La percezione della qualità

Da diversi anni a questa parte uno tra i concetti di marketing più in voga è quello che riguarda la qualità percepita. In poche parole consiste nell’attribuire a un prodotto caratteristiche tali affinché il suo osservatore gli attribuisca una connotazione di qualità, anche e soprattutto qualora essa non trovi una motivazione concreta.

Lo scopo è sempre lo stesso: fare in modo che la commercializzazione di un prodotto sia la più proficua possibile in termini economici.

Tra le numerose modalità possibili atte a pervenire a un risultato del genere, c’è la cosiddetta politica del “premium price”. E’ adottata tipicamente dai marchi che mirano ad attribuire a sé stessi un’immagine di prestigio e ai loro prodotti caratteristiche superiori alla media. Suggerendo al riguardo che se un oggetto costa più di un altro il motivo c’è ed è da attribuire esclusivamente al suo maggior contenuto tecnico e qualitativo.

Che prezzo e qualità debbano andare di pari passo non è sempre vero, dato che la formazione del prezzo finale del prodotto può essere influenzata da una serie di variabili piuttosto ampia.

C’è poi da intendersi sul significato di qualità, che può essere tale in termini assoluti, un esempio tipico è quello inerente l’uso di materiali più raffinati e costosi per la realizzazione del prodotto, oppure riferita ad accorgimenti specifici volti a migliorarne modalità e caratteristiche funzionali.

 

Marketing, cosmetica e massificazione

Nel progredire della società dei consumi, e per le questioni insite alla legge di caduta tendenziale del saggio di profitto, il produttore va a scontrarsi di solito con un numero di competitori sempre più ampio, che si disputano lo stesso osso con determinazione sempre maggiore.

Per stare in qualche modo a galla in un sistema fondato esclusivamente sul denaro, e quindi in cui il merito intrinseco di una qualsiasi attività non ha valore alcuno se il suo tasso di profitto si mantiene al di sotto di una certa soglia, realizzare un prodotto molto valido, o anche per assurdo il più valido in assoluto, non solo non è abbastanza, ma può diventare  insignificante. Se non addirittura controproducente.

Ecco perché tecniche di marketing oltre a essere necessarie vanno acquisendo un’importanza crescente. Quindi si affinano sempre più, mediante la sintesi di concetti, azioni e messaggi via via più elaborati, attribuendo alla comunicazione commerciale il rilievo predominante. Così da innescare un processo che, autoalimentandosi, determina la progressiva perdita di importanza per le proprietà intrinseche del prodotto.

Di conseguenza è all’immagine, e alla sua capacità di evocare gli scenari più suggestivi nella mente del potenziale acquirente, che viene attribuito il massimo del risalto.

Di questo se ne occupano una campagna di comunicazione mirata accuratamente allo scopo e l’inserimento nel prodotto di particolari studiati all’uopo, che nulla hanno a che fare con le caratteristiche legate a quella che un tempo era la sua finalità primaria.

Inevitabile poi che questa tendenza valichi i limiti dell’ambito commerciale, per andare a influire in altri settori, come quelli della politica e del sociale, con ripercussioni evidenti per chiunque abbia la volontà di osservarle

Una laccatura super lusso di tonalità attraente, in combinazione a un design ben studiato può scatenare un istinto di possesso difficilmente controllabile.
Una laccatura super lusso di tonalità attraente, in combinazione a un design ben studiato soprattutto ai fini cosmetici, può scatenare un istinto di possesso difficilmente controllabile.

Il prodotto allora non ha più bisogno alcuno di essere all’altezza della situazione in primo luogo per le sue doti tecniche, e sonore se riguarda il settore audio, ma deve esserlo in primo luogo per quel che riguarda la cosmetica.

Ne consegue una ripartizione dei costi di produzione in cui le voci di gran lunga più significative diventano proprio marketing e cosmetica, lasciando così una percentuale sempre minore per il nocciolo del prodotto, senza più riguardo per il fatto che resta comunque l’elemento determinante per le sue doti.

