Opere rock: Joe’s Garage Act II & III

Alla fine fu scoperto che Dio non voleva che fossimo tutti uguali.
Cattive notizie, queste, per il Governo Del Mondo, dato che sembrava contrario alla dottrina dei Servizi a Porzioni Controllate.
L’umanità doveva essere resa più uniforme se il futuro stava per funzionare. Vari modi furono seguiti per legarci tutti assieme, ma ahimè l’uniformità non poteva essere imposta.
E’ più o meno in quel momento che qualcuno venne fuori con l’idea della criminalizzazione totale.
Basata sul principio che, se fossimo tutti malviventi, potremmo alla fine essere in qualche grado uniformi agli occhi della legge.
Accortamente, i nostri legislatori hanno calcolato che la maggior parte delle persone sono troppo pigre per effettuare un vero crimine.
Così, nuove leggi sono state emanate, facendo in modo che ognuno possa violarle in qualsiasi momento del giorno e della notte e, una volta che tutti noi le avremo infrante, faremo parte dello stesso grande club, assieme al presidente, agli industriali più esaltati e ai pezzi grossi del clero di tutte le vostre religioni preferite.
La Criminalizzazione Totale è stata la più grande idea del suo tempo, ed è stata molto popolare, eccetto tra chi non voleva essere un malvivente o un fuorilegge. Così, naturalmente, lo si è dovuto tirar dentro con l’inganno… Questo è uno dei motivi per i quali alla fine la musica fu resa illegale.

Frank Zappa, 1979, note di copertina di “Joe’s Garage Act II & III”

 

La criminalizzazione totale cui Zappa fa riferimento, è intesa dall’autore nel senso di strumento indirizzato alla massificazione del genere umano, necessaria alla gestione totalizzante del potere e della vita degli individui, da lui sintetizzata con il concetto dei “Servizi a porzioni controllare”.

Lo scopo è quello di uniformare, ossia eliminare ogni diversità, presupposto essenziale ai fini di due questioni che sono legate intimamente come facce della stessa medaglia. Da un lato abbiamo le esigenze del sistema di produzione, dall’altro quelle relative all’imporre un controllo sulle popolazioni che sia il più possibile stabile e centralizzato, insieme alla gerarchia sociale che ne consegue, fino a diventare una forma di dominio assoluta e potenzialmente immutabile

Un accenno al riguardo c’era stato già in un album antecedente di qualche anno, intitolato “One Size Fits All“, Una taglia va bene per tutti. La sua copertina raffigura un divano, che può essere inteso come strumento ideale all’assopirsi della coscienza dell’individuo, nei confronti di sé stesso e della realtà che lo circonda.

Attraverso la massificazione si possono imporre forme di controllo politico-governativo sempre più stringenti. Quindi unificate, allo scopo di rendersi meno vulnerabili e tenere meglio a bada il malcontento derivante dalle restrizioni per la libertà individuale e dal peggioramento generalizzato delle condizioni di vita, causato dal fenomeno descritto. Allo scopo si eseguono forme di repressione sempre più minuziose e su larga scala, destinate non solo a limitare l’espressione del pensiero, ma proprio la sua sintesi da parte dell’individuo.

Nell’ambito di un processo simile si deve fare il necessario perché il maggior numero di persone possibile non percepisca il peggioramento della realtà propria e di quanto lo circonda, e nel caso lo ritenga inevitabile o persino desiderabile. Anche per questo aspetto la massificazione è di grande aiuto, al fine di convincere tutti con gli stessi argomenti, mediante l’impiego di mezzi di propaganda il cui scopo primario è nascondere le realtà scomode e più in generale gli eventi che non si ritiene debbano essere portati a conoscenza del pubblico, anestetizzando le coscienze. Nello stesso tempo si vanno man mano a restringere il numero di vocaboli utilizzati, così da rendere obsoleti quelli che permettano di formulare punti di vista non in linea con le opinioni corrette. Battendo incessantemente sulle stesse tesi come un mantra, si finisce con l’imporre anche i concetti più inverosimili, andando a formare quello che oggi si definisce pensiero unico.

