Opere rock: Joe’s Garage Act 1

Joe’s Garage è una storia stupida riguardo a come il governo stia cercando di sbarazzarsi della musica (causa primaria di comportamenti di massa indesiderabili). È una specie di recita scolastica davvero da poco… Nel modo in cui avrebbe potuto essere eseguita 20 anni fa (ossia a fine anni ’50 n.d.r.), con tutte le scene fatte da scatole di cartone dipinto. Somiglia anche a quelle conferenze che le sezioni antínarcotici locali solevano tenere (dove ti mostrano quelle lavagne con su tutti i modi in cui puoi distruggere te stesso, con le pillole che portano all’erba, che a sua volta porta all’ago, ecc., ecc.).”

Frank Zappa, 1979, note di copertina di “Joe’s Garage

 

 

Insignito della Legion d’Onore dal ministro della cultura francese, nomi­nato ambasciatore culturale dal presi­dente dell’ex Repubblica Cecoslovac­ca Havel, la sua musica è stata diretta da Zubin Mehta e Pierre Boulez: un curriculum niente male per uno che, almeno dalle nostre parti, doveva gran parte della sua notorietà iniziale a un poster in bianco e nero che lo ritraeva nudo, seduto su un gabinetto.

Seppur catalogato tra gli artisti rock, la sua musica ha attinto dai generi più disparati ed imprevedibili, dal doo wop degli anni giovanili al rhythm and blues e al jazz, al funky, al­la musica latina ed all’anarchismo so­noro degli esordi, ma anche alla musica “colta”. Varèse, Schoenberg, Webern, Stravinskji sono i nomi cui più spesso si è fat­to riferimento per inquadrare la musica zap­piana. II tutto, com’è naturale, completamen­te enucleato dal contesto originario e risinte­tizzato secondo le sue personalissime conce­zioni musicali. Condito per di più da una sati­ra particolarmente feroce nei confronti del conformismo e delle repressioni tipiche della classe media americana. Il tutto espresso con una fan­tasia oltre l’inverosimile che ha fatto dei suoi testi qualcosa degno d’una antologia teatrale. Esempio tipico “The Illinois Enema Bandit“, storia di un bandito che se ne va in giro prati­cando clisteri alle sue vittime di sesso femminile. Le quali però, una volta catturato e sottoposto a processo, dal banco dei testimoni implorano il giudice di liberarlo…

Il gusto per la parodia e la dissacrazione era un’altra tra le sfaccettature più evidenti del carattere di Frank Zappa: per rendersene conto basta os­servare la copertina di “We ‘re Only In It For The Money“, parodia dell’artwork per il famosissimo “Sgt. Pepper Lonely Hearts Club Band“. Pervaso da un’atmosfera languidamente rétro, in esso i Beatles posa­vano vestiti con sgargianti ma ordinatissime divise di raso, assieme a cere di personaggi celebri e attorniati da una fantasia floreale.

Un tipo così o lo si ama o lo si odia, non pos­sono esserci vie di mezzo, e infatti questo è stato il responso del pubblico nei suoi con­fronti. Tutto sommato però, almeno tra i cul­tori della musica di oggi, sono forse in maggioranza quelli che hanno apprezzato la sua opera, la quale peraltro non è che facesse molto per facilitare la penetrazione presso le fasce di pubblico più ampie. Motivo per cui la carriera di Zappa è stata segnata da una serie inverosimile di vicissitudini contrattuali con le case discografiche. Zappa e la sua musica sghimbescia, costellata da cambi di tempo continui, e basata su figu­re ritmiche di complessità estrema, pretende­vano moltissimo dai musicisti chiamati ad accompagnarlo nelle sue scorri­bande sonore. Lo si comprende ascoltando uno qualsiasi tra i suoi album, e ancor di più se si pensa al fatto che nelle sue tournée, te­stimoniate da album come “The Best Band You Never Heard” e “Make A Jazz Noise Here“, c’erano circa un centinaio dei suoi pezzi peggio che ostici in repertorio. Il gruppo co­munque doveva essere sempre pronto ad eseguirli, in forma perfetta, a un suo cenno.

