Jimi Hendrix, il più blues dei rockettari, il più rockettaro dei bluesmen

Per quanto non sia più un giovanotto di primo pelo da fin troppo tempo, neppure sono anziano abbastanza da aver vissuto il “fenomeno” Hendrix in diretta. Ossia mentre si svolgeva. Appresi della sua morte quando al telegiornale venne data la notizia di quella di Janis Joplin, sottolineando che a sole due settimane di distanza era la seconda artista rock che scompariva.

La grandissima Janis Joplin
La grandissima Janis Joplin

Proprio in quel periodo mi stavo accostando al rock e così i dischi con i quali ho iniziato ad approfondire la conoscenza con la musica di Hendrix sono stati i primi postumi: “The Cry Of Love” e “Rainbow Bridge”. Il primo è un edizione rimaneggiata di quello che avrebbe dovuto essere il doppio LP, o forse addirittura triplo, che Hendrix stava preparando e aveva quale titolo provvisorio “First Rays Of The New Rising Sun”. Come tale sarebbe uscito solo nel 1997, a seguito del recupero dei diritti da parte della famiglia Hendrix sull’eredità del musicista. Prima di allora, per oltre un quarto di secolo, era rimasta nelle mani di Alan Douglas. Costui non solo pubblicò dischi a nome di Hendrix contenenti ogni sorta di fondo di magazzino. ma arrivò a stravolgere i brani eliminando le parti originali eseguite dai musicisti di sostegno, per sostituirle con altre suonate da gente che nulla aveva a che fare e poi intestarsi i brani così ottenuti, lucrando anche i proventi dei diritti d’autore.

Dal mio punto di vista l’unica cosa che l’appassionato potesse fare al riguardo, e possa fare tuttora, è il boicottare iniziative simili, lasciando i dischi realizzati con uno spregio simile del rispetto dovuto a qualsiasi musicista sugli scaffali dei negozi.

“The Cry Of Love” dunque era un’opera parziale fatta di brani non del tutto completati, messa insieme per esigenze di mercato e pubblicata qualche mese dopo la morte di Hendrix. Comprendeva però delle perle come “Angel” o “Drifting”, per la quale venne utilizzato anche il vibrafono di Buzzy Linhart, a riprova della ricerca di nuovi orizzonti da parte di Hendrix, non solo per l’aspetto compositivo ma anche per le sonorità. Il recupero del blues coniugato in una vena più intimista è testimoniato poi da “My Friend” e “Belly Button Window”. Quella era un’altra delle intenzioni di Hendrix, che sembra ne avesse abbastanza del rock e di quel che ruotava attorno ad esso.

Il piccolo James Mashall insieme al padre Al
Il piccolo James Marshall insieme al padre Al

“Rainbow Bridge” era accreditato quale colonna sonora originale del film omonimo, girato nell’ultima estate del chitarrista sull’isola di Maui, nelle Hawaii. Era composto da brani di origine diversa, alcuni tra i quali facevano parte della scaletta originariamente compilata per “First Rays Of The New Rising Sun”. Erano “Dolly Dagger”, “Earth Blues e “Hey Baby”, il titolo della quale riporta tra parentesi proprio la dicitura “New Rising Sun”. Altri erano stati registrati negli studi Electric Lady dello stesso Hendrix, di cui parleremo più avanti e uno dal vivo, nel maggio del 1970.

Si tratta quindi di un documento importante per definire la fase finale di Hendrix sotto l’aspetto musicale e compositivo. In particolare grazie a brani come “Pali Gap” e “Hear My Train A Comin'”. Il primo è uno strumentale dal carattere introspettivo in cui la sperimentazione di nuove soluzioni tecniche e stilistiche è indicativa riguardo alla strada che Hendrix stava per intraprendere. L’altro è un tipico blues interpretato in maniera a dir poco magistrale, con quell’intensità e partecipazione emotiva che solo Hendrix sapeva trasfondere nei suoi brani. Si tratta di una lunga esecuzione dal vivo, quella cui abbiamo accennato prima, che da sola vale l’intero disco. Altrettanto significativo è il brano che avrebbe dovuto dare il titolo al quarto album di Hendrix.

 

Nuove prospettive

“First Rays Of The New Rising Sun”, provvisorio o meno che fosse quel titolo, è l’esemplificazione più diretta per il cambiamento degli orizzonti musicali di Hendrix. Al riguardo vi era la netta sensazione che in termini economici non sarebbero stati remunerativi come i precedenti. Elemento che ha la sua importanza riguardo a questioni che andremo ad affrontare più avanti.

Per queste ragioni diversamente da altri non valuto il tardo Hendrix meno interessante dei suoi primi tre dischi. E’ solo che si trovava in una fase di transizione o meglio di crescita e di evoluzione, soprattutto a livello compositivo. A dire il vero, la critica lo stroncò, possibilmente anche in base a imbeccate provenienti dall’esterno dell’ambiente musicale, che vedremo nella seconda parte dell’articolo.

Che lo si volesse o meno, insomma, la fase iniziale della parabola del chitarrista, quella dell’esplosione, era terminata.

Quindi dal riff assassino degli esordi, di grande istintività e presa, ulteriormente caratterizzato dall’approccio pirotecnico allo strumento con cui si era imposto al pubblico, Hendrix si stava dirigendo verso forme di maturità e complessità maggiori. Non poteva essere altrimenti, in base alla sua crescita, all’esperienza che aveva maturato non solo a livello musicale e ai bisogni espressivi che ne derivavano. Di conseguenza il rapporto con la musica di Hendrix necessitava di maggiore concentrazione e dedizione, per comprenderla e assimilarla. Cosa alla quale non tutti erano disponibili, in particolare fra i critici. I quali hanno bisogno che il sistema di compartimenti stagni in cui suddividono ciò di cui si occupano resti inalterato, a uso e consumo della loro prospettiva, pressoché generalizzata.