Tanto poi ci pensano le azioni di marketing palesi e occulte a fare in modo che il pubblico vada a conformare i propri desideri su elementi decisi a tavolino, mentre le doti concrete del prodotto passano da elemento sostanziale a variabile secondaria, relegata sullo sfondo. Questo avviene anche nel settore merceologico riguardante la riproduzione sonora, tantopiù che solo a prezzo di difficoltà maggiori, se non insormontabili come l’impegno formale all’acquisto, oggi è possibile effettuare un ascolto comparativo.

Essendo costretti a lavorare su margini che per tutte le motivazioni fin qui elencate diventano via via più ristretti, va da sé che divenga sempre più difficile dire qualcosa di nuovo o realizzare qualcosa che si differenzi dalla concorrenza, se non per questioni di dettaglio o del tutto insignificanti. Scenario a cui contribuisce anche la massificazione del prodotto, che ha ancora una volta le sue cause in tutto quanto è stato detto, e a sua volta impone limiti sempre più angusti alla creatività del progettista.

Alla lunga ciò determina la perdita di interesse da parte del pubblico e quindi l’isterilirsi dell’intero settore in cui prende piede un fenomeno simile, conseguente alla logica stessa del sistema consumistico, e dunque il progressivo defilarsi dei nomi che un tempo lo avevano fatto grande, al punto da imporlo come fenomeno di massa.

 

La qualità percepita

Ecco allora che in uno scenario simile acquisisce l’importanza maggiore la cosiddetta qualità percepita. Dall’acquirente potenziale, come è ovvio, aspetto che al limite può non avere nulla a che fare con le effettive caratteristiche del prodotto, ma riguarda esclusivamente le impressioni che in esso vengono suscitate in maniera più o meno artificiale.

Dunque la percezione di qualità può basarsi al limite su una valutazione puramente sillogistica, basata sull’imposizione a priori di precise equivalenze, come pure sull’esistenza di elementi cui si viene portati a conferire in automatico il valore di sinonimo di qualità.

Vu-meter, il feticcio per antonomasia, dalla funzione identica a quella delle lampare nelle imbarcazioni da pesca.
Vu-meter, il feticcio per antonomasia in campo audio, la cui funzione non è dissimile da quella delle lampare nelle imbarcazioni da pesca.

Strategie di marketing particolarmente efficaci, infatti, possono fare in modo che a lungo termine non vi sia nemmeno più bisogno di spiegazioni di senso logico concreto nell’attribuzione a un prodotto di determinate caratteristiche da parte del pubblico.

Allo scopo possono bastare uno stemma o un logo per richiamare all’istante determinati significati da un lato, e dall’altro affievolire la soglia di attenzione e i meccanismi atti a discernere il vero dal falso.

Qui allora si passa su un terreno attiguo ma ben differenziato, sebbene i confini tra l’uno e l’altro siano piuttosto labili, che non riguarda più l’affermazione di un marchio presso il pubblico, ma l’imposizione di feticci. Meccanismo nei confronti del quale le capacità di resistenza sembrerebbero inversamente proporzionali al livello della passione di cui si è affetti.

 

Marketing come sistema di controllo a distanza delle sensazioni

Dunque gli strateghi degli uffici marketing, il cui lavoro allora è in larga parte quello di reperire i modi più disparati per far credere al prossimo quel che non è, lavorano da decenni allo scopo di creare gli stimoli più efficaci per indurre a comando nell’acquirente potenziale la sensazione di trovarsi di fronte a un prodotto qualitativamente superiore. Ma senza che i costi di produzione debbano per questo subire un incremento. A parte quelli di marketing, ovviamente, che però si tendono a inserire in un’altra partita.

Il concetto di qualità percepita è stato definito proprio allo scopo.

Come abbiamo detto, ma certi concetti è sempre bene reiterarli, si tratta in sostanza di fare in modo che il pubblico sia convinto di essere al cospetto di un oggetto concretamente superiore rispetto agli equivalenti, al limite anche in assenza di qualsivoglia elemento di differenziazione in merito a materie prime utilizzate, modalità funzionali e livello prestazionale.

A questo proposito l’elemento di comunicazione assume un importanza determinante, mediante l’impiego di parole chiave studiate minuziosamente per indurre determinate certezze nel destinatario del messaggio.