Tutto ciò quando un gruppo di comuni musicisti, per montare un solo pezzo di Zappa ed eseguirlo con pre­cisione sufficiente, potrebbe aver biso­gno di settimane e forse di mesi.

Un’altra testimonianza dell’attività dal vivo di Zappa è “Roxy, The Movie“, che riprende uno tra i suoi concerti più celebri, in cui si esibì quella che fu probabilmente il suo gruppo migliore, quello con George Duke, Chester Thompson e Napoleon Murphy Brock. Molto interessante nel video è l’impiego della doppia batteria, soluzione non molto praticata ma parecchio godibile quando dietro i tamburi siedono elementi in grado di intersecare nel modo più consono la loro azione.

Non a caso i fuoriusciti dai gruppi zappiani hanno sempre goduto della massima considerazione a livello tecnico e stilistico: si pensi a gente come Patrick O’Heam, Vinnie Colaiuta, Terry Boz­zio, i fratelli Fowler, Steve Vai, George Duke, Jean Luc Ponty, Ian e Ruth Un­derwood, Max Bennett e molti altri. Produttore di film che quasi mai han­no visto la luce per problemi di bud­get, a parte il noto “200 Motels“, e di lavori sinfonici di eguale destino, co­me “Music for Violin and Orchestra” “The Yellow Shark“. “Perfect Stranger“, Zappa ha realizzato anche un’opera rock come “Joe’s Garage”, che forse non è il suo lavoro musicalmente più illustre, ma ha il merito di metterne in piena luce le capacità compositive, per certi versi incredibili. Lo mettevano in grado di spaziare tra i generi più disparati e contrastanti l’uno con l’altro, ma sempre con una proprietà di linguaggio che coglieva appieno essenza e significati di ognuno. Tali aspetti magari potevano essere condensati in uno spezzone della durata di pochi secondi, a sua volta mescolato assieme ad una quantità industriale di spunti di origi­ne diversa.

“Joe’s Garage Act 1” è il primo disco pubblicato dalla Zappa Records, distribuita in Europa dalla CBS con l’etichetta della quale l’album arrivò sui mercati del nostro continente. Fu pubblicato il 3 settembre 1979, seguito il 19 novembre dello stesso anno dal doppio LP contenente gli atti 2 e 3

II primo atto di “Joe’s Garage” è forse l’esem­pio migliore dell’attitudine di Zappa nello spaziare tra forme musicali diverse senza alcuna soluzione di continuità: ciascuno dei brani su cui si articola, pur legati da un filo comune, appartiene a un gene­re diverso, mantenendo sempre un’impeccabile correttezza formale, oltre ad una facilità e ad una gradevolezza che forse non hanno egua­le nella sua sterminata produzione. Suddiviso in tre atti “Joe’ s Garage”, almeno a livello musicale, spara molte delle sue cartucce miglio­ri nel primo.

Il disco inizia con la voce del “Central Scruti­nizer“, personaggio che ha il compito di im­porre leggi che ancora non sono state approvate. Spiega che gli istituti di pena sono pieni di tipi comuni, ma che fanno cose sbagliate. Molti vi sono stati guidati da una for­za orribile, chiamata musica.

“I nostri studi hanno dimostrato che questa for­za orribile è così pericolosa per la società che leg­gi speciali stanno per essere approvate alfine di fermarla, ora e per sempre! Punizioni crudeli ed inumane sono descritte in caratteri piccolissimi, dimodoché non entrino in conflitto con la Costi­tuzione (che, di per sé, si sta modificando per adattarsi al FUTURO).”

Qualsiasi riferimento alla realtà che stiamo vivendo è puramente casuale. A dimostrazione, oltre a tutto il resto, delle capacità profetiche di Zappa.

Tutto il discorso è supportato da un tappeto ritmico di classica tessitura zappiana, ed introduce alla storia che sta per iniziare. Mettendo in guardia contro i rischi cui va incontro chi è proprio deciso ad intraprendere una carriera in am­bito musicale.

