Il dilemma delle etichette “audiophile”

Il diffondersi delle etichette più attente alle esigenze degli appassionati di riproduzione sonora, specializzate nella pubblicazione di supporti fonografici di qualità maggiore rispetto alla media spesso deprimente delle case discografiche “ufficiali”, si è verificato nel corso degli anni ’70 dello scorso secolo. In concomitanza alla trasformazione dell’hi-fi da fenomeno di élite a tendenza di larga presa, se non proprio di massa.

Il ruolo che si attribuirono inizialmente fu quello di colmare le lacune sempre più evidenti del prodotto normalmente in commercio, che per una serie di motivi conobbe in quel periodo uno scadimento evidente.

I motivi primari potrebbero essere individuati nella sempre maggiore richiesta da parte del grande pubblico, concomitante all’esplosione della musica rock e in particolare del progressive, che ebbe un ruolo importante anche nel favorire il diffondersi della riproduzione sonora di qualità elevata e delle apparecchiature ad essa necessarie.

Il passaggio di testimone dal 45 giri all’LP, quale supporto più diffuso e richiesto, ha avuto un suo peso, dato che il disco da 30 cm di diametro necessita di molto più vinile rispetto a uno da 7 pollici.

La maggiore quantità di materia prima, necessaria a soddisfare le richieste moltiplicate rispetto a solo pochi anni addietro, si scontrava anche con i costi aumentati del petrolio, di cui il vinile è un derivato, conseguenti alla crisi dei combustibili fossili che proprio in quel periodo conobbe la sua fase più acuta.

Per stare dietro alle richieste, sia pure in condizioni non esattamente propizie, le case discografiche iniziarono con il diminuire sempre più lo spessore del supporto, fino a spingersi a eccessi in cui venne ridotto a una lastra sottilissima e particolamente flessibile. Nello stesso tempo si ebbe il ricorso a vinile di recupero, proveniente da stampaggi precedenti di copie invendute e ritirate.

La necessità di aumentare i ritmi di produzione, e renderli più economici, ebbe tra i suoi effetti anche la riduzione per l’accuratezza dei procedimenti di ripulitura del vinile fresco di stampa, dagli agenti utilizzati per facilitarne il distacco dalla pressa. In attesa del confezionamento veniva attaccato da batteri che di tali agenti sono ghiotti e si depositano sul fondo dei solchi. In combinazione con gli altri elementi appena descritti, questo diede luogo a un vinile gravato da forti rumori di fondo già dai primissimi ascolti.

Se il pubblico di tutti i giorni ci faceva caso a malapena, il problema era più che sufficiente per scatenare le ire degli appassionati di musica e di riproduzione sonora, che a fronte dei costi sostenuti per l’acquisto degli LP, oltretutto in perenne crescita, si aspettavano quantomeno di avere in cambio qualcosa di ragionevolmente vicino alle caratteristiche tipiche di un prodotto nuovo.

Così era consuetudine per le redazioni delle riviste specializzate ricevere lettere di fuoco che denunciavano il problema. Venivano pubblicate con una certa regolarità, in quanto la stampa specializzata non era ancora del tutto prona agli interessi dell’industria di settore.

Se la qualità del supporto fonografico era quella appena descritta, spesso e volentieri alle informazioni in esso contenute non arrideva sorte migliore. Un po’ per il passaggio nell’equipaggiamento degli studi dalle apparecchiature valvolari a quelle a stato solido, che allora non brillavano certo per doti timbriche, un po’ per il proliferare delle tecniche di registrazione multitraccia e i conseguenti riversaggi, stanti le necessità creative degli artisti in perenne espansione, soprattutto nell’ambito del rock progressivo, e infine anche per le tecniche di mastering non del tutto adeguate a registrazioni dalla tale densità di informazioni.

Ai problemi causati da questa realtà arrivò una prima risposta dagli LP “Original Master Recording”. Erano realizzati da Mobile Fidelity Sound Lab, abbreviato in MFSL, che mise in commercio dischi realizzati a partire da vinile vergine, nei primi anni di origine giapponese, stampato in un numero di copie strettamente limitato, in considerazione dell’usura inevitabile degli stampi, a partire dai master originali. Questi ultimi erano passati attraverso apparecchiature di qualità più elevata del consueto e a velocità dimezzata, realizzando supporti di accuratezza molto maggiore che si ripercuoteva sulla qualità di riproduzione.

In Italia purtroppo non ebbero mai grande diffusione, malgrado la stampa di settore abbia dato largo spazio al prodotto, per via della politica commerciale del distributore che fissò prezzi decisamente fuori dalla portata della maggior parte degli appassionati. Non solo per quei prodotti ma per la maggior parte di quel che aveva a listino.

