Toni Esposito, un “progger” trascurato

Il rock progressivo italiano sta conoscendo ormai da anni un forte ritorno di interesse. Non solo tra chi ebbe la fortuna di viverlo direttamente, ma anche da parte di chi per motivi anagrafici non ha potuto farlo.

Le ristampe dei dischi del genere sono all’ordine del giorno e hanno permesso di recuperare un patrimonio musicale di ampiezza sorprendente. Molti infatti passarono del tutto inosservati al momento della loro pubblicazione, insieme ai loro autori. Soprattutto quelli distribuiti dalle etichette minori, ostacolate da problemi economici non di rado insormontabili.

Va detto anche che all’epoca le potenzialità di assorbimento della fascia di pubblico interessata al genere erano quelle che erano, mentre di carne al fuoco, ossia di dischi che meritavano l’acquisto ce n’erano fin troppi. Col metro di oggi il loro numero si riterrebbe inverosimile.

Per forza di cose, allora, chiunque non fosse spinto da una casa discografica importante, pur arrivando al traguardo ambito della registrazione di un LP, non riusciva poi a vederlo nei negozi, anche a causa del numero di copie stampate, spesso molto esiguo.
Così nomi quasi del tutto sconosciuti all’epoca hanno avuto il riconoscimento meritato, sia pure tardivo. Qualche esempio tra i tanti: Picchio dal Pozzo, Jacula, Locanda delle Fate.

Un primo paradosso riguarda il fatto che i gruppi di questo tipo hanno trovato un successo, comunque fuori tempo massimo, maggiore all’estero e in particolare in oriente, che in patria. Ciò si deve all’azione di alcune etichette come la coreana Si-Wan e varie giapponesi come la Seven Seas, che hanno ristampato integralmente o quasi la discografia del progressive italiano.

A fronte di questo recupero comunque doveroso, almeno nella maggior parte dei casi, di artisti poco o nulla noti nel momento in cui erano in attività, si è verificata anche una dinamica del tutto opposta. Riguarda alcuni musicisti che pur essendo stati molto attivi sulla scena musicale progressiva del periodo, oggi non sono più considerati come parte di essa.

Tra gli esempi più tipici c’è quello di Toni Esposito.

Forse dipende dal fatto che il grande successo ottenuto in seguito con una musica molto più commerciale, “Kalimba de Luna”, Sinuè” ecc. ha finito con il mettere in ombra la parte precedente della sua carriera, che dal punto di vista artistico ha avuto ben altro rilievo.

Così Esposito è tra i pochissimi artisti, tra quelli attivi sulla scena del rock progressivo, ricollegati più alla fase successiva alla banalizzazione del loro repertorio che a quella dal contenuto più denso di significati. Viceversa, PFM, Banco, Perigeo, Orme e un po’ tutti i gruppi maggiori del genere che riuscirono a sopravvivere al tramonto del prog, più imposto che delineatosi nella seconda metà degli anni ’70, hanno conosciuto una sorte del tutto opposta.

I loro dischi dell’epoca che si potrebbe definire post-prog sono poco o nulla considerati, in quanto includono composizioni affette da una commercialità e uno svuotamento di contenuti disarmanti per chiunque sia abituato alla varietà multiforme e di grande spessore del prog, dunque privi di collegamenti concreti agli episodi precedenti, riconosciuti invece alla stregua di pietre miliari o quasi.

Al riguardo lo stesso Esposito ha dichiarato in un’intervista TV che se avesse continuato con la musica dei suoi esordi sarebbe probabilmente morto di fame.

Questo non vuol dire che la musica da lui composta ed eseguita nell’epoca di cui ci stiamo occupando fosse in qualche modo manchevole, ma solo che i criteri su cui si basa l’industria della musica tengono conto in primo luogo delle potenzialità commerciali, dell’artista e della sua musica. Il che equivale a dire che, basandosi su di essi, la musica più degna di essere ascoltata dovrebbe essere “Il Ballo Del Qua Qua”.