In ogni caso Hendrix non avrebbe potuto continuare ancora a lungo allo stesso modo dei suoi esordi, proprio perché si tratta di una formula affascinante ma senza vie di uscita. Questo non venne compreso dalla critica e tantomeno dal pubblico. Quest’ultimo, peraltro, nella sua parte maggiore vorrebbe sempre e solo vedere l’artista congelato sul repertorio che gradisce maggiormente, eseguito nella maniera più ortodossa in una perenne reiterazione delle sue certezze. Senza comprendere che ciò non è possibile e se si adattasse a qualcosa di simile, qualsiasi musicista non potrebbe far altro che diventare in breve la pallida copia o meglio l’imitazione di sé stesso. A quel punto, probabilmente, sarebbe lo stesso pubblico a volgergli le spalle, mentre la critica non tarderebbe a bersagliarlo con i suoi dardi avvelenati.jimi-hendrix

Quel che resta, allora, è il rimpianto di ciò che sarebbe stato ma non è potuto essere. E’ noto che Hendrix fosse in procinto di iniziare una collaborazione con Miles Davis, assieme al quale aveva già provato qualche jam. Non è dato sapere se e quanto un sodalizio del genere potesse durare nel tempo, ma con ogni probabilità il chitarrista avrebbe potuto giovarsi non poco del frequentare l’ambiente jazzistico, soprattutto a quei livello. Ad esso peraltro lo univano le inclinazioni messe in luce a inizio carriera e un’attitudine di fondo palesata anche nelle sue espressioni tipicamente rockistiche.

A questo riguardo sono illuminanti le parole di Keith Altham, che poi si sarebbe occupato delle relazioni pubbliche del chitarrista. Racconta di essere stato invitato dallo stesso Chas Chandler, il bassista degli Animals che portò Hendrix in Inghilterra, a sentirlo suonare nella jam organizzata allo Speakeasy la sera stessa del suo arrivo a Londra. Secondo Altham Jimi Hendrix era già allora un musicista del tutto fuori dal comune. Gli ricordava nientemeno che Wes Montgomery e per questo lo riteneva fin troppo bravo per sfondare nello star system della musica rock.

Quanto a Davis, si trovava in quel periodo in una fase cruciale della sua carriera, ossia nel momento culminante della sua apertura al rock e alle sonorità elettriche che gli avrebbe portato una quantità di critiche enorme. A dimostrazione di quanto appena detto sui desideri di pubblico, a qualunque genere si rivolga, e stampa musicale. Proprio in tal modo però ha aperto una nuova strada, fondamentale non solo ai fini dell’evoluzione del genere jazzistico, altrimenti votato a una mummificazione di cui le prime avvisaglie erano visibili già a quel tempo, ma proprio nell’abbattere gli steccati un tempo invalicabili che rendevano i diversi generi dei compartimenti stagni. A volte contigui ma da ciascuno dei quali era impossibile comunicare con gli altri.

Miles Davis mentre prova sulla sabbia dell'isola di Wight in attesa di esibirsi nell'edizione 1970 del festival. In sua compagnia Betty Mabry che a detta del trombettista lo influenzò moltissimo riguardo alla sua svolta rock, che non riguardò solo la musica ma proprio il suo stile di vita.
Miles Davis mentre prova sulla sabbia dell’isola di Wight in attesa di esibirsi nell’edizione 1970 del festival. Con lui Betty Mabry. A detta dello stesso trombettista lo influenzò moltissimo ai fini della sua svolta rock, che non riguardò solo la musica ma proprio il suo stile di vita.

Anche lui allora avrebbe di sicuro potuto trarre moltissimo da Hendrix, proprio in quanto icona e massima espressione del genere verso il quale stava muovendosi.

 

L’uomo, la sua espressività

Dell’Hendrix chitarrIsta e della sua tecnica è stato detto tutto e tutto il suo contrario. Certo è stata la parte più significativa per la costruzione del suo mito, ma dal mio punto di vista non si tratta di un elemento conseguente all’aspetto meccanicistico dell’esecuzione, quanto invece legato intimamente o meglio inscindibile dal suo feeling e dalla “intenzione” in seguito alla quale emetteva ogni singola nota. Entrambi erano ancora più unici, anche se la parola che mi rimbalza nella testa è mostruosi. E’ proprio il connubio tra quegli elementi che lo rende tuttora impareggiabile, a quasi mezzo secolo dalla sua morte.

Se mi si chiedesse da cosa derivassero, direi per un verso dal suo lato caratteriale di persona di grande purezza, affabilità, incapacità di comprendere il male e schivo persino nei confronti della sua musica, del suo modo di suonarla e del rapportarsi ad essa, fino all’insicurezza. Soprattutto, colgo nella sua musica l’urlo proveniente dal profondo delle sue viscere di mezzosangue nero-pellerossa, connubio tra le etnie storicamente più perseguitate dall’uomo bianco, al fine di sfruttamento e di rapina. Sono convinto sia stato soprattutto quello, per il mezzo di un talento innato e di un rapporto di amore sviscerato per il suo strumento, a dare a quella chitarra la voce che mai più nessuno è stato capace non dico di ripetere, ma neppure di arrivare a qualcosa di lontanamente paragonabile. Malgrado siano stati milioni quelli che ci hanno provato.

Hendrix in concerto nel 1968. A terra il pedale Vox Octavia.
Hendrix in concerto nel 1968. A terra il pedale Vox Octavia.

Oltre questo credo che la testimonianza migliore della sua grandezza sia data dal suono che traeva dalla sua chitarra mediante un semplice distorsore/wah wah Vox Octavia. O meglio dal fatto che proprio il desiderio di ricreare quel suono, cosa impossibile non possedendo il suo tocco e il suo feeling, ha dato origine all’industria molto fiorente di pedali, distorsori ed effetti vari, di cui i chitarristi delle epoche successive hanno fatto e fanno tuttora largo uso.

Oggi la maggior parte di essi adopera dei veri e propri rack inzeppati di distorsori e ammennicoli vari. Malgrado ciò, o forse proprio per questo, nessuno riesce ad avvicinarsi a quel suono incredibile, ottenuto anche per mezzo di un misero e rudimentale pedaletto. Il sistema per ottenerlo evidentemente non sta nel passaggio del segnale attraverso un certo numero di scatole, ma nelle mani dello strumentista e nel modo con cui esse si appoggiano sullo strumento, grazie agli impulsi che arrivano dal suo cervello..

Ritengo poi che sia sempre difficile scindere la parte tecnica dell’esecuzione da quella emozionale. A questo proposito la lezione di B.B. King è illuminante. Sentendolo e vedendolo suonare si comprende che la sua tecnica, per quanto molto personale e affinata in decenni di carriera, non sia poi questa cosa fuori dal mondo. Sono il suo feeling, la scelta delle note, il momento in cui le esegue, il modo in cui le prende, le sostiene, le combina e le mette una di seguito all’altra, a fare la differenza, rendendolo unico.