Parallelamente a MFSL, in quel periodo c’erano anche altre etichette operanti nel settore dei supporti fonografici di qualità elevata. Come Nautilus, coi suoi “Super Discs”, anch’essi derivanti da master tracciati a mezza velocità, e Sheffield Lab.

Mentre le prime due si dedicarono alle ristampe di maggiore accuratezza di dischi già editi, l’approccio di Sheffield fu più radicale, sotto il profilo qualitativo. Utilizzò registrazioni realizzate appositamente, quindi già in partenza caratterizzate da scelte tecniche rivolte soprattutto all’eccellenza del segnale.

Per questo, sotto il profilo artistico MFSL e Nautilus risultarono avvantaggiate, proprio perché facevano riferimento alla produzione degli artisti di maggior valore o comunque più apprezzati. Per contro un approccio simile obbilga a scontare almeno in parte le limitazioni tecniche insite nelle registrazioni da essi prodotte, data appunto la loro origine.

Qui emerge la prima e forse la più grande tra le contraddizioni di fondo per questo genere di prodotti, legata anche alla loro commerciabilità. In pratica le etichette appena menzionate sono andate sempre più a produrre dischi speciali realizzati a partire dalle registrazioni di maggior successo commerciale, stante la loro maggior probabilità di acquisto da parte del pubblico, piuttosto che dedicarsi a quelle contraddistinte effettivamente dalla qualità tecnica più elevata.

In seguito MFSL ha realizzato una serie di uscite realizzate in maniera ancora più accurata, anche se a quel punto il loro prezzo sul nostro mercato arrivò a cifre del tutto fuori da ogni ragionevolezza. In assoluto e ancor più in considerazione delle possibilità di spesa del pubblico all’epoca interessato ai dischi speciali.

Va detto comunque che la spinta al miglioramento qualitativo del supporto fonografico esiste in pratica da sempre, quantomeno dall’esordio della stereofonia. Ricordiamo a proposito i famosi LP della serie Living Stereo realizzati da RCA, commercializzati alla fine della anni 50.

 

A quel periodo risale anche uno tra LP raffigurati nella foto di apertura: “Provocative Percussions”, stampato nel 1959 da Command Records, etichetta oramai dimenticata che già allora si distingueva per l’attenzione rivolta al processo di produzione del supporto, basato sull’impiego dei macchinari dall’efficacia maggiore. I testi del retrocopertina sono dedicati quasi completamente alla descrizione delle scelte operate al riguardo.

 

Tornando a MFSL, Sheffiled, Nautilus & C., tra le ripercussioni della loro attività ci fu il dimostrare l’esistenza della richiesta per un supporto fonografico di qualità maggiore, rispetto a quello commercializzato dalle case discografiche “ufficiali”. Queste a loro volta iniziarono a porre maggiore attenzione riguardo alla qualità tecnica e sonora del loro prodotto.

In sostanza, MFSL e gli altri fecero da apripista per iniziative analoghe della grande industria operante nel settore discografico, come le edizioni “Master Sound” della CBS, anch’esse derivanti da master realizzati a mezza velocità, in seguito di formato digitale.

  

L’esempio fu seguito in breve da una serie di etichette di dimensioni medio-piccole, che associarono l’attenzione alla qualità del supporto a quella artistica, pur limitando sovente il loro raggio d’azione a generi musicali ben precisi. Tipicamente il jazz elettrico, che proprio allora iniziava a essere identificato come fusion. Dizione cui si andava associando gradualmente il significato deteriore che in seguito ne sarebbe divenuto fin quasi sinonimo.

 

Fusion e riflusso

Ciò accadde in buona parte per la puzza sotto il naso tipica dell’ortodossia ben radicata in ambito jazzistico, incapace di concepire qualsiasi cosa andasse oltre il bop, e la forma di snobismo che ne è derivata. A onor del vero non va trascurata la volontà parecchio diffusa in tale ambito di compiacere il pubblico più eterogeneo. Conseguenza di necessità commerciali che col passare del tempo diventavano sempre più pressanti.

Nondimeno quello definito in maniera superficiale e sbrigativa come fusion, ecco perché preferisco sempre parlare di jazz elettrico, non solo è stato il genere di gran lunga più creativo ed avanzato della sua epoca, ma al pari del rock progressivo del decennio precedente si è imposto anche e soprattutto come laboratorio stilistico in perenne evoluzione per forme, contenuti e fonti d’ispirazione.

Personalmente credo che questo sia tra i motivi primari per l’avversione nei suoi confronti, soprattutto da parte del pubblico più pigro, che desidera sovente l’immobilità degli artisti e dei generi musicali sulle opere che gradisce maggiormente. Abito mentale secondo il quale, dal 1958 in poi, Miles Davis avrebbe dovuto continuare a suonare solo “So What”, “All Blues” e “Blue In Green”.