Se si pretende di ridurre arte e cultura negli angusti limiti concettuali dei sistemi basati esclusivamente sul profitto, e di conseguenza sulla mercificazione, totale e assoluta, tali son le aberrazioni che ne conseguono.

 

Rosso Napoletano

Nel curriculum del percussionista sono quattro i dischi che meritano di essere riscoperti come parte a tutti gli effetti del catalogo più rappresentativo del rock progressivo e in generale della musica italiana degli anni ’70.

A partire dal disco omonimo, quello d’esordio pubblicato all’inizio del 1975 dalla Numero Uno, etichetta della Ricordi dedicata agli artisti emergenti ta le più attive in quel periodo.rosso-napoletano

All’uscita del suo primo disco Esposito era già noto sulla scena musicale italiana, come solista e anche per aver partecipato da collaboratore a dischi di importanza considerevole. Uno tra tutti, “Aria” di Alan Sorrenti: un altro degli artisti progressivi  la cui carriera successiva in ambito pop ne avrebbe fatto dimenticare o quasi le origini.

“Rosso Napoletano” è il brano più significativo non solo dell’album, ma forse di tutta la carriera di Esposito. Ha caratterizzato il disco al punto tale che lo si designa comunemente, anche se in modo erroneo, con quel titolo, poi effettivamente attribuito alla riedizione su CD.

Malgrado si tratti di un esordio, il disco dimostra già una maturità ragguardevole, oltre a mettere nella luce migliore le scelte del percussionista, incline a ricavare le sue sonorità da strumenti estemporanei come pentole, casseruole e altri oggetti di uso comune, ben riconoscibili nel fluire della musica.

Un altro aspetto interessante riguarda l’attribuzione alle percussioni di una spiccata funzione coloristica più che di elemento a rinforzo e arricchimento della scansione ritmica. Per questo motivo lo si può inserire in un filone non lontano da quello di un Airto Moreira o un Mandrake e più in genere a un preciso settore della scuola percussiva brasiliana.

In quel modo il ruolo da protagonista che Esposito attribuisce al suo kit di strumenti trova motivazione e credibilità, proprio per la capacità di sostenere le funzioni di solista. Inoltre la sua musica ne ricava un tratto decisamente personale, che la rende immediatamente distinguibile.

Di importanza altrettanto fondamentale sono le origini partenopee di Esposito, non solo dal punto di vista melodico e della evidente solarità delle sue composizioni, ma anche nella ripresa di voci di strada, impressioni da mercati rionali ed altri frammenti di vita reale, che attribuiscono alle composizioni un legame esistenziale e una concretezza piuttosto distanti dalle atmosfere favolistiche di molto del prog più noto.

In ogni caso il lungo brano di apertura si iscrive nell’ambito del progressive più propriamente detto, con le sue atmosfere dilatate e minimali. Alla lunga sezione iniziale fa seguito lo stacco piuttosto netto verso una forma più solida, non solo per quel che riguarda la ritmica, in cui già si intravvedono le indicazioni del mutamento di linguaggio che andrà a delinearsi nei brani inclusi nella seconda facciata, e poi a stabilizzarsi definitivamente nelle prove discografiche successive.

Dalla forma orchestrale in cui è riconoscibile l’apporto di Paul Buckmaster, ospite di riguardo dell’LP, si passa quindi a un organico più asciutto e in definitiva adatto a una sintesi maggiormente influenzata dal linguaggio jazzistico, che andrà a costituire il denominatore comune degli altri dischi pubblicati da Esposito nel corso degli anni 70.

Indicativi al riguardo sono i collaboratori scelti da Esposito: Mark Harris, pianista che si affermerà di lì a breve con Napoli Centrale, il chitarrista e bassista Gigi De Rienzo, Robert Fix al sassofono, mentre le suggestioni vocali sono affidate a Edoardo Bennato.