Dietro lo strumento, insomma, c’è l’uomo e non ci sono regole o scatolette che tengano. Anzi, più esasperato è il livello di codifica a priori di cui ci si avvale nella composizione e nell’esecuzione, peggiore è il risultato che ne deriva.

Riguardo al lato caratteriale di Hendrix, credo che una testimonianza attendibile venga dalla sua fidanzata all’epoca degli esordi. Racconta che i componenti del suo gruppo, nel momento in cui eseguiva un assolo iniziavano a suonare nel modo peggiore che potessero, con lo scopo evidente di rovinarglielo. Allora lui li guardava stupito, senza riuscire a capire cosa stesse accadendo e perché, soffrendo il loro modo di boicottarlo e trascinandosi le conseguenze anche una volta sceso dal palco.

Un altro aneddoto lo raccontavano i Ghetto Fighters, cui Hendrix ha affidato i cori dei suoi brani. A loro chiedeva spesso consigli sul vestiario e su molto altro in un modo tale da mostrare la sua insicurezza al riguardo, sentimento che indica quanto Hendrix anche nel momento di maggior successo sia rimasto lo stesso di sempre, senza montarsi la testa o darsi arie da superuomo. E’ evidente che il lato caratteriale non possa che ripercuotersi sul modo di suonare. In un mondo di personaggi montati e gonfi di boria, anche e soprattutto quando in decenni di carriera non si è stati capaci di fare neppure la milionesima parte di quello che ha fatto Hendrix in quattro anni scarsi, il suo sostanziale sottovalutarsi, o meglio il non comprendere appieno la portata di ciò che stava facendo, è stato un elemento fondamentale per la sua musica.

B. B. King
B. B. King

Se è vero che la musica è un linguaggio, il suo è stato il più diretto e genuino, scevro da perifrasi, finzioni, luoghi comuni o supponenza.

A questo riguardo mi sembra inutile fare esempi, ma un’eccezione la merita “Third Stone From The Sun”, brano che è alla soglia dei cinquant’anni. Malgrado sia stato concepito in un’epoca la cui musica denuncia come poche altre la propria connotazione temporale, resta ancora oggi d’avanguardia.

Ai fini dell’evoluzione del linguaggio musicale di Hendrix, della sua volontà di ricerca e dei metodi coi quali intendeva eseguirla, di solito viene trascurato il fatto che si fosse imbarcato in un’impresa dalla quale i musicisti nel pieno della loro attività si tengono di solito alla larga, rendendo in questo modo parziale la loro interazione con la musica e il processo produttivo che ne è all’origine. Il chitarrista infatti aveva iniziato già da tempo la realizzazione dello studio di registrazione Electric Lady, che aveva voluto all’apice della tecnica di allora e per il quale investì somme enormi oltre a procurarsi una serie di altri problemi. Questa è un’ulteriore riprova del suo approccio con la musica, che definirei totalizzante nei confronti di ogni suo elemento e ritengo di importanza fondamentale ai fini dell’opera di Hendrix nel suo complesso.

I lavori per gli studi si protrassero a lungo, così che la loro inaugurazione avvenne solo pochi giorni prima della morte del chitarrista. Le testimonianze dirette del festino dato per l’occasione ne mettono ulteriormente in luce la timidezza. Vi parteciparono moltissimi tra i personaggi più noti e influenti dell’ambiente musicale. Nell’atmosfera tipica di occasioni del genere, Hendrix fece la sua comparsa solo a un certo punto. Lui che avrebbe dovuto essere al centro di quella festa preferì andare a sedersi in posizione defilata, sui gradini della scala interna, accanto a una Patti Smith all’epoca sconosciuta che si sentiva altrettanto spaesata.

 

La fine

Sulla morte di Hendrix, proprio come per la sua tecnica, è stato detto il possibile e soprattutto l’impossibile. Ma prima di ogni altra cosa si è cercato di decontestualizzarla e ridurla alle condizioni di contorno che facilitassero l’accettazione della versione ufficiale.

Già qui sorge il primo problema. Va rilevato che inizialmente le cosiddette fonti ufficiali addebitarono all’unanimità la sua morte a overdose di eroina. Tempo dopo invece arrivò la notizia che la vera causa fu l’ingestione di sonniferi.

La prima domanda, allora, è la seguente: se le fonti ufficiali hanno mentito riguardo alla versione iniziale della sua morte, per quale motivo dovrebbero raccontare la verità mediante l’elemento, ossia la versione successiva, con cui esse stesse certificano la loro menzogna?

Oltretutto quella menzogna è stata propagandata servendosi dei luoghi comuni più triti dell’iconografia mitologizzata appiccicata al musicista rock. Utilizzatore compulsivo di droghe in quantità industriali, sessuomane insaziabile, artista maledetto e via di questo passo.

Riguardo alla morte di Hendrix, allora, trovo che dalla cronologia degli eventi, nelle diverse versioni in cui è stata raccontata, emerga per primo un elemento comune volto a diffamare la sua figura. Mediante la ricostruzione di una falsa immagine da contrapporre a quella mitica del musicista, così da poterne sminuire in qualche modo il valore. Non riguardo alla musica da lui suonata, semplicemente inattaccabile anche se qualcuno ci si è provato, ma a quel che egli rappresentava a livello umano al fine di farne un esempio negativo. Per lui che a detta di chi lo ha conosciuto era la più buona e adorabile delle persone.

Queste versioni sono state fatte proprie dal sistema di “informazione”, tanto quello generalista che quello di settore, più che mai deciso a raffigurare il musicista in primo luogo come un tossicodipendente. Il che, attenzione, non è diretto solo alla delegittimazione della persona accusata di comportamenti devianti, ma del messaggio di cui è portatrice.

Osservata la questione in un’ottica simile, che la stampa mainstream si astiene rigorosamente dal prendere in considerazione, e non credo sia un caso, appare evidente in primo luogo l’urgenza di derubricare il tutto a uno squallido accadimento da abuso di stupefacenti. Con il sottinteso che se ci si avvia lungo una certa china, qualunque sia la fine che si fa, persino la peggiore, la si è cercata e quindi è pienamente meritata.

Però poi, secondo i criteri più genuini della doppia morale, è quella stessa stampa a strapparsi i capelli per via della pena di morte e a montare campagne contro di essa, pretendendo oltretutto di farle passare quale esercizio supremo di civiltà, nonché di attribuire patenti a seconda della posizione che si assume al riguardo.