Quei brani in effetti sono tra i capolavori più grandi di Davis, inclusi in un album irripetibile come “Kind Of Blue”. Però non si può pretendere che si fossilizzasse su di essi. Non solo per motivi legati all’evoluzione stilistica che segue il mutare dei tempi, della sensibilità e dell’orientamento di qualsiasi musicista, ma anche perché così facendo finirebbe presto con il diventare la parodia di sé stesso.

Non avrebbe senso oltretutto costringerlo a suonare ogni sera le stesse cose. Proprio perché prima o poi inizierebbe a eseguirle meccanicamente, per finire in breve con l’odiarle.

In quanto tale il filone definito come fusion, più per esigenze di catalogazione giornalistico-industriale che per altro, dato che è la storia stessa della musica ad aver imperniato la sua evoluzione su una fusione continua di diversi stili e ispirazioni, ha dato luogo a un numero rilevante di opere di valore artistico indiscutibile.

Annovera inoltre una discreta quantità di veri e propri capolavori, realizzati oltretutto in un periodo di impazzimento di massa, assoluto e totalizzante, come quello degli anni ottanta.

Per quanto riguarda la musica di maggiore consumo fu dominato da una pletora di personaggi atteggiati volontariamente a burattini dall’espressione stralunata e/o dalle movenze ridicolmente robotizzate. Per non parlare dei millemila bambocci da una canzone e avanti il prossimo. Tutti rigorosamente con abbigliamento e capigliature assai poco probabili, che rivisti oggi danno luogo a stupore e ilarità, oltre a generare più di qualche domanda imbarazzante.

Del resto quella è stata la cosiddetta “epoca del riflusso”, in cui il valore della musica in senso stretto venne in pratica azzerato a favore di elementi collaterali resi più vistosi, a volte in maniera esasperata, come il “look”, l’immagine spesso fatta di atteggiamenti ambigui o del tutto strumentali, e così via. Atti ad imporre superficialità e perdita di qualsiasi capacità critica come valori primari privi di alternative, vero archetipo del pensiero unico attuale.

Malgrado ciò non tutta la musica prodotta in quel periodo fu proprio da buttare, qualche brano effettivamente si salvava, anche se regolarmente massacrato dall’impiego degli strumenti elettronici che allora andavano per la maggiore. Erano caratterizzati da sonorità altrettanto improbabili e marchianamente fittizie, che in quanto tali nel giro di pochi mesi finivano con il risultare stucchevoli e datate.

Proprio questo alla lunga ha portato alla riscoperta degli strumenti tipici dell’era precedente, in particolare tra le tastiere che furono le più colpite dal fenomeno appena descritto, in larga parte legato alla vera e propria esplosione del digitale. Ritornò così in auge la triade organo Hammond – Piano Fender – Minimoog, frettolosamente messi da parte sul finire degli anni 70.

Non a caso i brani in cui si utilizzarono le tastiere digitali e a campionamento oggi suonano inevitabilmente superati e legati in maniera indissolubile alla loro epoca, mentre quelli del periodo precedente, eseguiti con strumenti analogici, risultano assai meno caratterizzati sotto il profilo temporale.

Un esempio tra tutti, che personalmente ritengo un vero e proprio simbolo della perdita di qualsiasi ragionevolezza verificatasi in quel periodo è la batteria Simmons, figlia della moda che portò al monopolio degli strumenti musicali elettronici anche in campo ritmico-percussivo. A iniziare dalle famigerate batterie elettronche come la Linn che personalmente non ho mai sopportato, nulla a che vedere con l’omonimo marchio di giradischi, e i “Bass synth” quasi altrettanto diffusi come il Roland TB 303.

 

La programmabilità delle batterie elettroniche era uno dei loro punti che si ritenevano vantaggiosi: non solo permettevano di rinunciare completamente ai batteristi, ma anche di preventivare a tavolino le parti percussive della ritmica di un qualsiasi brano, potendo realizzarne di complessità inaudita, inavvicinabile dall’esecutore umano.

Come accade con una certa frequenza, quello che sulla carta viene individuato come il punto forte di una qualsiasi tecnica o dispositivo, all’atto pratico si dimostra il suo elemento di debolezza maggiore.

Le batterie elettroniche infatti vennero ben presto a noia. Per i loro suoni poco attinenti al vero e soprattutto per la prevedibilità e la ripetitività dei pattern che gli si facevano eseguire. In breve li si dovette affidare a una nuova figura professionale resasi necessaria, quella dei programmatori specializzati al riguardo, a dispetto della possibilità di rinunciare all’impiego del batterista, vista anche come possibilità atta a contenere i costi della produzione discografica. Insomma, i costi restarono gli stessi e anzi andarono ad aumentare, vista l’ampia disponibilità di batteristi disoccupati, mentre di programmatori dotati di qualche talento ce n’erano pochi.