Che lo si chiami “Toni Esposito” come da copertina dell’edizione vinilica originale, o “Rosso Napoletano” in base alle indicazioni della ristampa in digitale, si tratta non solo di un disco fondamentale, ma anche di uno tra i più belli e importanti del progressivo italiano.

 

Processione sul mare

Questo è il titolo del secondo LP di Toni Esposito, pubblicato nel 1976. Come anticipato dalla seconda facciata di “Toni Esposito/Rosso Napoletano”, l’accento jazzistico prende il sopravvento.

Data l’epoca si dovrebbe parlare di jazz elettrico, anche se per i motivi che vedremo forse sarebbe meglio dire elettroacustico, che in quel periodo costituiva l’elemento primario per la ricerca di nuove sonorità e modalità espressive per una larga parte di artisti e gruppi attivi nell’ambito del rock.

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La formazione si arricchisce con l’ingresso di Francesco Bruno alla chitarra, mentre Gigi De Rienzo si dedica esclusivamente al basso, e di Stefano Sabatini a pianoforte, piano elettrico e tastiere.

Il disco parte forte e riesce subito a catturare l’ascoltatore. E’ possibile notare una certa vicinanza con i Weather Report, che non a caso hanno sempre costituito uno tra i punti di riferimento principali nella commistione del jazz con altri linguaggi. La si deve in particolare agli interventi al sax soprano di Robert Fix, che ricordano le sonorità shorteriane e hanno modo di mostrarsi ancora nella maniera più distinguibile in “Canzone D’Inverno”, composta dallo stesso Fix.

Per il resto l’album non è caratterizzato da particolari debiti ispirativi. Anzi mette in luce i tratti personali della proposta musicale di Toni Esposito, che già a partire dal brano iniziale, malgrado la correlazione con i modelli di cui sopra esibisce una sua precisa connotazione e riconoscibilità.

Il connubio tra jazz e rock proposto dal percussionista è filtrato in maniera evidente dagli influssi provenienti dalla musica della sua terra, qui forse ancora più riconoscibili rispetto al primo album. E’ inoltre caratterizzato dalle scelte stilistiche del percussionista, tendente a rifuggire da forme troppo dure, a favore di una morbidezza di fondo che rende più personale la sua proposta.

Alla dinamicità di brani come quello di apertura, intitolato “Il Mercato Di Stracci” e fortemente influenzato nel finale dagli interventi vocali di Lina Sastri che evocano la Napoli più popolaresca, si contrappongono la dolcezza e il lirismo fin quasi commovente di “Fiaba Moresca”, brano che forse è il più memorabile dell’intero album.

E’ dominato per buona parte dal dialogo della chitarra acustica di Francesco Bruno con le percussioni, alle quali si aggiunge poi una fisarmonica. Rappresenta uno tra i migliori esempi della capacità del jazz rock italiano di trascendere le convenzioni stilistiche attribuite al genere dalla coniugazione effettuata dai cosiddetti capiscuola, e di ritagliarsi un suo spazio preciso, caratterizzato da un’estetica a sé stante.

Forse è nel brano successivo, “Bancarella” che meglio si possono individuare gli aspetti di rinnovamento rispetto al disco precedente, dovuti all’innesto dei già menzionati Bruno e Sabatini. In “Bancarella” anche la perizia tecnica del gruppo che affianca Esposito ha modo di mettersi in luce nel modo migliore, senza per questo trascendere nell’esibizionismo fine a sé stesso che ha fornito fin troppi argomenti, in larga parte pretestuosi, ai denigratori di questo genere musicale.

Il jazz-rock ha invece ha dimostrato la sua ragione d’essere quale laboratorio stilistico di grande efficacia nella sintesi di nuovi linguaggi, improntato alla ricerca della più ampia libertà di espressione.

Sotto questo aspetto, della musica di Esposito si apprezza anche l’assenza di debiti di sorta nei confronti dei modelli più noti del genere.

Sabatini contribuisce con la composizione di un brano, “Festa Sul Monte”, anch’esso tra i più riusciti del disco.