La pena di morte è certamente esecrabile: in quanto tale e perché mette il sistema di correzione sullo stesso piano del crimine che vorrebbe sanzionare. Quantomeno, però, avviene dopo che è stato celebrato un processo più o meno regolare, con tanto di appello e seguente possibilità di ricorso a un terzo e supremo livello di giudizio.

Dunque, se questi sono i presupposti, gli stessi che sventolano le loro bandiere contro la sedia elettrica o l’iniezione letale, nei fatti sono i primi a sostenere che esistano precise tipologie di persone, ovviamente catalogate secondo le regole della loro convenienza e del più bieco conformismo, tali da non meritare neppure un processo e che la loro morte prematura sia dovuta, quali che siano le circostanze in cui si verifica.

Jimi Hendrix e Mick Jagger, New York 1969.
Jimi Hendrix e Mick Jagger, New York 1969.

Eppure la colpa di quelle persone va principalmente nei confronti di sé stesse, nell’impiego autodistruttivo di determinate sostanze, almeno in parte dovuto al libero arbitrio che ciascuno dovrebbe essere nelle condizioni di poter esercitare. Tantopiù se per gli autori delle violenze peggiori nei confronti altrui, e persino di omicidi seriali o di vere e proprie stragi, la celebrazione di un processo nei suoi diversi gradi di giudizio e quindi con tutte le garanzie del caso, la si ritiene doverosa e imprescindibile.

Va detto inoltre che da un certo punto della sua vita in poi, Hendrix capì che lo si voleva morto e presentiva la sua fine: le testimonianze di Melinda Merryweather e di Chuck Wein, attrice co-protagonista e regista del film “Rainbow Bridge” riportano che in quel periodo, stiamo parlando dell’estate 1970, a domande sul suo futuro o sull’eventuale ritorno alla sua città natale, rispondeva con formule del genere “per allora non ci sarò” oppure “sarò chiuso in una bara”. In uno dei suoi ultimi concerti, ad Aarhus in Danimarca, il giorno dopo la sua esibizione al festival dell’isola di Wight, Hendrix si congedò dalla folla dicendo: “sono morto da tempo”.

Fatta questa premessa, credo sia il caso di andare a osservare quale fosse il contesto storico in cui sono avvenute l’ascesa di Hendrix e poi la sua morte.

 

Volontà di cambiamento, istituzioni arroccate

Gli anni ’60 produssero grandi cambiamenti nella politica, nella cultura e nello stesso modo di sentire della parte più giovane della popolazione americana, che in breve sarebbero andati diffondendosi un po’ in tutti i paesi, non solo dell’area occidentale e tra le diverse generazioni, cambiando il modo di pensare a livello collettivo.

Le proteste contro la guerra del Vietnam e la segregazione razziale, allora vigente negli USA, ebbero per risposta la repressione violenta da parte delle istituzioni. Gli esempi al riguardo sono numerosi: Attica, Berkeley, le rivolte dei ghetti neri presenti in tutte le maggiori città degli Stati Uniti, conseguenti alle condizioni di emarginazione sociale e civile in cui erano costretti i loro abitanti.

La risposta delle istituzioni fu il prevenire con ogni mezzo l’ascesa di leader che potessero mettersi alla testa di un movimento che era prima di tutto culturale. Tra le figure ritenute potenzialmente all’altezza di un ruolo simile c’erano i musicisti rock che monopolizzavano l’attenzione di milioni di persone. Soprattutto proponevano nuovi orizzonti, a livello culturale, di visione di vita e di rapporti interpersonali.

In parallelo, o meglio quale reazione nei confronti del manifestarsi della volontà ai fini di quei cambiamenti, vediamo che durante tutto il corso degli anni ’60 ha avuto luogo una sequela ininterrotta di omicidi che ha colpito tutte le personalità di maggior spicco, nessuna esclusa, impegnate a sostegno delle esigenze di rinnovamento e di democratizzazione. In quanto tali, quelle esigenze non potevano che mettere pesantemente in discussione i poteri precostituiti, le stesse persone che li detenevano e i complessi, ramificati e pervasivi sistemi di interesse dei quali erano espressione.

Come è noto, la catena di assassinii non si è fermata neppure di fronte alle cariche istituzionali più elevate del paese. Come il presidente degli Stati Uniti John Fitzgerald Kennedy e il fratello Robert, sicuro vincitore delle elezioni presidenziali 1968 alle quali si era candidato. Riguardo ai leader della popolazione nera, non vi fu differenza alcuna se fossero espressione dell’ala militante più convintamente rivendicativa come Malcolm X o di una concezione pacifista che si limitava a desiderare una realtà meno degradante per i neri come il successore Martin Luther King: si procedette direttamente e senza scrupoli alla loro eliminazione definitiva.

Quale prima e più vistosa conseguenza, quelle uccisioni troncarono di netto la linea di successione di figure così carismatiche tra i leader della popolazione nera. Proprio in base alla legge, tacita ma inequivocabile, che chiunque si fosse azzardato ad assumere un rilievo paragonabile a loro due avrebbe fatto la stessa fine.

Osservando la questione in questi termini, figure come quella di Jimi Hendrix rappresentavano agli occhi del potere una minaccia ancora più temibile. In primo luogo perché non erano espressione di movimenti politici per quali che fossero. Il loro ruolo era invece conseguenza di un sentimento popolare, che si esprimeva non mediante il linguaggio della politica, più o meno condivisibile e fumoso, ma attraverso quello della musica, che per sua definizione è universale.

Inoltre Hendrix è stato il primo personaggio, peraltro di colore, a rappresentare un modello inter-razziale di emancipazione sociale e di affermazione di democrazia e pacifismo. Cosa che per il potere dell’epoca, razzista e che proprio dalla guerra traeva risorse enormi per l’ulteriore consolidamento del proprio predominio, non era solo intollerabile ma aveva una valenza pericolosa, più che mai in termini politici.

Jimi Hendrix nel suo ultimo concerto, il 4 settembre 1970.
Jimi Hendrix nel suo ultimo concerto, il 4 settembre 1970.

Sebbene non avesse dl tutto chiara la valenza complessiva della propria figura, quale esempio e potenziale leader per milioni di persone non solo giovani ai fini della loro volontà di cambiamento, Hendrix rappresentava per il sistema di potere un antagonista temibile, in primo luogo a livello politico. Lo sbarazzarsi di lui secondo metodi ben collaudati, riguardo ai quali si era dimostrato di non avere remora alcuna anche nei confronti dei personaggi di maggior caratura a livello istituzionale, non avrebbe portato altro che vantaggi.