Il vero problema numero uno di quelle batterie fu però non solo la loro sonorità poco attinente agli strumenti in carne e ossa, che venne superato facendone una moda, ma anche la loro meccanicità, dovuta al loro tenere il tempo con precisione implacabile, facendo rimpiangere i piccoli spostamenti in anticipo o in ritardo sul tempo, che insieme a una serie di altre microvariazioni sono tipici del batterista umano. Specie dei più bravi, che caratterizzano così il loro stile.

Per questo venne realizzata la Drumatix, anch’essa di produzione Roland, dotata appunto dalla funzione “Human Feel” destinata almeno nelle intenzioni ad attenuare la meccanicità della scansione ritmica, con risultati ovviamente scarsi ma al tempo salutati con entusiasmo. Ad essa seguì la famigerata batteria Simmons che qualcuno ricorderà per via dei “pad” e della grancassa di forma esagonale. La si suonava a mano come le batterie classiche, per emettere la sonorità tipica delle batterie elettroniche, ritenuta irrinunciabile per la modernità di suono di un qualsiasi brano.

Proprio la batteria Simmons, allora, in quanto batteria elettronica ma da suonare a mano, è stata a mio avviso il simbolo più marchiano dell’impazzimento irrecuperabile che ha dominato quel decennio sciagurato.

Come tutti i fenomeni da baraccone che lo caratterizzarono, origine della maggioranza dei mali assurti a dogma che affliggono a livello sociale la nostra epoca, anche la batteria Simmons durò poco. Per fortuna.

Inizialmente i batteristi si presentarono in concerto equipaggiati da essa in esclusiva, tornando parzialmente sui loro passi con l’utilizzo solo di qualche pad in abbinamento alla batteria classica, per poi abbandonandola definitivamente.

Una connotazione non dissimile da quella delle batterie elettroniche appartenne ai cosiddetti Sequencer, unità altrettanto programmabili destinate alla realizzazione di basi e arrangiamenti, fin troppo abusati nelle produzioni di quell’epoca cui hanno conferito tratti inconfondibili, sempre riguardanti meccanicismo e ripetitività.

Come vediamo, allora, negli anni 80 la tanto vituperata fusion rappresentò l’unico baluardo legato a una sostanziale sanità mentale in un panorama di follia generalizzata, che ha dato luogo alla musica più dimenticabile e dimenticata dal dopoguerra al giorno d’oggi.

Le etichette “per appassionati” fecero di quel genere uno tra i loro prediletti, insieme al jazz più classico, per un motivo molto semplice: l’attenzione alle sonorità da parte dei musicisti ad esso legati, che già in partenza giustificava gli sforzi necessari alla produzione di registrazioni e supporti di qualità elevata. Non avrebbe senso infatti dissipare tempo e risorse, di solito ingenti, per cavare sangue da musica eseguita senza nessuna attenzione riguardo alle sue sonorità, o peggio perseguendo proprio un’idea di fondo stante in timbriche rozze e confuse.

 

GRP, DMP e gli altri

Tra le etichette specializzate nel genere, e qui torniamo all’argomento principale di questo articolo, va menzionata GRP, in buona parte figlia dei concetti affermatisi negli anni precedenti grazie a MFSL e similari.

Era attiva già nella fase in cui il supporto l’analogico aveva il monopolio, ma presto sarebbe stato scalzato dal CD nelle modalità che sappiamo. Gli LP pubblicati da quell’etichetta avevano in copertina la scritta “Digital Master”, derivando da master ottenuti per mezzo di apparecchiature a codifica binaria, cui allora veniva attribuita a priori una connotazione di superiorità qualitativa.

Registrazioni di pregio abbinate a contenuti artistici apprezzabili e spesso di valore elevato, soprattutto per il pubblico maggiormente legato al jazz moderno, hanno caratterizzato l’attività di GRP, malgrado alcuni la guardino tuttora dall’alto in basso. Più che altro in base alla superficialità che spesso si associa a tale atteggiamento.

Sul tema della GRP e delle altre etichette consimili cui accenniamo, credo sia importante prima di tutto tenere a mente che gettare via il bambino insieme all’acqua sporca difficilmente ha un senso. Meno ancora lo ha gettare via il primo per tenersi la seconda, cosa che oggigiorno si vede fare con frequenza sempre maggiore.

Per questo inizierei con il rilevare che la quantità di vera e propria immondizia prodotta dalle case discografiche “non audiophile” o meglio generaliste, a prescindere dalle loro dimensioni, non ha eguali. In assoluto e in rapporto al totale del loro catalogo.

Di questo però non ne parla mai nessuno, dimostrazione di visuale selettiva e soprattutto della difficoltà a operare le dovute distinzioni, dandosi spesso la zappa sui piedi.