Una tattica più spregiudicata in quest’ambito prevede il causare la rimozione o comunque il rilassamento dei meccanismi atti a riconoscere il vero dal falso e il razionale dall’irrazionale, così da produrre una maggiore disponibilità nell’osservatore a recepire passivamente il messaggio di cui viene fatto bersaglio.

La continua reiterazione dei messaggi atti a questo scopo, tipica della nostra epoca, produce nei suoi destinatari un’abitudine sempre maggiore a compiere l’azione cui sono finalizzati. Per arrivare al punto in cui la si esegue praticamente in automatico, o comunque necessitando di uno stimolo molto meno evidente rispetto a quelle che si potrebbero definire condizioni di partenza. Proprio come avviene nell’addestramento degli animali. All’inizio far capire loro cosa si vuole che facciano è alquanto complesso, ma una volta che hanno compreso il meccanismo basta uno schiocco di dita o un altro segno convenzionale quasi impercettibile per fargli compiere l’azione desiderata.

delfini ammaestrati

In linea di principio, per gli strateghi del marketing i destinatari dei loro messaggio non sono diversi.

Affinché questo processo possa avere luogo nel modo migliore, è necessario che anche chi ne codifica gli stimoli non si renda conto perfettamente di cosa sta facendo. Dato che altrimenti potrebbero subentrare remore di ordine etico o psicologico tali da ridurre l’efficacia della sua azione o un vero e proprio rifiuto.

Allo scopo sono state inventate le scuole di marketing e comunicazione, che servono a preparare il terreno nelle menti ancora non del tutto formate dei loro studenti, affinché introiettino loro per primi determinati concetti. Uno tra i più plateali al riguardo, di cui ho testimonianza diretta sia pure risalente a qualche decennio fa, è che la pubblicità equivale a informazione, poiché “informa dell’esistenza e delle prerogative di un prodotto”.

Difficile davvero sintetizzare un concetto di malafede peggiore di questo. E’ evidente allora che anni di esposizione quotidiana a messaggi simili, e agli altri molto più persuasivi che negli anni sono stati messi a punto, non possano far altro che produrre una classe di persone “addestrate ad addestrare”.

Un’estremizzazione di questo metodo riguarda l’indurre la regressione inconscia allo stadio infantile nel destinatario del messaggio, in modo da predisporre alla massima disponibilità nell’accordare fiducia a chi lo diffonde, cui si tende ad attribuire uno stato di superiorità e quindi il ruolo di guida e modello da imitare.

Azioni del genere fanno parte del vasto arsenale comprendente le modalità di comunicazione subliminali, di cui il marketing più spregiudicato, e quindi più efficace ed elemento primario per la competitività del prodotto, si serve per ottenere i propri scopi.

A questo proposito va rilevato ancora una volta come azioni simili abbiano ripercussioni che vanno ben oltre l’ambito commerciale, predisponendo l’uditorio all’accettazione supina di qualunque misura a livello sociale, economico e politico, alla sola condizione che le parole chiave utilizzate allo scopo siano quelle giuste.

Ecco perché i principi della comunicazione commerciale sono il veicolo migliore per causare il sovvertimento del quadro istituzionale e delle regole cui esso risponde.

Non a caso oggi che le strategie di marketing hanno storicamente raggiunto il loro massimo grado di perfezionamento, l’ordinamento degli stati non risponde più alla sovranità popolare ma all’affermazione degli interessi di minoranze sempre più esigue. Imposti per mezzo della stratificazione su vari livelli di centri di potere sovraordinati ai governi, i componenti dei quali non sono sottoposti ai tradizionali meccanismi elettorali, ma ne entrano a far parte esclusivamente per cooptazione. Per poi essere inseriti nei posti-chiave a livello istituzionale. Lo ha ammesso persino il ministro della giustizia Andrea Orlando in un recente convegno pubblico.

 

Nozioni senza senso e la costruzione del frame

Fondamentale, riguardo alle possibilità di difesa nei confronti dei metodi di comunicazione fin qui elencati , è avere presente che alcuni concetti sono del tutto privi di significato in assenza di riferimenti concreti. Tipico è l’esempio dato da una parola come libertà,  e da altre come competenza e appunto competitività di cui si abusa da decenni, in particolare nella propaganda politica ma non solo.