Di punto in bianco il Central Scrutinizer si interrompe e inizia a ripetere una frase apparentemente senza senso: “The White Zone is for loading and unloading only, if you have to load or unload, go to the White Zone“. Questo vuole sottolineare la natura intrinsecamente erratica dei sistemi automatizzati, stridente con l’aura di infallibilità a tutta prova che ci si compiace di attribuirgli. Zappa vuole suggerire così l’estrema pericolosità di determinati atteggiamenti, tanto più se a quei sistemi viene delegata una funzione legata alla gestione del potere, proprio come come nel caso del Central Scrutinizer.

Quella frase era in realtà un annuncio ripetuto di continuo all’aeroporto di Los Angeles, che evidentemente aveva colpito Zappa e quindi decise di utilizzarla a modo suo.

Parte così la seconda scena con “Joe’s Gara­ge“, la prima è appunto quella del Central Scrutini­zer. Il brano si ispira al rock da cantina, fatto di due accordi e suonato da tanti gruppi giovanili a carattere dilettante­sco. Descrive gli inizi della carriera di Joe, con genitori e vicini arrabbiati che gridano di abbassare il volume, o almeno di suonare una canzone carina. Alla fine una vicina chiama la polizia: già al termine di questo brano, Joe, impersonato da un Ike Willis in forma splendida, conosce i primi guai con la giustizia: il garage viene circondato addirittura da una squadra di teste di cuoio, simboleggiando lo spiegamento di forze del tutto sproporzionato con cui le forze dell’ordine usano reprimere i reati minori, lasciando del tutto impuniti quelli di ben altre proporzioni.

Il Central Scrutinizer tuttavia ci rassicura che non hanno avuto la mano pesante con lui. “Un consigliere amichevole” gli ha offerto una ciambella, col suggerimento di avvicinarsi alle at­tività sociali della chiesa cattolica“.

La terza scena è allora “Catholic Girls“: sorta di connubio improbabile tra una canzoncina più simile a una cantilena infantile stile “Grease” ed il miglior musical di Broadway che abbiate mai sentito. Cose che solo Zappa riusciva a fare. L’inciso è da brividi, in esso Ike Willis sfodera le sue doti vocali eccellenti. Descrive una festa, data nei locali dell’organizzazione giovanile cat­tolica (CYO), con padre Riley sempre atten­to affinché le luci non siano troppo basse… “Ragazze cattoliche, con dei piccoli baffetti“, di­ce il testo, mentre padre Riley (Frank Zap­pa) si chiede assieme ad altri partecipanti al­la festa, cosa facciano, e come, dopo lo show “How do they go, af­ter the show“. La risposta di Joe nell’inciso è “All the way, that’s the way they go“: fino in fondo, facendo implicito riferi­mento ai loro costumi sessuali. Il tutto senza volgarità ma giocato sul filo di un doppio senso pieno di humour.

Mary, la ragazza che Joe aveva conosciuto in parrocchia, e con la quale si teneva mani nelle mani, condividendo un sentimento di grande purezza, si comporta proprio in quel modo con Larry, che suona­va con Joe e ora è fra i tecnici (road crew) di una band di successo, i Toad-O, per entrare gratis a un concerto. Così lei diventa una “Crew Slut“, titolo della quarta scena. Si tratta di uno “shuffle” parecchio tirato, con un lungo solo di armoni­ca che rende al meglio l’atmosfera infuocata della jam session effettuata dai tecnici dopo aver preso a prestito gli strumenti del grup­po rock che supportavano.

Al termine della jam, Mary inizia il viaggio da una città al­l’altra a bordo del loro autobus. “I am into leather… “, la­voro nel campo dei pellami, che non devono essere esattamente quelli da borsette. “All the boys in the crew love leather” è la tranquillizzante ri­sposta di Larry, che le annuncia di avere an­che un regalo per lei: “Ti piacerà, somiglia ad un Telefunken U47“, probabile allusione a un microfono Neumann, denominato appunto U47.