Un ordinamento siffatto ha necessità di reperire in modo continuo il materiale umano che gli è necessario, da impiegare tanto nei suoi meccanismi di produzione dei beni e di distribuzione iniqua della ricchezza, quanto in quelli di formazione del consenso e dell’accettazione supina dello stato di fatto.

Zappa sintetizza tutto questo nel modo che gli è più congeniale, ossia attraverso la musica e i testi che raccontano una storia che lui definisce stupida ma non lo è assolutamente, usando le modalità espressive che ha ritenuto più adeguate per il suo pubblico.

Joe’s Garage” allora può essere inserito a pieno titolo nel filone che l’ipocrisia corrente si compiace di definire distopico, quando invece ha descritto con decenni di anticipo e con la precisione migliore la situazione odierna. E’ quello che comprende opere del calibro di “1984” di Orwell, “Il Mondo Nuovo” di Huxley e “Noi” di Zamijatin, anche se stavolta il mezzo espressivo non è la letteratura ma la musica, nella forma non così frequentata dell’opera rock. La figura del Central Scrutinizer può essere vista come una sorta di Grande Fratello orwelliano, anche se irridente e sgangherata come nella migliore tradizione zappiana.

 

Atti 2 e 3

Reduce dalle numerose disavventure già capitategli nel primo atto, nel primo brano del secondo atto, “A Token of His Extreme“, Joe arriva al complesso modernista che è l’ufficio/cattedrale/magazzino/condominio di L. Ron Hoover (nome che ricorda quello di L.Ron Hubbard, inventore della Scientology), per cercare la soluzione ai suoi problemi. E’ accolto da un messaggio e da una drammatica immagine su uno schermo TV grande come una parete: “Welcome to the First Church of Appliantology”.

Benvenuto alla prima chiesa della “apparecchiaturologia”: connubio tra tecnocrazia e religione particolarmente efficace nell’affermazione dei meccanismi descritti qualche riga fa.

Il messaggio prosegue con il già noto “The White Zone is for loading and unloading only“. Nuovo richiamo all’inaffidabilità dei sistemi automatizzati, suggerimento per il parallelismo tra la Chiesa della “Appliantology” e il Central Scrutinizer o monito per i guai ancora peggiori in cui Joe sta per finire dentro?

Dopo un lungo colloquio, L. Ron Hoover decide che Joe è affetto da una forma latente di feticismo per le apparecchiature elettriche (ricorda una qualche specie particolare di appassionati?).

Hoover: “Non hai nulla da temere, figliolo, mi sembra che sei un feticista latente per le apparecchiature

Joe: “mi sembra tutto molto strano, non ho mai desiderato una tostiera o un TV color…

Hoover allora, con voce altisonante e carica d’eco, proprio come quella di un prete in una chiesa, va a proiettare su Joe le proprie deviazioni, su cui ha costruito una forma di culto, oltretutto profittevole economicamente: “Un feticista latente per le apparecchiature è una persona che rifiuta di ammettere a sé stesso che la gratificazione sessuale può essere ottenuta soltanto attraverso l’impiego di MACCHINE. Colta l’immagine?

Così, per trovarne una che lo ami, Hoover suggerisce a Joe di imparare il tedesco, dato che molte delle migliori vengono dalla Germania, e poi di recarsi al Closet, noto locale in cui potrà incontrarne a volontà. Il nome del locale è ripreso dall’armadio, appunto closet in inglese, venduto insieme al pupazzo Gay Bob, una sottospecie di Big Jim diversamente virile che ebbe un certo successo negli Stati Uniti nella seconda metà degli anni ’70 all’interno di specifiche comunità. Un personaggio che incontreremo tra poco nelle disavventure di Joe si chiama appunto Gay Bob.