Per quanto non se ne rendesse conto fino in fondo, la sua musica costituiva il messaggio più esplicito e devastante contro il potere costituito, gli interessi che rappresentava e le azioni riprovevoli con le quali esso si manteneva nelle proprie posizioni.

Basta ascoltare la sua “Star Spangled Banner”: stravolgimento dell’inno americano a suon di distorsione, costellato dalle raffiche di mitragliatrice, dal fragore dei bombardamenti aerei su una popolazione inerme, che in un brano di quattro minuti rappresentava al meglio il baratro in cui era deliberatamente sprofondata una nazione dai complessi di colpa storicamente enormi.

Quindi tanto più suscettibile, in particolare da parte dei suoi reggitori, essendo costruita sul saccheggio di un territorio sconfinato che avrebbe lasciato spazio sufficiente per tutti, nonché sulla pulizia etnica della popolazione originaria mediante lo sterminio delle sue fonti di sussistenza. Malgrado ciò quella nazione pretende di essere il faro della democrazia, dunque non può tollerare chi le spiattelli in faccia la sua cattiva coscienza. Che poi lo faccia servendosi dell’inno nazionale, in uno stato legato come pochi altri ai suoi simboli istituzionali è decisamente troppo.

L’universalità dell’espressione con cui era rappresentata quella denuncia andava oltre ogni barriera di lingua e di credo politico: molto più di quanto bastasse per fare del suo latore il nemico N.1 dei poteri dominanti dell’epoca, che poi sono gli stessi di oggi.

La catena di omicidi e violenza a scopo di repressione descritta in precedenza va inquadrata storicamente come il primo atto della reazione del potere contro ogni istanza di equità sociale. E’ proseguita sotto forma dell’offensiva restauratrice che ha avuto luogo nel corso dei decenni successivi e ha portato alle condizioni attuali. Oggi la cosiddetta sovranità popolare è una mera sovrastruttura mentale, essendo le istituzioni attraverso le quali dovrebbe esprimersi ridotte a nulla più di sistemi di avallo, imposizione e amministrazione delle volontà di livelli superiori di potere, che sono stati resi non solo del tutto inaccessibili attraverso i meccanismi di legittimazione popolare, ma soprattutto invisibili ai più.

Proprio in virtù di quella invisibilità, tutto quanto faccia riferimento ad essi e ne rappresenti una critica può essere derubricato sbrigativamente, e perciò in modo tanto più convincente per le menti di persone che nel frattempo si è fatto di tutto per disabituare alle più elementari pratiche di analisi, critica e ragionamento, alla definizione di complottismo.

 

Sostituzione di orizzonti

Al di là delle definizioni e dei punti di vista, è il tempo che si occupa di dare conferma o meno a determinate percezioni, posto che si sia in grado di esercitare la memoria storica.

Jimi Hendrix Experience, artista dell'anno 1968 su Billboard del dicembre dello stesso anno.
Jimi Hendrix Experience, artista dell’anno 1968 su Billboard del dicembre dello stesso anno.

A questo proposito, allora, abbiamo visto che dopo l’assassinio di Malcolm X e Martin Luther King il movimento per i diritti dei neri non è più riuscito a esprimere leader di caratura sufficiente a proseguire le loro gesta. Nello stesso identico modo la scena musicale non ha più avuto figure capaci di replicare la statura e il carisma espresso su più livelli di un Jimi Hendrix, una Janis Joplin o un Jim Morrison.

Quelli che sono venuti dopo hanno avuto se vogliamo una carica anticonformista ancora maggiore e più evidente, ma sempre e soltanto a livello di costumi e convenzioni, in particolare a sfondo sessuale o comportamentale. Assolutamente mai, invece, di critica altrettanto esplicita agli assetti politici e di potere e alle azioni che ne concretizzano gli interessi.

Pertanto la generazione degli Hendrix, dei Morrison e delle Joplin è stata sostituita da personaggi dalla valenza artistica tutto sommato degna di considerazione anche se non paragonabile, come i Reed, i Bowie e al limite gli Idol. Essi però sono stati del tutto inoffensivi a livello sociale, se non addirittura regressivi: al riguardo sono emblematiche le stesse definizioni di Glam Rock e Dandy Rock.

A quegli artisti fece seguito una generazione che diede nuova forza ai temi della protesta come quella del punk, ma del tutto incapace di dirigere le conseguenze del proprio malessere e le istanze che ne derivavano in forma non autodistruttiva. Come tale quindi non in grado di incidere in maniera che non fosse marginale sulla realtà sociale e politica del suo tempo.

Eccoci di fronte, allora, all’evidenza del fatto che fu la scena musicale stessa, nel suo insieme, a piegarsi alla stessa legge non scritta già entrata in vigore per la linea di successione dei leader della popolazione di colore.

Chiedendosene il perché, la risposta appare scontata. Di conseguenza appaiono tali anche le motivazioni della morte di Hendrix, e quindi di Morrison e della Joplin.

A quelle morti dunque fece seguito un cambiamento immediato e sostanziale dei temi affrontati dalla musica giovane: non più la ricerca e la volontà di costruire un mondo migliore attraverso la consapevolezza, la crescita sociale e la condivisione dei valori umani di equità e giustizia, ma l’affermazione di un modello essenzialmente individualista ed edonistico, il cui asse portante non erano più la musica eseguita dall’artista e i suoi contenuti, ma la sua immagine.

Insomma, Hendrix era deceduto ufficialmente per overdose di eroina, ma tutto l’ambiente musicale si comportò come se avesse compreso all’istante il movente della sua morte e il monito che ne conseguiva.

Indicativo.

Hendrix oltretutto simpatizzava per il movimento delle Pantere Nere, al quale aveva dato contributi economici, senza preoccuparsi di tenere la cosa segreta. Anzi, rilasciò dichiarazioni pubbliche riguardo alla rivendicazione dei diritti umani per le persone di colore.

Secondo Alex Constantine, autore e commentatore politico, ciò era abbastanza per farne un uomo morto, nell’America razzista e ultra-conservatrice di fine anni sessanta, letteralmente terrorizzata dalla presa di coscienza delle persone di colore e dalle giovani generazioni.