La carriera di Mary come ragazza del bus non dura troppo a lungo, dato che dopo qualche settimana viene scaricata dal gruppo, lontana da casa e senza un soldo. Motivo, era troppo esausta per il tour de force cui era stata sottoposta dai roadies per lavare anche la loro bian­cheria.

Qui finisce la prima facciata dell’al­bum, con Mary (Dale Bozzio, sorella del bat­terista Terry) che offre un saggio tra i mi­gliori di voce sexy femminile.

La seconda parte dell’album inizia con “Wet T-Shirt Nite“, la notte della maglietta bagna­ta, uno di quegli eventi all’americana che si svolge in un locale chiamato “Brasserie”. Si tratta in pratica della passerella di un grup­po di ragazze che cercano di guadagnare un premio di cinquanta dollari, in palio per quella che può mostrare il miglior panorama attraver­so la sua t-shirt, debitamente inzuppata.

L’atmosfera è descritta da un solare funky rock di matrice californiana, nel quale spicca ancora una volta la voce so­lista di Ike Willis, prima che si innesti il par­lato relativo allo svolgersi del concorso. Mary vince il premio ed è contenta perché può finalmente tornare a casa: il maestro di cerimonie è nientemeno che padre Riley, cui nel frattempo è stata tolta la tonaca per non aver raggiunto la sua quota (si immagina di contributi alla chiesa), si è fatto crescere i capelli, e si è trasferito a Miami col nuovo nome di Buddy Jones. Dice: “Home is where the heart is“. Ma Mary risponde: “On the bus!

Parte così “Toad-O Line“, unico brano stru­mentale dell’album, idealmente eseguito dal gruppo residente al “Brasserie”. Si tratta di una versione modificata di uno dei numeri da hit dei Toad-O, alla cui squadra di tecnici Mary si era aggregata. È improntato ad un fusion-rock d’avanguardia, nel quale Zappa esegue l’immancabile e fiammeggiante lun­go solo di chitarra.

Warren, uno degli ex membri del gruppo di Joe, riconosce Mary e informa il vecchio amico dei suoi exploit “artistici”. Così il protagonista di questa storia si lascia sedurre da una ragazza che lavora al “Jack-In-The­-Box”, Lucille, dalla quale però si prende una brutta malattia.

La settima scena è intitolata “Why Does It Hurt When I Pee?“: un heavy rock nel quale Joe si chiede dove possa averla presa.

Si arriva così alla scena finale del primo at­to, “Lucille Has Messed My Mind Up“, triste slow a tempo di reggae in cui predomina un basso elettrico senza capotasti vagamente alla Pastorius. Nel brano Joe comprende che Lucille gli ha an­cor più messo a soqquadro la testa, già disorientata dagli avvenimenti precedenti. Il brano di chiusura lascia effettivamente un po’ di malinconia anche in chi ascolta, ma l’ultima parola è per il Central Scrutinizer, che fa un riassunto di quanto è accaduto:

Joe dice che Lucille gli ha incasinato la mente, ma è stata la ragazza o la musica? Come vedete, ragazze, musica, malattia, disordine esistenziale, vanno tutti insieme”.

Qui Zappa fa riferimento implicito ai principi senza senso che il potere vuole imporre a ogni costo, incarnato appunto dal Central Scrutinizer. Che, ricordiamo, ha il compito di far rispettare leggi non approvate: proprio nello stesso modo in cui qui da noi è stata imposta di fatto una Costituzione materiale del tutto contraria a quella ufficiale, senza che ci sia stato bisogno di toccare quest’ultima. Arriva al suo scopo, ossia imporre anche i principi più astrusi e meno accettabili, manovrando deliberatamente e senza scrupolo alcuno fino a produrre le condizioni tali da renderli privi di alternativa.

Viene confortato in tal modo il postulato iniziale del Central Scruti­nizer, figura che incarna idealmente tutti co­loro che si dedicano alla repressione dell’al­trui libertà, e che ha il fine ultimo dichiarato di eliminare la musica. Potrebbe sembrare una forzatura, ma in realtà quanta di quella prodotta oggidì può essere definita come tale?

