mio punto di vista l’MC 502, quantomeno una volta rimesso a posto, ha ben poco a che spartire col tipico suono McIntosh.
In primo luogo perché non è gravato dalle scelte che abbiamo imparato essere tipiche del costruttore per le sue elettroniche a stato solido. Quindi niente sfilate di componenti attivi nella sezione finale, ma solo una coppia per canale, e anche i trasformatori di uscita sono per fortuna assenti. Ennesima dimostrazione che realizzare un amplificatore di potenza adeguata ma non esagerata che suoni bene o molto bene è mille volte più facile che fare la stessa cosa con esemplari caratterizzati da un gran numero di watt.
Questo oggi non lo dice più nessuno, per motivi che è inutile ripetere ancora una volta, ma un tempo era noto anche ai bambini dell’asilo: per loro costituzione i finali più sono potenti e più tendono a suonare male, tranne casi più unici che rari e in genere oltremodo costosi.
Proprio la limpidezza, la velocità e la dinamica, sia pure nell’ambito della potenza disponibile, messe in evidenza dall’MC502 dimostrano la distruttività di certe scelte.
Sono molto efficaci tuttavia alla compilazione di tabelle, delle quali abbiamo già sottolineato l’efficacia a riempire la bocca, così da predisporre il cervello nel modo più favorevole. Anche e soprattutto nelle sue parti adibite alla ricezione di quel che proviene dal sistema uditivo.
Insomma, una volta che ha rinunciato alle scelte cui è particolarmente affezionato, persino McIntosh è riuscito a realizzare un amplificatore dalla sonorità ascoltabile. E che, con un intervento tutto sommato di routine diventa parecchio valido.
Quindi se si desidera allestire un impianto che suoni bene, o anche molto bene, sia pure in funzione della sorgente utilizzata, con quella di Andrea che forse è inadeguata alle nuove prerogative delle sue elettroniche, non è necessario spendere un patrimonio o aprire un mutuo. Basta rivolgersi ad apparecchiature come queste, che dopo un intervento particolarmente approfondito e in alcuni aspetti difficoltoso permettono di ottenere sonorità di particolare rilievo.
Lo sono e restano tali anche se con ogni probabilità saranno snobbate dai fedelissimi dei due marchi. Anzi proprio per questo lo sono a maggior ragione. Infatti è proprio la diversità dai canoni, da cui sono caratterizzate, ad aver permesso loro un simile exploit. Neppure sono propedeutiche all’autoipnosi da osservazione prolungata di vu meter danzanti a sfondo azzurrino, pecca che d’altronde si rivela intollerabile.
Men che meno si tratta di oggetti adatti a soddisfare il gigantismo a sfondo mitoman-onirico pre-puberale tipico di certe concezioni della riproduzione sonora e delle conseguenti modalità utilizzative, incapaci di accontentare il loro praticante con nulla meno di diffusori a sedici vie con quadrupli woofer da ottantacinque, posizionati per forza di cose agli angoli di una stanza sistematicamente troppo angusta per accoglierli, pannelli frontali da mezzo metro di spessore e 5-6 metri quadri di superficie come minimo, debitamente tirati a lucido col relativo tripudio di riflessioni cangianti cui danno luogo, e sezioni di potenza da 16.000 watt per canale come minimo.
Salvo poi ottenere sonorità sulle quali l’unica possibilità è stendere un velo pietoso, ma che in compenso per essere materializzate hanno richiesto la spesa di quantità di denaro assolutamente improbabili.
D’altronde è bello quel che piace. Per quanto, se piace certa roba, qualche domanda me la farei.