Il suo manager, Mike Jeffrey, era una persona ambigua, non solo perché in seguito emersero i suoi legami con i servizi segreti militari e con l’MI 6. In particolare fece tutto quanto possibile per sfiancare Hendrix, proprio a livello fisico, pianificando le sue tournée in maniera assurda. Lo faceva saltare da una parte all’altra del paese, e dei continenti quando all’estero. Gli fissava una serata a Toronto, una a Miami per il giorno successivo per poi farlo esibire in California quello dopo ancora. Inoltre aveva rubato i compensi dei suoi concerti per un totale accertato di 40.000 dollari, ma potrebbero essere molti di più, che ai tempi erano una somma ragguardevole. Come se non bastasse il suo contratto prevedeva che a lui andasse il 60% dei proventi riguardanti le pubblicazioni e le attività discografiche di Hendrix, mentre al chitarrista andava solo il 3%.

Il vero problema di Hendrix stava nell’essere una persona squisita, gentile e generosa, tipicamente incapace di dire no. Difetto enorme in un mondo popolato da pescecani come quello dell’industria discografica. Così nell’ambiente gli venne attribuita debolezza di carattere.

Alan Douglas sostiene che Hendrix gli confidò di essere stato addirittura rapito per tre giorni da sedicenti mafiosi, e poi liberato da Jeffrey. Secondo il chitarrista il manager ideò quella messa in scena per apparire indispensabile ai suoi occhi. In seguito a questo Hendrix pregò Douglas di prendere lui in mano i suoi affari, in modo da mettere Jeffrey fuori dai giochi.

Lo stesso Douglas ha dichiarato che tempo dopo la morte di Hendrix, Jeffrey gli disse di essere coinvolto nell’evento. Non fu molto chiaro al riguardo, ma il produttore è convinto che il manager del chitarrista stesse confessando.

Hendrix era conscio che Jeffrey faceva di tutto per danneggiarlo, sabotando la sua carriera, infiltrando persone con l’incarico di controllarlo e causargli problemi di ogni tipo, oltre a derubarlo. Così decise di portarlo in tribunale.jimi-hendrix32

Casualmente morì pochi giorni prima che il suo manager dovesse presentarsi in giudizio, nella causa che gli aveva intentato.

Jeffrey inoltre aveva stipulato un’assicurazione sulla vita di Hendrix a proprio favore, per un importo di due milioni di dollari.

I denari rubati da Jeffrey furono attribuiti a una società fantasma chiamata Yameta, che si serviva di almeno due banche: la Chemical Bank di Nassau e la Nova Scotia Bank.

Il manager non era nuovo ad azioni del genere, dato che gli stessi Animals, quelli di “House Of The Rising Sun” e da lui gestiti, lo accusarono esplicitamente di aver sottratto loro grosse somme di denaro.

Secondo i documenti dell’ospedale in cui fu portato dall’ambulanza, non è stata trovata traccia di stupefacenti nel corpo di Hendrix. Invece venne rilevato che i suoi polmoni erano pieni di vino.

Ora, proprio non arrivo a capire come si possa fare, materialmente, a morire per proprio conto di una causa simile. A meno che non vi sia stata una qualche forma esterna di “collaborazione”.

I polmoni pieni di liquido sono tipici di chi muore affogato, ma anche di chi viene forzato a ingerire tutte in una volta quantità di liquidi troppo ingenti. Questo particolare i documenti ufficiali non lo dicono, ma proprio non si vede come si possa arrivare altrimenti a quel risultato.

Al riguardo dubbi vengono anche dal contegno successivo di Monika Dannemann, altro personaggio ambiguo che fece la sua comparsa come dal nulla a fianco del chitarrista. Dichiarò di essere la fidanzata di Hendrix, ma senza poterlo dimostrare, e di aver condiviso con lui l’ultima notte nella stanza che apparteneva al Samarkand Hotel, ma era in posizione decentrata, accessibile senza passare dall’interno dell’albergo. Mantenne un silenzio assoluto sugli eventi per il resto della sua vita, durante la quale si dedicò esclusivamente alla rievocazione della figura di Hendrix, vivendo in un’abitazione trasformata in una sorta di santuario a lui dedicato, coperto da cima a fondo di quadri che lo ritraevano, dipinti da lei stessa. La morte della Dannemann venne ufficialmente data per suicidio, nell’abitacolo di un’auto riempito di gas di scarico.

Woodstock, tredici mesi esatti prima della sua morte. Fu costretto a esibirsi nelle prime ore del mattino a causa del prolungarsi del programma e perché nessuno si azzardava a suonare dopo di lui.
Woodstock, tredici mesi esatti prima della sua morte. Fu costretto a esibirsi nelle prime ore del mattino a causa del prolungarsi del programma e perché nessuno si azzardava a suonare dopo di lui.

Secondo Kathy Etchingham, un’altra delle donne che furono vicine a Hendrix nel suo periodo d’oro, e che andò a ricontrollare gli atti processuali riguardo alla morte del chitarrista, le testimonianze rilasciate agli inquirenti da Monika Dannemann furono palesemente contraddittorie. Tuttavia vennero prese per buone nella loro totalità.

Gli inquirenti inoltre non interrogarono alcuno dei componenti l’equipe medica che prestò le cure a Hendrix. Il che è semplicemente pazzesco. Al di là del reato di omissione, costituisce già di per sé dimostrazione che il reale svolgersi degli eventi dovesse restare avvolto dall’oscurità.

Si limitarono a emettere un verdetto aperto, il che significa in sostanza che le circostanze che portarono alla morte non poterono essere appurate.

Sempre la Etchingham rintracciò il personale dell’ambulanza che dichiarò di aver trovato già morto il chitarrista nella stanza d’albergo e che la Dannemann non era presente. Dallo stato delle sue mucose poterono approssimare il momento della sua morte a 4 o 5 ore prima. Il medico di guardia dell’ospedale, dott. Bannister, stabilì in 7 ore prima il momento del decesso. Trovò inoltre il suo stomaco e i suoi polmoni pieni di vino rosso.

Se Hendrix avesse voluto suicidarsi coi sonniferi, certo non avrebbe avuto nelle tasche 42 pillole di Vesparax, ma le avrebbe ingerite. Inoltre era completamente vestito, quindi anche la tesi che sia morto durante il riposo notturno è opinabile.

 

Un quadro caratteristico

Alex Constatine è convinto che lo abbiano affogato in un recipiente pieno di vino, o più probabilmente gliene è stato versato tanto nella gola da affogarlo. Questa è la versione più probabile, dato che come già detto non solo i suoi polmoni furono trovati pieni di vino, ma anche lo stomaco.