Nelle note di copertina Zappa avverte che

“Per quanto lo svolgersi della storia possa apparire un po’ ridicolo, si può essere con­tenti di non vivere in uno di quei paesi dove la musica deve sottostare a moltissime re­strizioni, o addirittura è del tutto illegale.

Sempre le note di copertina si aprono in questo modo:

“Incapaci disperati negli uffici ai piani alti di tutto il mondo, sono conosciuti per dare atto ai più disgustosi pezzi di legislazione, alfine di ac­caparrarsi voti (o, nei posti dove non si vota, di controllare forme non volute di comportamento di massa)”.

Le leggi ambientali non sono state approvate per proteggere l’aria e l’acqua, ma per prendere voti. Le campagne stagionali contro i comportamenti osceni non sono condotte per trarre la comunità fuori dalla dissoluzione morale… Lo sono per dare un’aura di santità ai cercatori di poltrone che le supportano.

Solo l’ultimo di una lunga serie.

Se si inseriscono alcune frasi chiave in un qualsiasi discorso (come gli esperti consiglieri spiegano a queste varie teste di stato), i voti arriveranno a rotoli, i dollari arriveranno a rotoli, e, più importante, il potere sarà mantenu­to dal tipo in gamba che ha la migliore copertura da parte dei media per i suoi discorsi inconsi­stenti. Naturalmente ai suoi amici coinvolti nei business più disparati arriderà altrettanta fortu­na.

“Tutti i governi perpetuano se stessi attraverso il commissionamento giornaliero di atti che una persona razionale potrebbe trovare stupidi o pe­ricolosi, o anche tutte e due le cose insieme. Il nostro governo non fa eccezione… Per esempio, se un Presidente (uno qualsiasi di essi) andasse in TV e stesse seduto con alle spalle la bandiera, e guardando sinceramente nella telecamera di­cesse che tutti i problemi di energia e di inflazio­ne sono stati esaminati e potrebbero essere risolti abolendo la musica, con ogni probabilità la mag­gior parte della gente gli crederebbe, pensando che la delegalizzazione di questa noiosa forma di inquinamento acustico sarebbe un piccolo prezzo da pagare di fronte alla possibilità di pagare poco il petrolio come ai bei tempi. Impossibile? I dischi sono fatti col petrolio, gli show dei gruppi rock vanno di città in città con assetati camion da 15 metri, e quando arrivano consumano enormi quantitativi di energia con le loro amplificazioni, le luci, i sistemi PA, le mac­chine del fumo e tutti quei sintetizzatori… Guardate con quanta plastica sono fatti, per non parlare dei plettri…”

Queste parole datano al 1979 ma contengono passi che sembrano profetici, soprattutto se rapporto a numerosi aspetti della situazione politico-sociale attuale. Vivendo negli Stati Uniti, Zappa ha di sicu­ro potuto fare una serie di esperienze che in altri paesi si sarebbero vissute solo diversi anni dopo, ma ancora una volta il suo spiri­to iconoclasta ed irridente aveva visto nel giusto.

“Joe’s Garage” merita di essere ricordato anche per­ché è un disco molto ben riuscito sotto il profilo tecnico. Per quanto non si tratti di una registrazione particolarmente neutrale o diretta, le tecniche di ripresa caratterizzate da un impiego di effetti particolarmente oculato hanno permesso di dar vita a sono­rità realistiche, brillanti, ed allo stesso tem­po coinvolgenti. Tutto ciò a partire dall’edizione vinilica originale, la cui qualità sonora svetta nei confronti degli LP pubblicati nello stesso periodo.