In “L’Alba Nei Quartieri” ritroviamo l’atmosfera tipica della città partenopea, evocata un questo caso dai suoni di un mercatino rionale e dal richiamo dei venditori: “mille Lire, approfittate, mille Lire…”.

Il disco si chiude con il brano che dà il titolo all’album, dominato dalle percussioni che suonano in piena solitudine e unicamente nel finale sono affiancate da un sax che rimane sullo sfondo e dalla chitarra acustica.

Alle percussioni è affidata una volta di più anche la parte solista, per mezzo di una serie di padelle accordate l’una rispetto all’altra.

Al riguardo Esposito racconta di essere stato colpito da un venditore ambulante che teneva appese le sue padelle e le toccava facendole suonare per richiamare i compratori. Così ne ha comperate alcune, disponendole poi in scala per usarle come percussioni.

Non a caso proprio una serie di padelle è ritratta in primo piano insieme allo stesso Esposito e ad altri dei suoi aggeggi nella foto che occupa lo spazio maggiore del retrocopertina.

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Questo simbolizza al meglio la concezione che Toni Esposito ha dello strumento, la percussione appunto, con il quale si esprime: non un elemento meramente ritmico, ma qualcosa con cui è possibile interpretare qualsiasi parte di un brano, conferendo ad esso una ricchezza di colori per molti versi inedita e non ottenibile altrimenti.

“Processione Sul Mare” è un disco parecchio gradevole, che sia pure a tanti anni di distanza mantiene intatta tutta la sua freschezza e suona per nulla datato. Da un lato a riprova delle felici intuizioni compositive ed esecutive che stanno dietro la sua realizzazione, e dall’altro del valore intrinseco proprio della musica che si eseguiva in quegli anni irripetibili e dello slancio culturale che ha caratterizzato l’una e gli altri.

 

Gente distratta, ma per davvero

Il terzo e ultimo disco che Toni Esposito ha pubblicato per la Numero Uno è “Gente Distratta”, per la realizzazione del quale compie un’operazione a dir poco inconsueta.

Infatti chiama ad affiancarlo alle percussioni nientemeno che Karl Potter. Chiunque altro avrebbe temuto di essere messo in ombra da un confronto simile. Invece ne derivano un’aggregazione ben riuscita e un arricchimento per la sonorità dell’album, che anche così acquisisce un grado di originalità ulteriore.

Insieme a Potter il tastierista Ernesto Vitolo fa il suo ingresso nel gruppo di Esposito, che perde momentaneamente Francesco Bruno, fermi restando Robert Fix ai sassofoni e Gigi De Rienzo al basso, che si occupa anche degli arrangiamenti.

 

Un disco simile avrebbe meritato senz’altro il rinnovo del contratto, ma siamo nel 1977 e il prog italiano, come del resto quello anglosassone è in via di disgregazione pilotata. Così l’etichetta che ha dato tanto spazio a questo genere musicale, da allora in poi avrebbe pubblicato quasi solo i dischi di una PFM ormai votata a un pop insipido, commercialotto e depurato di ogni componente propositiva e concettuale, di Ivan Graziani e naturalmente di Lucio Battisti.

Lo spazio per certi discorsi, insomma, era stato chiuso definitivamente.gente-distratta-toni-esposito

 

Distruzione e dilapidazione

Malgrado si trovasse in una fase che poi si sarebbe dimostrata conclusiva per la sua traiettoria, il progressivo italiano proseguiva imperterrito alla ricerca di nuovi orizzonti nell’evoluzione del proprio linguaggio. Trovò una delle strade possibili nella musica popolare, in una sorta di prefigurazione della musica etnica o world che dir si voglia, come sarebbe stata definita anni dopo.

Questo dimostra da un lato la sua concreta funzione di avanguardia nella sintesi di linguaggi in continua evoluzione, e dall’altro che la fine ne venne decretata per motivi che nulla avevano a che fare con l’esaurimento delle sue possibilità espressive o per la stanchezza ispirativa dei suoi protagonisti.