Libertà allora, va benissimo, e al riguardo siamo tutti d’accordo.

Ma rispetto a cosa?

Al perseguire il compimento delle proprie aspirazioni a livello umano e sociale, nel pieno rispetto delle esigenze altrui, oppure di sbarazzarsi nel modo più spiccio di tutto quanto si frappone all’ottenimento dei nostri scopi, per quali essi siano?

Dunque, in assenza di ulteriori specifiche di relazione e di metodo si tratta di  parole non solo prive di significato, ma che addirittura possono rappresentare concetti del tutto antitetici. Non solo gli uni rispetto agli altri, ma anche riguardo al senso attribuito al messaggio che di quelle parole fa uso. Finendo così per essere la causa prima del profondo degrado etico e di valori tipico della nostra epoca, proprio per l’abuso che si fa di quella parola.

Per questo, allora, quelle parole prive di significato proprio sono le più efficaci nell’imposizione di determinati concetti, automatismi mentali e abitudini comportamentali.

Non a caso la propaganda evita sistematicamente di dire secondo quali termini o in che ambito si debba esercitare la libertà di cui, pertanto, si parla così tanto ma del tutto a sproposito. Tantomeno si fa riferimento agli elementi in assenza dei quali parlare di competitività e di competenza  non ha senso alcuno.

Ecco allora spiegato il concetto di frame, o cornice, ovverosia dell’edificazione di una cornice concettuale, dalle funzioni di  recinto virtuale, al cui interno si rinchiude il destinatario del messaggio, stimolando in esso reazioni istintive per poi sfruttarle a proprio comodo. In modo da spingerlo a pensare in un certo modo e quindi ad agire secondo i desideri di chi si avvale di tecniche simili per i propri scopi.

Al riguardo, allora, un metro di valutazione piuttosto efficace riguardo alle intenzioni di una qualsiasi entità consiste proprio nel verificare prima se esista, e poi quale sia il contesto di senso compiuto, in cui si inseriscono le parole e i concetti utilizzati nei messaggi che diffonde.

Lo stesso vale per la parola qualità, che proprio come libertà, competitività e competenza, è priva di significato in assenza dei necessari elementi di riferimento, qualificazione e applicazione.

 

Qualche esempio

Prendiamo un ferro da stiro, rispetto al quale saremmo portati a pensare che se dotato di un manico in ottone massiccio e lucidato per renderlo particolarmente brillante sia di qualità maggiore rispetto a uno che lo ha in vile plastica, proprio per il significato che attribuiamo istintivamente a ciascuno dei due materiali.

Quanti però andranno oltre, per valutare se, in che misura e in quali condizioni un manico siffatto possa migliorare in concreto la durata, l’efficacia e l’utilizzabilità di quel ferro da stiro? Una minoranza ed è proprio su questo che gioca la comunicazione pubblicitaria.

Un manico di ottone, per quanto di aspetto gradevole o anche vistoso, proprio perché più pesante, non solo renderà più faticosa la stiratura, ma comporterà uno sforzo maggiore per l’intera struttura dell’oggetto.. Quindi un elemento cui si tende ad attribuire una valenza di qualità maggiore, in realtà può rivelarsi controproducente.

Riportando questo esempio al settore di nostro interesse, possiamo vedere come la produzione di apparecchiature audio sia particolarmente attenta all’utilizzo di soluzioni e materiali atti non solo a indurre nell’osservatore la percezione di qualità superiore, ma che siano spendibili al riguardo, in modo tale che, proprio in virtù della loro presenza, l’acquirente potenziale sia portato a pensare che il prodotto cui si trova di fronte valga effettivamente i soldi che costa. O meglio, che sia addirittura un affare e comunque migliore dei concorrenti.

Dunque un cavo audio non basta che sia in rame, materiale conduttore per eccellenza, ma deve essere necessariamente almeno in rame OFC. Poi quanti sono quelli che conoscono l’effettivo significato di tale sigla o ancora di più quale sia l’apporto di quel rame ai fini della qualità sonora, è tutto da vedere.