Come sempre accade in casi del genere, la commissione che indagò sulla morte di Hendrix fu molto frettolosa e non si attardò neppure un istante a confrontare le versioni diverse e contrastanti riguardo alle circostanze sul decesso.

Eccoci di fronte a un altro tra i denominatori comuni delle morti controverse o di personaggi scomodi.

La stessa autopsia è molto discutibile, nelle parole di Jim De Eugenio, commentatore specializzato sui servizi segreti americani, dato che parla di soffocamento da vomito, quando indagini successive trovarono appunto i polmoni pieni di vino.

A tutto questo fa seguito la politica di diffamazione attuata nei confronti di Hendrix. Dopo la morte tutti i giornali riportarono la storia dell’overdose di eroina, che resta ancora oggi la più diffusa. Molti operatori della carta stampata e della pubblicistica in rete la riportano tuttora. Non c’era traccia di eroina nel suo sangue, ma i giornali scrissero ugualmente che era morto così.

Allora vediamo: personaggi loschi, denaro rubato e convogliato presso società fantasma, conti bancari nei paradisi fiscali, processi che rischiano di prendere una piega catastrofica per chi deve restare a ogni costo pulito, inquirenti distratti, indagini frettolose e basate sul pressapochismo, diffamazione intensiva della vittima, autopsie compiacenti, stampa schierata all’unanimità su un’ipotesi tanto precostituita quanto fallace.

Non manca proprio nulla.

Tanto è vero che a completare il quadro nella maniera più tipica per il verificarsi di eventi che riguardano l’eliminazione di persone per motivi politici, c’è l’immancabile sequela di morti misteriose che vanno a colpire tutti quelli che in qualche modo potrebbero avere qualcosa da dire riguardo allo svolgersi degli eventi.

L’amica Devon Wilson che gli fu vicina nei giorni antecedenti la sua fine morì nel 1971, precipitando da una finestra d’albergo all’ottavo piano. Nel 1973 fu la volta dello stesso Jeffrey, che perse la vita nell’incidente in cui due aerei si scontrarono in volo.

Quel giorno, per via di uno sciopero, il traffico aereo era sotto il controllo dei militari.

Della morte della Dannemann è stato già detto. Senonché avvenne quando era attesa a parlare in un programma radiofonico, per chiarire finalmente le contraddizioni evidenti riguardo alla sua ultima notte e alle deposizioni che rilasciò alla commissione d’inchiesta.

Come spiega di nuovo Alex Constantine, Hendrix soffriva di insonnia cronica ed era abituato da tempo all’uso di sonniferi. Quindi è improbabile che le pasticche da lui prese per dormire la notte fatidica, cui si addebita la causa della sua morte in alternativa all’overdose, possano averlo ridotto in uno stato pre-comatoso e poi scatenato attacchi di vomito tali da soffocarlo. Come abbiamo detto, invece, i suoi polmoni erano pieni di liquido. Ma nel suo sangue si trovarono solo 20 milligrammi di alcool, quando fu portato al pronto soccorso. Dunque l’alcool non ha fatto neppure in tempo a entrare in circolo.jimi-hendrix

 

Programmi, ma non per la TV

Nel corso degli anni ’70, da documenti ufficiali venne alla luce che l’FBI aveva eseguito un programma, denominato “Coin-Telpro”, che sta per Counter Intelligence Program, avente tra gli altri scopi l’eliminazione dei capi delle Pantere Nere, ne furono uccisi 28, e degli esponenti più in vista dei movimenti giovanili. Il programma venne promosso da J. Edgar Hoover, a capo dell’FBI fin dagli anni ’50, nel pieno dell’epoca maccartista.

Secondo Jim De Eugenio, il programma aveva anche lo scopo di neutralizzare e diffamare quelli che in base alle parole testuali di Hoover erano i messianici leader neri, in grado di esaltare tutti i movimenti per i diritti civili e il nazionalismo nero, nonché i bianchi di tendenze progressiste.

Documenti declassificati dell’FBI, rilasciati nel 1976 su richiesta di alcuni studenti dell’università di Santa Barbara, California, dimostrarono che Hendrix era nel mirino dei federali dal 1969, proprio l’anno di “Star Spangled Banner”, dai quali venne schedato. Le richieste di accesso ai documenti che lo riguardavano ebbero in risposta solo sei pagine pesantemente censurate. Tramite appello furono ottenute altre sette pagine, da cui risultava che Hendrix era stato incluso in una lista di sicurezza dell’FBI. Le persone incluse in quella lista sarebbero state recluse in campi di prigionia, in base a motivi di emergenza nazionale.

Sull’argomento Jim De Eugenio fa rilevare che di norma viene declassificata solo la parte minore dei documenti riguardanti la schedatura di determinati soggetti. Quelli che restano segreti, e le parti censurate o coperte da omissis di quanto viene reso pubblico, contengono le notizie più compromettenti per le agenzie governative.

Ulteriori documenti desecretati dimostrano che il programma “Coin-Telpro faceva parte di un’operazione più vasta, chiamata MH-Chaos, non più gestita dai federali ma addirittura dai servizi segreti, iniziata nei primi anni ’60. Il suo scopo era la repressione dei movimenti progressisti e di protesta contro la guerra, la cosiddetta stampa “underground” e i giornalisti di sinistra. Si dovevano quindi infiltrare i movimenti, creare frizioni al loro interno e distruggerli o comunque indebolirli e neutralizzare i loro capi. Quello fu uno dei progetti più ambiziosi dei servizi, sorta di programma-ombrello sotto il quale si eseguivano diverse altre operazioni, volto a impedire che quei movimenti potessero riunirsi e rappresentare una forza politica concreta. Tom Charles Huston, capo dei Giovani Americani per la Libertà, presentò direttamente alla presidenza Nixon liste di persone da imprigionare per motivi di “sicurezza nazionale” in cui ancora una volta era incluso Hendrix.

Jim De Eugenio spiega che l’elemento comune tra il caso Hendrix e altre operazioni di eliminazione, sta nell’infiltrare l’entourage delle vittime con persone che ne carpiscano la fiducia. Quando Michael Jeffrey divenne il manager del chitarrista faceva parte dei servizi segreti militari inglesi e aveva già maturato una lunga carriera nei reparti di intelligence. Era inoltre sospettato di avere rapporti con la mafia, che i servizi usavano sovente nelle loro operazioni. Anche per quelle in ambito musicale, per via della sua lunga esperienza nel controllo del settore e della capacità di far sparire e uccidere le persone, nell’eventualità che si mostrassero oppositori del governo, secondo la logica del do ut des.