 

 

 

6 thoughts on “Opere rock: Joe’s Garage Act 1

  1. Certi “Direttori” devono fare i conti, oggi, con internet.
    A me piace leggere le opinioni che girano in rete sui dischi che conosco, leggo volentieri sia i Bloggers che i Forumers e i gruppi di Facebook, indistnintamente e le recensioni mi appaiono solitamente più sincere che quelle che leggo su carta stampata. Anche quelle che non condivido.
    La passione che trapela viene proprio dalla presentazione del pregresso al disco in questione, alla storia umana e musicale dell’ artista, al suo spessore: il prologo alla recensione vera e propria. Spesso mi sono chiesto perchè pretendere di recensire “male” venti dischi in due pagine quando si potrebbero scegliere i cinque migliori e recensirli approfonditamente, la risposta che mi sono dato è la più ovvia, interessi economici. Stelline e punteggi, giudizi mai troppo severi, persentazioni scialbe, poca descrizione. E se due più due fà quattro… ci prendono in giro!
    Questa è la mia opinione sulle riviste in generale, tre o quattro recensori li salvo ma anche loro devono stare negli spazi assegnati, mi danno l’ impressione di lavorare con le mani legate.

    Anche in rete, comunque, non ne ho mai trovato una di Joe’s Garage così piacevole, lo ribadisco. 🙂

    1. Caro Marco, che oggi i direttori, e aggiungerei gli editori, debbano fare i conti con la rete è assolutamente vero. Questo ha dimostrato di avere alcuni pro ma anche una lunga serie di contro. E’ da tempo che vorrei dedicare un po’ di spazio alla cosa e prima o poi mi dovrò decidere a farlo.
      Il fatterello che ti ho raccontato però risale a un periodo in cui il problema non si poneva. Forse oggi certa sicumera sarebbe meno sfacciata, anche se in alcuni ambiti l’autoreferenzialità finisce sempre con il prevalere su tutto. In primo luogo sulla logica e l’evidenza dei fatti.
      Anche per il resto del tuo commento non posso che concordare appieno. Se ancora non lo avessi letto, ti segnalo l’articolo “Perché le riviste parlano bene di tutto“. Riguarda le riviste specializzate nella riproduzione audio ma certe logiche sono le stesse per tutti. Poi ci sono anche altri elementi, come la necessità di cronaca, gli spazi disponibili e i tempi concessi: non di rado si commissionano articoli che devono essere pronti per ieri. A tutto questo si affianca l’attrazione irresistibile per la mediocrità, la mentalità a compartimenti stagni, il desiderio o meglio l’istinto a compiacere il maggior numero di persone possibile e soprattutto quello di restare entro ambiti prestabiliti. A questo proposito ho parlato più volte di autocensura, pratica oltremodo degradante e per me inaccettabile. In base alla mia esperienza personale, riconfermata da fatti recenti, posso dire che per la maggior parte di chi opera in determinati contesti il problema non si pone proprio, grazie alla predisposizione a operare ben all’interno di precisi confini. O meglio all’incapacità materiale di scorgerli. D’altro canto i collaboratori si scelgono con oculatezza, in base a parametri ben precisi, e i rompiscatole in genere si fa in modo di tenerli alla larga. Oltretutto i mediocri, che sono sempre in maggioranza schiacciante, tendono in genere a emarginare chiunque non sia come loro e con qualsiasi mezzo. Così facendo è logico che si finisca con l’avere a disposizione solo personale di un certo tipo: chi ha un cervello in grado di funzionare autonomamente e non ha intenzione di spegnerlo a comando, difficilmente può sopravvivere più a lungo di tanto in condizioni simili. Lo stesso vale per certi “direttori”, come tu scrivi giustamente, la caratteristica prevalente dei quali è appunto il meritare l’apposizione delle virgolette alla definizione della loro figura professionale. L’inadeguatezza, innanzitutto a livello concettuale, che esprimono è talmente connaturata in loro che sovente vanno a dimostrarla senza neppure rendersene conto. Anche quello fa parte del gioco: vorrà dire che non andranno mai infastidire più di tanto chi si posiziona gerarchicamente sopra di loro e per questo saranno sempre apprezzati. Tanto di certe cose si accorge solo una minoranza trascurabile. Chiudo ringraziando ancora una volta per il tuo apprezzamento: finirà che mi farai montare la testa 😉