Per quanto siano da molti portate a esempio di una qualità artistica deteriore, in realtà le etichette “per audiofili” hanno in catalogo numerosi album di rilievo, dimostratisi in grado di reggere senza difficoltà al trascorrere del tempo

Insieme a GRP ne sono un esempio DMP ed altre, che hanno risposto positivamente alla trascuratezza tipica del settore “pro”, in cui tutta l’attenzione o quasi si rivolge al modo più pratico, sbrigativo ed economico per fissare un’esecuzione su nastro, oggi su hard disk, ad attribuirgli un determinato effetto e a controllare con la comodità maggiore tutto l’insieme del processo produttivo.

Scarsa considerazione viene attribuita alla qualità del suono così ottenuto, in termini assoluti e per le conseguenze delle metodologie utilizzate, delle quali frequentemente si è all’oscuro.

Per meglio dire, di esse si tende a non rilevare tutto quanto vada oltre i loro effetti più evidenti, in quanto ci si limita superficialmente a valutare l’azione primaria di un dispositivo e non il complesso di quanto realmente determina. Questo anche per motivi di mentalità, tendente a badare al sodo, da cui deriva un approccio che per certi versi è improntato a una ostentata trascuratezza.

Una mentalità siffatta attribuisce l’importanza maggiore alla capacità del prodotto discografico di mantenere una qualche intellegibilità a prescindere dal mezzo di riproduzione, anche il più scarso. Di qui l’abitudine di utilizzare come monitor anche diffusori di qualità infima, ne ho visti personalmente di ricavati da altoparlanti recuperati chissà dove, inseriti in cartone per imballaggi, proprio per simulare le condizioni tipiche dell’utenza diciamo così di tutti i giorni e rendere la registrazione meglio compatibile con esse.

Da un procedimento simile non possono che derivare compromessi tali da mortificare la qualità sonora in termini assoluti, quella ricercata proprio dagli appassionati di musica che desiderano anche ascoltarla nelle condizioni migliori.

Già questo attribuisce una valida motivazione all’esistenza di etichette specializzate nel prodotto di qualità maggiore, che dal sempice fatto di non dover passare attraverso simili forche caudine trae benefici evidenti.

Il loro problema sta soprattutto nei mezzi limitati che in genere hanno avuto a disposizione, tali da rendere difficoltosa la produzione di album di livello artistico realmente sopra la media. Questo anche per via delle modalità con cui le case discografiche maggiori difendono il monopolio di fatto che mirano a esercitare, appunto grazie alla potenza dei loro mezzi, anche a livello contrattuale.

Questo tuttavia non ha impedito loro di abbandonare al proprio destino anche artisti di levatura inarrivabile, qualora giudicati non più in grado di fare i numeri desiderati in termini di vendite o  non disposti a scendere a certi compromessi, secondo una tendenza affermatasi giù a partire dagli anni 90.

Un esempio per tutti è quello di Joe Zawinul, fondatore di Weather Report, ma soprattutto colonna portante del jazz moderno. Al termine dell’esperienza di quel gruppo e dopo i primi album con la sua nuova formazione, con cui stava andando all’esplorazione dei linguaggi etnici e delle possibilità di loro riproposizione in chiave jazzistica, nella ricerca sperimentale di nuove possibilità di evoluzione per il genere afroamericano per eccellenza, si ritrovò a pubblicare le sue opere attraverso un’etichetta prima di allora semisconosciuta.

Purtroppo però, tra le etichette specializzate nel prodotto di qualità tecnica maggiore, col passare del tempo è andata diffondendosi l’usanza di pubblicare album di sonorità eccellente ma privi del contenuto artistico necessario a elevarli oltre la mera funzione di “prova-impianti”.

Ecco perché quando me li fanno ascoltare mi stufo quasi sempre dopo due minuti.

Questo è uno tra i motivi per cui faccio un punto d’onore nel dimostrare i miei oggetti con registrazioni che reputo  valide, ma di musica “reale”, ossia caratterizzate del tasso artistico che secondo il mio punto di vista, in genere poco accondiscendente, è tale da giustificare il loro ascolto.

Forse ne deriveranno sonorità non così indicate per far fare ai presenti il tipico salto sulla sedia, segno peraltro di un effettismo quasi sempre fine a sé stesso, che ha ben poco a che fare col vero fine della riproduzione sonora di qualità elevata. Così facendo però, ritengo si ricavino motivazioni ben più solide a livello emozionale.

Osservate in quella che si può ritenere una prospettiva corretta, le etichette specializzate in registrazioni di qualità sonora elevata hanno avuto un merito indiscutibile, pur se in genere trascurato: l’indicare la via a quelle più commerciali, ponendo all’attenzione del settore tecniche efficaci ai fini di produzioni sonicamente più corrette.