Dopo la modica offerta di 50 dollari, che i seguaci della “Appliantology” si assicurano versi nelle tasche di L. Ron Hoover, vestito come una casalinga Joe si avvia verso il Closet. Nel locale un gran numero di piccoli elettrodomestici da cucina danzano gli uni con gli altri, tutt’intorno. Ne vede uno, che somiglia a un incrocio tra un aspiratore industriale e un salvadanaio cromato a forma di porcellino, con stampati consigli coniugali su tutto il corpo.

Appena lo avvicina, Joe inizia a cantare in tedesco: “Fick mich, du miserabler Hurensohn“, fottimi, miserabile figlio di puttana, su un tempo disco music parecchio trascinante, quello del brano “Stick It Out“. Colpito dalla padronanza di Joe con la sua lingua madre, uno scintillante XQJ-37, un “roto-plooker” pansessuale a propulsione nucleare, gli si avvicina piroettando. Si tratta di Sy Borg, in precedenza ritenuto il figlio della signora Borg, la vicina che nel primo atto chiamò la polizia per il baccano causato dal gruppo che suonava nel garage di Joe. Zappa trova così il modo di anticipare il tema delle biotecnologie e delle sue potenziali conseguenze.

Nel testo di “Stick It Out”, c’è anche un omaggio a “Tommy”, la famosissima opera rock degli Who, in particolare al suo brano di maggior successo, “See Me, Feel Me”. Infatti una strofa recita “See the chrome, Feel the chrome, Touch the chrome, Heal the chrome“.

Dopo alcuni rapidi preliminari, i due si avviano nel bell’appartamento di Sy, che sorprende Joe: “Tutti i servizi ricreazionali sponsorizzati dal governo sono puliti ed efficienti” asserisce Sy Borg, che propone a Joe di fare una festicciola assieme a Gay Bob, replica umanoide miniaturizzata, fatta di gomma. Così Joe scopre che Sy Borg è più divertente di Mary e più pulito di Lucille, ma preso dall’entusiasmo esagera, arrivando a mettere in corto i suoi circuiti.

Joe teme sia accaduto a causa della “pioggia dorata”: Sy Borg muore e all’istante interviene il Central Scrutinizer, che richiede a Joe il pagamento dei danni. Ma siccome non può pagare, perché ha dato tutti i suoi soldi ad una specie di santone alla moda un paio di brani prima, viene portato in una prigione, quella in cui sono detenuti i criminali dello show business, almeno quelli che si riescono ad acchiappare…

Qui la lingua di Zappa batte sul dente che forse duole maggiormente, quello riguardante i rapporti perennemente burrascosi con manager, procuratori, case discografiche eccetera. Per via delle loro pratiche spregiudicate dovette ricorrere più volte al tribunale. Come quella della Warner riguardo ai 4 LP da essa commissionati a Zappa per liberarlo dagli oneri contrattuali. Li produsse a sue spese ma ma non gli furono pagati. Si tratta di “Studio Tan“, “Sleep Dirt“, “Orchestral Favourites e “Zappa In New York“. L’accordo prevedeva il saldo alla consegna, ma con una serie di scuse lo si evitò. Un’altra bega derivò da fatto che il manager di Zappa, approfittando che era in tournée, pagò coi suoi soldi la produzione dell’album “Bat Chain Puller” di Captain Beefheart, per poi appropriarsi dei relativi diritti.

Joe si ritrova in una prigione orribile, dove ex funzionari discografici si danno il turno a sniffare detergenti e a insidiare gli altri detenuti. Li ritrova padre Riley, alias Buddy Jones, che ha assunto l’ulteriore identità di padre Riley B. Jones. E’ il cappellano della prigione, assiste gli executive catturati nel reperire sempre carne fresca. E, una volta trovate nuove vittime per i principi dell’industria discografica, vende loro piccole capsule di gelatina benedetta in cambio di sigarette o altri generi di conforto.

Anche qui l’allegoria dei meccanismi operanti nello show business è parecchio evidente.

Una vita d’inferno, che presto porterà Joe sull’orlo della pazzia. Incapace di sostenere il ritmo degli abusi cui viene sottoposto. Sapendo che è ancora lontano il momento in cui avrà pagato il suo debito con la società, Joe trova rifugio nella sua stessa mente, sognando note di chitarra immaginarie. Che lo aiuteranno ad andare avanti giorno per giorno, fino a che non lo lasceranno uscire.