La si deve invece alle contraddizioni irrisolvibili di un sistema che riconosce e permette la sopravvivenza esclusivamente a ciò che è non solo fonte di profitti, ma che lo è nell’immediato, senza riguardo per qualsivoglia elemento che esuli da una visuale tanto ristretta. A partire da quelli etici e culturali, per quale che sia la loro portata.

Dunque un genere musicale ancora in grado di fornire un arricchimento culturale rilevante all’intera comunità degli amanti della musica, agli occhi di un gruppo di persone dall’ignoranza pari solo alla loro cecità, era divenuto antieconomico e non più in grado di generare introiti degni di interesse.

Per questo motivo gli si tagliò qualsiasi tipo di spazio. In primo luogo quello discografico e concertistico.

Nella loro graziosa magnanimità, i reggitori del settore avrebbero concesso agli artisti che avevano reso grande quel genere musicale e la via italiana al rock, di continuare a fare il loro mestiere. Ma solo a patto di eseguire una musica talmente priva di contenuti da risultare del tutto inutile.

Quindi inefficace anche sotto il profilo commerciale.

Viceversa non solo milioni e milioni di amanti della musica rimpiangono l’epoca d’oro del rock progressivo a livello planetario, ma si disputano i vinili dell’epoca a colpi di centinaia di euro la copia, mentre se ancora esiste un’industria discografica lo si deve in buona parte alla richiesta di ristampe, che su CD o in vinile riguardano nella stragrande maggioranza proprio quel periodo della storia della musica.

A parte la lungimiranza proverbiale degli attori per eccellenza del sistema capitalistico, ci troviamo di fronte a un’ulteriore riprova che tale sistema si fonda in primo luogo sulla dilapidazione e la rottamazione sistematica del talento e delle capacità umane, ai fini di un perenne processo di sostituzione che persegue il peggioramento strutturale quale sua unica prospettiva. A cui viene attribuita la definizione pretestuosa di progresso.

 

La banda del sole

Ricerca delle origini popolari e folcloriche, dicevamo, quale elemento di prosecuzione ed estensione della ricerca musicale da parte del rock progressivo italiano.

Tendenza che finalmente ha conferito una visibilità, sia pure tardiva e inadeguata, a gruppi che non solo si dedicavano da anni a tale ambito ma avevano condotto un’importantissima attività di recupero delle fonti originarie, tramandate esclusivamente in forma orale e su base locale, mediante una modalità di reperimento che si dovrebbe definire porta a porta.

Malgrado ciò, o forse proprio per questo, un’attività tanto meritevole non trovò riconoscimento o quasi, restando confinata a una realtà sotterranea.

Questo fu il destino del Canzoniere del Lazio, che già da parecchio si dedicava all’esplorazione del settore ma che solo in quel periodo riusci a raggiungere una qualche notorietà, sia pure molto inferiore a quella che avrebbe meritato.

Nello stesso filone si inserirono tra gli altri il primo album da solista di Mauro Pagani, conseguente al suo abbandono della PFM e soprattutto del progetto Carnascialia.Carnascialia

Su entrambi aveva fatto da ospite Demetrio Stratos, a suggellare valore e significato del nuovo orizzonte, oltre a dimostrare la sua disponibilità e l’apertura nei confronti di ogni possibilità espressiva atta ad ampliare un lessico già di ampiezza che direi non solo inusuale ma anche inimitabile.

Carnascialia in particolare merita interesse anche per via della trasversalità dei partecipanti, che vanno dai componenti del Canzoniere del Lazio Carlo Siliotto, Clara Murtas, Marcello Vento, Pasquale Minieri, Giorgio Vivaldi e Piero Brega, ai menzionati Stratos e Pagani, ai jazzisti Maurizio Giammarco, Danilo Rea e Tommaso Vittorini.

Malgrado per certa musica il terreno fosse divenuto impraticabile,  Toni Esposito va avanti lo stesso.

Fu uno tra i pochi e gliene va dato merito: il suo quarto album è del 1978 e si intitola “La Banda Del Sole”, pubblicato su etichetta Philips.