Come lo è se esistano determinati accorgimenti realizzativi la cui efficacia ai fini prestazionali sia maggiore di quella del rame OFC. L’uso della quale, in base al significato che ne è stato imposto, a questo punto, può avere la valenza di schermo nei confronti di accorgimenti più efficaci ma che l’industria potrebbe non avere convenienza ad adottare.

Così la reale efficacia di un cavo OFC in realtà non importa più di tanto, poiché è da decenni ormai che si batte su quella sigla. Al punto da averla trasformata in una sorta di marchio di origine controllata, cui il pubblico è stato istruito non solo ad attribuire in automatico un significato di valore più elevato, ma anche di elemento atto a definire esaustivamente  la qualità del prodotto.

In breve, è il concetto antico e pluriabusato nella pubblicità ma sempre valido, del “basta la parola”. Quello che i miei coetanei ricorderanno come slogan associato a un lassativo, pronunciato da tino Scotti.

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Tutto questo al di là del fatto che il rame OFC abbia o meno un valore intrinseco superiore in termini assoluti a quello normale, il che equivale a dire che determini comunque un incremento significativo per la qualità sonora per il cavo che ne fa uso rispetto a uno che ne è sprovvisto, in linea di principio non vi è differenza alcuna dalle tristemente note teorie goebbelsiane, secondo le quali qualsiasi menzogna si trasforma in verità mediante la sua ripetizione ossessiva.

Che poi certi sistemi siano utilizzati anche in contesti che fanno un punto d’onore nel definirsi democratici, è un particolare su cui  è meglio sorvolare.

Dunque non importa se il cavo del nostro esempio è più o meno efficace nel trasportare nel modo migliore il segnale audio da un’apparecchiatura all’altra dell’impianto. L’essenziale è che sia realizzato mediante una serie di accorgimenti e materiali tali da essere spendibili ai fini della promozione di un’immagine qualitativamente ineccepibile agli occhi del compratore.

In modo che questi sia indotto a pensare che il prezzo di vendita è giustificato e soprattutto che l’oggetto in questione sia proprio quello che fa al caso suo.

Questo comporta che nella realizzazione di un prodotto non si usi il materiale più valido allo scopo, ma in primo luogo quello atto a suggerire all’osservatore che si tratti di quanto più indicato ai fini della sua massima efficacia per le funzioni che andrà a svolgere.

Subito dopo in ordine di importanza è che quel materiale sia indicato alla formazione di un prezzo di vendita massimamente conveniente per il produttore e tutta la filiera di distribuzione. La quale non sceglie mai il prodotto migliore, ma quello che permette il profitto più elevato.

 

Sigle, sigle, sigle

Un’estremizzazione piuttosto diffusa di questo concetto è quella che riguarda la sostituzione di prerogative tecniche e realizzatie concrete con le sigle.

Tipico al riguardo è l’esempio del multicanali, le cui apparecchiature, in particolare sorgenti e amplificatori, inalberano sui loro frontali un vero e proprio gran pavese di sigle diverse, cui attribuire un significato concreto è compito arduo, che presuppone il dedicarsi a un opera di ricerca e aggiornamento continua e annosa, quando non sovrumana. Andando a sostanziare come meglio non si potrebbe una realtà deprimente: quella che la tecnologia non è più al servizio dell’uomo, ma è l’uomo che non solo è stato messo al suo servizio ma ne è diventato ostaggio.

A ciascuna di quelle sigle si vorrebbe attribuire una valenza di qualità, cui si dovrebbe pervenire mediante l’impiego di soluzioni tecnologiche dalla raffinatezza sempre crescente. Ciò suggerirebbe allora che quante più sono le sigle inalberate dai frontali delle apparecchiature, tanto maggiore sia il valore di queste ultime. Estremizzando la pratica di questo concetto, ci si viene a trovare in realtà in una situazione opposta: con l’impiego di tutte quelle sigle si può mascherare nel modo più efficace la povertà di fondo in termini di contenuti tecnici concreti, e ancor più di doti musicali, che attanaglia la maggioranza schiacciante dei prodotti multicanali. onkyo-integra

Oggi sembra che la tendenza si sia alquanto attenuata, ma non prima di aver prodotto esagerazioni prive del minimo senso della misura, come quando si gareggiava ad allineare il più ampio numero di sigle sulle amplificazioni multicanali, fino a ricoprirne l’intera larghezza del frontale.