A questo proposito trovo il lavoro eseguito dalla DMP, quantomeno nelle sue pubblicazioni più riuscite,  uno tra i compendi migliori dell’una e dell’altra necessità, sempre tenendo conto delle limitazioni del mondo reale: registrazioni tecnicamente impeccabili e molto efficaci dal punto di vista sonoro, affidate a musicisti di capacità indiscutibili. Ne sono un esempio i diversi dischi pubblicati da Chuck Loeb, uno dei quali insieme al tastierista Andy Laverne, quelli di Warren Bernhardt, pianista in grande credito di riconoscimenti, comunque per molti anni parte integrante degli Steps Ahead, (“Warren Bernhardt Trio”, “Ain’t Life Grand”, “Hands On”, “The Heat Of The Moment”) il chitarrista Joe Beck (“Relaxin'”), oltre a John Tropea, al sassofonista Bob Mintzer (“One Music”, con gli Yellowjackets) al contrabbassista Jay Anderson e diversi altri.

  

Poi, siccome il sistema in cui vivamo riconosce soltanto la legge del denaro, come tutte le altre quell’etichetta si è trovata nelle condizioni di dover operare alcune scelte, volte appunto a conferirle visibilità e a raggiungere la quantità di vendite necessaria a reggersi in piedi.

Nonostante ciò in capo ad alcuni anni ha finito col chiudere. Innanzitutto a dimostrazione che il merito non ha rilievo alcuno nella società capitalistica, a dispetto dei suoi cantori. Soprattutto ha privato gli appassionati di una fonte di musica composta ed eseguita da alcuni tra i più grandi interpreti del nostro tempo, quantomeno in ambito jazzistico, registrata nel modo migliore.

Con le dovute differenze, proprio perché non è individuabile come etichetta specializzata espressamente in registrazioni per audiofili, lo stesso discorso vale per la GRP, che ha pubblicato anch’essa dischi ben godibili sotto il profilo musicale.

Tra gli altri “Here’s To You, Charlie Brown di David Benoit, “Stolen Moments” di Lee Ritenour, “Face By Face” di Kevin Eubanks, “Greenhouse” degli Yellowjackets, “Times Like These”, “Reunion” e “Cool Nights” di Gary Burton, oltre a “Benny Rides Again” realizzato dal vibrafonista insieme a Eddie Daniels e dedicato alla musica di Benny Goodman, mentre “Homage To Duke” di Dave Grusin è stato dedicato a quello che forse è stato il più grande compositore nell’ambito della musica jazz, Duke Ellington.

  

Purtroppo poi il mercato, che si proclama libero ma a cui aderire è obbligatorio, impone le sue leggi, ferree. Ritengo che attribuirne le colpe a chi si vede costretto a rispettarle, se desidera sopravvivere, produca una visuale distorta, lasciando da parte le questioni inerenti la corretta percezione di cause ed effetti.

  

Le piccole etichette, oltretutto, hanno dato un contributo consistente a un elemento ormai quasi dimenticato, che è quello della sperimentazione. Ossia della ricerca di nuovi orizzonti ed estetiche espressive.

Difficilmente il frutto della sperimentazione trova accoglienza tra il pubblico dei suoi contemporanei, proprio perché si basa su concezioni troppo avanzate per la media, salvo avere a volte, e a distanza di anni, un riconoscimento, sia pure tardivo e parziale.

L’esempio più lampante è quello del Canterbury Rock. Personalmente ne sono sempre stato un cultore sfegatato, a iniziare dalla primavera del 1974, quando acquistai, appena uscito, il primo album degli Hatfield And The North.

Nella sua epoca d’oro quel genere musicale non se lo è filato nessuno o quasi, così pure nei decenni successivi. Tanto è vero che quel gruppo, come diversi altri del Canterbury,, dovette sciogliersi proprio per la mancanza degli introiti necessari a proseguire l’attività. Ulteriore dimostrazione di quanto detto più volte riguardo alla società capitalista.

Poi a partire da fine 90 – primi 2000 il Canterbury ha conosciuto un recupero d’interesse fin quasi prodigioso, a rimorchio del revival dedicato al rock progressivo nel suo insieme. Così, in maniera paradossale, oggi è difficile trovare un appassionato di Progressive che non dichiari di apprezzarlo.

Un altro esempio di questo stato di cose a mio modo di vedere parecchio significativo è “Now You See It, Now You Don’t” di Michael Brecker, edito da GRP, esempio tipico del tentativo di aggiornamento nei confronti del linguaggio del jazz elettrico, senza scadere negli stilemi più deteriori associati con una certa frequenza al genere.

In sostanza, allora, anche nell’ambito delle etichette specializzate nel prodotto di maggior qualità sonora, serve a poco andare a rimorchio del luogo comune, occorrerebbe piuttosto il discernimento necessario per prendere il meglio là dove si trova.