Per l’occasione la formazione si riduce a un trio di base, formato da Esposito, Vitolo e De Rienzo, con quest’ultimo che assume anche il ruolo di co-produttore.

Attorno a loro ruotano brano per brano le vecchie conoscenze in qualità di collaboratori: il chitarrista Francesco Bruno, anche se per un solo brano, Karl Potter alle congas e Robert Fix al sax. In più ci sono Eugenio Bennato ai mandolini e Aldo Mercurio al contrabbasso.

Si tratta del concetto di nucleo, che prevede un gruppo centrale di musicisti attorno al quale ruotano vari elementi di supporto, a seconda delle necessità e delle situazioni. Tipico dell’era matura del rock progressivo, era largamente praticato dalle formazioni del genere più all’avanguardia.

In questo modo le sonorità acquisiscono una varietà maggiore da brano a brano, attribuendo al disco nel suo insieme situazioni meglio diversificate, quindi la capacità di attrarre con maggiore continuità e varietà di stimoli l’attenzione di chi ascolta.

“La Banda Del Sole” risente in maniera sensibile degli influssi di cui abbiamo parlato poco fa, anche se diluiti nel lessico musicale del percussionista, così da conferire al suo nuovo disco un’identità rinnovata rispetto ai precedenti.

Le radici etno sono evidenti in “Ballo in 7”, nell’introduzione di “Quartetto”, brano in cui la base ritmica prevede contrabbasso e basso elettrico a lacorare insieme, nella finale “Danza Caruana”, dove la parte iniziale lascia cogliere il riaffacciarsi delle somiglianze con i Weather Report, in particolare nei confronti di “Badia”.

Il brano di apertura, soprattutto, pone in evidenza la coniugazione delle tendenze verso la musica popolare con una ulteriore accentuazione dei legami alla tradizione partenopea, che nella proposta di Esposito ha sempre avuto rilievo notevole. Anche superiore a quello di altri artisti suoi conterranei, malgrado ad essi si riconoscesse un ruolo prevalente nella riproposizione attualizzata della tradizione partenopea.la-banda-del-sole

Non a caso, proprio nel brano iniziale dell’album l’esposizione del tema viene affidata al mandolino, strumento inusuale nel rock, ancor più nel ruolo di solista. Personalmente riesco a ricordarne l’impiego, ma a livello coloristico o in ensemble con altri strumenti, solo in “Atom Heart Mother” dei Pink Floyd e in “Tubular Bells” di Mike Oldfield, non a caso entrambi di un rock sui generis, mentre non mi sovvengono altri esempi nelle forme più vicine al jazz.

“La Banda Del Sole” è il disco in cui il lessico musicale di Toni Esposito acquisisce la maturità definitiva, ma purtroppo è anche dell’ultimo della fase prog-jazz del percussionista.

Nello stesso anno della pubblicazione il percussionista riceve una sorta di consacrazione delle sue doti, suonando al Festival Jazz di Montreux insieme al Perigeo. Vi ritornerà nel 1980 con il proprio gruppo.

Ancora due anni e avrebbe pubblicato il primo disco della sua nuova carriera disco-pop, in funzione della quale la i di Toni sarebbe divenuta una y. La nuova fase non è assolutamente paragonabile alla precedente sotto il profilo della qualità musicale, ma gli avrebbe dato una notorietà ancora maggiore e soprattutto una maggiore tranquillità economica.

Riconoscimento auspicabile  dati i meriti di Esposito, ma anche dimostrazione concreta del ricatto che l’ordinamento attuale impone a chiunque non intenda piegarsi ai suoi canoni di massificazione e di annichilimento culturale e concettuale.

 

http://www.tonyesposito.it/

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

One thought on “Toni Esposito, un “progger” trascurato

  1. Non sapevo che Tony Esposito avesse avuto una carriera precedente a quella attuale.
    Cercherò i suoi dischi e li ascolterò con attenzione.

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