Il concetto relativo all’attribuzione di un sinonimo di qualità non vale soltanto per le sigle come appunto OFC, THX ecc. ma può essere utilizzato anche per un formato, ambito in cui è ancora più efficace, in particolare per l’audio digitale.

Nel momento in cui l’industria del settore ha deciso che il potenziale commerciale del formato originario del CD, il 16/44 era esaurito o prossimo a diventarlo, ne ha lanciato uno nuovo, il 24/192 e via di seguito, con tempi di ricambio sempre più ridotti.

In questo caso sfruttando il potere persuasivo dei numeri, che mai come nel settore della riproduzione sonora è riuscito ad acquisire un rilievo tanto rimarchevole, sia pure in maniera inversamente proporzionale al loro valore concreto, ovvero all’influsso materiale che hanno sulle doti sonore della riproduzione, dato che non significano assolutamente nulla.

Malgrado il potenziale evolutivo e l’effettivo sfruttamento delle prestazioni che il 16/44 è in grado di offrire fosse ben lungi dall’esaurirsi, si ritenne conveniente passare al 24/192.

In questo modo ci si poteva innanzitutto sbarazzare, almeno per un lasso di tempo, della concorrenza non in grado di realizzare in breve macchine operanti sul nuovo standard o che magari si trovava nel bisogno di smaltire grossi stock delle vecchie. Poi si è indotto uno stimolo all’acquisto in un pubblico che, altrimenti, non avrebbe motivi sufficienti per convincersi di essere nelle condizioni di dover acquistare una nuova sorgente digitale.

Allo scopo è molto importante la comunicazione di cui si occupano le riviste di settore. Esse al limite non avrebbero neppure bisogno di battere sul concetto di superiorità intrinseca del nuovo formato. Basta semplicemente che inizino a parlare solo di esso, trascurando per forza di cose il vecchio, dato che ormai è qualcosa di sorpassato in base al progresso tecnologico. Altro concetto privo di significati propri, stra-abusato e innalzato al ruolo di feticcio, ma lasciamo perdere altrimenti non se ne esce più.

Ci penserà poi l’immaginazione del lettore, adeguatamente addestrata e stimolata allo scopo, a costruirsi uno scenario tecnico e prestazionale di fantasia. Nel quale, proprio perché quanto lo ha preceduto ed è stato imposto con le medesime tecniche di comunicazione si è rivelato un fallimento, con l’impiego del nuovo formato verranno abbattute finalmente, e come per incanto, tutte le barriere che si frappongono ai risultati che desidera ottenere.

Il bello di questi meccanismi indotti è che riescono in maniera straordinariamente efficace a neutralizzare i meccanismi di comprensione e discernimento nel destinatario dei messaggi che li includono. Rendendolo sostanzialmente incapace di comprendere che si tratta solo di qualcosa che, seppure, potrà andare meglio del vecchio formato solo marginalmente. Dato che ne condivide tutte le limitazioni di fondo, nessuna esclusa. Quindi, ammesso e non concesso che una mera maggiorazione del numero di dati utilizzati possa comportare effettivamente un miglioramento prestazionale, esso non potrà che essere ogni volta più sfumato.

Soprattutto, nessun nuovo formato è in grado di trasformare una cattiva registrazione in qualcosa di valido solo per il fatto che opera su 8 bit in più e a frequenza di campionamento quadrupla. Casomai, potrà metterne i difetti in evidenza maggiore.

Quella cattiva registrazione, in qualunque modo sarà riprodotta suonerà sempre male. Una buona registrazione invece, anche se solo in MP3, potrà dare risultati di ben altro rilievo. Questo naturalmente le riviste non lo dicono, perché quello che si deve vendere è il nuovo formato, punto.

Naturalmente poi la propaganda di settore evita con la massima cura di fare riferimento a qualsiasi elemento men che positivo del nuovo formato. Del nuovo standard si parla immancabilmente bene, al di là del fatto che va a sostituire qualcosa ben lungi dall’esaurire il suo potenziale tecnico e musicale, e inoltre non può sovvertire il rendimento, come invece si vorrebbe far credere, di impianti gravati da ben altri problemi.