Secondo un approccio che è quanto di più distante dal concetto di mera accumulazione proprio di certi collezionisti, che danno l’impressione di ambire in primo luogo a dichiarare il possesso di un numero maggiore di dischi rispetto a chiunque altro.

Proprio come per le misure di laboratorio, insomma, il numero non solo ha un significato marginale, ma il più delle volte porta a conclusioni ingannevoli. Se un amplificatore da 1000 watt/canale per motivi evidenti è probabile che suoni peggio di uno meno potente, anche se il suo costo probabilmente molto elevato potrebbe far credere il contrario, una collezione di 100.000 dischi non può che avere una percentuale considerevole di opere dal valore artistico opinabile.

Non a caso, alla categoria Musica e Supporti ho attribuito la dicitura “Senza la musica, gli impianti audio non avrebbero motivo di esistere”.

E’ altrettanto vero però che la registrazione, il disco e l’impianto sono il veicolo attraverso il quale la musica giunge fino a noi e, di fatto, sono inscindibili da essa.

Quanto più tali elementi sono efficaci, tanto meglio e in maniera più approfondita e coinvolgente potremo ascoltare musica.

Per questo è priva di senso e profondamente qualunquistica l’espressione “Ascoltate la musica invece dell’impianto”, uno dei pretesti usati con la frequenza maggiore da chi si trova nell’urgenza di delegittimare la ricerca per il miglioramento delle condizioni con cui la si ascolta, dimostrazione tangibile di grande passione.

Musica e mezzo di riproduzione sono inscindibili, non si può ascoltare l’una senza l’ausilio dell’altro. Non fa differenza alcuna se si tratta di una cuffietta da 10 euro collegata a un telefono cellulare oppure di un impianto di gran classe, curato in tutti i suoi aspetti e in quelli di contorno.

Riguardo a questi ultimi credo sia opportuno ripetere ancora una volta che, a partire da certi livelli, assumono un’importanza ancora maggiore rispetto alle apparecchiature dell’impianto.

Considerazione, questa, che trova nel presente articolo un contesto tra i più indicati.

Infatti procedendo nella loro ottimizzazione si finisce regolarmente con lo scoprire che tra le conseguenze più evidenti c’è proprio il comprendere che quasi mai sono le registrazioni a essere inadeguate, almeno quelle di un certo livello: lo è molto di più l’impianto con cui le si riproduce. Non è raro infatti accorgersi che a seguito di determinati interventi, i dischi che sembravano suonare male finiscono con il mostrare caratteristiche del tutto opposte.

A riprova del fatto che i giudizi espressi più o meno frettolosamente sulla qualità delle registrazioni, su cui si basa un altra forma di snobismo piuttosto diffusa, attengono in realtà ai limiti del proprio impianto, non di rado posti in luce in maniera impietosa.

Si tratta di un concetto che forse sarà rifiutato dai più, ma è proprio l’esperienza che nel medio-lungo termine va a suffragarlo. A patto naturalmente che si abbia la volontà di inoltrarsi su determinati percorsi e la capacità di comprendere le indicazioni che ne derivano.

 

Dischi senza registratore

In questa carrellata dedicata ad alcune delle etichette che si sono dedicate al prodotto di qualità superiore alla media, ovviamente priva di qualsiasi pretesa di completezza, un cenno doveroso è meritato dai Direct Disk di JVC. L’approccio alla loro produzione è stato se vogliamo il più radicale, e forse è per questo che li ho graditi in modo particolare. Malgrado ciò sono stati sostanzialmente trascurati dagli appassionati, motivo per cui hanno mantenuto nel tempo quotazioni relativamente basse.

Sono stati realizzati eliminando quello che a tutti gli effetti si riterrebbe il più irrinunciabile degli strumenti utilizzati per la produzione discografica: il registratore, multipiste o due tracce che sia.

Questo ha comportato veri e propri equilibrismi più che difficoltà intese nel senso consueto del termine. Non solo gli artisti dovevano eseguire in diretta i brani in scaletta, ossia dal vivo in studio, ma il segnale proveniente dal mixer doveva essere utilizzato in tempo reale per la realizzazione del master sul tornio di incisione.

Allo scopo quindi erano necessari esecutori e personale tecnico disposti innanzitutto a mettersi in gioco.

Nella prima uscita di quella serie, addirittura, si sente distintamente che il gruppo non si è limitato a suonare un brano alla volta, ma ha eseguito per intero ogni facciata, inserendo qualche secondo di intervallo tra una traccia e l’altra.

I Direct Disk hanno avuto un catalogo comprendente soltanto soli cinque album, quattro dei quali a nome del chitarrista Lee Ritenour, in compagnia delle diverse formazioni che ha scelto di volta in volta a suo supporto. Si tratta di “Gentle Thoughts”, “Sugarloaf Express”, “Friendship”, la cui copertina figura nell’immagine di apertura, da non confondere con l’album del gruppo omonimo, e “On The Line”. Il quinto album della serie era di un flamenco alquanto sui generis.