Fuori di prigione scopre che il mondo è cambiato, da quando la musica è illegale. Non c’è più nulla di divertente da fare e lui è legato alla musica, ha bisogno di suonare. Ma non ci sono più musicisti o strumenti in giro. Così torna a rifugiarsi nella realtà costruita all’interno della propria mente, ritrovandosi a camminare in un parcheggio, simbolo della desolazione urbanistica di tanti non-luoghi indistinguibili gli uni dagli altri, in stato semi catatonico sempre sognando note di chitarra. Quelle basse, snobbate dai discografici, i quali sanno benissimo che solo con quelle alte si fanno gli hit che vanno al vertice delle classifiche…

Joe vagabonda in un mondo che non riconosce più, accuratamente organizzato in modo che ciascuno riporti giornalmente ad un luogo predestinato, in una fila di fronte a un qualche sportello, per ritirare il proprio assegno di sussistenza. Che una volta incassato renderà possibile ai giovani il pagamento delle irriparabili ed obsolete apparecchiature che i genitori hanno acquistato anni fa sull’”Installation Plan”, quale forma di sicurezza per gli introiti futuri della loro prole

La parte rimanente di quegli assegni è utilizzata dai giovani quale anticipo per comprare a credito cose divertenti, la maggior parte delle quali cessa di funzionare o si rompe del tutto pochi momenti dopo il suo acquisto, e sembra essere accatastata un po’ in ogni dove. Siamo di fronte alla critica di Zappa per il sistema economico capitalista finalizzato a rendere schiavo ogni individuo mediante un debito-truffa inestinguibile.

Joe cammina incespicando tra montagne di generi di consumo abbandonati, altro riferimento ai problemi causati dal modello commerciale basato sull’obsolescenza programmata, che sembrano formare statue dedicate alla “Qualità del Prodotto Americano“. Mentre continua a sognare le sue note di chitarra, da qualche parte nel fondo della sua mente riemerge la voce della signora Borg che ripete: “Era un buon ragazzo, mi tagliava anche il prato, era proprio un buon ragazzo…

La parola torna al Central Scrutinizer, che dice:

Si, era un bravo ragazzo, tagliava il prato, ma ora la sua mente è totalmente distrutta dalla musica. E’ impazzito a tal punto che sogna perfino articoli e recensioni riguardo alle sue immaginarie note di chitarra. Continuando a deperire nel regno crepuscolare dei suoi pensieri segreti, Joe non sogna solo immaginarie note di chitarra, ma anche le parti vocali di una canzone su un’immaginaria professione giornalistica.

Entriamo così nel brano “Packard Goose“: il testo parla dei recensori di rock’n’roll come della peggior sorta di inconsistenza, pronti a incensare qualsiasi prodotto l’industria discografica decida di vendere. In quel momento erano punk e new wave sulla cresta dell’onda, descritti come una nuova specie di malattia inglese:

Se è questa l’onda (wave) del futuro, per favore risparmiatemela!”

Per chi scrivi? Vorrei saperlo. Credo tu sia al soldo del governo, e istupidire la gente è il tuo compito. Meglio che succhi più forte, altrimenti i soldi (shekels nel testo originale, sicli) non arrivano. Così cadi sule tue ginocchia, dicendoti che è molto gustoso 

Inutile sottolineare non solo la crudezza del testo, che coglie perfettamente nel segno e senza perifrasi, ma anche l’identità delle logiche che predominano nella stampa musicale e in quella più o meno specializzata di ogni altro settore (chi ha orecchie per intendere…).

Si arriva così al momento più triste dell’opera, in cui Joe ricorda improvvisamente i bei tempi passati insieme a Mary, la sua antica ragazza, chiedendosi che fine avrà fatto. Allora lei gli appare come in una visione e gli fa un piccolo sermone, interpretato sempre dalla magnifica Dale Bozzio.