Fermo restando, poi, che passato qualche anno e un nuovo formato verrà presentato si ricomincerà punto e daccapo con lo stesso gioco.

Per di più, malgrado ogni cosa di questa terra abbia i suoi pregi e difetti, della novità si  parla solo ed esclusivamente in termini positivi. Un po’ perché le riviste devono per forza parlare bene di tutto, ma anche perché al fine di conseguire i loro obiettivi si servono di personale che non è concettualmente in grado di individuare quali siano i punti deboli di una qualsiasi soluzione, meno che mai se inedita. Al riguardo ci si serve della documentazione tecnica predisposta dai produttori, proprio come un tempo facevano i giornalisti con le veline diramate dal Minculpop.

Dunque, il 24/192 del nostro esempio assurge allo status di imperativo tecnologico del momento. Di conseguenza, guai per qualsiasi appassionato, spesso più desideroso di sentirsi al passo con la tecnologia più avanzata che altro, e qui abbiamo un ulteriore esempio del concetto di frame, se non riesce a dotarsi all’istante dell’apparecchiatura ad esso rispondente.

Più che non poter godere delle doti sonore incomparabilmente maggiori che gli si fa credere siano insite nel nuovo formato, egli sentirà di essere fondamentalmente inadeguato, sotto il profilo individuale, alle condizioni perennemente mutevoli indotte dal progresso tecnologico. Denominazione con cui in realtà si cerca di camuffare ciò che è soltanto obsolescenza programmata.

Naturalmente del fatto che il nuovo formato sia solo uno tra i mille elementi che hanno influenza sul comportamento all’ascolto di una sorgente digitale, e che quindi abbia un significato marginale per le doti musicali di un’apparecchiatura siffatta, non si fa cenno nel modo più assoluto. Dato che quello che si deve imporre è non tanto il nuovo formato in sé e per sé, quanto la sua valenza di sinonimo di perfezione tecnica da un lato, e dall’altro l’impossibilità di ottenere determinati risultati in sua assenza, cosa ancora più importante.dac

Così si fa passare l’idea che un convertitore D/A che aderisce al formato più aggiornato, anche se contenuto in uno scatolino ridicolo nel quale non può entrare neppure il simulacro di un’alimentazione decente, sia incomparabilmente superiore a qualcosa di costruito molto meglio, ma che ha il peccato irredimibile di non essere all’ultima moda.

 

Un caso pratico

Prima di arrivare a un esempio “di vita vissuta” che ci permetta di assimilare meglio questo concetto, soffermiamoci per un istante proprio sul prezzo di vendita al pubblico, che in genere non è legato soltanto ai parametri inerenti il costo di produzione e di distribuzione ma anche e soprattutto alla modalità con cui un oggetto svolge il proprio compito.

Dunque, se uno che fa il suo dovere in modo dignitoso costa poniamo 100 euro, per uno che lo fa meglio sarà giusto chiedere 120, 150 o anche 200, proprio in virtù della sua maggiore efficacia, al di là del suo costo originario e dei materiali che impiega.

Detto questo, arriviamo al fatto concreto, che riguarda un oggetto di realizzazione e impiego piuttosto semplice: un platorello per lettori digitali come se ne trovano tanti.

Un appassionato ne ha acquistato uno qualche anno fa, a seguito di una dimostrazione dagli esiti particolarmente efficaci tenutasi in una mostra dedicata all’hi-fi. E’ realizzato in fibra di carbonio, materiale cui la pubblicistica di ogni settore tende ad attribuire doti miracolistiche.

Stiamo parlando di un prodotto che sotto il profilo commerciale ha tutti i crismi per affermarsi: il nome è suggestivo, tale da ispirare i destini magnifici e progressivi determinati dal concetto di evoluzione del progresso più rapida che mai, associato all’ingresso negli anni duemila. Il materiale con cui è realizzato, la fibra di carbonio ha un’immagine tecnologicamente ineccepibile e in quanto tale risulta spendibile ai fini della formazione di un prezzo di vendita atto a garantire margini interessanti per chi lo produce.