  

Curioso notare che quando ho parlato di essi a professionisti del settore mi hanno risposto, con tanto di indice alzato, che la realizzazione di dischi senza il registratore è impossibile.

Andando alla loro ricerca occorre fare attenzione, dato che dai master di sicurezza, fissati su registratore in parallelo alla tracciatura diretta sul tornio incisore, sono state ricavate le edizioni di ristampa relative a ciascuno di quei titoli. Gli originali Direct Disk sono riconoscibili dalla sigla di catalogo VIDC.

Giacché ci troviamo, spensiamo qualche parola anche per i vinili giapponesi, da sempre superiori a qualsiasi altra edizione stampata in altre parti del mondo.

Vinili silenziosi, stampe accurate e sonorità eccellenti. Non a caso i loro costi sul mercato dell’usato “normale” sono tra i più elevati. Si tratta comunque di soldi ben spesi, fino all’ultimo centesimo. Anche perché per esperienza personale i venditori giapponesi sono in genere tra i più onesti riguardo alla valutazione delle condizioni in cui si trova il materiale da loro offerto.

 

Registrazioni audiophile e “musica liquida”

Oggi la cosiddetta liquida è forse il supporto più in voga. Per certi versi si caratterizza con l’estremizzazione di alcuni  tra gli aspetti contraddittori attribuiti al fenomeno delle etichette “per audiofili”, sia pure in forma attualizzata.

Nella mia esperienza ho potuto verificare come i file che si riproducono per quel tramite non siano quasi mai scelti in funzione del loro livello artistico, ma del loro formato. Devono essere rigorosamente ad “alta definizione”, formula sostanzialmente priva di significato, in quanto improntata a concetti squisitamente numerici.

Come noto, l’elemento quantitativo quasi mai dimostra di avere un legame concreto con la qualità. La sua efficacia si esplica soprattutto nell’affermazione di principi teorici sempre piuttosto astratti, che pur convincenti sulla carta trovano difficoltà ancora maggiori che in passato nel materializzarsi sul campo, stanti le limitazioni intrinseche del sistema. Più che altro quei principi si rivelano adatti a sostenere gli interessi dell’industria di settore e alla loro mistificazione da parte della grancassa mediatica.

A questo proposito la preoccupazione maggiore verte sul formato, se sia “nativo” oppure frutto di ricampionamenti e riquantizzazioni. Poi che la registrazione e il resto del processo realizativo da cui derivano i file da riprodurre siano eseguiti in maniera più o meno corretta o caratterizzata da esasperazioni grossolane, non sembra avere grande importanza.

L’aspetto forse più preoccupante è dato però dall’identità quasi totale dei file prediletti dagli appassionati di “liquida” e dalla ripetitività con cui te li fanno ascoltare. Gli artisti e i titoli degli album sono sempre gli stessi, a dispetto della varietà di scelta enormemente più ampia che almeno in teoria questo sistema di riproduzione dovrebbe assicurare.

Altrettanto singolare è lo scarso tasso artistico di quei file, assieme alla difficoltà di accorgersi della cosa, segno tangibile della realtà del nostro tempo, votato a una massificazione sempre più dilagante e all’azzeramento di qualsiasi capacità critica, che ad essa è funzionale, o meglio necessaria.

Così l’impianto di riproduzione diviene sempre più un oggetto a sé stante, non più subordinato alla sua funzione di strumento destinato all’ascolto di musica, intesa in primo luogo come veicolo di crescita anche a livello etico e culturale. Come per molte tra le realtà del mondo attuale, anche in quest’ambito si rileva un capovolgimento: musica sostanzialmente priva di qualità, divenuta funzione dell’impianto secondo una logica completamente falsificata.

Ancora una volta quello che sembra il vantaggio maggiore di un sistema, ossia la possibilità di accedere a migliaia di album e di brani restandosene in poltrona, all’atto pratico finisce con l’essere il suo limite più marchiano.

Nessuno più ha il piacere o solo la pazienza di ascoltare un disco per intero. Spesso e volentieri anzi non si arriva neppure alla fine del singolo brano. Si saltabecca da una parte all’altra di hard disk riempiti in massima parte di file che non si sono mai ascoltati e non si ascolteranno mai, scaricati per una sorta di istinto all’accumulazione.

La necessità più impellente allora è di riappropriarsi della musica, nella forma e sequenzialità in cui è stata concepita, e soprattutto del piacere di ascoltarla come merita. Non fosse altro che per una forma di rispetto, nei confronti di chi l’ha composta ed eseguita, e poi anche di quanti hanno dedicato risorse ed energie per immagazzinarla sul suo supporto nel modo più efficace.

 

2 thoughts on “Il dilemma delle etichette “audiophile”

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