Del resto la collaborazione tra agenzie governative e mondo della criminalità a quei tempi era già ben collaudato. Al riguardo basta fare riferimento all’operazione Underworld, che ebbe luogo durante la seconda guerra mondiale.

 

Una riflessione finale

Tutti gli elementi qui riportati non danno certezze riguardo allo svolgersi degli eventi in quel 18 settembre. Tuttavia li inquadrano in un contesto ben preciso, del tutto diverso da quello che la stampa compiacente ha sostenuto per decenni e continua tuttora a sostenere. Allo scopo ha trascurato minuziosamente una lunga serie di elementi di contorno, i quali come sempre accade per fatti simili vanno tutti nella stessa direzione.

Si delinea allora uno scenario che nei suoi diversi aspetti appare molto preciso e caratteristico degli eventi che per loro natura richiedono azioni di depistaggio.

Al di là di tutto c’è un’evidenza innegabile, quella che esistevano una quantità di motivazioni e soprattutto di interessi, peraltro di grande rilevanza, riguardo al togliere di mezzo un personaggio divenuto fin troppo scomodo. Per poi fare in modo che non fossero portati all’attenzione dell’opinione pubblica, che si è provveduto a distrarre per mezzo delle solite argomentazioni pretestuose, e secondo uno schema ripetuto tante di quelle volte da essere persino banale.

Al riguardo, di solito, più in alto arrivano le azioni di cooperazione volte a coprire gli eventi, che qui come abbiamo visto hanno interessato il personale che eseguì l’autopsia, oltre a giudici, magistrati e apparati militari, meno lo svolgersi dei fatti è ritenuto confessabile.

A questo punto lascio ad ognuno il compito di trarre le proprie conclusioni.

 

 

4 thoughts on “Jimi Hendrix, il più blues dei rockettari, il più rockettaro dei bluesmen

  1. Salve, mi chiamo Innocenzo Alfano. Al suo interessante articolo vorrei solo aggiungere una mia breve considerazione, e cioè che l’evoluzione musicale di Hendrix si era già manifestata, in forma pubblica, ben prima dell’uscita degli album postumi “The Cry Of Love” e “Rainbow Bridge”. Con il suo ultimo album ufficiale, “Band Of Gypsys” (marzo 1970), quello cioè di cui abbia visionato il materiale ed approvato personalmente la pubblicazione, Hendrix si era infatti sensibilmente allontanato – o stava comunque iniziando palesemente a farlo – dalle sonorità e dagli schemi del periodo ’66-’68, volgendo lo sguardo a soluzioni ed elementi (per esempio il funk) più tipici del rock anni ’70 che non di quello del decennio precedente. Il processo di rinnovamento era cominciato al Festival di Woodstock con brani come “Jam Back At The House” e “Izabella”. Nella prima, ritmicamente complessa, di queste due composizioni, così come in “Red House”, “Lover Man” e “Voodoo Child (Slight Return)”, per le parti solistiche di chitarra è tra l’altro chiamato in causa – e questa era una novità assoluta per Hendrix – un secondo chitarrista: Larry Lee. “Izabella” venne pubblicata anche come singolo, in una versione peraltro molto meno accattivante di quella eseguita dal vivo a Woodstock, nel mese di aprile del 1970 (Reprise Records 0905).
    Per questi motivi, tornando al disco da cui ero partito, “Band Of Gypsys” è, a mio giudizio, un album assai significativo nonché utile per comprendere i mutamenti stilistici in atto nella musica di Jimi Hendrix a cavallo tra 1969 e 1970, oltre che godibilissimo dall’inizio alla fine.

    Cordiali saluti.

    P. S. Nel doppio cd “Jimi Hendrix – Live At Woodstock”, pubblicato nel 1999 a cura della Experience Hendrix, gli assolo di Larry Lee sono stati in gran parte, se non del tutto, cancellati, e nelle molte foto del booklet la sua figura si intravede, concentrandosi, una sola volta. Inoltre una sua composizione, “Mastermind”, più un medley di altri due brani da lui cantati, “Gypsy Woman” e “Aware Of Love”, non sono stati inclusi né in questa pubblicazione né in nessun’altra pubblicazione ufficiale, audio e video, del concerto eseguito a Woodstock dai Gypsy Sun and Rainbows. Come censura non c’è male…

    1. Ciao Innocenzo, grazie per l’integrazione, che offre numerosi altri spunti di riflessione e di analisi per la parabola artistica di Hendrix.
      Quello che racconti conferma inoltre la sua ricerca di moduli espressivi più complessi e profondi, che all’epoca venne fortemente osteggiata dalla critica. A dimostrazione delle sue reali funzioni e di quelle che l’industria dello spettacolo attribuisce all’artista, qualunque sia la sua caratura: un burattino che pretende di avere nelle sue mani e non esita a bruciare e persino a distruggere qualora mostri ambizioni di autonomia.

  2. C’è chi dice che per un chitarrista il suono è nelle mani e non nello strumento.
    Niente di più vero; non si può pretendere di avere il suono “melodico” dello strumento se non ve ne sono le capacità per estrarlo. Ed è vero questo, nonostante ci si doti di strumenti di qualità.
    Ma il ragazzo dalla china psichedelica del tuo servizio Claudio, era speciale. Non gaurdava lo “strumento” che usava per suonare, non curava l’acustica o il colore della sua Fender.
    Volle suonare le sue Stratocaster, da mancino qual’era, soltanto rovesciandone l’accordatura e ruotando la chitarra a destra, come nulla fosse, lasciando i pickup così com’erano installati.
    Il suono lo creava con la sua ostinazione musicale per ciò che sentiva dentro e per ciò che esprimeva fuori.
    Un ragazzo graffiante, ma che amava il violino…

    1. … E anche Bob Dylan, del quale riprese alcuni brani, eseguendoli a modo suo.
      Grazie del commento, che aggiunge altri particolari e valutazioni molto interessanti.
      Come dici giustamente, il suono di ogni strumentista sta nel “manico”. Poi, certo, uno strumento migliore fa la sua parte, ma c’è gente capace di trarre suoni sublimi e di grande presa anche da un attrezzo agricolo… 😉

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