Ciao, sono io, la ragazza del bus, ricordi l’ultimo tour?”

Bene, informazione non è conoscenza.

Conoscenza non è saggezza.

Saggezza non è verità.

Verità non è bellezza.

Bellezza non è amore.

Amore non è musica.

La musica è IL MEGLIO…”

La parola va ancora al Central Scrutinizer:

Joe continua a sognare le sue note immaginarie che sembrano suonare benissimo, ora. Ma mentre sfuma il brano composto dalle sue note immaginarie, inizia a sentirsi molto depresso. Sa che la fine è vicina. Al dunque ha compreso che le note di chitarra e le parti vocali immaginarie esistono solo nella mente di chi le immagina. E, in definitiva, a chi interessano? Così se ne torna nella sua misera stanzetta e sogna quietamente il suo ultimo assolo di chitarra…

Qui parte “Watermelon In Easter Hay” brano strappacore tra i più famosi in assoluto della sterminata produzione del chitarrista e compositore di origini siciliane.

Alla fine del brano, che poi è la penultima scena, la parola torna ancora una volta, in via definitiva, al Central Scrutinizer, che mai come stavolta interpreta fedelmente il paternalismo, l’ipocrisia e la viltà di potere.

“Come potete vedere, la musica può rovinarvi. Accettate un consiglio da Joe, fate come ha fatto lui, appendete la vostra chitarra immaginaria e trovatevi un buon lavoro…
Joe l’ha fatto ed ora è un ragazzo felice, ha il turno di giorno agli impianti di ricerca per la cottura dei pasticcini, e possiamo vederlo stringere con sicurezza la canapa sterile di un utensile per la guarnitura dei dolci. Ogni volta che un muffin compare sul rullo di trasporto, lui stringe il dispensatore e ci fa sopra un piccola rosetta verde.”

E qui si apre il gran finale, che si intitola proprio “A Little Green Rosetta”, con tutti gli interpreti che invitano in coro a lasciar perdere progetti e aspirazioni individuali, per essere dei piccoli ingranaggi come è stato deciso per noi, passando la vita a fare guarniture su pasticcini.

Questa parte dell’interno di copertina potrebbe far parte di un manuale che illustra i passaggi della riduzione dell’individuo in insetto, simboleggiando il ruolo delle tecnocrazie.

Proprio il contrario di quanto avverrebbe in un vero musical, nel quale un finale che deve essere tutto fiducia e radiosa speranza nel futuro è di prammatica.

La vera morale della storia di Joe è una critica esplicita al sistema in cui viviamo, ai burattini che ne fanno parte al fine di propagandarlo e a chi tira le loro redini. Scopo primario è la massificazione a fini del profitto e del potere di pochissimi, che a sua volta presuppone la repressione del talento individuale con qualsiasi mezzo. Anche mediante la violenza e l’emarginazione, per chi non si assoggetta di buon grado.

Nella fattispecie viene distrutto quello di Joe per la musica e per la chitarra, obbligandolo, se vuole sopravvivere, a ridursi a una sorta di appendice lobotomizzata di un macchinario, con il compito di apporre meccanicamente guarnizioni di zucchero sui pasticcini che escono da un nastro trasportatore.

Il gender, le conseguenze delle biotecnologie e il ruolo delle tecnocrazie sono altri temi anticipati da Zappa in “Joe’s Garage”.

Chiaro che con contenuti del genere, perbenisti, benpensanti e maggioranze silenziose di vario genere, che già ritengono certa musica come roba “per capelloni e drogati” come disse a suo tempo il più vanesio dei collaboratori della redazione in cui lavoravo, vedrebbero come il fumo negli occhi l’opera zappiana nel suo insieme.

Chi non la conosce a sufficienza ha qui gli spunti necessari per comprendere parte dei motivi dei suoi eterni conflitti con le major discografiche.