  2. Come al solito Ottimo lavoro Claudio 😀 , su Zappa si parla poco dove si dovrebbe e forse troppo dove non sarebbe necessario 😀 Io mi sono fatto persuaso che la sua Musica ( anche se è limitativo chiamarla solo così) sia il frutto di uno studio molto profondo sulla Musica di tutto il Novecento e parlo sia della musica colta che di quella popolare con una attenzione particolare alla logica comunicativa della Pop-Art . Non certo la smania di protagonismo di Andy o il suo desiderio insopprimibile di diventare una Icona del suo tempo , direi piuttosto il tentativo di sabotare dall’interno il Sistema usando i suoi stessi strumenti espressivi e questo lo avvicina molto più al linguaggio DADA di un Du Champ o Man Ray . Ecco , vedi , stò ricadendo nello stesso errore , sto parlando troppo 😀 invece di ascoltare e riascoltare la trama intricata del sul POPJAZZROCKCABARETPERFORMANCE PERNACCHIA …. ecco , se lui potesse parlare adesso mi farebbe una pernacchia alla Eduardo De Filippo e mi manderebbe a letto senza Carosello con un bel rutto finale

    1. Gran bel commento, Saverio, grazie. Le sfaccettature dell’opera zappiana sono praticamente infinite. Coglierle tutte, attribuendo a ciascuna la valenza esatta è un’impresa ai limiti del sovrumano. Nello stesso tempo però è anche l’elemento che permette di trovare in essa motivi di interesse sempre nuovi, anche a decenni di distanza dal primo ascolto. Spesso il legante del tutto è la sua indole caustica e portata istintivamente allo sberleffo, quale strumento della sua profonda critica sociale, apparentemente superficiale ma capace, come in questo caso, di predire le traiettorie future della repressione e del controllo di massa.

  3. Hai fatto una magistrale introduzione sul Zappa e sul suo entourage in continua evoluzione, hai sviscerato il tema del contest facendo emergere il contrasto tra la banalità del soggetto e la profondità della metafora, hai fatto una perfetta disamina sulla complessa struttura musicale di tutta l’ opera ma , soprattutto, hai colto l’ attualità e l’ universalità del messaggio politico/sociale che Zappa ha lanciato nel ’79. Il tutto con un linguaggio scorrevole, conciso ed essenziale.
    Farti i complimenti è poco, lo dico sinceramente.

    1. Grazie del commento, Marco. Non hai idea di quali e quanti ostacoli trovai, a suo tempo, per poter inserire di tanto in tanto qualche lavoro nella sezione musicale della rivista con cui collaboravo. Comunque vennero sempre accettati di mala voglia, storcendo visibilmente la bocca, affinché si capisse bene che secondo loro mi stavano facendo un piacere a pubblicarli. Uno dei primi lavori che sottoposi venne rifiutato, e quindi anche la possibilità da parte mia di parlare di musica in quel contesto da li a un certo numero di anni, perché l’allora direttore lo fece leggere al responsabile della sezione musicale. Siccome il mio lavoro dedicava parecchio spazio alla storia del musicista di cui parlava ed elencava con buona completezza le sue numerosissime collaborazioni, venne sentenziato che “volessi dare l’impressione di mettere in mostra le cose che sapevo, più che scrivere un articolo”.
      Si trattava di una scusa, probabilmente non del tutto estranea alla palese sciatteria e all’inconsistenza concettuale dei lavori di quel personaggio, che poi finì addirittura in Rai, secondo il quale ogni disco di jazz elettrico era immancabilmente “propedeutico all’ascolto del vero jazz”, e forse al desiderio di evitare paragoni che avrebbero potuto rivelarsi scomodi. Ci sono poi altre logiche più sottili, come quelle che riguardavano l’accaparramento della gran quantità di materiale discografico che arrivava in redazione e l’incompetenza di fondo di quanti dirigevano tutta la baracca. Questi ultimi sembravano più ansiosi di porre degli sbarramenti a persone che avevano deciso d’ufficio fossero inadeguate, che a migliorare il loro prodotto. Il tutto poi andava per forza di cose a formare la logica di fondo con cui si procedeva in quel contesto.

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