Alla prova d’ascolto l’impiego del suddetto platorello comporta un miglioramento piuttosto percepibile rispetto all’introduzione del solo disco nel cassetto del lettore CD. Quindi il suo uso è giustificato e comperarlo viene istintivo: è quasi una cosa automatica, dato che ogni appassionato vuole migliorare le doti sonore del proprio impianto. Se allo scopo è disposto a spendere centinaia o migliaia di euro, qualora si presenti l’occasione di farlo solo con qualche decina, la si coglie senza starci tanto a pensare sopra.

Passa il tempo e un bel giorno succede che, a furia di vedersi di fronte agli occhi la scatola con cui un grande magazzino di bricolage distribuisce il proprio kit pubblicitario completo di tessera sconto e raccolta punti, salta fuori lo schiribizzo di tagliarla sulla sagoma di un disco CD per vedere cosa succede a ricavarne un platorello fai da te.

Certo il suo aspetto non è quello raffinato dell’esempio di cui sopra. Per non parlare del materiale con cui è realizzato: quel cartone di colore grigiastro che suggerisce a distanza di un chilometro la sua umiltà. In quanto tale e ancor più perché frutto evidente del riciclaggio di materiali di risulta.

Nulla di meglio per indurre fin quasi un senso di repulsione, proprio perché si tratta di un materiale che non solo è povero, ma origina da scarti riutilizzati. Quindi viene giudicato come non all’altezza di fornire quel che necessita al raffinatissimo senso dell’udito dell’audiofilo “esperto”, abituato a pasteggiare con ben altre pietanze. Ovvero a forza di apparecchiature da migliaia e migliaia di euro al pezzo, letteralmente infarcite di soluzioni raffinatissime e materiali nobili per l’aspetto più banale.

Anche se poi, in realtà, è soprattutto nei confronti dell’immaginario di quell’audiofilo che un oggetto così umile risulta inadeguato.

Ma c’è un ma: quel platorello fatto a mano con vile cartone riciclato si è rivelato parecchio più efficace dell’esemplare modernissimo, ricavato dal materiale più raffinato che il progresso tecnologico è stato capace di fornirci.

Nonostante ciò sarebbe invendibile: chi vogliamo dia fiducia a un pezzo di cartone riciclato, ma soprattutto a chi abbia intenzione di venderlo? Costui verrebbe preso per un ciarlatano.

Oltretutto a causa della serie di balzelli e costi fissi che ricadono su qualsiasi oggetto da vendere al pubblico, quel pezzo di cartone finirebbe con l’avere un prezzo non troppo lontano da quello dell’esemplare in carbonio.

Poi che la sua efficacia superiore giustificherebbe anche un prezzo più elevato rispetto al concorrente iper-tecnologico non ha importanza. Agli occhi dell’acquirente, abituato allo stimolo di ben altre suggestioni, e convinto che nel contesto ultra-avanzato nel quale ritiene di trovarsi insieme al proprio impianto – altro frame – non ci sia spazio per qualunque cosa non sprizzi da tutti i pori un retroterra ipertecnologico di soluzioni esclusive, resta sempre e comunque un pezzo di cartone.

Come vediamo, allora, siamo noi stessi, in base ai condizionamenti di cui siamo stati fatti bersaglio e abbiamo assorbito senza neppure accorgercene, nonché alle convinzioni che abbiamo maturato riguardo alle proprietà di un materiale rispetto a un altro, a rifiutare il prodotto capace di svolgere la propria funzione con l’efficacia maggiore, e che oltretutto è più economico. Gli preferiremo quello meno valido, ma provvisto di un’immagine più allettante e quindi più costoso.

Questo ci suggerisce che se vogliamo ottenere determinati risultati, dobbiamo imparare innanzitutto a non dare mai nulla per scontato, e poi che dobbiamo liberarci per quanto possibile dal modo di pensare indotto da anni e anni di martellamento propagandistico, eseguito secondo i metodi di cui ho cercato qui di dare un esempio. Così da non scartare a priori l’idea che per certi impieghi il più vile dei cartoni riciclati possa essere più efficace della nobile, eccellentissima e tecnologicamente sublime fibra di carbonio.

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