Si può ritenere anche che con la detenzione di Joe, Zappa abbia voluto in qualche modo rievocare una disavventura accadutagli all’inizio della carriera, che lo portò in carcere. Siccome era sospettato di essere un pornografo, eseguendo una palese induzione al reato un poliziotto gli chiese di produrgli un filmetto osè. Zappa non aveva i mezzi per realizzarlo e così propose di realizzare una registrazione audio. Il committente fu d’accordo e non appena gli venne consegnata procedette all’arresto. Quell’avventura costò a Zappa una quindicina di giorni o forse più di carcere tra detenzione preventiva e pena da scontare, oltre a una serie di prescrizioni minori. Non dimenticò mai l’accaduto, tanto è vero che già nel brano “San Ber’dino”, da San Bernardino, luogo della prigione in cui fu rinchiuso, aveva fatto riferimento alla cosa, parlando della cella “C”.

Joe’s Garage” rappresenta in ultima analisi la metafora della riduzione forzata dell’uomo in scarafaggio, inteso quale essere privato di raziocinio e pensiero autonomo, come del resto suggerito dalla simbologia all’interno della copertina degli atti 2 e 3.

Quest’opera dall’impianto solidissimo, a livello musicale e di sceneggiatura, non ha mai trovato rappresentazioni teatrali a livello professionale o cinematografiche. Che invece hanno abbracciato vere o proprie idiozie come “Grease” o le pretestuosità pseudoreligiose alla “Jesus Christ Superstar”. Non credo si tratti di una dimenticanza fortuita per una storia concettualmente più profonda dello stesso “Tommy”.

Già da sole del resto, le cover degli album zappiani potrebbero essere un ottimo argomento per trattati di sociologia o per mostre d’arte “parallela”. Pensiamo alla cornice del quadro rappresentato su “Over-Nite Sensation”, all’emersione dalla tomba di “Hot Rats”, al muro sbrecciato che contorna il lavandino di “Waka Jawaka”, alla battaglia egizio-romana di “Grand Wazoo”, al rasoio – donnola di “Weasels Ripped My Flesh”, oppure all’aspirapolvere che suona il suo tubo come un sassofono in una scena forestale notturna rischiarata dalle lucciole, all’interno di “Chunga’s Revenge”. Molte di esse sono opera di Cal Schenkel, altro grande artista che ha collaborato a lungo con Frank Zappa, e che merita un doveroso omaggio.

Zappa è stato forse l’artista che, forzosamente inquadrato nel genere “rock”, meno ha sopportato restrizioni alla sua creatività irrefrenabile, espressa in una serie di contesti davvero multiforme, come testimonia una discografia parecchio corposa.

“Joe’s Garage” rappresenta in tale ambito una delle sue opere più fruibili per il vasto pubblico sotto il profilo musicale. Anche se forse il primo atto è musicalmente più smagliante, nel secondo e nel terzo ci sono gli spunti che spingono maggiormente alla riflessione. La musica riecheggia a tratti temi già eseguiti nella prima parte, come in “Sy Borg”, quasi una “Lucille” in versione più languida e rarefatta. Negli altri momenti lo score si fa deprimente e ossessivo, in parallelo allo svolgersi della sceneggiatura. Anche stavolta spazia su una serie stili diversi, fino alla quasi disco di “Stick it out”, prerogativa evidenziatasi con chiarezza ancora maggiore già nel primo atto.

In “Joe’s Garage”, soprattutto, Zappa non si accontenta di comporre ed eseguire musica sopraffina, ma come spesso faceva sottopone all’attenzione del suo pubblico una lunga serie di temi sui quali riflettere a fondo.

Un grandissimo musicista, insomma, che ha sempre voluto condurre la propria attività in maniera libera da imposizioni o condizionamenti di sorta. Non si è accontentato di fare solo musica, oltretutto della migliore, ma ha voluto abbinarla a un’opera concettuale altrettanto solida.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Vorrei infine segnalare il bell’album realizzato da Marco Vallerga nel gruppo Facebook Audiophile Music Club, in cui sono raccolti i link alle traduzioni dei brani di Joe’s Garage pubblicate su Youtube da Johnny Murale.

https://www.facebook.com/groups/1535304010066487/permalink/1873009366295948/

 

 

 

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